L’8 settembre, la patria non muore
di ALFIO CARUSO (La Stampa, 08.09.2007)
La sera dell’8 settembre ’43, poco dopo la diffusione del comunicato radiofonico con cui Badoglio ha annunciato l’armistizio, gli alpini della Pusteria attaccano truppe tedesche in transito nei pressi di Grenoble. A Gap l’11° reggimento delle penne nere è accerchiato da reparti corazzati: combatterà aspramente fino al mattino seguente.
Nelle stesse ore a Buccoli di Conforti, vicino Salerno, il generale Ferrante Gonzaga del Vodice, comandante della 222a divisione costiera, viene sorpreso con pochi uomini in un osservatorio. Il generale ha già dato disposizione di non arrendersi. Davanti all’intimazione del colonnello germanico estrae la pistola imitato dalla sua scorta: vengono subito abbattuti.
A Castellamare di Stabia i capitani di corvetta Michelangelo Flaman e Domenico Baffigo conducono i propri marinai in aiuto del colonnello Olivieri. Il presidio italiano respinge per un giorno intero diversi assalti. Dopo la resa, Baffigo, Olivieri, il capitano Ripamonti e il tenente del genio navale Ugo Molino della Corderia vengono portati a Napoli e fucilati senza processo. Eguale sorte a Nola per i colonnelli Ruberto, De Pasqua e otto ufficiali che hanno guidato la resistenza.
A Piacenza gli allievi carristi si barricano nella caserma fino al mattino seguente con oltre trenta morti. A Crema è un sottufficiale di artiglieria, Fleres, ad animare una lotta disperata.
Mancano ordini, tacciono i comandi
Mancano ordini, molti gettano armi e divise, tacciono i comandi, la ferocia del tedesco non dà scampo, tuttavia i ragazzi della generazione sfortunata, gli italiani delle arti e dei mestieri andati in guerra per obbedire alla cartolina precetto, intuiscono che per far voltare pagina alla Storia bisogna sacrificarsi.
Dalla Francia al Montenegro, dalla Dalmazia all’Albania, dalla Grecia alle isole joniche e dell’Egeo soldati e ufficiali del regio esercito s’immolano ovunque. Sono decine e decine gli episodi nei quali i militari antepongono l’onore alla sopravvivenza, la difesa dell’identità nazionale al tornaconto personale. L’8 settembre non è il giorno del tutti a casa né quello in cui muore il sentimento della Patria. Anzi, è il giorno della rinascita grazie a quanti si riconobbero nel tricolore.
A Radicofani e ad Abbadia San Salvatore lottano le compagnie della Ravenna. A Montepulciano imbracciano il fucile i carristi appiedati. Fra Cecina e Orbetello battesimo del fuoco per la 215a divisione costiera. A Piombino gli artiglieri del capitano di vascello Capuano affondano i mezzi navali tedeschi e difendono le attrezzature di collegamento con l’Elba. A Livorno gli artiglieri del maggiore Gamerra tirano sul nemico finché non scorgono cadere l’eroico comandante. Da Carrara a La Spezia si batterà fino al 14 il battaglione del maggiore Amedeo Cordero di Montezemolo.
A Bolzano vanno a morire i carabinieri. A Bressanone e a Longarone il ricostituito battaglione Morbegno della Tridentina, distrutto in Unione Sovietica, si apre la via fino ai monti. Gli alpini della Cuneense provano a tenere le posizioni, prima di darsi alla macchia in val di Sole.
Udine resiste fino al 10, a Gorizia il colonnello Gatta non molla fino al 13. Le guardie di frontiera sparano al passo di Piedicolle e al Tolmino. I battaglioni della Sforzesca combattono intorno a Trieste, quello del maggiore Giudici respinge diverse inviti alla resa e viene annientato.
Spesso ai militari si uniscono studenti, operai, impiegati, anziani reduci del ’15-’18. Sono stanchi della guerra, ma il risentimento contro l’ex alleato e la voglia di cambiare li fanno andare sulle barricate a Teramo, ad Ascoli, a Barletta, a Bari.
A Roma l’episodio più conosciuto con i 241 morti di Porta San Paolo dove granatieri, cavalleggeri senza cavalli e giovani accorsi da ogni quartiere per quasi due giorni bloccano le colonne nemiche. I capitani Camillo Sabatini e Francesco Vannetti Donnini sono l’anima della lotta fino alla morte. Hanno per padri anziani generali, i quali torneranno sul campo alla testa di due formazioni di patrioti, la Monte Sacro e la Sant’Agnese.
L’eroico colonnello Bechi Luserna
In Sardegna, malgrado le incertezze del generale Basso, i fanti del 132° contendono ai granatieri di Lungershausen il ponte sul Tirso; alla Maddalena i marinai del capitano di vascello Avegno affondano il naviglio germanico presentatosi per impossessarsi della base. Nei pressi di Cagliari è acquartierata la Nembo, la divisione paracadutista erede della Folgore sterminata a El Alamein. Qui avviene l’unico passaggio di campo: il maggiore Rizzati convince un paio di compagnie a seguire i camerati della 90° divisione diretti in Corsica. Il colonnello Alberto Bechi Luserna, tra i pochi sopravvissuti di El Alamein, prova a fermarli: una raffica di mitra lo abbatte.
In Corsica la sera dell’8 il generale Magli, comandante dell’VII corpo d’armata è a cena con il suo omologo tedesco von Senger und Etterlin. Poco prima di sedersi a tavolo vengono informati dell’armistizio. Il pasto scivola via in un’atmosfera di gelo. I due alti ufficiali si accomiatano con la promessa di rispettare le posizioni.
Viceversa i marinai tedeschi di Bastia tentano un colpo di mano contro la torpediniera Ardito e il piroscafo Humanitas: la veemente reazione dei nostri sventa l’aggressione e manda gambe all’aria ogni ipotesi di accordo. Magli ordina al generale Cotronei di muovere la Friuli e s’abbocca con il colonnello Paul Colonna d’Istria, capo dei maquis isolani, per un’azione congiunta su Bastia. L’attacco di bersaglieri, marinai, fanti, partigiani, appoggiati dai cannoni della Friuli, provoca centinaia di perdite nel contingente di Setter e il suo ripiegamento dalla città.
In Albania si spara e si muore nei porti di Durazzo e di Valona. Nei giorni seguenti sul molo di Porto Palermo vengono fucilati per rappresaglia il generale Chiminiello, comandante della Perugia, e 140 tra ufficiali e sottufficiali. La testa di Chiminiello è mozzata e issata su un palo, barbaro ammonimento ai disobbedienti.
La strage, per la quale mai alcuno pagherà, viene compiuta dai cacciatori di montagna dell’Edelweiss, gli stessi che si lorderanno le mani con il sangue della Acqui a Cefalonia. Anche le divisioni Arezzo e Firenze pagano con fucilazioni e prigionieri sgozzati il tentativo di sottrarsi alla cattura.
Il sacrificio di 25 mila militari
Il generale Robotti, responsabile della 2ª armata, dirama l’ordine di non cedere alle proprie divisioni in Croazia, in Slovenia, in Dalmazia. Soldati e ufficiali della Messina, della Bergamo, della Zara, della Marche contendono il territorio ai panzer della Prinz Eugen.
Molti muoiono, diversi riescono a raggiungere sui monti le formazioni di Tito, dove daranno vita al battaglione Garibaldi, che poi diventerà la Divisione italiana partigiana Garibaldi. Gli alpini della Taurinense conquistano i forti di Gruda prima di unirsi all’esercito di liberazione jugoslavo. I generali e gli ufficiali che si arrendono finiscono al muro.
A Spalato sono giustiziati i generali Cigala Fulgosi, Pellagra, Policardi e 46 ufficiali. Cigala ottiene di andare a casa per indossare i guanti bianchi. Davanti al plotone strappa dal petto la croce di ferro e la scaglia al suolo gridando: «Viva l’Italia».
Non ha esitazioni il generale Vecchiareli, alla testa dell’11a armata in Grecia: contrabbanda la propria sopravvivenza con l’ordine di consegna delle armi. Sul territorio metropolitano soltanto la Pinerolo del generale Infante riesce a raggiungere le vette del Pindo dove operano i partigiani comunisti. Ci si batte invece a Rodi e soprattutto a Coo, a Lero.
A Cefalonia e a Corfù la Acqui s’appresta a scrivere quello che il presidente Napoletano ha definito l’atto fondante della resistenza. A Corfu al 18° reggimento del colonnello Lusignani si affiancheranno fino al tragico epilogo i fanti del 49° reggimento della Parma: in mezzo a mille peripezie sono scappati da Sani Quaranta per seguire il colonnello Bettini.
Tra l’8 settembre e il 24 settembre, quando i tedeschi fucileranno alla casetta rossa di Argostoli gli ultimi 130 ufficiali della Acqui, circa 25 mila militari rinunciano alla vita pur di avviare il riscatto del Paese.
Sul tema, nel sito, (nella sez. "Presidenza della Repubblica"), si cfr.:
IL PRESIDENTE NAPOLITANO A CEFALONIA
LA LEZIONE DI CIAMPI: LA COSTITUZIONE, LA NOSTRA "BIBBIA CIVILE".
8 settembre: un disegno politico dietro al crollo
di Luca Baldissara *
Si è spesso sostenuto - ad esempio accostando la crisi di sistema del ’43 a quella del sistema dei partiti nei primi anni Novanta - che l’8 settembre segna la fine del patriottismo in Italia. Se in quel momento una patria davvero muore, si tratta di quella delegittimata dagli stessi uomini - prima raccolti intorno al duce, poi al re - che invocano il patriottismo come estrema risorsa di consenso e giustificazione della fuga dinanzi le responsabilità di governo del paese. A quella patria ormai gran parte degli italiani - soprattutto la parte popolare del paese, la cui storica esclusione dalla vita politica si trasforma l’8 settembre in tragico abbandono -sono divenuti in larga parte forzatamente estranei, se non ostili. È quella patria a spingere lontano da sé quegli italiani, incapace com’é di individuare una possibile e decorosa via d’uscita da un conflitto sempre più devastante.
In effetti, l’8 settembre tanto i soldati sui vari fronti quanto gli italiani in patria vengono abbandonati a se stessi, messi di fronte al fatto compiuto della fuga da Roma del re e della corte, con Badoglio e alcuni ministri. Ma come si deve intendere il termine “fuga”? Non già come un precipitoso scappare da un immediato e concreto pericolo, semmai come un intenzionale abbandono della capitale per salvaguardare il re e parte del governo dal rischio di cadere in mano ai tedeschi. Di fuga certo si tratta, ma nel senso che essa è la forma assunta in quel particolare frangente da un disegno prioritario di continuità del potere. Che non sia una fuga improvvisa lo dimostra del resto il fatto che tanto il re quanto Badoglio hanno disposto l’invio in Svizzera di familiari e beni personali, e che già ai primi di settembre viene comandato l’invio di navi a Civitavecchia per l’imbarco alla volta della Sardegna. Solo la presenza tedesca in forza nella costa tirrenica farà propendere l’8 settembre per la direzione opposta, verso un porto dell’Adriatico. Il termine “fuga” va dunque deprivato di qualsiasi connotazione moralistica per essere restituito alla dimensione dell’intenzionalità: rappresenta infatti la consapevole decisione politica di salvaguardare in prima istanza la corona, quindi il capo del governo, come istituzioni garanti la continuità del potere, anche a costo di abbandonare a sé l’esercito e la popolazione, un prezzo che evidentemente si ritiene di poter pagare.
La forma dell’8 settembre è in tal senso coerente con quella del 25 luglio, l’uno porta anzi all’estrema conclusione l’altro. La corona, indecisa sino all’ultimo sul momento in cui intervenire, non aliena all’ipotesi di un fascismo senza Mussolini, anzi favorevole ad un regime autoritario benché non integralmente dittatoriale, si è mossa all’azione il 25 luglio, costretta dall’incalzare della situazione e dal palesarsi della crisi interna del fascismo. Si tratta di una successione al potere di una porzione delle classi dirigenti prosperate all’ombra di quello stesso potere, che dunque non ha luogo contro il fascismo, ma per non venire travolti dal suo crollo e per salvarsi in extremis, pur rimanendo nella scia della politica d’ordine. Non è un colpo di stato, ma una sedizione di palazzo, la compensazione obbligata di un vuoto di potere e d’autorità.
È sotto tale luce che la prosecuzione della guerra al fianco dei nazisti dopo il 25 luglio, anzi la sollecitazione loro rivolta di inviare ulteriori divisioni in Italia, le trattative tardivamente avviate con gli alleati, la repressione sociale e politica, il tentativo di temporeggiare circa l’annuncio dell’armistizio e poi la decisione di non impegnare l’esercito al fianco degli alleati, e addirittura di lasciarlo l’8 settembre senza ordini chiari e precisi sul comportamento da tenere, ed infine la stessa fuga verso sud di Vittorio Emanuele e di Badoglio, appaiono intrecciati in una prospettiva coerente. Il 25 luglio e l’8 settembre sono capitoli di uno stesso racconto: quello del tentativo, per quanto maldestro, e talora caricaturale, di garantire l’autoconservazione del blocco di potere raccolto intorno alla monarchia.
Luca Baldissara
Università di Pisa
* FONDAZIONE GIANGIACOMO FELTRINELLI - VIA ROMAGNOSI, N. 20 2016, 08.09.2016
Emergenza, sindrome dell’8 settembre
Dalle alluvioni alle nevicate la sindrome dell’8 settembre
Risaltano l’incapacità o la non volontà di previsione e decisione l’inadeguatezza delle istituzioni, la generosità della società civile
Si sta parlando di scelte soggettive, non di una eterna indole italiana. L’irresponsabilità politica ha lasciato segni profondi
Le polemiche seguite agli ultimi eventi climatici riaprono il problema dell’impreparazione storica del Paese alla gestione di eventi straordinari
di Guido Crainz (la Repubblica, 09.02.2012)
Nelle emergenze nazionali l’evento storico più frequentemente evocato dai commenti è forse l’8 settembre del ’43 (immediatamente seguito da Caporetto), e non è del tutto sbagliato. Richiama incapacità o non volontà di previsione e di decisione, vergogne dei pubblici poteri, dissolvimento delle istituzioni, affannarsi generoso ma impotente di alcune parti, almeno, della società civile. È parte anch’esso di una storia nazionale, e meno di tre anni fa a L’Aquila abbiamo fatto i conti di nuovo con la nostra difficoltà ad imparare dalle esperienze del passato: sia da quelle positive che da quelle negative. Furono allora ignorati e osteggiati quel decentramento e quella capacità di preservare identità e memoria collettiva che erano stati centrali nel Friuli del 1976, e poi nelle Marche e nell’Umbria del 1997. E "scoprimmo" allora che era stata invece riproposta negli anni una scelta già compiuta in precedenza con conseguenze pesantissime: la Protezione civile di Guido Bertolaso aveva infatti ampliato il proprio raggio d’azione ben al di là delle emergenze. Si era fatta carico dei più diversi "grandi eventi", e sin di quelli più estranei alla propria ragion d’essere.
Esattamente come era successo con esiti disastrosi nella ricostruzione dell’Irpina, con l’allargarsi degli interventi (e degli sperperi, e degli intrecci fra corruzione, politica e cosche) sino ad aree e a questioni che con il sisma non avevano nulla a che fare. Quella deformazione stava per esser resa definitiva, estendendo a dismisura l’assenza di controlli e vincoli: quell’esito fu impedito all’ultimo istante non da un ripensamento del governo ma dalla provvidenziale pubblicazione di intercettazioni che rivelavano verminai. Di scelte, di decisioni soggettive stiamo dunque parlando. Non di un’eterna indole degli italiani ma di responsabilità politiche: o meglio, di una irresponsabilità della politica che ha lasciato segni profondi.
Talora anche denunce di altissimo profilo rimasero inascoltate. Così fu proprio all’indomani del dramma irpino, quando il Presidente della Repubblica Pertini irruppe dai teleschermi nelle case degli italiani per denunciare carenze gravi dei soccorsi e per condannare al tempo stesso vergogne del passato. Disse con forza che non avrebbe dovuto ripetersi un altro Belice ma non ebbe ascolto. Pochi mesi dopo si svolse ancora sotto i suoi occhi, davanti al pozzo di Vermicino e nell’agonia di Alfredino Rampi, una rappresentazione della nostra impreparazione, inefficienza e improvvisazione. Era al tempo stesso l’annuncio di quanto i media stavano invadendo e trasformando il nostro vivere anche su questo terreno. La Protezione civile ebbe origine allora: era l’impegno ad un mutamento radicale, non più rinviabile.
Certo, nel paralizzarsi delle città e delle vie di comunicazione dopo nevicate molto meno drammatiche che in altri Paesi tutto sembra ripetersi negli anni, con poche variazioni. Nel gennaio del 1985, ad esempio, non si erano ancora spente le polemiche sull’imprevidenza di Roma che Milano veniva bloccata dalla "nevicata del secolo" (termine già coniato in precedenti occasioni, per la verità): e l’immagine inquietante di un’efficienza perduta veniva a turbare per un attimo il frenetico ottimismo della "Milano da bere".
In realtà da noi sarebbero molto più necessarie che altrove misure di prevenzione, cure costanti e interventi metodici nei confronti dei territori a rischio: basti pensare allo "sfasciume pendulo sul mare" di cui parlava Giustino Fortunato più di un secolo fa per certe parti del Mezzogiorno. O alle basse terre gravitanti sul Delta del Po, bonificate da un lavoro plurisecolare ma inevitabilmente esposte alle insidie del grande fiume: dalle alluvioni ottocentesche raccontate da Riccardo Bacchelli ne Il Mulino del Po a quella del 1951, che diede una potente spinta all’esodo. Sino alla piena del 1994, ancora nella memoria. E naturalmente si pensi, per altri versi, alle aree devastate dalla speculazione o a quelle degradate dallo spopolamento. Eppure l’incuria è diventata col tempo quasi la regola: e troppo tardi e fugacemente ci interroghiamo su quel che avremmo potuto e dovuto fare. Come nella Sarno del 1998 o nella Valtellina del 1987 e molte altre volte ancora. L’elenco sarebbe davvero lungo e in molti casi il disastro, ben lungi dall’essere dovuto solo alla natura, è stato favorito o provocato da responsabilità dirette e gravissime, come nel Vajont del 1963.
Spesso, va aggiunto, le carenze istituzionali sono state parzialmente compensate grazie a un volontariato appassionato e generoso: è un termometro del Paese e c’è da allarmarsi se si allenta, se ci appare meno diffuso e vigile. E certo ha dato il meglio di sé quando ha potuto incontrarsi con istituzioni all’altezza dei loro compiti e con una più ampia partecipazione delle popolazioni. Non è accaduto spesso ma è accaduto: dalla Firenze invasa dalle acque del 1966 al Friuli di dieci anni dopo, e sino a tempi recenti.
La nostra storia ha dunque molti volti ma ci dice anche che la "sindrome dell’8 settembre" può essere sconfitta. La capacità o l’incapacità del Paese di attrezzarsi per far fronte alle emergenze è dunque un aspetto centrale. O meglio: è un elemento decisivo per una rifondazione della politica che abbia nel suo orizzonte non le prossime elezioni ma le prossime generazioni.
Napolitano ricorda la Resistenza
"Messaggio sempre attuale" *
ROMA - Intervenendo a Porta San Paolo alla cerimonia che ricorda l’8 settembre 1943, data dell’annuncio dell’armistizio che segna anche l’inizio della Resistenza a Roma in difesa della Capitale occupata dai nazisti, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha ricordato "i momenti eroici che, in questo luogo, hanno segnato la conclusione tragica della vita di nostri soldati e ufficiali". "Avete potuto vedere - ha poi aggiunto - la bellissima lapide che il Comune ha posto per ricordare le donne che hanno perso la vita per la libertà. Mi pare che il significato sia del tutto evidente e sempre attuale".
Il capo dello Stato ha scoperto una targa presso il Parco della Resistenza di Roma in ricordo delle donne che tra l’8 e il 10 settembre hanno sacrificato la vita per la difesa della città. La targa è collocata in un’aiuola dove sono state piantate 55 rose ad alberello. Poco prima il capo dello Stato ha deposto una corona di alloro presso il monumento del Parco della Resistenza dedicato agli 87 mila militari caduti tra il 1943 e il 1945. Napolitano si è anche fermato a salutare le Associazioni dei Partigiani e dei Corpi militari che hanno combattuto la Seconda Guerra Mondiale.
Napolitano ha lasciato la cerimonia prima che iniziassero i discorsi ufficiali. Il capo dello Stato era accompagnato dal ministro della Difesa Ignazio La Russa, dalla presidente della Regione Lazio Renata Polverini, il presidente della Provincia di Roma, Nicola Zingaretti, dal sindaco Gianni Alemanno, dal presidente della Corte Costituzionale Francesco Amirante e dai vertici militari. Si è fermato con loro a vedere la mostra fotografica sulla difesa di Roma allestita davanti all’ingresso del Museo di Porta San Paolo.
* la Repubblica, 08 settembre 2010
Il capo dello Stato al 66° anniversario dell’8 settembre
"I partigiani hanno combattuto per l’indipendenza e la libertà"
Napolitano celebra la Resistenza
"Ha ridato dignità e libertà all’Italia"
La Russa: "L’8 settembre fondamentale per l’unità nazionale"
ROMA - "La resistenza ha ridato dignità all’Italia". Lo ha detto il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano al termine della cerimonia a Porta San Paolo, nel 66° anniversario dell’8 settembre 1943 che segnò l’inizio della Resistenza contro l’occupazione nazista a Roma. Napolitano ha ricordato anche il sacrificio dei partigiani: "Tanti uomini e tanti militari hanno combattuto e hanno perso la vita per ridare dignità, indipendenza e libertà all’Italia. Questi sono valori fondamentali". Il capo dello Stato ha sottolineato il collegamento tra Risorgimento e Resistenza. "Siamo alla vigilia, io spero, dell’inizio dell’attività celebrativa del 150° anniversario dell’Unità d’Italia. E c’è continuità tra le battaglie del Risorgimento e le altre che hanno garantito lo sviluppo dello Stato nazionale, unitario e democratico".
Alla cerimonia per l’8 settembre, oltre al Capo dello Stato, hanno partecipato il ministro della Difesa, Ignazio La Russa, il vice presidente della Camera Rocco Buttiglione, il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, il presidente della Regione Lazio Marrazzo, e il presidente alla provincia di Roma Nicola Zingaretti. Al termine dell’omaggio ai caduti, Napolitano ha visitato la mostra fotografica che, in dieci pannelli, ricorda gli eventi principali che hanno contraddistinto la difesa della città di Roma.
Il commento di La Russa - "L’8 settembre è un momento fondamentale di unità nazionale". Questo il commento del ministro della Difesa Ignazio La Russa.
* la Repubblica, 8 settembre 2009
Prigionieri dell’8 settembre
L’odissea dei fedeli senza Stato
La tragica storia dei seicentocinquantamila internati militari italiani che negarono la loro adesione alla Repubblica sociale viene ora ripercorsa in un libro che raccoglie diari, lettere e testimonianze dai lager nazisti. Così tra il 1943 e il ’45 nacque la prima forma di silenziosa resistenza dei traditori traditi
di Franco Marcoaldi (la Repubblica, o6.o9.2009)
«Il cervello è un vulcano di pensieri: la vita, la casa, i tedeschi. La testa mi scoppia. Che fare? Alle 24, invece del cambio, arrivano altri uomini armati. Uno dice: "Altro che pace!" É la guerra di nuovo. Contro i tedeschi, stavolta». Così l’allievo ufficiale Lino Monchieri annota nel proprio diario la sensazione di assoluto smarrimento di fronte al collasso dell’8 settembre, collasso di un esercito e di una intera nazione, a cui farà seguito la cattura e la deportazione nel Terzo Reich di centinaia di migliaia di soldati e ufficiali italiani, la maggior parte dei quali, negando la loro adesione alla Repubblica Sociale, daranno vita alla prima forma di resistenza contro il nazifascismo.
La storia, a lungo rimossa, dei seicentocinquantamila internati militari italiani viene ora ripercorsa in un importante libro di Mario Avagliano e Marco Palmieri, che raccoglie diari e lettere dai lager nazisti nel periodo 1943-1945. E niente come questa grande massa di documenti personali (compreso un capitolo dedicato a chi decide di stare dalla parte dei tedeschi e dei repubblichini), riesce a dar conto di una vicenda storica complessa e tragica, in cui l’umiliazione di un intero popolo si intreccia a una progressiva presa di coscienza individuale e collettiva, a una fedeltà nelle proprie convinzioni pagata molto duramente. E per nulla ricompensata dalla nazione italiana.
Dopo lo sbandamento seguito all’8 settembre, i tedeschi disarmano circa un milione di uomini, «di cui 196.000 fuggono o vengono liberati, 94.000 aderiscono subito, oltre 13.000 muoiono prima di arrivare nei lager e ben 710.000 vengono deportati con lo status di Imi». Dall’Italia, dalla Francia, dai Balcani, cominciano a partire alla volta del Terzo Reich lunghe tradotte dove i militari italiani vengono stipati come bestie, dentro vagoni sigillati: «Cerchiamo di sdraiarci alla meglio», scrive l’allievo ufficiale Giovanni Notte, «ma è impossibile. Sembra che nani maligni si siano divertiti ad allungare i piedi e le gambe. Se allunghi un piede, trovi subito dieci, venti piedi e un buon numero di persone che urlano».
L’impatto con i lager, se possibile, è ancor più terrificante di questa peregrinazione alla cieca nel cuore dell’Europa: l’offesa patita dai carcerieri, ex alleati, risulta da subito insopportabile. Chi è stato tradito dal proprio Stato ora deve, in sovraprezzo, sentirsi definire traditore. Trattato come un "sottouomo" dai suoi aguzzini.
Le condizioni igieniche sono pietose: «Il campo era privo di fogne», ricorda il sottotenente Gastone Petraglia. «L’acqua sporca stagnava lungo rigagnoli scavati nella sabbia e molto vicini alle baracche. Si beveva acqua inquinata e non potabile. Oltre a ciò lo spurgo delle latrine andava a finire nelle vicinanze di quelle pompe infiltrandosi in tal modo nell’acqua». Se a tutto ciò si assommano gli effetti dell’intollerabile freddo di un primo, rigidissimo inverno, ecco spiegato l’immediato dilagare di tubercolosi, dissenteria, malaria, tifo petecchiale.
Ma il nemico numero uno è e sarà per tutto il periodo della prigionia, la fame. Una fame lancinante, onnipresente: un buco nero che niente riesce a placare. La brodaglia quotidiana di rape e pane di segala, chiamata in gergo sbobba, è assolutamente insufficiente. Così c’è chi finisce per contendere il fieno ai cavalli, per mangiare la legna bruciata. Il rischio della pazzia è sempre dietro l’angolo e difatti non mancano casi in cui sotto il materasso di prigionieri morti di inedia, si trovano pagnotte nascoste e accumulate nel corso dei mesi. Il cibo diventa una vera e propria ossessione che popola le fantasie notturne degli internati. Giuseppe Volpi racconta di un ricorrente "sogno aritmetico": «Turbato che il mio accantonare un settimo di razione mi desse in due giorni solo un quinto in più, stanotte ho fatto di nuovo le operazioni con le frazioni ed ho trovato la soluzione. Mettendo via un settimo più un quinto al giorno, e cioè dodici trentacinquesimi, pari per difetto a un terzo, avrò alla domenica due razioni».
Al risveglio, però, queste elucubrazioni lasciano il tempo che trovano. E nella crescente disperazione si tenta la strada del mercato nero: un orologio, un paio di guanti e di stivali contro lardo, pane, tabacco. Nel lager polacco di Benjaminowo la "borsa" ha luogo nei cessi, e i detentori del "listino" sono i polacchi destinati alla pulizia dello sterco, altrimenti detti "merdaioli". «Il mercato», annota il sottotenente Antonio Rossi, «deve svolgersi di nascosto e perciò avviene nell’interno del gabinetto ed il "merdaiolo" per far entrare la merce nel campo la mette in una cassetta che poi sprofonda nel carro sporco. E non è raro che qualche pagnotta non sia proprio pulita».
Sì, la fame è la parola chiave attorno a cui ruota tutta la vita del prigioniero. E ben lo sanno i tedeschi, che battono e ribattono su questo tasto nella loro reiterata proposta di adesione alla Repubblica Sociale rivolta agli ufficiali italiani (diverso il caso di sottufficiali e truppa, che dopo l’iniziale rifiuto vengono spediti al lavoro coatto per rimpiazzare la manodopera tedesca impegnata sui fronti di guerra).
Dunque il "no" ai nazisti da parte di ciascun ufficiale è reiterato, continuo, ciò che rende ancor più commovente e ammirevole questa lotta senza armi contro il nazifascismo. E ripropone la domanda su quali siano state le ragioni che hanno spinto un numero così alto di militari a perseverare nella propria scelta. Lo spettro delle motivazioni è quanto mai ampio e gli autori del libro (oltre a Giorgio Rochat, nella sua prefazione) ne danno puntualmente conto: soprattutto all’inizio gioca un ruolo fondamentale la stanchezza nei confronti della guerra; imprescindibile è l’attaccamento alla divisa e alle stellette, il giuramento dato al re e non a Mussolini; mentre assume un peso crescente l’odio maturato giorno dopo giorno nei confronti dei carcerieri tedeschi. Il fatto è che ciascuno di questi uomini, per la prima volta in vita sua e dopo essere stato imbevuto per anni e anni di ideologia fascista, ora deve fare i conti con la propria coscienza. E maturare individualmente le proprie decisioni, nelle peggiori condizioni possibili. «Siamo soli», scrive il capitano medico Guglielmo Dothel, «non combattiamo più per nessuno ma solo per noi stessi in nome della nostra coscienza, del nostro onore, della nostra dignità di uomini».
La scelta, oltretutto, si rivela tanto più difficile perché la condizione assolutamente anomala di "internato militare" (pervicacemente voluta da Hitler), impedisce qualunque controllo e conforto da parte degli organismi internazionali preposti, in primis della Croce Rossa. Senza contare la percezione di un totale abbandono da parte di ciò che resta dello Stato italiano, mentre per contro montano le pressioni di quei familiari che invitano i loro congiunti a lasciar perdere e a ritornare a casa.
Paradossalmente, è proprio all’interno del lager che i nostri militari troveranno le energie necessarie a portare fino in fondo la propria decisione, rinsaldata da una crescente consapevolezza antifascista. Sì, è nel lager, perché lì nasce quella singolarissima comunità che Giovanni Guareschi definirà «Città Democratica»; il primo germe di democrazia con cui vengono a contatto giovani cresciuti tra fasci littori, adunate di Balilla e Avanguardisti, e che ora - nel luogo più impensato, tremendo - si trovano a discutere della libera scelta individuale. E ad apprendere, in lunghe serate trascorse in baracca, i primi rudimenti di filosofia, politica, storia italiana, poesia, musica, teatro. Pensate solo quale concentrato di intelligenze e talenti era presente nel già citato campo di Benjaminowo: Guareschi, il caricaturista Novello, il poeta Rebora, il filosofo Enzo Paci, l’attore Gianrico Tedeschi. Che incredibile scuola di vita, deve essere stata.
In una lettera inviata dal capitano Giuseppe De Toni al fratello Nando e letta da Radio Londra, è scritto: «Ho letto di Madri, Mogli, Figli che chiedono, implorando in buona fede una firma disonorevole; io stesso ho ricevuto, e non una sola volta, una invocazione rivolta al mio cuore di marito e padre, un appello diretto alla ragione. É la prova suprema per un uomo. Ma c’è qualcosa in me, in noi, che supera ogni lato affettivo, ogni tentazione, ogni lusinga, qualcosa che ci permette di vincere anche il nostro egoismo che si fa spesso tanto prepotente».
De Toni intuisce che in Italia si comincia a insinuare che gli Imi siano in realtà degli attendisti, addirittura degli imboscati. «Siete in buona fede e solo per questo possiamo perdonare la vostra debolezza. Ma da voi, da tutti voi, non attendiamo solo un aiuto materiale, pur tanto prezioso, quell’aiuto che salva la nostra esistenza fisica. Noi attendiamo, come ancor più prezioso, più necessario, il vostro aiuto morale, il conforto della vostra comprensione, il vostro incitamento a resistere».
Purtroppo le cose non andranno nel senso auspicato dal capitano. Quando, finita la guerra, gli internati militari italiani sopravvissuti all’orrore del lager torneranno in Italia, troveranno una patria a dir poco distratta. L’unica Resistenza ufficialmente riconosciuta è quella dei partigiani. L’onore militare e la fedeltà al re sono monete vecchie, ormai fuori corso. La ferita aperta dalla catastrofe istituzionale dell’8 settembre va dimenticata a tutti i costi. Così la ribellione silenziosa e disarmata di centinaia di migliaia di italiani si trasforma in una esperienza di cui è meglio tacere, che induce addirittura a un sentimento di vergogna.
E quella drammatica storia finisce per essere allontanata dalla memoria collettiva di un paese che ancor oggi, a sessantacinque anni da quegli avvenimenti, paga un altissimo prezzo per la mancanza di un passato condiviso. Aveva ragione Guareschi: «I più pericolosi nemici dell’Italia, mi vado convincendo che sono proprio gli italiani».
Napolitano: «A scuola la storia della Resistenza» *
«Le scuole contribuiscano a fare conoscere la storia di queste grandi esperienze». Lo ha detto il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, a margine delle celebrazioni a Porta San Paolo, a Roma, in omaggio ai caduti della Resistenza e in ricordo della battaglia che qui si svolse il 9 e il 10 settembre 1943. Il presidente Napolitano, durante la cerimonia in memoria dei caduti della Resistenza, ha incontrato un gruppo di bambini della scuola Principe di Piemonte che hanno raccontato al capo dello Stato gli episodi dell’armistizio italiano nella Seconda guerra mondiale che precedette i combattimenti di Porta San Paolo e Magliana, a Roma.
«Che avete fatto di bello?», ha chiesto Napolitano andando incontro ai bambini che avevano preparato una sorta di mostra fotografica, prima di invogliarli a ricordare la storia di quei tristi episodi perché, ha detto il presidente, «è sempre meglio rinfrescarla».
Parlando a margine delle celebrazioni, il capo dello Stato ha poi ricordato che quella di sabato è «una cerimonia che si rinnova con la partecipazione dei rappresentanti delle generazioni più anziane, ma è importante che si rinnovi anche con la partecipazione dei ragazzi che hanno dato il senso di un impegno di educazione civica, di educazione alla comprensione della nostra storia, della rinascita della democrazia».
Napolitano, accompagnato dal ministro della Difesa Arturo Parisi, alla presenza del vicesindaco di Roma Maria Pia Garavaglia, del presidente della Regione Lazio Piero Marrazzo, del nuovo prefetto della Capitale Carlo Mosca e dei più alti vertici militari, ha deposto una corona di fiori presso la lapide di Porta San Paolo in ricordo dei caduti della Resistenza. Il capo dello Stato, quindi, si è spostato al Parco della Resistenza, dove ha deposto un’altra corona.
* l’Unità, Pubblicato il: 08.09.07, Modificato il: 08.09.07 alle ore 11.29