"Restituitemi il mio urlo"
Huang Jianxiang, il telecronista cinese, vuole far causa alle aziende di telefonini che propongono come suoneria la sua cronaca del rigore di Grosso contro l’Australia negli ottavi mondiali
di Francesco Liello (www.gazzetta.it, 18.07.2006)
PECHINO (Cina), 17 luglio 2006 - Tornato in patria dopo i "vocalizzi" mondiali, non finisce l’attenzione per il telecronista della televisione Nazionale cinese (Cctv) Huang Jianxiang che si era reso protagonista di un commento molto estroso e favorevole all’Italia, al momento del rigore assegnato a Fabio Grosso contro l’Australia, negli ottavi. Adesso gli tocca difendersi dall’eccesso di popolarità che ha trasformato la sua telecronaca addirittura nella suoneria dei telefonini. Cosa che a lui non è piaciuta, al punto da voler fare causa alle società che l’hanno messa in commercio. "Credo ne vada della mia immagine, della mia professionalità, dei miei diritti. Ho sbagliato, ma non vedo come qualcuno possa trarne un vantaggio economico".
Subito dopo la fine dell’incontro, la polemica aveva assunto toni persino più alti delle sue urla di gioia alla trasformazione. La prima reazione era stata quella ufficiale dell’Australia (il cui premier John Howard proprio il giorno dopo arrivava per una visita alle città di Shenzhen e Canton, ndr) poi erano arrivate le accuse dei telespettatori cinesi, urtati non tanto per il tifo eccessivo, ma per l’utilizzo del termine "Yidali Wan Sui" (Lunga Vita all’Italia) usato rigorosamente solo vicino al nome del presidente Mao, della Repubblica Popolare Cinese e del partito Comunista. Si era parlato persino di un possibile licenziamento. Al suo ritorno in Patria era stato rincuorato dal sapere che non c’è mai stata intenzione di allontanarlo: "Gli sono state chieste delle spiegazioni - ha detto un dirigente di Cctv - e lui si è scusato per essersi fatto trascinare dall’emozione di quella partita.
Ma il suo contratto e la sua posizione all’interno della televisione non è mai stata messa in discussione". Qualche giorno dopo aver fatto ritorno dalla Germania, Huang ha presentato in una libreria di Pechino, il suo ultimo lavoro editoriale intitolato: Combattere da veri uomini. Potrebbe far pensare ad un’altra apologia del calcio italiano, ma è stato scritto prima dei Mondiali. "Questo libro non c’entra niente, ma questa dei mondiali è stata un’esperienza di vita interessantissima - ha commentato Huang Jianxiang -: ho materiale a sufficenza per scrivere un nuovo libro solo su questo mese in Germania. Ma per ora preferirei non parlarne".
Ora si concederà un periodo di vacanza, non prima di essersi scusato un’ultima volta con "i colleghi presenti in Germania e quelli in Cina che ci hanno rimesso per colpa mia". Sarà, ma è probabile che tra qualche settimana, con l’inizio della serie A e delle telecronache notturne in diretta, ci sia qualche telespettatore in più solo per sentire di nuovo la sua voce.
di Francesco Liello
P. S.:
Sulla ’portata’ del ’caso’, in rete e nel sito, cfr.:
L’ITALIA, IL "BIPOLARISMO PRESIDENZIALE", E I COSTITUZIONALISTI IN COMA PROFONDO (1994-2011). - con allegati
L’OCCUPAZIONE DELLA LEGGE E DELLA LINGUA ITALIANA: L’ITALIA E LA VERGOGNA.
ATTENTATO ALLA COSTITUZIONE? GIÀ FATTO!!! Un appello al Presidente Napolitano
FLS
CRONACHE MARZIANE.
Ma come sono intelligenti (questi esseri umani terrestri d’Italia): non sanno proprio nulla della fattoria né di Platone né di Orwell. Hanno approvato una Legge che dice:tutti i partiti sono uguali, ma un partito è più uguale degli altri! E si apprestano a nominare Presidente della loro Repubblica, il presidente (o chi per lui) di questo partito. Il giogo e il gioco è già in atto da più di un ventennio!
Sono proprio intelligenti e sportivi questi terrestri italiani: con il loro nuovo presidente, tutti e tutte gridano e agitano le bandiere del partito: "forza italia". Tutto il loro mondo è diventato uno stadio e, finalmente, il loro Presidente è l’Arbitro di tutti i partiti e di tutte le partite!!!
Federico La Sala
#iorestoacasa, Forza Italia!
di Italo Mastrolia (Linkedin, 9 aprile 2020)
Storia di un marchio pubblico
In questi giorni di forzata permanenza in casa sto imparando a prestare attenzione alle cose; specialmente a quelle che, nella vita “ordinaria”, avrebbero meritato maggiore considerazione e tutela, ma che - nella distrazione generale - abbiamo tutti accettato e “subìto” nel tempo senza alcuna resistenza. Mi è capitato di leggere un commento su FB; si trattava di una considerazione relativa ad un programma televisivo: «Ma è proprio necessario che lo spot di Rai Sport finisca con “Forza Italia”»? L’interrogativo, che voleva essere soltanto ironico, è di un eccellente e famoso giornalista, il quale sollecitava una sorta di ’par condicio’, auspicando una analoga versione della sigla televisiva utilizzando la denominazione “Italia Viva”.
Ho ripensato a quando, in gioventù, lo slogan più diffuso (condiviso ed universale - specialmente nello sport -) era appunto “Forza Italia”: era il grido di tutti gli italiani che sostenevano le nostre squadre nelle competizioni internazionali (specialmente la nazionale di calcio); e ho pensato che, da quando è stato fondato quel partito politico che ha assunto proprio questa esatta denominazione, non abbiamo più potuto gridare o scrivere questa “esclamazione” in modo spontaneo . Ovviamente nessuno ce lo avrebbe impedito, ma ... insomma, abbiamo tutti avvertito un senso di imbarazzo (o addirittura di contrarietà); oppure - più semplicemente - abbiamo preferito non correre il rischio di essere fraintesi.
Insomma, all’improvviso quello storico ed universale slogan non è stato più utilizzato, ed è scomparso dal vocabolario della tifoseria sportivo. Nulla era più come prima.
Ho svolto una rapida ricerca: il nome si ispirava allo slogan Forza Italia! utilizzato nella campagna elettorale della Democrazia Cristiana del 1987, curata dal pubblicitario e accademico Marco Mignani. Ma il nuovo partito pensò di registrare il marchio presso l’Ufficio Marchi e Brevetti: i primi due depositi risalgono al 24 giugno 1993 - attraverso una società di Milano -; assicuravano la tutela dei marchio d’impresa per ben 13 classi di merci e servizi. Sono seguiti ulteriori 11 depositi integrativi, fino al 2008, attraverso i quali le classi merceologiche sono arrivate fino a 21.
Mi sono chiesto se la registrazione di quel marchio con l’indicazione geografica (Italia) potesse essere vietata (secondo l’art. 13 Codice Proprietà Industriale). Niente da fare; non sarebbe stato possibile impedirlo: tale divieto, infatti, non è assoluto. È consentito registrare un nome geografico che, in relazione al servizio o al prodotto, non si presenti come indicazione di provenienza, ma come nome di fantasia. Quindi, sulla base di questa disposizione normativa, “Forza Italia” (con il quale il partito non intendeva indicare la provenienza geografica dei proprio “prodotti”) venne considerato come denominazione di fantasia, e - in quanto tale - legittimo ed utilizzabile.
Però (ho obiettato) quelle due parole costituiscono uno “slogan” collettivo, un modo di dire, una locuzione condivisa da tutto il popolo... niente da fare un’altra volta: secondo la giurisprudenza dell’Unione Europea il ‘marchio-slogan’ è sempre registrabile purché abbia carattere distintivo: a prescindere dal suo significato promozionale, infatti, deve avere qualcosa che permetta al pubblico di percepirlo come indicatore dell’origine commerciale dei prodotti o dei servizi che lo stesso contraddistingue. In effetti, l’articolo 4 del Regolamento sul marchio UE prevede che “Possono costituire marchi UE tutti i segni, come le parole, compresi i nomi di persone o i disegni, le lettere, le cifre, i colori, la forma dei prodotti o del loro imballaggio e i suoni”.
Quindi nulla vieta di registrare come marchio uno slogan pubblicitario.
Insomma, sembra proprio che la registrazione del marchio-slogan “Forza Italia” sia stata del tutto legittima, frutto di un’abile e geniale operazione giuridica con la quale, profittando del rigore formale della normativa vigente, si è trovato il modo (legittimo) per sottrarre alla collettività una frase appartenente a tutti, e attribuirla ad un partito politico per contraddistinguere i propri beni e servizi su cui poter ‘apporre’ il marchio (ripeto ... per ben 21 classi merceologiche!).
Però è innegabile che quelle due parole messe insieme hanno sempre costituito uno slogan collettivo, una storica esortazione popolare che - richiamando la nostra nazione - può essere ricondotta al concetto di res publica e - senza esagerare - a quello di patrimonio culturale immateriale. La questione merita un ben diverso approfondimento.
Nonostante tutto questo, è bello vedere che le persone - attraverso varie forme espressive - iniziano spontaneamente a “riappropriarsi” di quella storica esortazione sportiva; c’è un ritrovato orgoglio nazionale che, facendo vincere gli imbarazzi, mostra una tardiva reazione di sdegno a quella (seppur legittima) “sottrazione” del nostro grido più amato. A partire dal quella sigla del programma RAI, fino al web e agli striscioni sui balconi, finalmente ricompare senza imbarazzi la scritta “Forza Italia”!
A nessuno viene in mente, però, di usare la frase “Italia Viva”. In sincerità, la scelta di assegnare ad un partito questa locuzione è stata molto meno astuta e del tutto ’innocua’ per la collettività; vedremo se la registrazione di quel marchio verrà autorizzata dall’Ufficio Marchi e Brevetti (la domanda è stata depositata il 26.9.2019 ed è ancora in fase di esame).
Tu quis es?
Intellettuali
di Ivano Dionigi (Avvenire, martedì 17 marzo 2020)
Dove sono finiti gli intellettuali, figure che mettano il loro sapere a confronto col potere e a frutto del bene comune ? Per i quali la virtù sia per se ipsa praemium ? Che abbiano nel sangue il senso del destino delle persone ? Missing, scomparsi. Sostituiti da intrattenitori, giornalisti, velinari, rappresentanti politici, tecnici delle singole discipline. Dovunque ti giri, stesso spettacolo : loquaces, muti sunt, « blaterano, ma sono muti », direbbe Agostino.
Tra le diverse cause di questa scomparsa, direi anzitutto il primato indiscusso della comunicazione, questo rinnovato impero della retorica, che impone messaggi semplice e semplificati, e che ai pensieri lunghi preferisce gli slogan.
E poi loro, gli intellettuali, i quali, non si fanno scrupolo di scodinzolare attorno al principe o principino di turno e di asservirsi al potere, tradendo quella “convinzione” e quella “responsabilità” che dovrebbero caratterizzarli.
Infine i partiti, che, tra miopia e istinto di sopravvivenza, hanno ridotto la politica a pratica amministrativa oppure a pura spartizione di potere, estranea al pensiero e al progetto.
Fanno riflettere le parole di Socrate, lontano dalle cariche pubbliche e condannato dalle leggi della città : «Io credo di essere tra quei pochi Ateniesi, per non dire il solo, che tenti la vera arte politica, e il solo tra i contemporanei che la eserciti » (Gorgia 521 d).
70 anni di comunismo.
Cina, l’ultima «rivoluzione» per essere centro del mondo
L’apertura economica senza svolta politica: così da Mao a Xi si è consolidato il potere di Pechino
di Vittorio E. Parsi (Avvenire, martedì 1 ottobre 2019)
Pochi altri Paesi al mondo sono cambiati così tanto in 70 anni da risultare sostanzialmente irriconoscibili, pur mantenendo lo stesso regime politico, come la Cina. La Cina uscita dalla rivoluzione di Mao Zedong e quella del presidente Xi Jinping vedono sempre saldamente al vertice del potere il Partito comunista, la repubblica continua a essere denominata Repubblica popolare cinese e la sua bandiera è ancora la bandiera rossa. Già durante la lunga stagione della leadership personale di Mao, la Cina aveva conosciuto l’alternanza di stagioni più "aperturiste" ("i cento fiori") ad altre decisamente più repressive ("la rivoluzione culturale" che tanto entusiasmò molta intellettualità nostrana cieca agli aspetti totalitari).
Ma nulla è paragonabile alla svolta provocata da Deng Xiaoping, succeduto a Mao dopo la sanguinaria parentesi della "banda dei quattro", capeggiata dalla vedova del "Grande timoniere". Sopravvissuto ai violenti tornanti della vicenda del maoismo, Deng inventò un apparente ossimoro (il socialismo di mercato, o socialismo con caratteristiche cinesi) che, a tanti, parve un tentativo di guidare la transizione della Cina dal comunismo e dal dominio assoluto del Partito, verso una qualche forma asiatica di paternalismo associato al capitalismo: una specie di Singapore moltiplicata per cento.
E invece il già vecchio Deng azzeccò la quadra: l’accoppiata tra la continuità nel monopolio del potere politico del Partito comunista e la trasformazione dell’economia cinese da un sistema collettivista e pauperista in un capitalismo perfettamente inserito nell’economia globalizzata e finanziarizzata del XXI secolo. Chiarì perfettamente che l’apertura economica non implicava alcuna concessione politica, con la feroce repressione da lui stesso ordinata, e a tal scopo richiamato straordinariamente al potere - in una sorta di riedizione dell’epopea di Cincinnato - del movimento degli studenti di piazza Tienanmen nel cruciale 1989.
E la perfetta continuità, l’ordinata trasmissione del potere di generazione in generazione da Deng a Xi, sempre nel mantenimento della continuità ideale (non senza vistose forzature e contorsioni) con il mito di Mao, è il tratto politicamente più notevole di questa Cina che oggi celebra i 70 della nascita della Repubblica Popolare fondata dal Grande Timoniere. L’Unione Sovietica, la patria del comunismo realizzato (accusata di revisionismo dalla Cina maoista), è scomparsa nel 1991 e al suo posto e tornata l’edizione 2.0 della Russia imperiale, che, atomiche a parte, è comunque una pallida riedizione della prima e della seconda. La Repubblica popolare cinese è invece sempre lì, inossidabile e irriconoscibile. Ad attestarci che il mantenimento del potere è un collante formidabile, tanto più forte se per conservarlo si è disposti a compiere qualunque sacrificio (a cominciare dalle vite altrui). Ma d’altra parte, da sempre, in Cina chi controlla il potere detiene le ricchezze del Paese: un motivo in più per mantenere salda la presa.
Girare per le strade di Pechino o Shanghai, ma in realtà anche per i tanti altri milionari capoluoghi di provincia, e ormai da diversi lustri, offre uno spettacolo urbanistico, di mobilità e di costume lontano anni luce dalle maree di uomini e donne vestiti in pigiama blu, che a piedi e in bicicletta (o al massimo a bordo di camion e autobus sgangherati) si muovevano per andare al lavoro nei campi, in fabbrica o a scuola. La seconda dimensione più importante del cambiamento cinese è proprio quella scientifica e tecnologica: i treni superveloci, i telefonini cellulari e la rete 5G, i computer e l’impiego massiccio di robot (record mondiale) e di strumenti di videosorveglianza, i satelliti spaziali. Certo un progresso realizzato non certo senza enormi e crudeli contraddizioni e muovendosi "sulle spalle dei giganti". Eppure, ormai si tratta di un progresso di cui la Cina è anche protagonista.
Oggi la Cina si appresta a lanciare la sua sfida all’ordine incardinato sull’egemonia statunitense. Lo fa con arguzia. Cercando di modificare a suo vantaggio le politiche e le prassi di tutte le istituzioni esistenti di quell’ordine internazionale la cui legittimità contestava frontalmente fino agli anni 70 del secolo scorso.
E allo stesso tempo predisponendo le infrastrutture materiali e immateriali che dovranno fare di Pechino e della Cina il nuovo centro del mondo, e della cui logica fa parte anche la Belt and Road Initiative, destinata a unificare, e se necessario contrapporre, un Emisfero orientale (euro-asiatico-africano) all’Emisfero occidentale (le Americhe).
Tutte le strade portano a Roma, si diceva a proposito delle vie consolari e poi di quelle imperiali. Chissà come si dice in mandarino la prima parte della massima latina, perché di sicuro Roma oggi si traduce "Bejing".
L’intervento
Dante, simbolo dell’Italia molto prima della sua unità
Il presidente della Società Dante Alighieri sostiene l’iniziativa di una Giornata dedicata al poeta della «Commedia». Il Dantedì sarà una festa per gli italiani e chi ama l’Italia
di ANDREA RICCARDI *
La proposta di dedicare a Dante una giornata celebrativa, avanzata da Paolo Di Stefano sul «Corriere della Sera», incontra l’interesse di tanti. Dante dà nome alla Società Dante Alighieri, fondata nel 1889 da Giosue Carducci per difendere l’identità degli emigrati nel mondo. La Società lavora in questo senso da 130 anni e conta oggi circa 400 comitati e tante scuole ovunque. La sua missione resta l’insegnamento dell’italiano non solo agli emigrati e ai loro figli, ma anche a chi è attratto dalla lingua e dal vivere all’italiana.
Abbiamo sempre festeggiato la Giornata di Dante in tutti i nostri comitati il 29 maggio, scegliendo questa tra le possibili date di nascita del poeta, uno degli ultimi giorni del mese indicato nel commentario di Boccaccio. Questi afferma che Dante morì dopo aver passato il cinquantaseiesimo anno «dal preterito maggio». Ma la data non è importante. Quel che conta è l’esperienza positiva di una giornata dedicata al Sommo Poeta da parte della nostra Società lungo gli anni.
Sono quindi d’accordo sul Dantedì. Infatti Dante è un simbolo del «mondo italiano», molto prima dell’unità politica del Paese, che però si proietta verso il futuro e rappresenta un giacimento di poesia, umanità e mondo spirituale, ancora in parte da esplorare. È simbolo, in qualche modo, di «preveggenza», di un rapporto positivo tra passato e futuro: il poeta immagina la redenzione del Purgatorio, dando forma letteraria alla speranza di poter «rimediare» agli errori e ai limiti, in un modo che pochi decenni prima non esisteva. Dante ha fondato la visione di un’umanità più giusta e positiva. È una visione «italiana» in senso profondo. Del resto si celebrano le identità culturali associate alla grande poesia di autori come Cervantes o Shakespeare.
Dante è con Shakespeare nel cosiddetto «canone poetico occidentale». Molti lo conoscono. Tuttavia bisogna conoscerlo sempre meglio, perché la ricchezza letteraria della sua opera non si esaurisce e non si sintetizza. È come una Bibbia, che va letta e riletta: allora si scoprono messaggi e significati nuovi. Insegna una lettura che è un metodo per fare cultura, anche per i non specialisti. Lo si vede nel Paradiso, summa delle conoscenze concluse nel simbolo della rosa candida, che è un raffinato esempio di come insegnamenti alti e complessi possano essere incastonati in un testo poetico e letterario. La rosa, simbolo caro a poeti e mistici, è il fiore del mese di maggio, quando celebriamo la Giornata di Dante.
Qualunque sarà la data prescelta, la proposta di un Dantedì non deve cadere nel vuoto. La giornata sarà significativa non solo per la Dante Alighieri, da cinque generazioni impegnata nella salvaguardia della cultura italiana nel mondo. Sarà soprattutto una «festa» per gli italiani e per quanti guardano con simpatia al «mondo italiano» in tutto il suo spessore. Questo mondo vive anche fuori dalla penisola. Abbiamo dato come titolo al nostro prossimo congresso di Buenos Aires, che raccoglie italiani e amici dell’italiano: Italia, Argentina, mondo: l’italiano ci unisce. La nostra lingua non è egemonica, non s’impone ma attrae: unisce i tanti «pezzi d’Italia», come diceva il manifesto fondatore della nostra Società, guardando agli italiani e ai simpatizzanti per l’Italia nel mondo.
Dante non è solo il simbolo dell’Italia. È voce mondiale e patrimonio dell’umanità. L’Italia (e forse l’Europa) non sarebbero quel che sono nella cultura e nel seguir «virtute e canoscenza», se non ci fosse stato Dante, il quale non è solo, come molti credono, la sintesi del Medioevo, ma è l’anticipatore dell’umanesimo ancora prima di Petrarca, grazie al colloquio fertile con i classici, nonché il profeta del futuro con una visione moderna dell’esistenza e in una simbiosi di vita e arte, mai così intensa prima né dopo di lui. Per questo il Dantedì rappresenta, in questo sconfinato mondo globale dei nostri tempi, una salda radice e un’apertura al futuro.
L’Emilia-Romagna appoggio al progetto e l’evento a Ravenna al festival Dante2021
La regione Emilia-Romagna sostiene la mobilitazione per il Dantedì. In una risoluzione il consigliere Gianni Bessi (Partito Democratico) impegna la giunta «ad attivarsi presso il governo e il parlamento affinché si istituisca, tramite percorsi legislativi e normativi, anche formalmente la giornata del Dantedì». Al progetto di una Giornata mondiale per Dante è dedicato un evento del festival Dante2021 a Ravenna il prossimo 13 settembre. Con lo scrittore e giornalista Paolo Di Stefano, che in un articolo del 24 aprile sul «Corriere» aveva lanciato il Dantedì, intervengono il sindaco della città Michele de Pascale, Carlo Ossola (presidente del Comitato nazionale per i 700 anni dalla morte di Dante), Francesco Sabatini (presidente onorario dell’Accademia della Crusca), Wafaa El Beih (direttrice del dipartimento di Italianistica dell’Università di Helwan-Il Cairo), i traduttori René de Ceccatty e José María Micó e il tedesco Harro Stammerjohann, socio straniero della Crusca.
* Corriere della Sera, 15.07.2019 (ripresa parzale - senza immagini).
CRONACA
"Una ferita profonda e dolorosa", un "passaggio delicato" che richiede una reazione forte e immediata: o si riscatta "con i fatti il discredito che si è abbattuto su di noi o saremo perduti". E’ affidato alle parole del vicepresidente David Ermini il senso di una crisi istituzionale senza precedenti che ha scosso il Consiglio superiore della magistratura per effetto dell’Inchiesta di Perugia, nella quale sono indagati Luca Palamara, e Stefano Rocco Fava, pm a Roma, e il togato dimissionario del Csm Luigi Spina. Ma la sua non era l’unica sedia vuota ieri pomeriggio nell’aula Bachelet dove si è riunito un plenum straordinario convocato a seguito della bufera che ha travolto il Consiglio e l’interra magistratura italiana: quattro togati si sono autosospesi.
Lunedì sera Corrado Cartoni e Antonio Lepre, di Magistratura Indipendente, non indagati ma che avevano preso parte a incontri con gli esponenti del Pd Luca Lotti e Cosimo Ferri per discutere della nomina del procuratore di Roma, e ieri, annunciandolo poco prima del plenum, Gianluigi Morlini, di Unicost, e Paolo Criscuoli di Mi. Ma dall’assemblea di Palazzo dei Marescialli, insieme alla presa d’atto della gravità della situazione, arriva anche una forte assunzione di responsabilità e un richiamo alla compattezza: con un documento approvato all’unanimità tutti i consiglieri, laici e togati, si dicono "sgomenti e amareggiati", denunciano comportamenti da cui "prendere con nettezza le distanze" e richiamano la necessità di "un radicale percorso di autoriforma. E da più parti arriva il riconoscimento al vicepresidente Ermini di una gestione saggia, ferma e responsabile della situazione e al valore imprescindibile della guida del capo dello Stato, Sergio Mattarella, che del Csm è il presidente.
Di "un giorno cupo come pochi altri" per il Csm parla il togato di Autonomia &indipendenza Piercamilo Davigo, che esprime apprezzamento per la posizione unitaria su cui tutti i consiglieri si sono ritrovati facendo prevalere allo "spirito di appartenenza o di fazione" la "tutela dell’Istituzione". Michele Ciambellini, di Unicost, invita il Consiglio a dare "una risposta seria energica senza ambiguità e a percorrere insieme una strada che riaffermi il prestigio dell’Istituzione". Da Giuseppe Cascini, di Area, il paragone forte del momento "grave e drammatico" con i tempi dello scandalo della P2. Invita a una "generale presa di coscienza" il primo presidente della Corte di Cassazione Giovanni Mammone, che esprime l’auspicio che "la consapevolezza costituisca un valido deterrente a che ulteriori comportamenti individuali vengano adottati in violazione delle regole fondamentali della deontologia".
Il laico M5S Fulvio Gigliotti si dice certo che il Csm "continuerà a mantenere quell’alto livello di garanzia e credibilità istituzionale" attraverso "il più attento rigore e la massima fermezza" nelle funzioni che tutti i componenti sono chiamati a esercitare. Al centro delle riflessioni di Ermini, inevitabilmente, anche il tema delle nomine ai vertici degli uffici che devono essere "trasparenti", compiute "fuori da logiche spartitorie", e preservate dalle "degenerazioni correntizie" e dai "giochi di potere" che sono emersi dall’inchiesta dei pm perugini. E ogni determinazione del Consiglio deve essere assunta "al riparo da interessi esterni" e "al solo fine di assicurare l’efficienza e la conformità alla costituzione dell’attività giurisdizionale" il tutto sotto la "guida illuminata" del Capo dello Stato. Il plenum ha anche preso atto delle dimissioni di Spina e ha deliberato il suo rientro in ruolo alla procura di Castrovillari, suo ufficio di provenienza.
Xi a Roma, un’accoglienza da imperatore. Mattarella: "Via della seta a doppio senso"
Cena di Stato con 170 invitati. Poi il concerto con Andrea Bocelli
di Redazione ANSA*
In mattinata a Roma il premier Conte ed il presidente cinese Xi firmeranno il memorandum Italia-Cina. Poi il leader cinese andrà a Palermo per una visita lampo. Ieri l’incontro con Mattarella, il capo dello Stato ha chiesto a Xi una cooperazione "rafforzata" Italia-Cina con le nuove intese sul commercio ed un "confronto costruttivo sui diritti". Xi ha parlato di "partnership strategica" con l’Italia, sottolineando che ci saranno "scambi commerciali e investimenti nei due sensi".
"Cinesi e italiani sono ideali compagni di viaggio. Ci accomuna l’appartenenza a due civiltà laboriose, creative e ingegnose. Due civiltà dotate di immensi patrimoni culturali, attente alla qualità e alla bellezza. Due sistemi economici, produttivi e manifatturieri complementari, chiamati a generare sinergie sempre più stimolanti". Lo sottolinea il presidente Sergio Mattarella nel brindisi della cena di Stato al Quirinale in onore del presidente Xi Jinping.
"Va continuato l’intenso sforzo di questi decenni per un incremento continuo della reciproca comprensione e autentica conoscenza, in modo da evitare involontari travisamenti e sconsigliabili rallentamenti nella crescita della considerazione vicendevole" ha aggiunto il capo dello Stato.
"Cina e Italia, con l’Unione Europea, sono anche chiamate a lavorare insieme per rafforzare un modello di sviluppo globale, ordinato e aperto, del commercio internazionale, basato su una sempre maggiore adesione ai valori del multilateralismo e di uno scambio libero, equo e onesto" ha anche detto il presidente della Repubblica.
In mattinata, venerdì, c’era stato il colloquio al Quirinale tra Mattarella e Xi Jinping.
"La cooperazione tra Italia e Cina sarà rafforzata con intese commerciali", ha detto Mattarella al Quirinale dopo il colloquio con il leader cinese Xi Jinping. "La firma del Memorandum è cornice ideale per imprese italiane e cinesi" e, ha aggiunto il presidente italiano, la Via della Seta "è una strada a doppio senso". "Il 2020 sarà l’anno culturale e del turismo tra Italia e Cina", ha annunciato il capo dello Stato. Mattarella ha ribadito il desiderio italiano di "rimuovere le barriere per i prodotti italiani". Mattarella ha anche detto di auspicare un dialogo Ue-Cina sui diritti umani.
C’è già l’ipotesi di accordo per un turno di serie A in Cina
Con Mattarella c’è stato un "incontro fruttuoso", ha detto Xi Jinping. La Cina "vuole uno scambio commerciale a due sensi", ha aggiunto. Pechino e Roma "sono due importanti forze nel mondo per salvaguardare la pace e promuovere lo sviluppo", ha detto il presidente cinese. Per Xi Jinping sono molto importanti anche "i rapporti tra Cina e Ue: guardiamo con favore a una Unione Europea unita, stabile, aperta e prospera". Il presidente cinese ha anche confermato la disponibilità a dialogare con l’Ue sul tema dei diritti umani.
Mattarella-Xi, "memorandum per gli scambi"
"Cina e Italia sono partner strategici con mutuo rispetto e fiducia. Fra di noi non c’è nessun conflitto di interesse e sappiamo entrambi come rispettare le preoccupazioni della controparte", ha detto Xi Jinping incontrando i rappresentanti del Business Forum, del Forum Culturale e del Forum sulla cooperazione nei Paesi Terzi insieme a Mattarella. . Cina e Italia "dovrebbero mantenere scambi ad alto livello e do il benvenuto al presidente Mattarella perché visiti ancora la Cina", ha detto poi il presidente cinese.
Alibaba porta le arance rosse di Sicilia in Cina
Xi Jingping ha quindi deposto una corona con il suo nome in onore del Milite ignoto, all’Altare della Patria
Guarda le foto Xi Jinping a Roma, la diretta foto
Al Quirinale Xi, accompagnato dalla moglie, elegantissima in abito verde pistacchio, dopo una stretta di mano con Mattarella e con la figlia Laura, è stato ricevuto con gli onori militari. Sono stati suonati gli inni nazionali italiano e cinese e sul Colle ed è stata issata anche la bandiera di Pechino. Poi, attraversando una lunga passerella rossa, i due capi di Stato sono entrati nel palazzo per il loro colloquio.
Nella sua visita il presidente cinese incontra i presidenti di Senato e Camera, Casellati e Fico. In serata cena di Stato al Quirinale con 170 invitati. A chiudere l’evento un concerto di Andrea Bocelli.
A smarcarsi dalla giornata dedicata a Xi è il vicepremier Matteo Salvini, che non ha partecipato al pranzo ufficiale al Quirinale. Ma è da Bruxelles, dove i 27 sono riuniti per il vertice Ue, che è arrivato l’affondo più duro, da parte del presidente del Parlamento Ue e numero due di Forza Italia Antonio Tajani. Ma se Conte ha ostentato sicurezza, assicurando di non dover "convincere" i partner europei bensì semplicemente "informarli", perché c’è "pieno accordo", è stato ancora Mattarella, nella sua intervista, a spiegare i vantaggi non solo per l’Italia del Memorandum.
* ANSA 23 marzo 2019 (ripresa parziale - senza immagini).
Così gli italiani hanno scritto il Codice civile per Pechino
L’ex ministro Diliberto ha portato il diritto romano in Cina. “E’ un lavoro enorme, dalla proprietà privata all’eredità”
di Mattia Feltri (La Stampa, 06/03/2017)
Roma. «È cominciata per caso», dice Oliviero Diliberto. Lo ricordate, vero? Inizi nel Pci, poi in Rifondazione, fino al 2013 leader dei Comunisti italiani. È stato ministro della Giustizia (premier Massimo D’Alema) dal ’98 al 2000. Oggi ha sessant’anni, è ordinario di Diritto romano alla Sapienza, e tutta questa breve biografia ha contribuito al caso. E cioè, nel 1998 la Cina decide di dotarsi di un codice civile. Non lo aveva, prima. A che serve un codice civile a un Paese comunista, in cui non c’è proprietà privata?
Ma nel ’98 il mondo era cambiato. «Era cambiato da un po’», dice oggi Diliberto. «Nel 1988 il professor Sandro Schipani, docente di Diritto romano a Tor Vergata, raggiunge in Cina uno studioso, Jiang Ping, che aveva conosciuto l’anno prima a Roma. Attenzione, il Muro di Berlino era ancora in piedi. E a Schipani viene l’intuizione: vi servirà un codice civile. La Cina, che veniva da un lunghissimo periodo di nichilismo giuridico, per cui la legislazione civile era una sovrastruttura borghese, capisce che il futuro è la globalizzazione e già sta evolvendo in un sistema misto, di economia statale e privata. E come gestisci un’economia così senza un codice civile?».Si sarà già capito dove stiamo andando a parare. La discussione in Cina dura a lungo: tocca decidere se adottare il Common law anglosassone o il Civil law di stampo romanistico.
«Ma intanto Schipani sta traducendo dal latino al cinese il Corpus Iuris Civilis, il fondamentale codice di Giustiniano che alla caduta dell’Impero Romano raccoglie il complesso delle leggi civili e così salva l’Europa, le dà un fondamento. E quando nel ’99 Pechino sceglie il diritto romano, si chiede: ma quale ne è la culla? L’Italia. Chi è ministro della Giustizia in Italia? Diliberto. Toh, è pure docente di diritto romano! E persino comunista! Perfetto! E così insieme a Schipani iniziamo, su richiesta cinese, a formare una classe di giuristi che poi dovranno scrivere il codice».
Il che, grosso modo, equivale ad averlo scritto.
«Il codice lo scrivono benissimo i cinesi, ma c’è del vero. Hanno cominciato a venire da noi studenti cinesi, passati attraverso selezioni durissime. Oggi ne ho con me dieci ma negli anni sono stati una cinquantina, molti di loro sono diventati professori e stanno lavorando appunto al codice. In quattro anni imparano l’italiano, il latino, il diritto romano e infine scrivono la tesi di dottorato».
Ma che significa scrivere il codice civile per la Cina? Un lavoro enorme, dice Diliberto, «pensate di introdurre in un Paese giuridicamente vergine, comunista, enorme, complesso, concetti come la proprietà, l’usufrutto, la successione, la compravendita, la proprietà intellettuale per libri e brevetti. Hanno dovuto creare e introdurre i notai. Pensate le difficoltà in un Paese in cui tutta la terra è dello Stato, e ai contadini ora viene data in concessione, mentre si riconosce la proprietà privata delle aziende o delle squadre di calcio. Pensate, in una Cina che a un certo punto ammette che uno molto bravo può diventare molto ricco, al problema dell’eredità. Perché i figli non sono molto bravi, solo molto fortunati». Si è risolta con una elevatissima tassa di successione, e ogni volta che si pone una questione del genere «partono le telefonate, i consulti, si organizzano convegni».
Il codice sarà pronto nel 2020 ma intanto «sono state scritte legislazioni singole, entrate in vigore, sugli aspetti più impellenti». Diliberto ha una cattedra all’Università Zhongnan of Economics and Law di Wuhan, terza città della Cina. Va due volte l’anno per tenere lezione. Come detto, altri studenti cinesi vengono a Roma.
«La Cina ha fame e urgenza di formare giuristi che la accompagnino all’interno e nel mondo. Ma intanto anche nostri studenti vanno in Cina. Ora ce ne sono quattro a fare dottorati sul diritto civile cinese. Diventeranno merce pregiatissima, avvocati del cui sostegno avrà bisogno chiunque intenda stringere affari in Cina. La Germania è molto avanti rispetto a noi, ma il volume dei nostri affari con la Cina cresce vertiginosamente. Poche settimane fa, alla presenza del presidente Mattarella, abbiamo inaugurato alla Sapienza il più grande centro di studi giuridici cinesi d’Europa. Chiunque debba approfondire la materia verrà da noi. E ci tengo a dirlo: tutto pagato da Pechino. Dal nostro governo non è arrivato un euro».
Rimangono un paio di dubbi.
Primo, ma davvero i cinesi hanno fiducia in noi? «Intanto amano la nostra cultura classica, e in particolare la musica operistica. In questo momento, pochi lo sanno, ma in Italia ci sono mille e cinquecento giovani cinesi che stanno studiando l’opera lirica. E poi i cinesi sono diversi, ragionano sulla base dei millenni, e nel loro grande orgoglio ci considerano dei pari, alla loro stessa altezza perché anche noi come loro abbiamo avuto l’impero, siamo figli di un impero che conquistava e civilizzava il mondo». Secondo dubbio, il solito: d’accordo il codice civile ma, di civile, dovrebbero esserci anche i diritti.
Diliberto non è uno che si lasci andare al romanticismo, e prevede che «i diritti arriveranno per processo naturale. Già oggi la Cina è profondamente diversa da quella di quaranta o venti anni fa. Sono leciti il mercato e la proprietà privata. E per i cinesi oggi sono fondamentali il diritto alla vita e alla sussistenza.
Il Presidente Xi Jingping ha posto tra le priorità lo “stato di diritto”, conquista enorme. Anche la politica seguirà un processo naturale, ma le trasformazioni saranno gestite dal Partito comunista, evitando qualsiasi gorbaciovismo. Sarebbe folle il contrario, come fu folle l’idea di esportare la nostra forma di democrazia: che è il prodotto di 25 secoli di storia, dall’Atene di Pericle alla rivoluzione francese. Ma i cinesi Pericle non l’hanno avuto. E tu glielo vuoi imporre da un giorno con l’altro?».
CALCIO, POLITICA, E IDENTITÀ NAZIONALE. CASO ITALIA: DAL TIFO PER LA SQUADRA DELLA "NAZIONALE" (1982) AL "TIFO" PER LA SQUADRA DEL PARTITO "NAZIONALE" (1994-2018): AVANTI POPOLO ALLA RISCOSSA, IL populismo TRIONFERÀ....*
Una storia della coppa del mondo
di Daniele Serapiglia (Il Mulino, 25 giugno 2018)
Il 14 giugno scorso ha avuto inizio la XXI edizione della coppa del mondo di calcio. Lo stesso giorno a Parigi presso l’Université Sorbonne Nouvelle si è svolto il congresso: La coupe du monde de Football entre Europe et Amériques. Enjeux, acteurs et temporalités d’un événement global -XX - XXI siècles. A questo evento hanno preso parte alcuni dei più importanti storici del calcio, tra cui Matthew Taylor, Fabien Archambault e Paul Dietschy. Proprio a questi ultimi due fanno riferimento Riccardo Brizzi e Nicola Sbetti nell’introduzione al loro volume Storia della coppa del mondo di calcio (1930-2018). Politica, sport, globalizzazione. I due francesi, infatti, sono con John Foot e Simon Martin i più importanti storici del calcio italiano. Ciò è singolare se pensiamo che, eccetto quelli di Sergio Giuntini, non si possano annoverare altri lavori fondamentali sulla storia del calcio del nostro Paese di studiosi nati nella penisola, ma è anche indicativo di come fino a oggi la storiografia nostrana abbia avuto poco riguardo verso questa disciplina. Eppure, come evidenziano Brizzi e Sbetti, il calcio fin dagli anni Trenta si è imposto in Italia quale fenomeno sociale, mostrando le passioni e le contraddizioni della popolazione, per la quale è diventato un mezzo di espressione identitaria.
In questo senso, l’Italia non era differente dagli altri Paesi europei, che, come sottolineava Hobsbawm, hanno trovato nel calcio una delle cartine di tornasole del proprio nazionalismo. Ciò è ancora più importante se contestualizziamo, come ha fatto Judt in Postwar, questo rapporto tra calcio e identità nazionale nell’ambito della costruzione dell’identità europea. Prendendo in considerazione questi elementi, Brizzi e Sbetti descrivono come il calcio si sia imposto tra le masse e quale ruolo abbia avuto la Coppa del mondo nelle dinamiche politiche globali.
Il libro è diviso in otto capitoli, preceduti dalla breve introduzione e seguiti da una altrettanto sintetica conclusione, con un cenno alla funzione politica dei mondiali di Russia 2018 e di Qatar 2022. Al primo capitolo è demandata la descrizione dei primi tornei internazionali e della prima coppa del mondo (Uruguay 1930).
Il secondo capitolo, dedicato ai mondiali di Italia 1934 di Francia 1938 e al calcio durante la Seconda guerra, si apre con un’efficace nota introduttiva, che problematizza il complesso rapporto tra questo sport e il totalitarismo. Se in altre opere questo tipo di analisi si focalizzava sul ruolo del calcio nella creazione del consenso, nel presente volume essa si concentra sugli elementi contraddittori di questa disciplina, i quali spesso sfuggono dal controllo di qualsiasi tipo di regime.
Il terzo e il quarto Capitolo, dedicati rispettivamente ai mondiali di Brasile 1950, Svizzera 1954 e Svezia 1958 e a quelli di Cile 1962, Inghilterra 1966 e Messico 1970, rappresentano il baricentro dell’opera. Questi offrono le chiavi per comprendere il peso della Fifa e della coppa del mondo nelle politiche internazionali: particolarmente accurata risulta l’analisi del ruolo dei mondiali nella guerra fredda, con particolare attenzione al processo di decolonizzazione. In questo capitolo ben descritta è la nascita del mito brasiliano, attraverso un’accurata analisi del ruolo del calcio nell’affermazione simbolica del “lusotropicalismo”.
Il capito successivo è dedicato ai mondiali di Germania 1974, Argentina 1978 e a Spagna 1982. Significative risultano le pagine sul mondiale argentino, che ebbe luogo durante il regime di Videla. Ovviamente evocativo è il paragrafo su Spagna 1982. Vengono poi narrate le vicende dei mondiali di Massico 1986, Italia 1990 e Usa 1994. La riflessione ruota attorno alla crescita della Fifa di João Havelange con una particolare attenzione al ruolo dei media nelle kermesse mondiali. Ben visibili sullo sfondo delle tre edizioni sono gli epocali cambiamenti sia della politica italiana, con il canto del cigno della Prima repubblica, sia della politica globale, con la caduta del muro di Berlino e la fine dell’Unione sovietica.
Il settimo e l’ottavo capitolo, infine, sono dedicati alla Fifa di Blatter, dal suo apice al suo declino. Si parla della grandeur di Francia 1998, segnata dal mito dell’integrazione razziale della squadra transalpina; della funzione diplomatica del mondiale di Corea-Giappone 2002; del successo azzurro a Germania 2006 nel mezzo della bufera di Calciopoli. Infine, si discute dei mondiali del Sud Africa del 2010, che furono caratterizzati dall’ultimo saluto al mondo di Nelson Mandela, e di quelli fallimentari di Brasile 2014, che mostrarono le prime crepe nella stagione politica segnata dal governo del Partido dos Trabalhadores.
A causa della lunga periodizzazione, questo libro non esaurisce le possibilità di ricerca sugli argomenti trattati. Crediamo, però, che non fosse questo lo scopo degli autori i quali, più che altro, sembra abbiano voluto proporre al grande pubblico un lavoro capace di raccontare in maniera semplice l’interconnessione tra politica e coppa del mondo, ma soprattutto hanno voluto dare agli studiosi un valido strumento per sviluppare nuovi studi dedicati alla storia del calcio.
La corposa bibliografia a cui fa riferimento questo volume vede elencate le più importanti pubblicazioni nazionali e internazionali dedicate al calcio, una piattaforma molto utile per la costruzione dello stato dell’arte di futuri lavori sul tema. Ciò è importante soprattutto nel nostro Paese, dove gli storici dello sport spesso hanno trovato difficoltà nel confrontarsi con la letteratura straniera, a causa dell’assenza nelle biblioteche delle più importanti opere degli studiosi inglesi, francesi e americani. Per questo motivo, il libro va considerato un lavoro importante, in particolare per i ricercatori italiani che si cimenteranno in futuro nello studio non solo della storia del calcio, ma più in generale dello sport.
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SUL TEMA, IN RETE E NEL SITO, SI CFR.:
ALL’ITALIA E PER L’ITALIA. CARO PRESIDENTE NAPOLITANO, SE NON "DORME" E NON SI E’ FATTO ESPROPRIARE DELLA SUA PAROLA, PROVI A GRIDARE DAL QUIRINALE: FORZA ITALIA!!!, COME E CON IL PRESIDENTE PERTINI. Un appello contro l’indecenza
L’ITALIA (1994-2016), TRE PRESIDENTI DELLA REPUBBLICA SENZA "PAROLA", E I FURBASTRI CHE SANNO (COSA SIGNIFICA) GRIDARE "FORZA ITALIA". In memoria di Sandro Pertini e di Gioacchino da Fiore, alcuni appunti per i posteri
Federico La Sala
LE "REGOLE DEL GIOCO" DELL’OCCIDENTE, IMMANUEL KANT, E I MONDIALI DI RUSSIA 2018 .....
Quando i km portano al fallimento: l’incredibile storia del Baltika Kaliningrad. E Putin interviene...
di Marco Corradi *
Possono le trasferte di campionato mandare un club sull’orlo del fallimento? In Russia, paese dalle dimensioni elefantiache (superficie da 17.1mln di km²), tutto è possibile: e quando diciamo tutto, intendiamo tutto, perchè la storia che andiamo a raccontarvi quest’oggi ha davvero dell’incredibile e riguarda un club che non è certo una delle big del paese guidato (da quando abbiamo memoria) da Vladimir Vladímirovič Putin. Stiamo parlando del Baltika Kaliningrad, una società che è decisamente particolare, e non solo per la sua attuale classifica, frutto di tre soli successi in 25 gare di campionato, e il fatto che stia seriamente rischiando di sparire.
Gli appassionati di storia e/o geografia già avranno capito di cosa stiamo parlando, ma vi facciamo un rapido riassunto: la russa Kaliningrad altro non è che la teutonica Königsberg, una città morta e risorta sotto un nuovo nome, una nuova popolazione e un nuovo... disegno. Succede che, al termine della 2a guerra mondiale, i russi ottengano come ”pegno di guerra” proprio Königsberg, antica città-simbolo dell’Impero prussiano, un luogo che diede i natali, ospitò nella sua lunga vita di saggezza e vede sepolto un certo Immanuel Kant (ma anche Eulero, l’uomo del famoso teorema, è nato qui): e, siccome ai russi le cose normali non piacciono, via al colpo di spugna con damnatio memoriae su una città che era troppo tedesca per i loro gusti. La vecchia cattedrale prussiana muore e rinasce come Kaliningrad, in onore a uno dei primi bolscevichi della storia: cacciati gli abitanti tedeschi, la città viene ripopolata con cittadini russi, i monumenti e gli edifici storici abbattuti e si riparte da zero. Kaliningrad viene inserita in uno specifico ‘Oblast, e diventa a tutti gli effetti parte della grande madre Russia, acquisendo uno status decisamente particolare: la città e il suo circondario, infatti, costituiscono una sorta di enclave russa nell’Europa continentale, dato che Kaliningrad è esattamente a metà tra Polonia e Lituania, e decisamente distante dal resto del Paese.
E questo ci riconduce a quel rischio-fallimento già citato in avvio, e alle casse drammaticamente vuote del Baltika Kaliningrad, che attualmente gioca nella 1.Division russa, la nostra Serie B: il club vive un autentico dramma ogni volta che deve cimentarsi in una trasferta, un dramma legato al suo status di ”società russa fuori dalla Russia”. La posizione geografica di Kaliningrad, infatti, è portatrice di caos e problemi ad una società che, nel lungo periodo, si è ritrovata schiacciata dalle eccessive spese (non corroborate dai risultati) per le gare esterne: e tutto questo accade perchè, banalmente, la trasferta minore del Baltika consiste nei 900km verso San Pietroburgo, casa dello Zenit-2, la squadra B della formazione allenata da Lucescu. Avete letto bene, ”minore”, perchè il Kaliningrad vive continui drammi: sfidare il Volgar Astrakhan comporta un viaggio di 2.700km, affrontare il Luch-Energiya Vladivostok una traversata di 10.327 lunghissimi km, ”accorciati” attraverso la trans-siberiana. È una sfida che ha suscitato le fantasie di molti, quella tra Luch-Energiya e Baltika, e in particolare il Vladivostok ha generato aneddoti fantastici riguardo alle trasferte delle varie squadre/tifoserie: si narra che dei tifosi dello Zenit tentarono di raggiungere la città in macchina per una gara di coppa, riuscendoci in 132 modiche ore (5 giorni e mezzo) e dovendo tornare a casa in treno perchè il mezzo era... esploso, mentre Akinfeev (portiere del CSKA e della Nazionale) ha caldamente invitato il Vladivostok a ‘‘iscriversi al campionato giapponese” per l’eccessiva distanza.
E proprio le trasferte per Vladivostok hanno contribuito a prosciugare (definitivamente?) le casse del Baltika Kaliningrad, che ora rischia seriamente di sparire: la società si trova al 19° posto nella 1.Division, con 20 punti in 25 gare e una stagione da tre sole vittorie in campionato. Lo score del Baltika parla di 3 successi, 11 pareggi e altrettante sconfitte, e l’ultimo hurrà è arrivato proprio oggi, dopo 22 gare di digiuno: il club aveva infatti vinto le prime due gare, salvo poi precipitare in una spirale di impotenza economica e disastri sportivi, che ha portato alla rivoluzione invernale. Via il tecnico Zakhariak, dentro Cherevchenko, che ha ottenuto dal mercato l’ex CSKA Jaffar e giocatori noti come Solomatin (ex Dinamo Mosca) e Sheshukov (ex Lokomotiv Mosca): e qui la domanda sorge spontanea, perchè questi giocatori approdano in un club penultimo in Serie B, con 8 punti da recuperare dalla zona-salvezza per evitare di sparire a fine stagione, e per di più in un’enclave? La risposta è molto semplice, ed ha il nome ed il volto di Putin.
E, se non capite il collegamento tra Kaliningrad e lo zio Vladimiro, siamo qui per spiegarvelo: succede che Kaliningrad sia una delle città designate per i Mondiali di Russia 2018, con tanto di investimento-monstre per allargare l’Arena Baltika e portarla a 45mila posti. L’obiettivo di Putin è semplice, fare di Kaliningrad l’occhio russo in Europa, con un porto sempre più ”curato” dallo Stato, una base missilistica in costruzione e una squadra di calcio perfettamente funzionante: perchè il buon Vladimir sa che il calcio è da sempre ”oppio dei popoli” (e forse anche ”coca dei poveri”, come direbbe Francesco Gabbani), e dunque avere un Baltika ancora in vita è importante per tutto il progetto-Kaliningrad, e anche per l’Arena Baltika stessa. Da qui, e dalla volontà di mostrare ulteriormente il suo potere, nasce l’intervento governativo per salvare le esangui casse della squadra, che stava rischiando seriamente di sparire: è stato Putin a ”pilotare” il rafforzamento invernale del Baltika, ed è stato sempre lui a ”spedire” al capezzale del club Olga Smorodskaya, ex amministratrice della Lokomotiv Mosca che aveva promosso l’abbattimento degli stranieri nella Prem’er Liga (da non confondersi con la Prem’er Liha ucraina), e farà da CEO del Kaliningrad.
Un insediamento, il suo, che risponde alla volontà di Putin di salvare il club nelle restanti 13 gare di campionato (nonostante il -8 dalla zona verde), e poi fare in modo di costruire una rosa da promozione nella stagione seguente: perchè avere il Baltika Kaliningrad nella massima serie proprio nell’anno dei Mondiali sarebbe un ottimo spot sia per l’Arena Baltika, che per il delirio da plenipotenziario di Putin. Riuscire a salvare una squadra spacciata, e portarla addirittura in una Prem’er Liga che ha assaggiato solo tra il 1997 e il 1999, dà una sensazione di potere inimmaginabile, e Putin vive per questo: perchè ”la lontanza sa di fallimento” (storpiamo così una canzone di Modugno), ma questo in Russia non lo sanno, o forse semplicemente sono ormai abituati a ridisegnarle a loro piacere le cose. E così, non ci stupiremmo di una salvezza del Baltika Kaliningrad, il club dissanguato dalle trasferte e ormai prossimo al fallimento: perchè Vladimir Putin, si sa, non conosce (purtroppo) la parola sconfitta, nemmeno quando deve rimettere in sesto una squadra di calcio...
(di Marco Corradi, @corradone91) (ripresa parziale - senza immagini).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
OCCIDENTE, AGONISMO TRAGICO, E MENTE ACCOGLIENTE.
RIPENSARE L’EUROPA. PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!! FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
L’Occidente impari dalla Cina come vivere in modo sensato
L’Europa punta alla conoscenza snobbando l’unica cosa che in Oriente è basilare: la saggezza
di Gianfranco Marrone (La Stampa, TuttoLibri. 22.10.2016)
Chi è il saggio? Come ci è diventato? E perché? Certo, giornalmente di persone sagge ne incontriamo pochine, e anche noi, dinnanzi allo specchio, facciamo parecchia fatica a considerarci tali. Se saggio è chi sa interloquire con cose come la Verità, Dio, l’Essere o la Libertà, stiamo freschi. Dopo duemila e passa anni i filosofi non sono affatto d’accordo nel definire queste strane entità. Anzi, uno come Agostino, alla domanda «cos’è il Tempo?», rispondeva al modo di Jovanotti: «Boh!».
Il fatto è che, come prova a spiegare il lavoro del filosofo e sinologo francese François Jullien, Essere o vivere, l’Occidente non ha - non ha mai avuto - alcuna idea di cosa sia la Saggezza: preferisce parlare di Conoscenza, Scienza, Intelligenza e simili, interrogandosi appunto sulla Verità o la Libertà, ma di fatto schivando l’unica cosa che in Oriente, invece, è basilare: come comportarsi nella vita di tutti i giorni con se stessi, con gli altri, con le cose che ci circondano? Come vivere sensatamente piuttosto che essere oggettivamente?
Il saggio insomma, per gli antichi cinesi, non è né filosofo né scienziato né artista, meno che mai economista o politico. È semmai uno che, ha osservato Jullien, è tutte queste cose insieme senza esserne però nessuna. Con lo sguardo fisso, comunque, all’esperienza comune, a quel quotidiano che è ripetitivo solo per chi, come noi, non sa apprezzarne le sfumature trasformative, i dettagli nascosti di novità, i piccoli segnali evolutivi.
Vivendo piuttosto che essendo, il saggio non prende iniziative: lascia che le cose accadano, favorendone lo scorrere, senza né rivendicazioni personali né ossessioni ontologiche. La realtà è quel che accade, l’eventualità della vita, non quel che è sempre e comunque allo stesso modo. Lo sapeva bene uno stratega come Sun Tzu, celebre autore di una straordinaria Arte della guerra, che in battaglia non attaccava mai senza comunque ritirarsi: lasciando l’iniziativa al nemico, aspettava che si distruggesse da solo.
Dopo testi fondamentali come Trattato dell’efficacia, Elogio dell’insapore, Figure dell’immanenza, Nutrire la vita e molti altri, tutti dedicati a un serrato confronto fra le forme del pensiero occidentale e quelle della filosofia cinese classica, Jullien pubblica adesso una bellissima sintesi del suo ventennale lavoro di ricerca, Essere o vivere, dove ripercorre in una ventina di opposizioni concettuali i tratti fondamentali che distinguono l’Europa dalla Cina, la conoscenza della saggezza, l’essere occidentale - appunto - dal vivere orientale.
Sembra una tabella da dispensa universitaria, ma di grandissima chiarezza e utilità. Così, i cinesi apprezzano la propensione piuttosto che la causalità, l’affidabilità anziché la sincerità, la tenacia invece della volontà, la regolazione alla rivelazione, l’allusivo all’allegorico, l’ambiguità all’equivoco, l’obliquità alla frontalità e così via.
Prendiamo l’ultimo caso: laddove il conflitto occidentale si risolve nella battaglia campale, con gli eserciti schierati uno di fronte all’altro, in quella cinese sono i lati che contano, le incursioni trasversali. Cosa che si ritrova tale e quale nel campo della tecnica retorica: da noi gli argomenti si affrontano direttamente, in Cina vale l’arte dell’indiretto, del dire una cosa attraverso un’altra. «Fare rumore a Est per attaccare a Ovest», diceva ancora Mao Zedong.
Nella paziente ricostruzione di queste opposizioni, semantiche più che dialettiche (come i celebri yin e yang), Jullien mette in gioco molteplici elementi - la riflessione filosofica, l’articolazione linguistica, l’organizzazione antropologica -, mostrandone l’intima correlazione. I concetti sono anche e soprattutto parole, e dunque al tempo stesso forme di comportamento, prassi esistenziali. Cosa che rende pressoché unico, e di grande interesse, il lavoro di Jullien - saggio, perciò, che studia la saggezza. E al tempo stesso segnala, con un problema delicato, un’opportunità conseguente. Mettere a confronto il pensiero occidentale con quello cinese, difatti, vuol dire capire più a fondo il primo attraverso il secondo e all’inverso.
A far da molla rivelatrice, sostiene Jullien, sono proprio le incompatibilità compatibili, le indicibilità dette, le intraducibilità a monte tradotte a valle. L’impensato europeo è (parzialmente) pensato in Cina e viceversa: cosa che non colma la lacuna fra i due universi culturali e filosofici, ma che tuttavia riesce a metterli in correlazione. Dal confronto nasce il nuovo, che non sta né qui né là ma a metà strada. Un originale esercizio di pensiero: tenace, affidabile, allusivo. Per vivere un po’ meglio. Ed essere molto meno.
L’ITALIA, LA SUA BANDIERA, E IL PARTITO DELL’IPNOTIZZAZIONE DELLA NAZIONE *
Vallo della Lucania (Salerno) mostra a tutta l’Italia la condizione di sonnambulismo in cui tutti i cittadini e tutte le cittadine sono stati buttati e buttate da tempo!
Nel giorno dei Tre Anniversari (Repubblica, Costituente, Voto alle donne) in Uno (2 giugno 1946- 2016), dopo venti anni di confusione tra *partito* e *Patria*, siamo nel *pallone* totale!!! E i vigili hanno tirato il *rigore*!!!
* VERITA’ E MENZOGNA: IN ITALIA PRIMA ERAVAMO TUTTI "CITTADINI-SOVRANI" (DON MILANI), PRESIDENTI, POI E’ NATO IL PARTITO "FORZA ITALIA" E "IL PRESIDENTE DELL’ ITALIA" E’ DIVENTATO UNO SOLO - QUELLO FALSO E MENZOGNERO?!. Una nota di Stefano Rodotà
Napolitano riflessioni sul bel paese uno e indivisibile *
Il ciclo delle celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità non può considerarsi ancora esaurito: lo dicono notizie e annunci che continuano ad affluire. Ma un bilancio sostanziale è certamente possibile, e vorrei sottolinearne alcuni aspetti. Innanzitutto l’eccezionale diffusione e varietà di iniziative, e il carattere spontaneo che molte di esse hanno presentato: non sollecitate e coordinate dall’alto, da nessun luogo “centrale”, Presidenza della Repubblica o Governo. Si è davvero trattato di un gran fiume di soggetti che si sono messi in movimento, in special modo al livello locale, fin nei Comuni più piccoli - istituzioni, associazioni di ogni genere, gruppi e persone.
È stato un gran fervore di richiami di antiche memorie, anche famigliari, e di impegni di studio, di discussione, di comunicazione. Quel che si è mosso, poi, nelle scuole è stato straordinario: quanti insegnanti, per loro conto, e quanti studenti, a ogni livello del sistema d’istruzione, si sono messi d’impegno e hanno dato in tutte le forme il loro contributo! E anche in termini quantitativi che cosa è stata la partecipazione dei cittadini anche alle manifestazioni nelle piazze e nelle strade e dai balconi delle case, in un’esplosione mai vista di bandiere tricolori e di canti dell’Inno di Mameli!
Ce lo aspettavamo? In questa misura e in questi toni, no: nemmeno quelli tra noi, nelle massime istituzioni nazionali, che ci hanno creduto di più e hanno deciso di dedicarvisi più intensamente. È stata una lezione secca per gli scettici, e ancor più per coloro che prevedevano un esito meschino, o un fallimento, dell’appello a celebrare i centocinquant’anni dell’unificazione nazionale. Soprattutto, è stata una grande conferma della profondità delle radici del nostro stare insieme come Italia unita. Si può davvero dire che le parole scolpite nella Costituzione - «la Repubblica, una e indivisibile» - hanno trovato un riscontro autentico nell’animo di milioni di italiani in ogni parte del Paese. E non in contrapposizione ma in stretta associazione - come nell’articolo 5 della Carta - all’impegno volto a riconoscere e promuovere le autonomie locali. Nello stesso tempo, si può ritenere che il così ampio successo registratosi vada messo in relazione col bisogno oggi diffuso nei più diversi strati sociali di ritrovare - in una fase difficile, carica di incognite e di sfide per il nostro Paese - motivi di dignità e di orgoglio nazionale, reagendo a rischi di mortificazione e di arretramento dell’Italia nel contesto europeo e mondiale.
L’aver fatto leva sull’occasione del Centocinquantenario, l’aver puntato su celebrazioni condivise, è stato dunque giusto e ha pagato. Non bastava però lanciare un appello generico: occorreva richiamare in modo argomentato fatti storici ed esperienze, fare i conti con interrogativi e anche con luoghi comuni, favorire quella che non esito a chiamare una riappropriazione diffusa, da parte degli italiani, del filo conduttore del loro divenire storico, del loro avanzare - tra ostacoli e difficoltà, cadute e riabilitazioni, battute d’arresto e balzi in avanti - come società e come Stato nei secoli XIX e XX. Gli interventi che ho svolto, nel succedersi delle iniziative per il Centocinquantenario, hanno segnato i momenti e i contenuti dello sforzo compiuto: spero che il leggerli, raccolti in volume, ne renda il senso complessivo, lo sviluppo coerente.
Qual è la conclusione che oggi ne traggo? Che non si è trattato di un fuoco fortuito, di un’accensione passeggera che già sta per spegnersi, di una parentesi che forse si è già chiusa. No, si è trattato di un risveglio di coscienza unitaria e nazionale, le cui tracce restano e i cui frutti sono ancora largamente da cogliere. Non ci porti fuori strada l’impressione che appena dopo aver finito di celebrare il Centocinquantenario in un clima festoso e riflessivo, aperto e solidale, si sia ritornati alle abituali contrapposizioni, alle incomunicabilità, alle estreme partigianerie della politica quotidiana.
Quel lievito di nuova consapevolezza e responsabilità condivisa che ha fatto crescere le celebrazioni del Centocinquantenario continuerà a operare sotto la superficie delle chiusure e rissosità distruttive, e non favorirà i seminatori di divisione, gli avversari di quel cambiamento di cui l’Italia e gli italiani hanno bisogno per superare le ardue prove di oggi e di domani.
Giorgio Napolitano
* Avvenire, 23.11.2011
2011, c’era bisogno di una scossa nazionale
di GIORGIO NAPOLITANO *
Caro Direttore,
il suo giornale ha il merito di essere stato, fin dal concepimento di un programma di celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità, tra i soggetti (anche lei personalmente) che più hanno creduto nella straordinaria importanza dell’occasione che si presentava e dell’impegno che andava esplicato per un sostanziale rafforzamento delle ragioni e del sentimento del nostro «stare insieme» come italiani - nazione - Stato e cittadini.
La quantità e qualità delle iniziative che si sono succedute - tra le quali un particolare spicco hanno assunto quelle promosse a Torino - ci hanno detto che erano insieme maturata un’esigenza e insorta una disponibilità largamente condivise. C’era bisogno di una scossa nazionale unitaria di fronte alle difficoltà, alle derive, agli scoramenti che colpivano il nostro Paese e alle prove sempre più ardue che lo attendevano (e lo attendono).
Ritengo che il quasi imprevedibile successo delle celebrazioni, non ancora del tutto concluse, abbia lasciato un segno profondo, anche contribuendo al crearsi di condizioni più favorevoli per affrontare con fiducia una nuova inedita e incoraggiante fase della vita politico-istituzionale italiana.
* La Stampa, 20/11/2011
STORIA D’ITALIA, 1994-2011: LA COSTITUZIONE, LE REGOLE DEL GIOCO, E IL "MENTITORE" ISTITUZIONALIZZATO ... CHE GIOCA DA "PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA" CON IL LOGO - PARTITO DI "FORZA ITALIA" E DI "POPOLO DELLA LIBERTA’"!!!
(...) I margini di successo sono tanto più ridotti, come ha rilevato il Presidente della Repubblica, dopo anni di contrapposizione e di scontri nella politica nazionale" (...)
Quei pozzi avvelenati, dalla giustizia alla Rai
di Francesco Merlo (la Repubblica, 13.11.2011)
È certo che anche se Berlusconi andasse via, per molto tempo rimarrà tra noi come categoria dello spirito. Durante questo ventennio ha terremotato l’apparato statale infilandovi dentro la Lega antistatale e secessionista. Dalle abitudini al linguaggio, ha "smontato" lo Stato È la normalità, la tanto attesa normalità, che ha reso storica la lunga giornata di ieri anche se ci vorrebbe un governo Monti delle anime e dei sentimenti e dei valori per liberare l’Italia dal berlusconismo. Nessuno dunque si illuda che sia davvero scaduto il tempo. Certo, alla Camera lo hanno giubilato, gli hanno fatto un applauso da sipario: è così che si chiude e si dimentica, con l’applauso più forte e più fragoroso che è sempre il definitivo.
Poi Napolitano è riuscito a dare solennità anche all’addio di Berlusconi che sino all’altro ieri si era comportato da genio dell’impunità inventando le dimissioni a rate. Che lui nascondesse una fregatura sotto forma di sorpresa è stato il brivido di ieri, e difatti, inconsapevolmente, nessuno si è lasciato troppo andare e la festa, sino all’annuncio ufficiale delle dimissioni, più che sobria è stata cauta. Di sicuro Berlusconi non ha avuto il lieto fine. Entrato in scena cantando My Way ne è uscito con lo Zarathustra che premia "il folgorante destino di chi tramonta".
Dunque non c’è stato il 25 luglio, non la fuga dei Savoia né la fine della Dc, né tanto meno la tragedia craxiana, nessuno ha mangiato mortadella in Parlamento come avvenne quando cadde Prodi, non c’è stato neppure l’addio ai monti di Renzo anche se nessuno sa cosa farà Berlusconi, se rimarrà in Italia o invece andrà in uno dei degli ospedali che dice di avere regalato nei luoghi del Terzo Mondo. Tutti parlano, probabilmente a vanvera, di una trattativa parallela e coperta sui processi, di un salvacondotto e di un’amnistia che non hanno mai riguardato in Italia reati come la corruzione e lo sfruttamento della prostituzione. In un Paese normale la rimozione di un capo non produce mai sconquassi e siamo sicuri che il pedaggio che paghiamo alla normalità non sarà l’enorme anormalità di un pasticcio giuridico.
È comunque certo che, anche se Berlusconi si rifugiasse ad Antigua, per molto tempo rimarrà tra noi come categoria dello spirito. Ecco perché ci vorrebbe una banca centrale della civiltà per commissariare il Paese dove Berlusconi "ha tolto l’aureola a tutte le attività fino a quel momento rispettate e piamente considerate. Ha trasformato il medico, il giurista, il prete, il poeta, l’uomo di scienza in salariati da lui dipendenti".
Dunque neppure nello storico giorno in cui è stato accompagnato fuori con il suo grumo di rancore invincibile e lo sguardo per sempre livido, è stato possibile accorarsi e simpatizzare. Non c’è da intonare il requiem di Mozart o di Brahms per l’uomo più ricco d’Italia che ha comprato metà del Parlamento e ha ordinato di approvare almeno 25 leggi ad personam. E ha terremotato lo Stato infilandovi dentro la Lega antistatale e secessionista. E mentre i suoi ministri leghisti attaccavano la bandiera e l’unità dello Stato, Berlusconi organizzava la piazza contro i tribunali di Stato, la Corte costituzionale, il capo dello Stato. Anche il federalismo non ha preso, come negli Usa e in Germania, la forma dello Stato ma dell’attacco al cuore dello Stato. Avevamo avuto di tutto nella storia: mai lo statista che lavorava per demolire lo Stato. Quanto tempo ci vorrà per rilegittimare i servitori dello Stato, dai magistrati ai partiti politici, dagli insegnanti ai bidelli ai poliziotti senza soldi e con le volanti a secco?
E quante generazioni ci vorranno per restituire un po’ di valore all’università, alla scuola e alla cultura che Berlusconi ha depresso e umiliato: contro i maestri, contro gli insegnanti, contro tutti i dipendenti pubblici considerati la base elettorale del centrosinistra, e contro la scuola pubblica, contro il liceo classico visto come fucina di comunisti. E ha degradato la più grande casa editrice del Paese a strumento di propaganda (escono in questi giorni i saggi di Alfano, Sacconi, Bondi, Lupi....). Ha corrotto una grande quantità di giornalisti come mai era avvenuto. Ha definitivamente distrutto la Rai affidata ad una gang di male intenzionati che hanno manipolato, cacciato via i dissidenti, lavorando in combutta con i concorrenti di Mediaset. E con i suoi giornali e le sue televisioni ha sfigurato il giornalismo di destra che aveva avuto campioni del calibro di Longanesi e Montanelli. Con lui la faziosità militante è diventata macchina del fango. Testate storiche sono state ridotte a rotocalchi agiografici. E ha smoderato i moderati, ha liberato i mascalzoni dando dignità allo spavaldo malandrino, ai Previti e ai Verdini, ai pregiudicati, e c’è un po’ di Lavitola, di Lele Mora e di Tarantini in tutti quelli che gli stanno intorno, anche se ora li chiama traditori.
Berlusconi, che fu il primo a circondarsi di creativi, di geniacci come Freccero e Gori ha umiliato la modernità dei nuovi mestieri, della sua stessa comitiva, l’idea di squadra che all’esordio schierava a simbolo Lucio Colletti e alla fine ha schierato a capibranco Tarantini, Ponzellini, Anemone, Bisgnani, Papa, Scajola, Bertolaso, Dell’Utri, Verdini, Romani, Cosentino. Eroi dei giornali di destra sono stati Igor Marini e Pio Pompa. I campioni dell’informazione berlusconiana in tv sono Vespa, Fede e Minzolini. Persino il lessico è diventato molto più volgare, il berlusconismo ha introdotto nelle istituzioni lo slang lavitoilese, malavitoso e sbruffone. E’stato il governo del dito medio e del turpiloquio, è aumentato lo ’spread’tra la lingua italiana e la buona educazione.
E la corruzione è diventata sacco di Stato e basta pensare agli appalti per la ricostruzione dell’Aquila, assegnati tra le risate della cricca. Berlusconi ha dissolto "tutti i tradizionali e irrigiditi rapporti sociali, con il loro corollario di credenze e venerati pregiudizi. E tutto ciò che era solido e stabile è stato scosso, tutto ciò che era sacro è stato profanato". Persino la bestemmia è diventata simonia spicciola, ufficialmente perdonata dalla Chiesa in cambio di privilegi, scuole e mense. Toccò, nientemeno, a monsignor Rino Fisichella spiegare che, sì, la legge di Dio è legge di Dio, ma "in alcuni casi, occorre "contestualizzare" anche la bestemmia". E quanto ci vorrà per far dimenticare la diplomazia del cucù e delle corna, lo slittamento dal tradizionale atlantismo verso i paesi dell’ex Unione Sovietica, la speciale amicizia con i peggiori satrapi del mondo?
E mai c’era stata una classe dirigente maschile così in arretrato di femmina verrebbe da dire con il linguaggio dell’ex premier: femmina d’alcova, esibita e valutata come una giumenta, con il Tricolore sostituito con quella grottesca statuetta di Priapo in erezione che circolava - ricordate? - nelle notti di Arcore. Persino il mito maschile della donna perduta e nella quale perdersi, persino la malafemmina italiana è stata guastata da Berlusconi, ridotta a ragazza squillo della politica: l’utilitaria, il mutuo, seimila euro, l’appartamentino, un posto di deputato e forse di ministro per lucrare il compenso - "il regalino" - agli italiani.
Lo scandalo del berlusconismo non è stato comprare sesso in un mondo dove tutto è in vendita ma nel pagare con pezzi di Stato, nell’uso della prostituzione per formare il personale politico e selezionare la classe dirigente. E non è finita: se la prostituzione ha cambiato la politica, anche la politica ha cambiato la prostituzione. La Maddalena ha perso la densità morale che fu una forza della nostra civiltà, è diventata la scialba ragazzotta rifatta dal chirurgo ed educata dalla mamma-maitresse a darla via a tariffa.
Il berlusconismo è stato l’autobiografia della nazione per dirla con Croce, non un accidente della storia. Non basta certo una giornata solennemente normale per liberarcene. C’è bisogno di anni di giornate normali. E per la prima volta non saranno gli storici a mettere in ordine gli archivi di un’epoca. Ci vorranno gli antropologi per classificare il berlusconismo come involuzione della specie italiana, perché anche noi, che siamo stati contro, l’abbiamo avuto addosso: "Non temo il Berlusconi in sé - cantava Gaber - ma il Berlusconi in me".
Buongiorno Buonanotte
di Massimo Gramellini (La Stampa, 12 novembre 2011)
Oggi è il giorno che chiude un ventennio, uno dei tanti della nostra storia. E il pensiero va al momento in cui tutto cominciò. Era il 26 gennaio 1994, un mercoledì. Quando, alle cinque e mezzo del pomeriggio, il Tg4 di Emilio Fede trasmise in anteprima la videocassetta della Discesa In Campo. La mossa geniale fu di presentarsi alla Nazione non come un candidato agli esordi, ma come un presidente già in carica. La libreria finta, i fogli bianchi fra le mani (in realtà leggeva da un rullo), il collant sopra la cinepresa per scaldare l’immagine, la scrivania con gli argenti lucidati e le foto dei familiari girate a favore di telecamera, nemmeno un centimetro lasciato al caso o al buongusto.
E poi il discorso, limato fino alla nausea per ottenere un senso rassicurante di vuoto: «Crediamo in un’Italia più prospera e serena, più moderna ed efficiente... Vi dico che possiamo, vi dico che dobbiamo costruire insieme, per noi e per i nostri figli, un nuovo miracolo italiano». Era la televendita di un sogno a cui molti italiani hanno creduto in buona fede per mancanza di filtri critici o semplicemente di alternative. Allora nessuno poteva sapere che il set era stato allestito in un angolo del parco di Macherio, durante i lavori di ristrutturazione della villa. C’erano ruspe, sacchi di cemento e tanta polvere, intorno a quel sipario di cartone. Se la telecamera avesse allargato il campo, avrebbe inquadrato delle macerie.
Oggi è il giorno in cui il set viene smontato. Restano le macerie. La pausa pubblicitaria è finita. È tempo di costruire davvero
Il dramma della Liguria e dell’Italia: speculazioni edilizie e speculazioni finanziarie non sono “catastrofi naturali”
di Raniero La Valle (“domani”, 3 novembre 2011)
La catastrofe delle Cinque Terre (ma anche in Toscana) è una perfetta rappresentazione di quel genere letterario simbolico (e anche apocalittico) che attraverso la descrizione drammatizzata di un evento minore racconta una storia molto più reale e più vasta, o già accaduta o ancora da accadere. L’allegoria dell’alluvione delle Cinque Terre, a saperla leggere, rinvia al rischio che tutto il Paese faccia la stessa fine, travolto dal fiume in piena di una economia impazzita, abbandonato a se stesso da una politica insensata e investito dai detriti di grandi ricchezze trasformate in mine vaganti e intralci ai soccorsi.
Il disastro della Liguria non è infatti per niente una catastrofe naturale. Certo, ha piovuto. Ma il territorio era stato appaltato a un’economia selvaggia, controlli e regole erano saltati, a Monterosso una piscina definita “opera di pubblico interesse” era stata piazzata sugli scogli a picco sul mare, i torrenti erano stati interrati e i fiumi trasformati in discariche, la sabbia portata via per le costruzioni autostradali, il lavoro della difficile terra era stato abbandonato, perché “produrre un quintale di vino alle Cinque Terre costa come cento quintali in Romagna”: non è da ieri, dice lo scrittore Maurizio Maggiani sul quotidiano genovese, ma sono vent’anni che Monterosso non esiste più. L’istituzione del Parco è finita in ruberie e manette, e la nuova, unica risorsa su cui si è fatto affidamento è stato il turismo, dimensionato su cinque milioni di presenze all’anno, e la gente stessa si è snaturata, ha chiuso con la sua storia; l’occasione della loro vita è stata il bed and breakfast.
L’Italia è lo stesso. Non è solo che piove a dirotto sui mercati. È che le difese sono state azzerate, la politica ha mistificato l’interesse pubblico, si sono perse le distinzioni tra fuorilegge e persone per bene, la bufera si è abbattuta sul Paese e quel Berlusconi che doveva rifare l’Italia ora, con la cocciuta difesa del suo potere e con la sua “maggioranza”, ha finito per essere solo un superstite abbarbicato a un’inferriata messa di traverso alle acque, a fare da ostacolo ai soccorsi; e anche questo è un reato.
Ma, tolto questo ostacolo, che fare? C’è qualcuno che comincia ad avere il coraggio di dire che è tutto il sistema messo su negli ultimi trent’anni che è sbagliato, è il capitalismo post-novecentesco che è fallito. Chi ha detto che il debito è sacro e anzi, con la solita secolarizzazione dei concetti che è il vizio dell’Occidente, è “sovrano”? Chi ha detto che le leggi dei mercati, della speculazione finanziaria, dei bilanci in pareggio, sono leggi di natura? E chi ha detto che la trascendenza e la scarsità del denaro devono essere al centro di tutto? Secondo il prof. Salvatore d’Agata c’è una rivoluzione copernicana da fare. Sapendo la storia, ci dice che se non fossero stati dimenticati i debiti non si sarebbe usciti con Roosevelt dalla crisi del ’29. Con i bilanci in pareggio non si sarebbe vinta la guerra contro il nazismo, non ci sarebbe stato il piano Marshall e non sarebbero state ricostruite né l’Italia né l’Europa.
E come si permette “l’Europa” non solo di dirci che cosa dobbiamo fare entro domani, ma addirittura che cosa mettere nella nostra Costituzione, che ha finora resistito ad ogni oltraggio? Questa idea della crisi economica come catastrofe naturale a cui si deve dare una risposta obbligata secondo leggi di natura, è la sconfitta più cocente e finale di tutto l’illuminismo europeo.
Le classi dirigenti europee stanno infatti attuando alla lettera la tesi del grande economista reazionario Friedrich August von Hayek, secondo cui nessuna intelligenza può regolare la vita economica meglio di quanto lo possa fare il casuale gioco degli interessi privati, e secondo cui “l’uomo non è né sarà mai l’artefice del proprio destino”. Se qui il lavoro costa mille euro e in India dieci rupie, che ragione c’è di far sì che il lavoro resti in Italia?
La lettera della Banca centrale europea e la risposta ultraliberista del documento di Berlusconi non sono che la tomba dell’intelligenza europea, la resa alle imperscrutabili forze che, ben retribuite, ci governano, la rinunzia al cimento e alla responsabilità della politica. Troppo presto è stata liquidata la lezione del Novecento. E da lì occorre ripartire per costruire tutto di nuovo. Ci vogliono progettisti, architetti, capomastri ed operai, non certo rottamatori.
Raniero La Valle
P.S. È ora in libreria il mio “Quel nostro Novecento” (edizioni Ponte alle Grazie) che forse è un
promemoria utile per capire quello che accade.
L’uomo di legno sta bruciando
di Furio Colombo (il Fatto, 06.11.2011)
È uno strano evento, quasi un culto, che si compie ogni anno in America, nel deserto del Nevada. Migliaia di persone, famiglie, bambini, anziani, come in un esodo, si raccolgono in un punto convenuto, costruiscono una città, dai negozi alle scuole, dai pub all’ ospedale, dalla stazione dei bus al museo. E quando hanno finito e ogni cosa funziona, smontano e fanno scomparire tutto.
L’impegno collettivo, che prima era di fare bene e insieme, è di non lasciare traccia. Come se la città, che si chiama Black Rock City, non fosse mai esistita. L’ultimo atto creativo degli abitanti della città, un momento prima della scomparsa, è di bruciare il manichino di legno di un figura umana (Burning Man) come simbolo della sparizione completa che deve seguire la costruzione accurata.
Credo che il senso di questo grandioso happening (nell’agosto del 2011 Black Rock City ha raggiunto 50 mila abitanti) sia di rovesciare il principio scientifico “nulla si crea e nulla si distrugge”. Qui si tratta di educare i cittadini di un nuovo mondo all’idea che “tutto si crea e tutto si distrugge”.
NE HO PARLATO per cercare di spiegare certe vicende della nostra vita italiana che stiamo attraversando, indignati o conformisti, senza capire. È vero che il problema che ci tormenta in questo Paese è l’insopportabile dilatarsi nel tempo di vicende che sono finite, e dopo che l’uomo di legno in questione è già stato bruciato. Pensate a Berlusconi. L’ometto in questione continua ad aggirarsi impettito in spazi e tempi che non gli competono più, e mentre il suo pubblico più affezionato se ne sta andando.
A Cannes, l’altro giorno, sembrava un fantasma, i presenti guardavano attraverso di lui, senza vederlo. Alcune inquadrature, come quella di Obama e Merkel che discutono e gesticolano senza notare neppure per un istante la presenza di Berlusconi che ride lì accanto, sono esemplari.
L’uomo bruciato è una grande e drammatica intuizione americana: di lui e della sua città non resta niente. Quella intuizione ci dice che ci sono scadenze collettive che non sono la vita e la morte, non mimano il destino degli individui. Mimano, o meglio: rappresentano la vita pubblica, le successive vicende e stagioni di una comunità. Non provate il senso angoscioso che la Carta Costituzionale e i suoi valori, quelli per cui i prigionieri politici si facevano fucilare narrando nell’ultima lettera la necessità del loro sacrificio, si siano scontrati con una data di scadenza in cui al riconoscimento grato si sostituisce un acido e sarcastico rifiuto, con il linguaggio di Borghezio, la risata di La Russa, il dito di Bossi , il sarcasmo di Berlusconi, il fatto che uno come Maroni sia Ministro dell’Interno, libero di imprigionare immigrati per il reato di “clandestinita” che non esiste?
Intanto, come sapete, se Berlusconi non fosse scomparso (è’ scomparso, anche se ve lo fanno vedere ancora nei Tg, parola di tutti i partecipanti al G20 ) si sarebbe alacremente lavorato in Parlamento a vandalizzare anche la forma della Costituzione già offesa e abbandonata come ridicola carta straccia. Proprio mentre Berlusconi è diventato l’uomo bruciato, la Camera dei Deputati, con la sua ancora obbediente maggioranza, stava lavorando a frantumare l’art. 41 della Costituzione.
Però attenti a non pensare che la “data di scadenza” ci sia imposta da uno straniero occupante. Altrimenti come spiegare il selvaggio fenomeno detto “sgombero dei campi nomadi” evento sempre eseguito di notte terrorizzando i bambini, organizzato non solo da sindaci della destra ma anche, e non raramente, da sindaci eletti a sinistra o vicini al Pd? E i “respingimenti in mare”, eseguiti al tempo del Trattato con la complicità della Libia di Gheddafi, vere e proprie condanne a morte (affondamento o prigione nel deserto o restituzione al Paese da cui era cominciata la fuga disperata dei profughi)? Come spiegare la detenzione senza reato, senza sentenza, senza condanna, nei famigerati “Centri di Identificazione”, veri e propri lager che tutte le organizzazioni umanitarie ci rimproverano? Non dimentichiamoci che, in Europa, ci sono cacce aperte agli zingari, cacce sponsorizzate dai governi e sostenute dai cittadini, in Ungheria, Bulgaria, nella Repubblica Ceca. Non dimentichiamoci che i giornali del mondo (New York Times, 28 settembre 2011) danno notizie di “obbligo di lavori forzati per gli zingari”, organizzati in Paesi dell’Ue, nel silenzio quieto di tutti, cominciando dai parlamenti e dalle Chiese.
LA “DATA di scadenza” (lontano, finito il 1945) sta riportando, più o meno notato, un nuovo fascismo e un nuovo razzismo in Europa, sta già provocando i suoi danni di distacco dai sentimenti umani e civili della democrazia. Quando l ’uomo di legno avrà finito di bruciare, non sarà come nel deserto del Nevada. Resteranno carichi di scorie inquinanti. Chiunque si senta legato al giorno, al momento, allo spirito della Liberazione avrà un immenso lavoro da fare per restituire diritti umani a una Europa egoista e cieca. Subito. Prima che la scadenza deteriori i più giovani e li separi dalla memoria.
Ecco “Indignatevi”
“93 anni. È un po’ l’ultima tappa. La fine non è troppo lontana. Che fortuna poterne approfittare per ricordare ciò che ha fatto da fondamento al mio impegno politico”. Comincia così “Indignatevi!”, scritto dal partigiano Stephane Hessel, diventato un caso editoriale in Francia, e adesso proposto in Italia da Add Editore
Pubblichiamo l’appendice: l’appello dei Resistenti alle giovani generazioni, firmato dallo stesso Hessel nel 2004.
di Stephane Hessel (il Fatto, 22.02.2011)
Dal momento che vediamo rimesso in discussione il fondamento delle conquiste sociali della Liberazione, noi, veterani dei movimenti di Resistenza e delle forze combattenti della Francia libera (1940-1945) ci appelliamo alle giovani generazioni perché mantengano in vita e tramandino l’eredità della Resistenza e i suoi ideali sempre attuali di democrazia ed economia, sociale e culturale. Sessant’anni più tardi il nazismo è sconfitto, grazie al sacrificio dei nostri fratelli e sorelle della Resistenza e delle Nazioni Unite contro la barbarie fascista. Ma questa minaccia non è del tutto scomparsa, e la nostra rabbia contro l’ingiustizia è rimasta intatta.
IN COSCIENZA, noi invitiamo a celebrare l’attualità della Resistenza non già beneficio di cause partigiane o strumentalizzate da qualche posta in gioco politica, bensì per proporre alle generazioni che ci succederanno di compiere tre gesti umanitari e profondamente politici nel vero senso del termine, perché la fiamma della Resistenza non si spenga mai:
Ci appelliamo innanzitutto agli educatori, ai movimenti sociali, alle collettività pubbliche, ai creatori, agli sfruttati, agli umiliati, affinché celebrino insieme a noi l’anniversario del programma del Consiglio Nazionale della Resistenza (Cnr) adottato in clandestinità il 15 marzo 1944: Sécurité sociale e pensioni generalizzate, controllo dei “gruppi di potere economico”, diritto alla cultura e all’educazione per tutti, stampa affrancata dal denaro e dalla corruzione, leggi sociali operaie e agricole ecc. Come può oggi mancare il denaro per salvaguardare e garantire nel tempo conquiste sociali, quando dalla Liberazione, periodo che ha visto l’Europa in ginocchio, la produzione di ricchezza è considerevolmente aumentata? I responsabili politici, economici, intellettuali e la società nel suo complesso non devono abdicare, né lasciarsi intimidire dall’attuale dittatura internazionale dei mercati finanziari che minaccia la pace e la democrazia.
Ci appelliamo quindi ai movimenti, ai partiti, alle associazioni, alle istituzioni e ai sindacati eredi della Resistenza affinché superino le poste in gioco settoriali, e lavorino innanzitutto sulle cause politiche delle ingiustizie e dei conflitti sociali, e non soltanto sulle loro conseguenze, per definire insieme un nuovo “Programma della Resistenza” per il nostro secolo, consapevoli che il fascismo continua a nutrirsi di razzismo, di intolleranza e di guerra, che a loro volta si nutrono delle ingiustizie sociali.
CI APPELLIAMO infine ai ragazzi, ai giovani, ai genitori, agli anziani e ai nonni, agli educatori, alle autorità pubbliche perché vi sia una vera e propria insurrezione pacifica contro i mass media, che ai nostri giovani come unico orizzonte propongono il consumismo di massa, il disprezzo dei più deboli e della cultura, l’amnesia generalizzata e la competizione a oltranza di tutti contro tutti. Non accettiamo che i principali media siano ormai nella morsa degli interessi privati, contrariamente a quanto stabilito dal programma del Consiglio Nazionale della Resistenza e dalle ordinanze sulla stampa del 1944. A quelli e quelle che faranno il secolo che inizia, diciamo con affetto: Creare è resistere. Resistere è creare.
Intervento del Presidente Napolitano all’incontro su "La lingua italiana fattore portante dell’identità nazionale" nel 150 dell’Unità.
Palazzo del Quirinale, 21/02/2011 *
Questo nostro incontro non può chiudersi senza un caloroso ringraziamento, come quello che io voglio rivolgere alle prestigiose istituzioni il cui apporto ci è stato essenziale, al Presidente Amato e agli studiosi, i cui interventi hanno scandito un’intensa riflessione collettiva su aspetti cruciali del discorso sulla nostra identità e unità nazionale, e in pari tempo agli artisti le cui voci hanno fatto risuonare vive e a noi vicine pagine specialmente significative della poesia, della letteratura e della cultura italiana. Tra le figure dei primi e dei secondi, degli studiosi e degli interpreti, si è collocata - da tempo, come sappiamo, con straordinario ininterrotto impegno - quella di Vittorio Sermonti, dando voce alla Commedia di Dante.
Ringrazio dunque in egual modo tutti ; e non posso far mancare un vivo ringraziamento anche per chi ha curato la splendida raccolta, di alto valore bibliografico, da noi ospitata qui in Quirinale, di testi dei capolavori ed autori cari a Francesco De Sanctis. La cui storia ci appare più che mai rispondente al proposito - come poi disse Benedetto Croce - "di fare un grande esame di coscienza e di intendere la storia della civiltà italiana".
Non mi sembra eccessivo aggiungere - ed è il mio solo commento - che la iniziativa di questa mattina è risultata esemplarmente indicativa del carattere da dare alle celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, la cui importanza va ben al di là di ogni disputa sulle modalità festive da osservare o sulle diverse propensioni a partecipare manifestatesi. Come tutti hanno potuto constatare, non c’è stata qui alcuna enfasi retorica, alcuna esaltazione acritica o strumentale semplificazione.
Si è discusso sulla datazione del configurarsi e affermarsi di una lingua italiana e del suo valore identitario in assenza - o nella lentezza e difficoltà del maturare - di una unione politica del paese.
Senza nascondersi la complessità del tema della nazione italiana, delle sue più lontane radici e del suo rapporto col movimento per la nascita, così tardiva, di uno Stato nazionale unitario, si è messo in evidenza quale impulso sia venuto dalla forza dell’italiano come lingua della poesia, della letteratura, e poi del melodramma al crescere di una coscienza nazionale. Il movimento per l’Unità non sarebbe stato concepibile e non avrebbe potuto giungere al traguardo cui giunse se non vi fosse stata nei secoli la crescita dell’idea d’Italia, del sentimento dell’Italia. De Sanctis richiama Machiavelli che "propone addirittura la costituzione di uno grande stato italiano, che sia baluardo d’Italia contro lo straniero" e aggiunge : "Il concetto di patria gli si allarga. Patria non è solo il piccolo comune, ma è tutta la nazione". La gloria di Machiavelli - conclude De Sanctis - è "di avere stabilito la sua utopia sopra elementi veri e durevoli della società moderna e della nazione italiana, destinati a svilupparsi in un avvenire più o meno lontano, del quale egli tracciava la via".
Quell’avvenire era ancora molto lontano. Secoli dopo, nella prima metà dell’Ottocento, si sarebbe determinato - è ancora De Sanctis che cito, dal capitolo conclusivo della sua "Storia", - "il fatto nuovo" del formarsi "nella grande maggioranza della popolazione istruita", di "una coscienza politica, del senso del limite e del possibile" oltre i tentativi insurrezionali falliti, oltre "la dottrina del «tutto o niente»".
E se con il progredire della coscienza e dell’azione politica, si giunge a "fare l’Italia" nel 1861, fu tra il XIX e il XX secolo, come qui ci si è detto in modo suggestivo e convincente, che cominciarono a circolare libri capaci di proporsi "come strumenti di educazione e formazione della rinata Italia". Tuttavia, la strada da fare restò lunga.
A conferma della nostra volontà di celebrare il centocinquantesimo guardandoci dall’idoleggiare lo Stato unitario quale nacque e per decenni si caratterizzò, si è stamattina qui crudamente ricordato come solo nel primo decennio del ’900 - nel decennio giolittiano - si produsse una svolta decisiva per la crescita dell’istruzione pubblica, per l’abbattimento dell’analfabetismo, e più in generale, grazie alla scuola, per un progressivo avvicinamento all’ideale - una volta compiuta l’unità politica - di una lingua scritta e parlata da tutti gli italiani. Di qui anche lo sviluppo di una memoria condivisa nel succedersi delle generazioni.
Dopo quella svolta, il cammino fu tutto fuorché lineare - in ogni campo d’altronde, per le regressioni che il fascismo portò con sé. Ed è dunque giusto, nel bilancio dei 150 anni dell’Italia unita, porre al massimo l’accento su quel che ha rappresentato l’età repubblicana, a partire dall’approccio innovativo e lungimirante dei padri costituenti, che si tradusse nella storica conquista dell’iscrizione nella nostra Carta del principio dell’istruzione obbligatoria e gratuita per almeno otto anni. Molti princìpi iscritti in Costituzione hanno avuto un’attuazione travagliata e non rapida : ciò non toglie che essi abbiano ispirato in questi decenni uno sviluppo senza precedenti del nostro paese e che restino fecondi punti di riferimento per il suo sviluppo a venire.
Non idoleggiamo il retaggio del passato e non idealizziamo il presente. I motivi di orgoglio e fiducia che traiamo dal celebrare l’enorme trasformazione e avanzamento della società italiana per effetto dell’Unità e lungo la strada aperta dall’Unità, debbono animare l’impegno a superare quel che è rimasto incompiuto (siamo - ha detto Giuliano Amato - Nazione antica e al tempo stesso incompiuta) e ad affrontare nuove sfide e prove per la nostra lingua e per la nostra unità. E infatti anche di ciò si è parlato ampiamente nel nostro incontro guardando sia alle ricadute del fenomeno Internet sulla padronanza dell’italiano tra le nuove generazioni sia alle spinte recenti per qualche formale riconoscimento dei dialetti. Eppure, a quest’ultimo proposito, l’Italia non può essere presentata come un paese linguisticamente omologato nel senso di una negazione di diversità e di intrecci mostratisi vitali. E nessuno può pretendere,peraltro, di oscurare l’unità di lingua cosi faticosamente raggiunta.
Bene, in questo spirito possiamo e dobbiamo mostrarci - anche presentando al mondo quel che abbiamo costruito in 150 anni e quel che siamo - seriamente consapevoli del nostro ricchissimo, unico patrimonio nazionale di lingua e di cultura e della sua vitalità ; e seriamente consapevoli del duro sforzo complessivo da affrontare per rinnovare - contro ogni rischio di deriva - il ruolo che l’Italia è chiamata a svolgere in una fase critica, e insieme ricca di promesse, di evoluzione della civiltà europea e mondiale.
Ho detto "seriamente" : perché in fin dei conti è proprio questo che conta, celebrare con serietà il nostro centocinquantenario. Come avete fatto voi protagonisti di questo incontro. Ancora grazie.
* PRESIDENZA DELLA REPUBBLICA: http://www.quirinale.it/elementi/Continua.aspx?tipo=Discorso&key=2094
CHE SVEGLIA !!! "LUNGA VITA ALL’ITALIA": UNA PROPOSTA AL NOSTRO PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA E E UN APPELLO A TUTTI I CITTADINI E A TUTTE LE CITTADINE, PER LA CITTADINANZA ONORARIA a Huang Jianxiang - per il suo "URLO" !!! Sulle ragioni profonde della proposta, allego una mia ’vecchia’ lettera (fls)
L’ITALIA GIA’ DA TEMPO IN-TRAPPOLA-TA.................e noi - alla deriva - continuiamo a ’dormire’ , alla grande! "IO STO MENTENDO": UNA LETTERA APERTA SULL’USO E ABUSO ISTITUZIONALE DELL’ "ANTINOMIA DEL MENTITORE".
Cara ITALIA
MI AUGURO CHE LE GIUNGA DA LONTANO IL MIO URLO: ITALIA, ITALIA, ITALIA, ITALIA, ITALIA, ITALIA, ITALIA! IL NOME ITALIA E’ STATO IN-GABBIA-TO NEL NOME DI UN SOLO PARTITO....E I CITTADINI E LE CITTADINE D’ITALIA ANCHE!!!
NON E’ LECITO CHE UN PARTITO FACCIA PROPRIO IL NOME DELLA CASA DI TUTTI I CITTADINI E DI TUTTE LE CITTADINE! FERMI IL GIOCO! APRA LA DISCUSSIONE SU QUESTO NODO ALLA GOLA DELLA NOSTRA VITA POLITICA E CULTURALE! NE VA DELLA NOSTRA STESSA IDENTITA’ E DIGNITA’ DI UOMINI E DONNE D’ITALIA!
Cosa sta succedendo in Italia? Cosa è successo all’Italia? Niente, non è successo niente?! Semplicemente, il nome Italia è stato ingabbiato dentro il nome di un solo PARTITO e noi, cittadini e cittadine d’ITALIA, siamo diventati tutti e tutte cret... ini e cret..ine. Epimenide il cretese dice: "Tutti i cretesi mentono". E, tutti i cretini e tutte le cretine di ’Creta’, sono caduti e cadute nella trappola del Mentitore.... e, imbambolati e imbambolate come sono, si divertono persino. Di chi la responsabilità maggiore?! Di noi stessi - tutti e tutte!
Le macchine da guerra mediatica funzionano a pieno regime. Altro che follia!: è logica di devastazione e presa del potere. La regola di funzionamento è l’antinomia politico-istituzionale del mentitore ("io mento"). Per posizione oggettiva e formale, non tanto e solo per coscienza personale, chi sta agendo attualmente da Presidente del Consiglio della nostra Repubblica non può non agire che così: dire e contraddire nello stesso tempo, confondere tutte le ’carte’ e ’giocare’ a tutti i livelli contemporaneamente da presidente della repubblica di (Forza) Italia e da presidente del consiglio di (Forza) Italia, sì da confondere tutto e tutti e tutte... e assicurare a se stesso consenso e potere incontrastato. Se è vero - come ha detto qualcuno - che "considerare la politica come un’impresa pubblicitaria [trad.: un’impresa privata che mira a conquistare e occupare tutta l’opinione pubblica, fls] è un problema che riguarda tutto l’Occidente"(U. Eco), noi, in quanto cittadini e cittadine d’Italia, abbiamo il problema del problema, all’ennesima potenza e all’o.d.g.! E, per questo e su questo, sarebbe bene, utile e urgentissimo, che chi ha gli strumenti politici e giuridici (oltre che intellettuali, per togliere l’uso e l’abuso politico-istituzionale dell’antinomia del mentitore) decidesse quanto prima ... e non quando non c’è (o non ci sarà) più nulla da fare. Se abbiamo sbagliato - tutti e tutte, corriamo ai ripari. Prima che sia troppo tardi!!!
ITALIA! La questione del NOME racchiude tutti i problemi: appropriazione indebita, conflitto di interessi, abuso e presa di potere... in crescendo! Sonnambuli, ir-responsabili e conniventi, tutti e tutte (sia come persone sia come Istituzioni), ci siamo fatti rubare la parola-chiave della nostra identità e della nostra casa, e il ladro e il mentitore ora le sta contemporaneamente e allegramente negando e devastando e così, giocati tutti e tutte, ci sta portando dove voleva e vuole ... non solo alla guerra ma anche alla morte culturale, civile, economico-sociale e istituzionale! Il presidente di Forza Italia non è ...Ulisse e noi non siamo ... Troiani. Non si può e non possiamo tollerare che il nome ITALIA sia di un solo partito... è la fine e la morte della stessa ITALIA!
La situazione politica ormai non è più riconducibile all’interno del ’gioco’ democratico e a un vivace e normale confronto fra i due poli, quello della maggioranza e quello della minoranza. Da tempo, purtroppo, siamo già fuori dall’orizzonte democratico! Il gioco è truccato! Cerchiamo di fermare il ’gioco’ e di ristabilire le regole della nostra Costituzione, della nostra Legge e della nostra Giustizia. Ristabiliamo e rifondiamo le regole della democrazia. E siccome la cosa non riguarda solo l’Italia, ma tutto l’Occidente (e non solo), cerchiamo di non andare al macello e distruggerci a vicenda, ma di andare avanti .... e di venir fuori da questa devastante e catastrofica crisi.
Io, da semplice cittadino di una ’vecchia’ Italia, penso che la logica della democrazia sia incompatibile con quella dei figli di "dio" e "mammasantissima" che si credono nello stesso tempo "dio, papa, e re" (non si sottovaluti la cosa: la questione è epocale e radicale, antropologica, teologica e politica - e riguarda anche le religioni e la stessa Chiesa cattolica) si danno da fare per occupare e devastare le Istituzioni! Non si può tornare indietro e dobbiamo andare avanti.... laici, cattolici, destra, sinistra, cittadini e cittadine - tutti e tutte, uomini e donne di buona volontà. Allora facciamo che il gioco venga fermato e ... e che si apra il più ampio e diffuso dibattito politico e culturale - si ridia fiducia e coraggio all’ITALIA, e a tutti gli Italiani e a tutte le Italiane. E restituiamo il nome e la dignità all’ITALIA: a noi stessi e a noi stesse - in Italia e nel mondo...... cittadini e cittadine della Repubblica democratica d’Italia. Un semplice cittadino della nostra bella ITALIA!
Federico La Sala
WWW.ILDIALOGO.ORG/FILOSOFIA, Mercoledì, 05 aprile 2006
Da settembre in 4 istituti superiori. Una preside: investimento per il futuro, una chance in più per gli studenti
E il cinese sbarca nei licei di Roma corsi per imparare il mandarino
di PAOLO BOCCACCI e ANGELA MARIA ERBA
(www.repubblica.it, 21.07.2006)
Una scuola media di Roma ROMA - All’inizio sarà difficile. Anche copiare. Niente a che vedere con "rosa rosae" o aoristi greci. Questa volta sui quaderni si materializzeranno complicati ideogrammi. L’onda lunga dell’Oriente arriva tra i banchi dei licei. Il cinese sbarca nelle scuole di Roma e dal prossimo anno scolastico gli studenti di alcuni istituti superiori avranno la possibilità di imparare, oltre alle lingue europee, anche quella di Pechino. E l’esperimento potrebbe poi essere esteso alle medie inferiori e addirittura nelle elementari. "Dopo due anni di sperimentazione, l’iniziativa, che nasce dalla collaborazione tra la facoltà degli Studi orientali dell’università La Sapienza e la Regione Lazio, partirà in via ufficiale a settembre" spiega Federico Masini, preside della facoltà, unica in Italia, che ha sede nel cuore dell’Esquilino, "Al momento sono già quattro le scuole che hanno deciso di inserire il progetto nella loro offerta formativa e tante altre che ci hanno contattato perché interessate alla proposta".
Dall’alfabeto latino agli ideogrammi, dunque, il cinese diventerà materia di studio per i ragazzi del liceo linguistico Catullo, il linguistico e tecnico commerciale Lombardo Radice, il classico Montale e il linguistico-pedagogico delle Suore Angeliche di San Paolo. Per tutti gli studenti che intenderanno proseguire il percorso didattico nella facoltà degli Studi Orientali è previsto un sistema di credito che scatterà agli esami del primo anno.
"Il mercato guarda alla Cina e i giovani sembrano averlo capito visto che solo lo scorso anno le matricole iscritte al corso di lingua cinese sono state 220" continua Masini, "si tratta di un fenomeno che in Italia si è materializzato un po’ tardi ma che è progressivamente in crescita".
"È un investimento per il futuro, una chance in più che vogliamo offrire ai nostri studenti" racconta Rosalia Di Piazza, la preside del Lombardo Radice che ha deciso in questi giorni di firmare la convenzione. "Leggiamo continuamente dell’invasione commerciale da oriente e non possiamo non tener conto del fatto che ormai gli orizzonti professionali si stanno allargando sempre più verso est. Attraverso un’informazione capillare crediamo di ottenere una certa adesione da parte dei giovani".
Sarà una scelta degli alunni decidere se partecipare o no al corso, che è extracurriculare, non si tiene cioè nel normale orario scolastico, ma che consentirà comunque di ottenere dei crediti e sarà quindi determinante nella votazione finale.
E intanto per il prossimo settembre è prevista anche l’inaugurazione presso la Sapienza dell’istituto Confucio, uno dei 70 centri mondiali sostenuti dal ministero dell’Istruzione cinese per diffondere la lingua in tutto il mondo e che avrà come obiettivo primario quello di divulgare il cinese nelle scuole pubbliche. Una cooperazione, quella tra Roma e Pechino, che funzionerà anche in senso contrario: il 18 settembre, infatti, il presidente della Regione Piero Marrazzo si recherà in visita al campus universitario della capitale cinese per promuovere corsi di lingua e cultura italiani e far conoscere l’offerta formativa delle università del Lazio. (21 luglio 2006)
Firmato protocollo d’intesa Italia-Cina.
da dsonline.it, 13 Novembre 2006
Entra oggi nel vivo la missione cinese del ministro degli Esteri Massimo D’Alema, arrivato nel fine settimana a Pechino con l’obiettivo di dare più slancio agli scambi tra i due paesi. Il vicepremier ha incontrato il primo ministro Wen Jiabao e il ministro degli Esteri Li Zhaoxing, dopo aver visto il ministro dell’amministrazione di Stato per il Patrimonio culturale, Shan Jixiang e il direttore dl Dipartimento internazionale del Partito comunista cinese, Wang Jiarui.
«Abbiamo molte cose da fare insieme e non intendiamo alimentare la paura verso la Cina ma spingere invece il sistema produttivo italiano a impegnarsi per cogliere questa grande opportunità». Così il titolare della Farnesina ha presentato alla stampa, insieme al suo omologo Li Zhaoxing, il protocollo di intesa sottoscritto al termine della seconda riunione congiunta del comitato governativo Italia-Cina.
Una soddisfazione, quella mostrata dal ministro italiano, che si rispecchia anche nelle parole di Li Zhaoxing, che ha riaffermando «le ampie visioni comuni» dei due Stati, ha fatto notare che «le relazioni tra Cina e Italia stanno vivendo il periodo migliore della loro storia».
Il documento sottoscritto oggi in sostanza elenca un maggiore dettaglio di campi in cui la collaborazione si materializzerà, demandando poi a tavoli bilaterali la risoluzione sugli aspetti operativi. Nell’accordo si conferma l’impegno, preso durante la missione del settembre scorso del premier Prodi, per un raddoppio nei prossimi cinque anni del volume dell’interscambio, con l’obiettivo di un graduale riequilibrio della bilancia commerciale, in questo momento fortemente a favore dei prodotti cinesi e con un forte impulso degli investimenti reciproci. La parte cinese auspica che le imprese italiane partecipino attivamente in particolare allo sviluppo della parte occidentale e del centro del Paese, alla riconversione della vecchia base industriale nel nordest e alla crescita delle campagne.
Il governo cinese ha individuato nel turismo, la logistica, i trasporti, la scienza della vita, la meccatronica, i campi in cui è possibile accrescere gli investimenti verso l’Italia e la delegazione italiana da questo punto di vista ha auspicato che il flusso maggiore sia indirizzato al centro-sud. E’ stata individuata inoltre la localizzazione di parchi industriali dove favorire l’insediamento delle piccole e medie imprese italiane, in particolare nella città di Tianjin, Shanghai e nella provincia del Guangdong.
Una particolare sottolineatura è stata posta dagli italiani alla necessità di sviluppare di più la tutela della proprietà intellettuale: come è noto in Cina è particolarmente sviluppata la produzione di beni clone, griffati con i maggiori marchi italiani. Il forte sviluppo infrastrutturale in atto in Cina attrae l’interesse italiano, che ha concordato oggi la partecipazione ai programmi cinesi, in particolare nel settore delle ferrovie, dei sistemi di misura e diagnostica, nelle telecomunicazioni e nella tecnologia e il know-how per la realizzazione di gallerie ferroviarie.
Nel protocollo un capitolo importante è stato dedicato alla collaborazione verso insediamenti e servizi urbani in Cina. La sostenibilità ambientale ed energetica è un argomento particolarmente sentito in Cina, oltre a quello collegato del recupero urbano e dei trasporti. I porti e la logistica in Italia sono in questo contesto di sviluppo dell’interscambio l’elemento determinante che richiama il governo italiano al potenziamento delle infrastrutture sul proprio territorio, mentre i cinesi si augurano che le loro merci possano godere di facilitazioni doganali maggiori.
Altri punti toccati dall’accordo sono il settore agroalimentare e la cooperazione allo sviluppo attraverso i crediti di aiuto. L’Italia sta finanziando programmi sanitari, di protezione dei beni culturali, ambientali, di formazione professionale e di sviluppo rurale per circa 140 milioni di euro. Anche il settore aeronautico sembra destinato ad essere una voce importante nel rapporto tra i due Paesi. Nel protocollo firmato oggi si citano esplicitamente accordi per acquisto di elicotteri Augusta e aerei ATR, attraverso uno sviluppo della collaborazione con il consorzio italo-francese.
Nel documento si richiama l’attenzione anche sul settore orafo-argentiero e sulle caratteristiche produttive in questo campo dei due Paesi. Uno, l’Italia per il design e l’altro, la Cina, tra i più importanti produttori di oro e metalli preziosi al mondo.
La cultura, l’educazione, lo sport, i media, il turismo, l’istruzione e la formazione sono capitoli specifici su cui Italia e Cina intendono rafforzare i rapporti. In arrivo a Pechino vengono segnalati il ministro della Salute Livia Turco e in febbraio il ministro dei Beni culturali e vice premier Francesco Rutelli. Novità anche per le adozioni: i due Paesi hanno auspicato la pronta firma di un accordo e l’invio di una missione tecnica cinese in Italia.
In un breve discorso rivolto a una platea di funzionari e imprenditori italiani, ieri sera, D’Alema aveva ricordato che l’Italia è il paese europeo che ha sofferto di più della competizione cinese, «per la scarsa innovazione della nostra economia fondata sull’industria manifatturiera». Nel 2005 il nostro paese è stato per la Cina il 19esimo partner commerciale, con un disavanzo, a nostro svantaggio di oltre nove miliardi di euro. Compriamo molto più di quanto vendiamo. «Siamo in credito verso i cinesi e dovremo cercare ora di invitarli a investire in Italia per ristabilire una parità», ha sintetizzato il titolare della Farnesina.
Accanto al protocollo di collaborazione economica, nella riunione del comitato Italia-Cina sono stati affrontati altri importanti temi, quale quello delicato riguardate il rispetto dei diritti umani. «Abbiamo incoraggiato gli amici cinesi - ha detto D’Alema - a dialogare con l’Unione europea su tutti i temi, compresi i diritti umani, la modernizzazione delle istituzioni e il rafforzamento dello Stato di diritto». Il vicepremier ha espresso la convinzione che «si potrà stabilire così quel rapporto con l’Ue, forte e strategico in un mondo multilaterale con più forti istituzioni internazionali e un più equilibrato governo della globalizzazione economica».
La Cina supera le previsioni. Pil 2006 a quota 10,7%
di Gianluigi Torchiani (www.ilsole24ore.com, 25 novembre 2006)
Il 2006 potrebbe concludersi con una crescita dell’economia cinese ancora più sostenuta di quella ipotizzata negli scorsi mesi: secondo Yao Jingyuan, portavoce dell’ufficio nazionale di statistica, il Prodotto Interno lordo nazionale potrebbe arrivare a toccare un aumento del 10,7% nell’ultimo anno solare, contro il 10,4% previsto dalla banca mondiale appena pochi giorni fa.
Ma secondo un rapporto elaborato da Bnp Paribas Peregrine, nei prossimi anni anche l’economia cinese è destinata a rallentare la sua corsa, in coincidenza con la crescita meno sostenuta a livello globale: già l’anno prossimo l’aumento del Pil di Pechino dovrebbe scendere al 9,6% per poi arrivare al 7,9% nel 2009. A moderare i loro continui progressi saranno anche le esportazioni, gli investimenti, e sarà pure possibile un certo apprezzamento del Remimbi nei confronti del dollaro (nell’ordine del 3-5%). Il futuro rallentamento cinese non è però collegabile al recente attivismo delle nuove tigri asiatiche (India e Vietnam in testa) quanto piuttosto, come accennato prima, all’andamento dell’economia globale e soprattutto americana, di cui già oggi si colgono i primi segnali di affanno e che saranno evidenti a partire dall’inizio del 2007. Le esportazioni cinesi, in particolare, sono molto condizionate dallo stato di salute del sistema produttivo statunitense.
Lo scenario ipotizzato dal rapporto Bnp Paribas non spaventa però i dirigenti della Repubblica Popolare, che sono da tempo piuttosto preoccupati per un possibile eccesso di surriscaldamento dell’economia causato da una crescita fuori controllo. Nei prossimi tre anni, prevede Bnp, il governo cinese sarà perciò impegnato nel risolvere i problemi strutturali dell’economia cinese, quali la corruzione, l’eccesso di risparmio della popolazione, l’insufficiente spesa sociale. In sintonia con i propositi egalitari del presidente Hu Jintao, i dirigenti economici punteranno dunque per una politica sociale più decisa, con aumento dei salari minimi, protezione dei lavoratori e promozione dello sviluppo nelle regioni occidentali (di cui già si coglie qualche segnale nel biennio 2005-06): tutti provvedimenti che andranno a incidere sul costo del lavoro, differenziando ancora di più la situazione cinese rispetto a quella dei paesi asiatici emergenti. Gli imprenditori italiani che vorranno investire nel gigante asiatico, sottolinea Bnp, faranno bene a non puntare troppo sul risparmio in termini di manodopera, quanto piuttosto su nuovi settori come le energie alternative, la protezione ambientale, i servizi educativi e di intrattenimento, destinati a conoscere una forte espansione in Cina nei prossimi anni.
Napolitano guarda all’Asia: l’Occidente si apra, non è superiore *
Siamo lontani da Berlusconi e ai suoi proclami: "L’occidente è superiore" è uno slogan che non va più di moda. I paesi occidentali devono aprirsi alla conoscenza della cultura dei paesi asiatici «senza presumere di essere portatori di una civiltà superiore». A dirlo è la più alta carica dello Stato, il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano.
Chiudendo la giornata dell’Asia e del Pacifico a Villa Madama, il Capo dello Stato ha parlato di «secondo scambio fra le nostre culture non trascurando anche la dimensione religiosa» e ha ribadito che in questo dialogo con le culture orientali l’Italia e l’Europa «possono immettere un ricco patrimonio: un patrimonio antico e recente di civiltà» che si riassume «nell’imperio del diritto, nel rispetto del pluralismo, nel riconoscimento dei diritti individuali e collettivi e nella fedeltà ai principi di libertà e di democrazia e nell’economia sociale di mercato».
Ma se l’Occidente «non rinuncia a tali valori - ha aggiunto Napolitano - dobbiamo tuttavia disporci al confronto senza vecchie presunzioni e senza devianti e paralizzanti timori. Senza presumere cioè - ha sottolineato - di essere portatori, come occidentali, di una civiltà superiore e aprendoci invece a un maggiore sforzo di conoscenza di civiltà non meno ricche, come la recente significativa letteratura sui valori asiatici ci induce a comprendere». L’invito del presidente della Repubblica, è quello, già tante volte ribadito di «non cedere ad atteggiamenti difensivi e ad anacronistiche tentazioni protezionistiche in campo economico, ma anche a guardinghe chiusure in campo culturale».
Napolitano condivide ampiamente l’impegno dichiarato dal ministro degli Esteri Massimo D’Alema di una rinnovata e rafforzata attenzione del nostro Paese per questa zona del mondo. Deve essere, dice il presidente della Repubblica, «non solo l’impegno di un governo, ma l’impegno permanente e di lungo periodo cui è chiamata l’Italia nel suo complesso. Non possono esservi a questo proposito contrapposizioni di parte». L’interesse di tutto il Paese ad accettare le sfide che vengono dall’Asia e a cogliere le opportunità per il nostro Paese, afferma Napolitano, deve diventare una costante della politica estera italiana, così come lo è diventato l’europeismo.
Subito dopo la seconda guerra mondiale, ricorda il capo dello Stato, «riprendendo il suo posto tra le grandi democrazie, l’Italia assunse come ancore e punti di riferimento fondamentali della sua collocazione internazionale l’alleanza con gli Stati Uniti e l’adesione al processo di integrazione europea, ma senza rinchiudersi in un esclusivo orizzonte euro-atlantico». Tanto meno, aggiunge, potrebbe farlo adesso di fronte alla nuova realtà economica, politica e tecnologica che si è affermata in Oriente. L’Italia anzi «si sente di dover attivamente contribuire a una effettiva apertura e a un conseguente impegno verso le nuove realtà dell’Asia e del Pacifico dell’Europa nel suo complesso, dell’Ue che dovrà giungere al più presto a parlare con una sola voce».
È uno «spostamento di accento», verso l’Asia, motivato dalla crescita impetuosa di quelle economie che ci pone di fronte a «sfide a cui non possiamo sottrarci». Sfide che mettono alla prova assetti produttivi e livelli di benessere, ma offrono anche «ricche e inedite prospettive». L’apertura a quest’area però, sottolinea Napolitano, non può essere sul piano esclusivamente economico e tecnologico. «Si sbaglierebbe a non dare il giusto peso all’esigenza di un pieno riconoscimento dei paesi di questa fondamentale regione come protagonisti della politica internazionale, come attori di prima grandezza delle relazioni internazionali». Dunque bisogna aprirsi al confronto e bisogna farlo, come detto, senza presunzione e senza sentirci «come occidentali, portatori di una civiltà superiore». Dobbiamo invece confrontarci riaffermando i nostri valori, quelli recentemente riassunti nella nuova costituzione per l’Europa, «senza vecchie presunzioni e senza devianti e paralizzanti timori».
* l’Unità, Pubblicato il: 30.11.06 Modificato il: 30.11.06 alle ore 15.01
Centrodestra in piazza "Contro il regime di Prodi"
LA DIRETTA. La protesta di Forza Italia, An e Lega. "Finanziaria di regime". Partono i tre cortei, alle 17 i comizi a San Giovanni. Bonaiuti: "Berlusconi è caricatissimo". In strada striscioni, pupazzi e cartelli contro il governo. Il premier: "Non sono preoccupato". L’Udc a Palermo. Buttiglione: "La Cdl è morta"
Cdl in piazza, Buttiglione attacca "Aiutiamo Berlusconi a uscire di scena"
Cicchitto: "Niente scuse, è stato solo un equivoco". Il Manifesto sui pass per la stampa: "Inaudito, sono mezzi di propaganda"
Il presidente della Repubblica ha salutato al Quirinale gli atleti italiani
"La decisione di assegnare le Olimpiadi alla Cina ha grande valore storico"
Napolitano agli azzurri olimpici
’Liberi per aiutare i diritti umani’
Antonio Rossi ha ricevuto la bandiera dalle mani del capo dello Stato
Lucio Dalla ha cantato l’inno degli azzurri. L’emozione degli atleti
di MASSIMO RAZZI *
ROMA - Finisce con Antonio Rossi, il grande canoista, visibilmente emozionato, la bandiera in mano, che ascolta il presidente parlare di diritti umani e della "la libertà di partecipazione attiva" che è "il miglior contributo che lo sport può dare alla causa dei diritti umani". Finisce così, la festa di oggi al Quirinale e parte da qui, dai giardini del palazzo sul Colle l’avventura azzurra alle Olimpiadi di Pechino. Parte dallo scambio di battute tra il presidente del Coni, Petrucci e Napolitano sul "diritto alla sconfitta" e la voglia di vittorie, parte sulle note dell’inno composto e cantato da Lucio Dalla: "Un uomo solo può vincere il mondo". Parte, soprattutto, da quei duecento ragazzi e ragazze (a Pechino saranno più di 300) seduti sulle seggiole di plastica sotto il grande platano. Alcuni sono famosi, famosissimi come Andrew Howe, Sebastian Giovinco, Igor Cassina, Vanessa Ferrari, Alessia Filippi e Alessandra Sensini, altri quasi nessuno li conosce. Alcuni tra questi diventeranno notissimi fra un mese perché, forse, vinceranno le medaglie italiane a Pechino.
Una cerimonia semplice, anche se, per la prima volta, gli atleti azzurri sono stati portati fino al Quirinale in parata, sui bus scoperti come si usa ormai con i campioni da osannare. Lungo il tragitto dallo stadio Olimpico al Colle hanno ricevuto gli applausi della gente per strada. Petrucci, nel suo breve discorso, ha sostenuto il concetto davvero decoubertiano del "diritto alla sconfitta", ma, ovviamente, ha chiesto e, in fondo, previsto, un buon numero di medaglie. Napolitano, si diceva, gli fa notare che "quella parola lì che non voglio pronunciare, va bene.." ma anche le vittorie non guasteranno. Già che c’è ribadisce il suo punto di vista sul "finanziamento automatico" allo sport "che ho già sostenuto, ma che posso solo auspicare". Petrucci abbozza, sorride e gli regala una tuta della nazionale con la scritta "Giorgio" sulla schiena.
Rossi, davvero sente il suo ruolo quando il presidente gli consegna la "bandiera tricolore con asta" (così la definisce il protocollo ufficiale) e quando, subito dopo, presenta i capitani delle squadre di specialità al presidente della Repubblica.
E sorride, il plurimedagliato canoista, quando Dalla canta l’inno appositamente composto per la squadra olimpica azzurra. Lo sentiremo all’inizio e alla fine di ogni trasmissione Rai da Pechino e in chissà quante altre occasioni. Parla di un "uomo solo" che "può vincere il mondo". Dalla è contento di aver composto ("è la prima volta che mi capita") un inno e di cantarlo nei giardini del Quirinale davanti a Napolitano: ""Mi lusinga, presidente, cantarlo qui davanti a lei che, in fondo, rappresenta tutta l’Italia".
E mentre Dalla canta, i ragazzi sulle seggiole di plastica, costretti, fino a quel momento a un’intimidita immobilità, prendono vita, sorridono e battono il tempo. C’è la Filippi, bionda e apparentemente sempre più alta, la più sicura nel dare la mano al capo dello Stato con un gesto quasi affettuoso, l’affascinante pallavolista Gioli e Galiazzo, l’arciere di Atene seduto tra la bionda tiratrice Torresin e la rossa triatleta Charlotte Bonin. Chissà se, questa volta, a Pechino, Galiazzo trova l’anima gemella.
I ragazzi ascoltano attenti Napolitano che parla di cose molto serie: "La decisione del Cio di far ospitare alla Cina i prossimi Giochi non è stata facile ma assume un grande valore storico per una piena integrazione di questa grande nazione nella comunità internazionale". La Sensini, nel prologo, interrogata sul tema da Sandro Bragagna, dice: "Le Olimpiadi hanno fatto sì che situazioni non belle siano venute a galla sotto gli occhi del mondo. Già questo è positivo. Speriamo che chi di dovere intervenga". Ha ragione, la grande velista azzurra (38 anni, alla quarta Olimpiade, due bronzi e un oro nel suo palmares): i ragazzi sulle seggiole di plastica con la maglietta azzurra e la scrItta "Italia" un po’ psichedelica hanno le idee abbastanza chiare. Forse anche più di quanto si pensi: "Andremo a gareggiare - vogliono far sapere - E ad aiutare la causa dei diritti umani. Ma non strumentalizzateci, si va a Pechino per correre e saltare, non per predicare".
Lucio Dalla li saluta: "Vai... vai... vai...il tuo cuore non si ferma mai.. Ti porterà in mezzo al cielo tra le stelle. E la tua stella è quella là, la più lucida e più bella, quella della libertà".
* la Repubblica, 7 luglio 2008
Inquinamento in calo del 20%
Pechino 2008, la Cina presenta i suoi 639 atleti
Squadra da record per il Paese che ospiterà i Giochi Olimpici. Assalto ai botteghini, trentamila in coda per i biglietti. La polizia ha arrestato un giornalista che avrebbe dato un calcio a un agente. Nel villaggio spazi di preghiera per ogni fede religiosa (Guarda il video)
Pechino, 25 lug. -(Adnkronos/Ign)- Il Comitato Olimpico Cinese ha annunciato che il Paese prenderà parte ai Giochi con una squadra record di 639 atleti contro i 570 previsti inizialmente. (Guarda il video) "I nostri ragazzi hanno un’età media di 24 anni e 469 di questi gareggeranno per la prima volta in una Olimpiade", ha precisato il ministro dello Sport cinese, Liu Peng. La squadra al completo, inclusi allenatori e funzionari, sarà composta da 1.099 persone. Gli Stati Uniti hanno annunciato l’invio di 596 atleti e la Russia di 470.
Intanto si sarebbero formate lunghe code allo Stadio Olimpico e agli altri punti vendita per aggiudicarsi i biglietti per gli eventi di Pechino 2008 in programma nella capitale. Trentamila persone hanno letteralmente preso d’assalto i botteghini per comprare gli ultimi 250.000 biglietti.Le forze dell’ordine hanno dovuto predisporre speciali misure di sicurezza per evitare che la situazione degenerasse. La polizia ha arrestato un giornalista di Hong Kong che secondo le autorità lavorerebbe per il South China Morning Post. Il reporter sarebbe finito in manette per aver colpito un agente con un calcio. Il giornalista avrebbe ammesso le proprie responsabilità, mentre il poliziotto sarebbe stato trasportato in ospedale e sottoposto ai controlli.
Le code, che sono arrivate a snodarsi per due chilometri, non sono state un’esclusiva della capitale. Secondo l’agenzia di stampa Xinhua, il record di pazienza sarebbe stato stabilito dal "signor Xu Yongheng". L’uomo avrebbe raggiunto il botteghino con 48 ore di anticipo rispetto all’apertura, ma sarebbe stato ripagato dall’onore di essere stato il primo ad acquistare i preziosi ticket.
Ormai tutto è pronto. Il villaggio olimpico di Pechino 2008 aprirà i battenti domenica e si prepara a ospitare 16.000 tra atleti e dirigenti provenienti da oltre duecento nazioni. In linea con le norme del Comitato olimpico internazionale, sono state considerate anche le esigenze degli atleti religiosi. Nella struttura appositamente realizzata, sono previsti spazi di preghiera per tutti i principali culti.
Per rendere ancora più accogliente la visita durante le Olimpiadi di Pechino, sono state varate alcune misure antinquinamento che hanno già dato i primi frutti. Secondo fonti governative nel mese di luglio il livello di polveri sottili sarebbe calato del 20% e l’aria, precisano le autorità locali, sarebbe già oggi molto più respirabile.