COLLOQUIO CON IL COSTITUZIONALISTA PIER ALBERTO CAPOTOSTI
Camere, sul voto Berlusconi ha ragione
ma è alto il rischio del «corto circuito»
«La Costituzione dice che occorre l’accordo tra Napolitano e il presidente del Consiglio» *
MILANO - «Per interrompere la legislatura occorre che il presidente Napolitano consulti sia i presidenti delle Camere che il presidente del Consiglio, cioè Silvio Berlusconi». A parlare in questi termini, al telefono con Mattino5, è lo stesso presidente del Consiglio. Come dire: «Per mandarmi a casa, io devo essere d’accordo». Questo perché l’articolo 89 della Costituzione recita: «Gli atti che hanno valore legislativo e gli altri indicati dalla legge sono controfirmati anche dal Presidente del Consiglio dei Ministri».
Ma per cercare di capire meglio i vari passaggi istituzionali in queste situazioni abbiamo chiesto numi al giurista Piero Alberto Capotosti. Professore ordinario di Giustizia costituzionale dell’Università La Sapienza di Roma, 69 anni, Capotosti dal 1994 al 1996 è stato vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura, espressione di un’area politica vicina al Partito Popolare Italiano di Mino Martinazzoli.
Allora professore, se Berlusconi non fosse d’accordo sullo scioglimento delle Camere si va avanti?
«Fino ad ora è stato così. La dottrina considera questo atto come un atto complesso nel quale rientra sia la volontà del presidente della Repubblica che quella del presidente del Consiglio. Lo scioglimento deriva dall’accordo dei due soggetti. Mentre i presidenti delle Camere esprimono soltanto un parere non vincolante, viceversa il presidente del consiglio dei Ministri ha questa funzione importante di vincolare con la sua controfirma la scelta del Capo dello Stato». Cioè devono arrivare ad un accordo, ad una intesa. «Questo fino ad ora è sempre avvenuto».
Ma c’è sempre una prima volta...
«Può accadere che il presidente del consiglio dei Ministri, come avvenne con il governo Craxi quando Scalfaro sciolse le Camere, firmi di controvoglia, però deve controfirmare».
E se invece Berlusconi non controfirmasse?
«In quel caso la legislatura resterebbe in piedi e la strada, tutta teorica, potrebbe essere quella di un ricorso alla corte Costituzionale, come avvenne quando Ciampi si trovo in materia di Grazia di fronte al "no" dell’allora ministro della Giustizia. Però i tempi sarebbero lunghi».
C’è il rischio di un «corto circuito istituzionale», non crede?
«Se pensiamo alla logica del passato dal ’53 ad oggi c’è sempre stata questa intesa tra presidente della Repubblica e presidente del consiglio dei Ministri in carica, quindi riferiamoci alla teoria: il presupposto per lo scioglimento anticipato delle Camere è la paralisi delle Camere stesse. Ammettendo che questa sia la situazione odierna, dire che c’è "un’emergenza "non legittimerebbe comunque il capo dello Stato a fare a meno della controfirma del presidente del consiglio dei Ministri. Questo perché i nostri costituenti (nel ’47) non hanno previsto "situazioni d’emergenza". E non hanno previsto poteri eccezionali per il capo dello Stato proprio per evitare tentazioni autoritarie. In questa situazione è meglio evitare forzature». Ma che Berlusconi parli del «suo consenso» è irrituale? Non è come mettere le mani avanti?
«È chiaro, lui mette le mani avanti perché è pronto a fare le barricate evidentemente. Così afferma "non metterò la firma"».
E nell’ipotesi che dall’esito del processo immediato nel caso Ruby arrivasse una condanna all’interdizione dai pubblici uffici e Berlusconi continuasse a rifiutarsi di controfirmare?
«In quel caso sarebbe una condanna accessoria, non definitiva... In realtà lei ha ragione nel parlare di "cortocircuito" perché fino a quando lui non si dimette o spontaneamente o perché gli viene revocata la fiducia dal Parlamento, in realtà è difficilmente... salvo forzature... il discorso diventa complicato...»
Scusi insisto. In questa doppia ipotesi assurda: cioè con una condanna all’interdizione e contemporaneamente il rifiuto a controfirmare?
«Qui però la pubblica opinione sarebbe diversamente orientata... Le confesso la mia ignoranza perché non sono un penalista. Bisogna vedere se una condanna accessoria come l’interdizione diventa esecutiva già al primo grado di giudizio o nel secondo grado. Se lo fosse nel primo grado, Berlusconi decadrebbe automaticamente».
Allora chiedo al cittadino non al giurista se questa ipotesi è poi così improbabile.
«Non mi sorprenderebbe, anzi potrebbe anche accadere in termini piuttosto rapidi».
Se si dovesse riscrivere la Costituzione contemplando tutte queste casistiche di oggi?
«Bisognerebbe prevedere dei poteri eccezionali da dare al Capo dello Stato, in situazioni particolari».
Poteri eccezionali anche con Berlusconi al Quirinale?
«Allora vede che i nostri padri Costituenti sono stati saggi? Perché hanno pensato a tutto questo già 70 anni fa. Dare dei poteri eccezionali senza sapere chi poi sarebbe stato presidente della Repubblica... Meglio stare nell’ordinarietà».
Nino Luca
* Corriere della Sera, 14 febbraio 2011
di Carlo Galli (la Repubblica, 23.o6.2011)
Gli italiani hanno scoperto di esser stati governati per anni da un esecutivo Berlusconi-Bisignani. Ci eravamo abituati a criticare con estrema durezza il potere pseudo-carismatico, mediatico, affabulatorio del premier. A criticare la sua prassi extra-istituzionale di rappresentare i cittadini - trasformati in popolo adorante che si identifica in una icona, in un corpo mistico virtuale -, il suo indirizzarsi contro gli avversari come contro dei ‘nemici’, il suo saper produrre prevalentemente immagini (sogni o incubi) a uso e consumo degli italiani, e il suo interessarsi solo a sé e ai suoi amici per quanto riguarda gli interessi concreti da salvaguardare. A opporci alla sua pretesa di essere sopra la legge, oltre la Costituzione, ai limiti della democrazia (e estraneo alla democrazia liberale parlamentare e alle sue garanzie).
Sembrava, tutto sommato, di avere a che fare con un potere eccezionale, con un concentrato di potenza difficilmente riconducibile alla misura costituzionale, con un’enormità e con un’anomalia che sovrasta (o cerca di farlo) l’ordinamento. Ora, si scopre che tutto ciò è certamente ancora vero, ma che c’è dell’altro: che questo potere - come le scatole cinesi - è a sua volta una maschera, che cela in sé un vuoto; e non solo perché è vuoto di ogni istanza pubblica ed è pieno di una sola istanza privata - quella di Berlusconi - ma perché è abitato da altri, da occulti manovratori, da tessitori di trame economiche, politiche, mediatiche, giudiziarie, dai soliti noti che costruiscono ignote reti di potere, più efficaci del potere ufficiale, dalle quali questo viene distorto, piegato, corrotto. Non soltanto, insomma, abbiamo a che fare col potere gigantesco e iper-visibile del premier, ma anche con il potere oscuro della P4 (e chissà di quante altre P, ancora, ci toccherà apprendere l’esistenza); non solo con un potere che sta (o pretende di stare) sopra la Costituzione, ma con uno, ramificato e pervasivo, che sta dietro e sotto le istituzioni, non visibile ma coperto.
Nel 1941 un esule tedesco, Ernst Fraenkel, scrisse in America un libro intitolato Il doppio Stato, in cui spiegava il funzionamento del potere nazista: secondo lui, allo "Stato normativo", lo Stato delle istituzioni legali, la Germania di Hitler affiancava un secondo Stato, lo "Stato discrezionale", che funzionava con l’arbitrio e la violenza, al di là di ogni norma e di ogni garanzia. La differenza rispetto alla nostra situazione - al di là, naturalmente, del fatto che nel nostro Paese non vi è nulla di neppure lontanamente paragonabile al delirio di violenza criminale che caratterizzò il regime nazista - è che oggi, in Italia, i sistemi di potere politico, compresenti, non sono due, ma tre: quello legale-costituzionale, quello carismatico-populistico, e quello occulto delle trame oscure e delle cricche d’affari. Il primo, l’unico che una democrazia liberale può e deve conoscere, ovvero l’unico legittimo, è sotto stress, logorato e minacciato; il secondo, che al primo ha voluto sovrapporsi, ha funzionato per almeno dieci anni come portatore di una legittimità alternativa alla costituzione - formalmente intatta, nonostante i numerosi progetti di manomissione, ma bypassata da un’altra immagine della politica, dallo splendore del carisma populistico -; e infine, ormai logorato anche questo secondo sistema di potere, emerge ora il terzo, un potere indiretto e manipolatorio che ha scavato, come un esercito di termiti o di tarli, all’interno delle strutture pubbliche, penetrandole, corrodendole, piegandole a fini di parte.
Questo terzo potere è l’antitesi del primo, come l’illegalità lo è della legalità, l’opacità della trasparenza; ma è anche la verità del secondo, la logica conseguenza dello svuotamento idolatrico della democrazia che questo ha operato. L’idolo luccicante con cui troppi italiani hanno voluto sostituire la prosa e la serietà dell’impegno civile, e anche la semplice legalità, è stato l’incuatrice - li ha allevati in sé, e li ha coperti - dei robusti, tenaci e voraci animaletti, che all’insaputa dei cittadini hanno scavato cunicoli e gallerie nelle istituzioni, e hanno così minato l’essenza della vita democratica. L’idolo che oggi si rivela pullulante di vite parassitarie, infatti, ha privato gli italiani del diritto di essere liberi cittadini, in grado di decifrare razionalmente la vita pubblica, e ne ha fatto degli ignari spettatori di innumerevoli arcana imperii, orditi da pochi, che li hanno avvolti nelle trame insidiose dei poteri distorti. A ulteriore e tardiva dimostrazione che è soprattutto l’assenza di potere autenticamente democratico a generare mostri e mostriciattoli.
«In piazza per la democrazia, hanno rovesciato le regole»
intervista a Gustavo Zagrebelsky
a cura di Federica Fantozzi (l’Unità, 12 marzo 2011)
Professor Zagrebelsky, lei oggi sarà in piazza?
«Sì, a Torino. Ci sono momenti di aggregazione sociale in difesa delle buone regole della vita democratica. Credo che oggi sia uno di questi».
Perché manifestare?
«Siamo di fronte a un rovesciamento della base democratica. La democrazia deve tornare a camminare sulle sue gambe: sostenuta dal basso. Non un potere populista che procede dall’alto».
Perché la Costituzione vigente va difesa?
«Basta leggerla. È il testo che dà ai cittadini il diritto di contare in politica ed esclude il potere per acclamazione».
Abbiamo un premier sotto processo per sfruttamento della prostituzione minorile. Avrebbe fondamento un eventuale conflitto di attribuzione sollevato dal Parlamento? Berlusconi andrebbe giudicato dal tribunale di Milano o da quello dei ministri?
«Mi sono imposto di non dire nulla su questioni che possono essere portate al giudizio della Corte Costituzionale. Mi limito a poche osservazioni. Primo: l’oggetto dell’eventuale conflitto riguarderebbe primariamente il rapporto tra tribunale di Milano e tribunale dei Ministri e, solo secondariamente, il potere della Camera di autorizzare il processo davanti a quest’ultimo, una volta che questo fosse ritenuto competente dalla Corte di Cassazione».
Significa che al momento sarebbe un atto infondato?
«Allo stato, prima di una decisione sulla competenza di uno dei due tribunali, non mi pare che ci sia materia per il conflitto che la Camera volesse sollevare. Ma c’è un altro punto».
Quale?
«A salvaguardia della dignità delle istituzioni, c’è un fatto che non mi pare sottolineato a dovere: Berlusconi avrebbe agito sulla questura per evitare un incidente diplomatico con l’Egitto? Più importante di questa giustificazione, che di per sé lascia esterrefatti, è la premessa implicita, data per pacifica: il premier e i suoi giuristi ritengono che se la (presunta) parente di un uomo di governo è sospettata di reato, questo sia affare di Stato e si possa invocare la parentela per sottrarla all’applicazione della legge comune».
È ciò che non solo sostiene il premier, ma Montecitorio ha già avallato una volta rinviando gli atti alla Procura di Milano.
«La confusione tra pubblico è privato è ufficialmente attestata e la Camera, se seguisse, metterebbe il suo incredibile suggello. Vorrei non poter credere che una maggioranza in Parlamento sia capace di tanto. L’unico obiettivo è guadagnare tempo. Per questo si è disposti a sostenere l’insostenibile. La verità delle cose, e del diritto, diventa trascurabile».
Berlusconi ha una maggioranza numerica, intermittente, solo quando è chiamata per i voti cruciali. Esiste ancora una maggioranza politica?
«Cosa ci sia di “politico” nella situazione che si è creata, è difficile dirlo. Cosa tiene insieme la maggioranza? Un programma, una visione del Paese e del suo avvenire? O il potere, che ciascuno “declina” a modo suo: chi per crearsi le condizioni della propria impunità, chi per avere un pezzetto di potere ministeriale, chi per gestire interessi spesso non limpidi da posizioni d’impunità, chi per realizzare un punto che sta a cuore solo a lui (il cosiddetto federalismo)? Questo è politica? O un’accozzaglia di interessi eterogenei? È una situazione costituzionalmente e politicamente assai critica».
Secondo lei la legislatura può arrivare a scadenza naturale?
«Troppi interessi convergono nel tirare avanti il più possibile. Berlusconi sa che, finché è in carica, i poteri propri e impropri di cui dispone rendono molto improbabile la celebrazione dei processi. La Lega, l’unica con un obiettivo politico chiaro, ha interesse ad andare avanti. Poi, c’è sempre lasperanza che il tempo, la propaganda, l’imbonimento possano frenare l’emorragia di consensi che li penalizza. L’opposizione può chiedere ciò che vuole ma, se non si sfalda quella convergenza d’interessi che cementa la maggioranza, è del tutto irrilevante».
La finestra per votare sta per chiudersi. Auspicherebbe, nel caso, un esecutivo di emergenza?
«Una formula politica diversa, con altra maggioranza e guidata da qualcuno al di sopra delle parti, in vista di poche riforme essenziali a rimettere le istituzioni nella carreggiata della democrazia (legge elettorale, conflitto d’interessi, tv), per riprendere poi la normale dialettica tra i poli, era difficile ma non impossibile prima del 14 dicembre».
Poi?
«Da allora, la maggioranza non ha fatto che rafforzarsi, nei modi che sappiamo. Dunque, di esecutivi di emergenza non mi sembra il caso di parlare. Oggi, chi crede che viviamo in condizioni critiche dal punto di vista democratico, deve pensare non all’esecutivo, ma alle responsabilità che gravano su tutti noi, come cittadini».
Lei era sul palco del Palasharp, ha firmato l’appello sul biotestamento, le sue ultime esternazioni hanno contenuto politico. E’ passione civile o non esclude di fare politica attiva se le venisse richiesto?
«A ognuno il suo mestiere. Quello che credo di dover fare è ciò che spetta a ciascun cittadino nell’ambito delle sue relazioni e professione. Non sono un politico. Politici non ci si improvvisa»
In un convegno organizzato dalla Società Dante Alighieri a confronto Zagrebelsky e Carofiglio.
"Molti termini di uso corrente sono diventati oggetti contundenti"
di MANUEL MASSIMO *
Tempo di bilanci per i 150 anni dell’Unità d’Italia. Anche sulla lingua: uno degli elementi più importanti e "aggreganti" di un’identità nazionale sembra essere entrato in crisi, soprattutto a causa dell’appropriazione "indebita" di alcune parole da parte della politica, fenomeno oggi più che mai attuale. Uno spunto di riflessione arriva dal convegno organizzato a Roma dalla Società Dante Alighieri, nell’ambito del progetto "Pagine Aperte", per conversare con gli autori di due recenti scritti sul linguaggio della politica: "Sulla lingua del tempo presente" del presidente emerito della Corte Costituzionale Gustavo Zagrebelsky - ordinario all’Università di Torino e presidente onorario dell’Associazione Libertà e Giustizia - e "La manomissione delle parole" dello scrittore - ex magistrato oggi senatore del Pd - Gianrico Carofiglio.
Scendere in campo. "Il lessico del berlusconismo è il prodotto di un ambiente". Il professor Zagrebelsky si sofferma sull’espressione con cui Silvio Berlusconi irruppe sulla scena politica il 26 gennaio 1994: "Scendere in campo: una metafora calcistica che rappresenta l’esatto contrario di quello che dovrebbe accadere in una democrazia". Un discorso in cui si sosteneva che ci fosse bisogno di un "deus ex machina", di un salvatore per uscire da una situazione difficile. Uno schema mentale - sostiene Zagrebelsky - che negli anni ha fatto scuola e influenzato profondamente il nostro modo di pensare: "Quando dall’altra parte (leggi: Partito Democratico, ndr) si attende l’arrivo di un ’papa stranierò non si sta forse ricalcando lo stesso modello?".
Innocenti evasioni. Secondo Zagrebelsky c’è un’altra espressione ormai entrata nel lessico comune - "mettere le mani nelle tasche degli italiani" - che trascina con sé l’idea che pagare le tasse non sia ciò che dice la Costituzione (cioè un dovere di cittadinanza) ma venga considerato come un borseggio. Quindi in pratica un via libera all’evasione fiscale "giustificata" attraverso il semplice uso di una formula: "Le metafore possono essere pericolosissime: sono dei trasferimenti, si prende un termine da un contesto e lo si trasporta in un altro ambito; ma tutto ciò che sta dietro a questo contesto di partenza tende a trasferirsi nel nuovo".
Maneggiare con cura. "Le parole sono come rasoi: pericolosi a seconda di chi li maneggia. Molte parole fondamentali del lessico civile sono diventate oggetti contundenti". Il senatore Carofiglio concorda sulla necessità di rispettare la natura delle parole però, a differenza di Zagrebelsky, ritiene che la comunicazione politica non possa fare a meno delle metafore: "Oggi il politico italiano che riscuote il maggior successo in pubblico è Nichi Vendola perché i suoi discorsi sono innervati di metafore che alludono all’esperienza sensoriale e non all’astrattezza concettuale. Questo è uno dei suoi punti di forza: l’uso consapevole di metafore che mettono in moto dei meccanismi interiori in chi ascolta".
Luoghi troppo comuni. La politica si è letteralmente impadronita di espressioni mutuate da altri contesti o coniate ex novo e le ha fatte diventare dei "luoghi comuni linguistici" di cui i cittadini - come denuncia Zagrebelsky - spesso non comprendono l’esatto significato. Si parla e si ragiona per frasi fatte, senza approfondire i concetti. Carofiglio sottoscrive e rilancia, elencando le parole oggetto di "furto": democrazia, libertà, amore. Ma anche le espressioni abusate o usate a sproposito di cui sarà difficile liberarsi: "lo scontro tra politica e giustizia", "le parole d’ordine della sinistra", "l’utilizzatore finale" e la lista potrebbe continuare ancora ad libitum.
Senza vergogna. Carofiglio sostiene che la vergogna - anche e soprattutto in politica - sia un sentimento da coltivare maggiormente: "L’incapacità di vergognarsi da parte di chi dovrebbe farlo è pericolosa: solo chi riesce a provare vergogna ha la capacità di praticare il suo contrario, cioè l’onore. La caratteristica della vergogna è di essere un segnale, un fondamentale meccanismo di tutela della salute morale". In mancanza di questo campanello d’allarme si rischia la degenerazione, si continua a perseverare nell’errore che non si riconosce come tale; capita così che perfino "comportamenti in bilico fra il malcostume da basso impero e il territorio del penalmente rilevante" che stanno monopolizzando da mesi l’agenda-setting della politica vengano esibiti con orgoglio e rivendicati davanti a tutti.
Interpretazione e omologazione. "Parole: bisogna conoscerne tante e usarne poche". Questa la formula aurea che Zagrebelsky individua per "tutelarsi" dai pericoli insiti nel linguaggio: "Dobbiamo cercare di usare poche parole: servono a comunicare ma ogni parola è un trabocchetto. Da giurista osservo che il legislatore cade in questo equivoco usando centinaia di parole: senza capire che ognuna di esse si presta a essere interpretata". Ma per poter decodificare la realtà che ci circonda occorre avere un buon bagaglio linguistico: "Se noi non abbiamo le parole non abbiamo neanche le idee". E contro il pericolo di un’omologazione della lingua - veicolata attraverso i mass media - è bene: "Coltivare la varietà del linguaggio e fare un buon uso - accurato, consapevole e cosciente - delle parole". E compiere ogni giorno il gesto rivoluzionario di cui parlava Rosa Luxemburg: "Chiamare le cose con il loro nome".
* la Repubblica, 17 febbraio 2011
Mi arrendo, il bipolarismo in Italia non funziona
La politica ostacolo alle riforme in un bipolarismo che non funziona
di Salvati Michele (Corriere della Sera, 17 febbraio 2011)
MI ARRENDO, IL BIPOLARISMO IN ITALIA NON FUNZIONA IL Msrasrro La politica ostacolo alle riforme in un bipolarismo che non funziona di MICHELE SALVATI usata la festa, gabbato lo santo». Fu un sentimento di universale sollievo quello che si diffuse in Parlamento quando, verso la fine del 1997, si fu certi che l’Italia sarebbe stata ammessa a far parte del club dell’Euro. Basta con le finanziarie monstre! Evviva, tutto torna come prima! Tra i nostri politici pochi erano consapevoli che le vere difficoltà cominciavano proprio allora: le grandi sciabolate fiscali per rientrare nei parametri di Maastricht erano state la parte facile del problema.
La parte difficile era il lavoro di bisturi che ci attendeva Di bisturi sulle aree di rendita e di inefficienza diffuse nella nostra economia e nella nostra amministrazione pubblica. E insieme di ricostruzione: solo un grande progetto di chirurgia plastica - condiviso da una larga maggioranza del ceto politico, sentito come necessario da gran parte delle elite economiche e sociali, perseguito con costanza per lungo tempo - sarebbe riuscito a cambiar faccia al Paese che la Prima Repubblica ci aveva lasciato e che i governi Amato, Ciampi, Dirai e Prodi avevano appena iniziato a riformare. E solo un Paese trasformato, tagliati i ponti con le scorciatoie illusorie dei disavanzi e della svalutazione, poteva affrontare con successo le prove che l’attendevano.
Questo progetto non c’è stato e il nostro Paese ristagna. Del progetto è stata sbandierata la premessa culturale, il liberalismo, ma fa solo tristezza ricordarlo in questo Paese di rendite e corporazioni. Qualche riforma è stata fatta e qualche lodevole intenzione è stata espressa, ma è mancato un programma coerente, perseguito con tenacia da tutti i governi che si sono alternati al potere. Nella società e nell’economia si è mosso solo chi non poteva non muoversi, perché esposto alle pressioni della concorrenza internazionale: un buon numero (ma ahinoi insufficiente) di piccole e medie imprese esportatrici, ora la grande Fiat (o la grande Chrysler?). Ben poco di ciò è stato previsto, non dico sollecitato, dalla politica
In un Paese al quale ogni giorno andrebbe ricordato il difficile compito di modernizzazione e di efficienza che ha di fronte, la politica è stata parte del problema - lo ha aggravato - non parte della soluzione. La politica ha aggravato il problema mediante omissioni: dove sono le riforme liberali che ci erano state promesse? Ne ha scritto Mario Monti di recente sul Corriere e non ripeto quanto ha detto. Ha aggravato il problema inasprendo inutilmente i toni: le riforme che ci dovrebbero impegnare per riattivare la crescita hanno poco a che fare con i conflitti tra destra e sinistra e su di esse può essere utile assicurarsi un consenso bipartisan, sia perché si tratta spesso di riforme impopolari, sia perché esse vanno perseguite in tempi lunghi, anche sotto governi di diverso colore. Ha aggravato il problema imponendo prioritariamente una riforma istituzionale di difficoltà estrema, il federalismo, di cui non si sentiva proprio l’urgenza in un momento in cui molto, se non tutto, dev’essere sacrificato all’efficienza amministrativa e alla crescita.
C’è ancora una piccola possibilità che dal federalismo non esca un mostro, qualcosa che complichi ancor di più procedure amministrative già complicate, che aumenti ulteriormente la pressione fiscale, che paralizzi del tutto le già deboli capacità di indirizzo della politica economica (si pensi alle vicende del piano casa), che provochi seri conflitti tra Nord e Sud. Ma per evitare questo esito occorrerebbe uno sforzo solidale tra le migliori competenze amministrative del Paese, di destra o sinistra che siano. E soprattutto bisognerebbe dar tempo al tempo, non affrettarsi allo scopo di fornire alla Lega una bandierina da agitare.
Oggi la politica è un ostacolo, non una risorsa. Questo bipolarismo sgangherato (e lo dice un sostenitore convinto dell’alternanza) non funziona. Una buona politica dovrebbe dare agli italiani un unico messaggio: il processo di riforma, l’intervento di chirurgia plastica, sarà lungo e difficile e i suoi esiti matureranno lentamente, altro che crescita al 4% tra pochi anni. E certo non bastano improvvisi risvegli del governo, non basta rimettere sul tavolo provvedimenti minuti che stavano nei cassetti dei ministeri, condendoli col peperoncino di una riforma costituzionale che provocherà ulteriori *** incomprensioni e polemiche. Dubito che un’alternanza bipolare tra coalizioni eterogenee sia in grado di dare questo messaggio, di tenere stabilmente la barra su un processo di riforma in buona misura condiviso. L’uscita di scena di Berluscorii sicuramente allenterebbe le tensioni oggi esistenti, ma è tutto da vedere se basti da sola a portarci a un bipolarismo dell’azione; da quello della chiacchiera e dello strepito in cui oggi viviamo.