Il Paese Bordello
di Maurizio Viroli (il Fatto Quotidiano, 8 febbraio 2011)
‘Bordello State’ e ‘Whoreocracy’, che tradurrei con ‘il governo delle puttane’, sono probabilmente le due espressioni che meglio di altre caratterizzano l’immagine dell’Italia negli Stati Uniti. La prima deriva da un articolo di James Walston, su Foreign Policy del 14 settembre 2010; la seconda da un commento a proposito di uno scritto di Alexander Stille sulla New York Review of Books dell’ 8 aprile 2010, dal titolo ‘The Corrupt Reign of Emperor Silvio’. Pochi giorni or sono, la parola ‘bordello’ capeggiava in un articolo del New York Times. Questa volta, però erano dei manifestanti che reggevano un cartello con la scritta, ‘L’Italia non è un bordello’.
SIAMO DUNQUE riusciti a conquistarci presso l’opinione pubblica americana il poco invidiabile titolo di ‘stato bordello’ o ‘stato in cui governano le puttane’. Gli opinionisti diranno che la colpa è degli oppositori di Berlusconi che diffondono a piene mani stereotipi anti-italiani. La verità è che sono gli altri ad attribuirci immagini poco edificanti anche perché hanno occhi per vedere, e sanno ancora ragionare, un’arte ormai estinta in Italia. Gli stessi commentatori, va detto, riconoscevano i nostri pregi, all’epoca di Tangentopoli, quando pareva che l’Italia si fosse avviata su una strada di riscatto civile.
Si potrebbe concludere che gli aspetti della realtà italiana che maggiormente colpiscono l’opinione pubblica americana, o che i giornali trasmettono, sono lo scandalo politico a sfondo sessuale e l’uso disinvolto del potere, con forme di vera e propria buffoneria. Siamo insomma, come altre volte in passato, ridicoli e malati di maschilismo, oltre alla ormai consolidata immagine di una democrazia viziata da una diffusa e tollerata corruzione politica.
Agli occhi degli americani Berlusconi merita di essere deriso e disprezzato perché è un uomo di cui dei cittadini maturi non dovrebbero fidarsi in quanto non rispetta i requisiti minimi dell’integrità personale, a cominciare dall’essere leale, dal sapersi controllare, dal senso di responsabilità. Per gli americani il potere politico non è proprietà di chi governa, ma appartiene ai cittadini che lo affidano a dei rappresentanti, per un tempo limitato e sotto precisi controlli, affinché lo usino per il bene pubblico. Proprio perché è un potere importante non lo si può delegare a persone che si rendono ricattabili, che mentono, e che sono dominate da un sentimento di onnipotenza. Per loro dare il potere di governare a un politico che si comporta come il primo ministro italiano sarebbe come consegnare i sudati risparmi a un noto truffatore.
La domanda che l’opinione pubblica americana si pone a proposito dell’Italia non è tanto ‘che cosa succede?’, ma ‘come avete fatto a ridurvi così?’. Non sono tanto interessati ai fatti della cronaca politica ma a capire come e perché una nazione come l’Italia abbia permesso l’ascesa al potere di Silvio Berlusconi e tolleri senza troppi sussulti i suoi metodi.
Quello che davvero non riescono a spiegarsi è come mai gli italiani, che pur vivono in democrazia da più di sessant’anni, non abbiano capito il principio fondamentale del liberalismo, quello che insegna a temere il potere illimitato, chiunque lo detenga. Più che moralisti sono saggi. Non capiscono come e perché gli scaltrissimi italiani si lascino governare da un uomo che possiede un impero mediatico e una ricchezza sterminata. I più benevoli cercano di consolarci dicendo: ‘Anche da noi il denaro condiziona la politica’. Ma si rendono subito conto che il loro più ricco politico non ha il potere di Berlusconi e che la democrazia americana ha difese molto più efficaci della nostra che sono da individuare, a mio giudizio, più nel costume che nelle istituzioni.
MOLTI commentatori, per citare un solo esempio, sottolineano che se in America il presidente della Repubblica ricevesse ‘escort’ alla Casa Bianca, e organizzasse a casa sua serate con prostitute, l’indignazione nell’opinione pubblica e nel Congresso sarebbe tale da costringerlo a immediate dimissioni. Per non parlare poi dell’effetto che avrebbero gli attacchi ai magistrati e soprattutto le reiterate accuse alla Corte costituzionale rea di interferire illegittimamente sulle decisioni delParlamento votato dal popolo.
Per questo la domanda che nelle ultime settimane più spesso si pongono è se davvero siamo arrivati alla fine dell’era berlusconiana. Ma gli osservatori più attenti, come Jason Horowitz sul Washington Post del 14 dicembre, rilevano che il consenso parlamentare è ancora forte e che l’opposizione è divisa e non ha un candidato che paia in grado di vincere. In caso di elezioni anticipate potrebbe trionfare di nuovo Berlusconi e avere aperta la via per la presidenza della Repubblica.
Eppure, nel modo in cui gli americani seguono le nostre vicende traspare una preoccupazione che non ho mai riscontrato in passato. Se considerassero Berlusconi soltanto un caso di buffoneria e corruzione non si allarmerebbero molto. Nel mondo non mancano certo esempi da questo punto di vista anche più eloquenti. Avvertono invece che un sistema come quello che Berlusconi ha costruito in Italia potrebbe trovare imitatori in altri paesi democratici. Sarebbe insomma il futuro, non un altro esempio del malcostume politico italiano.
ECCO COME SIAMO RIUSCITI A RIDURCI UN PAESE BORDELLO. Una risposta agli americani. Materiali sul tema: *
"PUBBLICITA’ PROGRESSO": L’ITALIA E LA FORZA DI UN MARCHIO REGISTRATO!!!
Federico La Sala (08.02.2011)
Ruby ter, il caso è chiuso?
Nello Stato di diritto la verità processuale non coincide con la verità storica. La sentenza giudiziaria sul processo Ruby ter dunque non chiude ma riapre il giudizio storico, politico e morale sui fatti da cui quel processo nasce.
di IDA DOMINIJANNI (CRS - Centro per la Riforma dello Stato, 16 Febbraio 2023)
Lo Stato di diritto è Stato di diritto, e nel diritto la forma è sostanza. E dunque, se la sentenza di un tribunale invalida l’impianto di un processo per un consistente vizio di forma, bisogna prenderne atto non con rassegnazione ma con soddisfazione. La sentenza di primo grado del tribunale di Milano sul processo Ruby ter, quello in cui Berlusconi era imputato di corruzione delle testimoni e le testimoni erano accusate di falsa testimonianza, ha stabilito che “il fatto non sussiste” e dunque tutti vanno assolti, perché l’intero processo è costruito su un errore formale: le ragazze che partecipavano alle “cene eleganti” di Arcore non andavano trattate come testimoni, in quanto tali soggette all’obbligo di dire la verità, ma come indagate in procedimenti connessi, in quanto tali non soggette a quell’obbligo (e aventi diritto a un avvocato difensore). Il vizio formale non è da poco, l’accusa cade e la palla, nonché l’onere della prova, torna alla procura responsabile della costruzione dell’impianto processuale. Si vedrà in appello, se ricorso in appello ci sarà. Diversamente, il caso è chiuso?
Nello Stato di diritto, la verità processuale non coincide con la verità storica. Riguarda esclusivamente l’accertamento che un fatto costituisca o non costituisca un reato e che chi l’ha commesso sia o non sia colpevole; non riguarda il giudizio complessivo, politico e morale, su quel fatto e su chi l’ha commesso, il quale giudizio complessivo non spetta ai giudici e ai tribunali ma a tutti - l’opinione pubblica, la società, i testimoni dell’epoca in cui il fatto è accaduto, gli storici che lo valuteranno in futuro. La sentenza giudiziaria sul processo Ruby ter dunque non chiude ma riapre il giudizio storico, politico e morale sui fatti da cui quel processo nasce.
Così almeno dovrebbe essere in uno Stato di diritto che fosse riconosciuto e interiorizzato come tale dai suoi cittadini e dalla sua classe politica. Il che purtroppo non è il caso dell’Italia che fu (e resta) berlusconiana né di quella che fu (e resta) antiberlusconiana. La prima non si è mai rassegnata ad accettare che vita e politica, pur eccedendo il diritto, devono sottostare al controllo di legalità. La seconda non si è mai convinta che il berlusconismo andava (e va ancora) sconfitto nella politica e nella vita e non, o non solo, nelle aule dei tribunali. Sulla sentenza Ruby ter la farsa si ripete stancamente: assolto giudiziariamente, Berlusconi si sente indebitamente assolto anche politicamente dal sexgate mentre non lo è affatto, e il fronte antiberlusconiano si sente gabbato giudiziariamente mentre dovrebbe rilanciare politicamente il giudizio su quella stagione. Che però non è mai stato capace di inquadrare nelle sue dimensioni e nei suoi significati reali.
Il sexgate che per tre anni, dal 2009 al 2011, ha tenuto sotto sequestro la politica e l’immaginario collettivo di questo paese, compromettendone altresì la reputazione all’estero, non è stato solo una sequela di scandali sessuali - Noemi e Ruby, stuoli di escort, “cene eleganti” e bunga-bunga - aventi come protagonista un premier in carica uso a frequentazioni hard di giovani donne talvolta minorenni. È stata l’epifania di un sistema di scambio fra sesso, potere e danaro (prestazioni sessuali retribuite in contanti, regalie, appartamenti, comparsate televisive, in qualche caso candidature politiche), a sua volta emblematico del più complessivo sistema di potere e di conquista del consenso che ha assicurato a Silvio Berlusconi un’egemonia ventennale sul corpo e sull’anima della società italiana. Lo sfondamento del confine fra pubblico e privato, la trasgressione sistematica della norma, l’etica e l’estetica del godimento, l’ostentazione della ricchezza e l’idea che tutto sia comprabile, la percezione di un sé smisurato e onnipotente, il sodalizio fra potere politico personalizzato e servitù volontaria acquiescente: tutti questi pilastri del berlusconismo trovarono nel sexgate un concentrato, potenziato da una concezione drogata della virilità e da una concezione mercificata del corpo e della libertà femminili, entrambe capaci di sedurre l’immaginario nazionale ben aldilà dei confini politici ed elettorali del centrodestra.
La politicità del sexgate stava per l’appunto in questa sua emblematicità del sistema di potere a cui strappava la maschera. Ma proprio questa emblematicità, unita alla difficoltà di mettere a fuoco l’impatto sulla sfera pubblica di una materia incandescente come la sessualità, suscitò reazioni anch’esse emblematiche dei tic del bipolarismo politico: nel centrodestra - lesionato tuttavia proprio in quegli anni dalla rottura fra Berlusconi, Fini e una parte di An - l’arroccamento sulla trincea della difesa della “vita privata” del capo e delle sue pretese verità, compresa l’identità della “nipote di Mubarak” votata in Parlamento; nel centrosinistra, l’ondeggiamento fra moralismo e giustizialismo di fronte a un fatto che richiedeva un salto di cultura politica. Non per caso il meglio dell’analisi venne dalla cultura femminista e da quella psicoanalitica, più attrezzate a navigare ai confini fra personale e politico e fra razionalità, immaginario e inconscio che il sexgate domandava di attraversare. Fu soprattutto grazie ad alcune donne - per prima Veronica Lario, l’allora moglie del premier - che lo scandalo scoppiò, fu soprattutto grazie alle centinaia di migliaia di donne, scese in piazza in massa contro un regime intollerabilmente sessista, che si aprì una voragine nel consenso finallora solidissimo del Cavaliere. E fu soprattutto grazie alle donne, e ad alcuni uomini che seppero cogliere l’occasione per uscire a loro volta dai binari di un ruolo maschile prescritto, se il livello del dibattito pubblico si arricchì per alcuni mesi di argomenti, prospettive e punti di vista inimmaginabili nell’asfissia mediatica di prima e di dopo.
Oggi che l’assoluzione di Berlusconi fa tornare tutto nei ranghi prevedibili dello schiamazzo contro l’uso politico della giustizia da un lato e del rispetto per le sentenze giudiziarie senz’altro aggiungere dall’altro c’è da chiedersi che cosa sia rimasto, nella società e nella politica, di quella turbolenta ma feconda stagione che strappò il regime del dicibile e dell’indicibile. Poco o nulla, è la risposta. Sul piano politico, quando Berlusconi, indebolito dal sexgate, fu costretto dalla crisi dello spread a farsi da parte, la consegna dello scettro al governo tecnico di Mario Monti, voluta dall’alto e senza ricorso alle urne, segnò un cambio di stagione netto dal carnevale berlusconiano alla quaresima dell’austerity, ma senza una sepoltura simbolica del berlusconismo che il rito elettorale avrebbe almeno agevolato; e infatti Berlusconi, nel frattempo condannato per frode fiscale, è sempre lì, azzoppato, depotenziato e senz’aura, eppure convinto fino a un anno fa di poter conquistare il Quirinale.
Sul piano del rapporto fra i sessi, la spinta femminista è stata spuntata e assorbita a sinistra da un rivendicazionismo paritario e vittimista che non ha portato frutti, mentre a destra Giorgia Meloni - che all’epoca votò in Parlamento che sì, Ruby era la nipote di Mubarak, e che nella sua autobiografia liquida il sexgate come “una condotta privata di Berlusconi un po’ spregiudicata” - ha costruito la sua resistibile ascesa sull’orgoglio di essere donna sì, ma nell’inedita declinazione reazionaria della donna-madre, donna-nazione, donna-cristiana. E vale ricordare che quando, nel 2016 e sotto un Trump per tanti versi emulo di Berlusconi, il “me too” americano e mondiale portò all’attenzione della sfera pubblica globale un catalogo di questioni analogo a quello sollevato dal sexgate, nessuno nella sfera pubblica italiana si ricordò di quello che da noi era successo solo cinque anni prima.
Quanto alla qualità del dibattito pubblico, oggi si avvita più semplicemente sui baci fra Fedez e Rosa Chemical e sui monologhi moraleggianti delle co-conduttrici di Sanremo, sotto l’occhio censorio di una destra sicuramente più perbene e altrettanto sicuramente più illiberale di Berlusconi, che vede dappertutto nemici che l’assediano e dichiara ogni giorno una guerra culturale contro il fantasma di una sinistra che non c’è. Tocca dare ragione ancora una volta a Veronica Lario, che a un certo punto, durante il sexgate, si lasciò scappare che il peggio non era suo marito ma quello che sarebbe venuto dopo.
La democrazia americana fatta a pezzi
La miccia accesa quattro anni fa ha fatto il suo lavoro e la bomba è esplosa
di Raffaella Baritono (Il Mulino, 07 gennaio 2021)
Quattro morti, oltre a più di 50 arresti, è il bilancio provvisorio di una giornata che avrebbe dovuto certificare la decisiva vittoria democratica alle elezioni per il Senato in Georgia, l’elezione di Biden e Harris e l’avvio del nuovo Congresso. Una giornata che invece ha rappresentato un salto di qualità nello scontro politico, dimostrando, una volta di più, quanto la democrazia americana possa essere fragile e a rischio.
La presidenza Trump si inaugurò, quattro anni fa, con un discorso sullo American carnage, sulla carneficina di una classe media bianca a opera di forze economiche più o meno oscure con la complicità dei democratici. Rischia di terminare con la carneficina di istituzioni che sembrano non reggere più di fronte a un «re folle», come ormai molti commentatori definiscono Trump. Persino il suo sodale, Rudolph Murdoch, attraverso il «New York Post», lo ha invitato ad abbandonare l’interpretazione di un re Lear farsesco più che tragico se non fosse che riesce, come si è visto anche ieri, a trascinare il consenso di minoranze, certo, ma che hanno dietro i quasi 73 milioni di voti presi nelle elezioni dello scorso novembre.
Ancora una volta Trump si è assunto la responsabilità di alimentare il caos, le convinzioni cospirazioniste di chi, più che vivere una realtà alternativa, tenta di piegarla verso ciò che ritiene «verità di per sé evidenti». Al direttore di «The Atlantic», Jeffrey Goldberg, uno dei manifestanti radunatasi davanti al Congresso, ha gridato: «Arrenditi se credi in Gesù, arrenditi se credi in Donald Trump».
Sarebbe sbagliato liquidare questa frase, così come i cartelli con la scritta «Pelosi satana» come espressioni freak di estremisti cospirazionisti ed esponenti della destra armata. Ovvio: fra coloro che sono penetrati nelle aule e negli uffici del Congresso ci sono anche quelli. Hanno peraltro l’appoggio di esponenti repubblicani appena eletti, come nel caso di un deputato della West Virginia, entrato assieme agli altri manifestanti per filmare e postare quello che stava accadendo. Ma per molti di loro era la dimostrazione del vero spirito americano, di un «popolo» che si sente defraudato da elezioni considerate corrotte e rubate, come d’altronde Trump ha ribadito anche quando ha invitato i suoi sostenitori a «tornare a casa».
In fondo, non è la Dichiarazione di indipendenza il documento che legittima il diritto a resistere a un potere tirannico? Non è questo il messaggio che i manifestanti vestiti con abiti settecenteschi volevano trasmettere? Le immagini dei «patrioti» che si fanno immortalare seduti sullo scranno del presidente del Senato o della Camera verranno percepite, dall’America profonda che crede in Trump, come la riappropriazione delle istituzioni da parte del popolo sovrano, come l’espressione autentica di quello spirito di libertà che affonda nelle radici della lotta rivoluzionaria. Perché stupirsi, ha detto una manifestante bardata con la bandiera americana, non è così che questo Paese è stato fondato, non è così che i nostri Padri fondatori hanno travolto l’impero britannico?
La certificazione dell’elezione di Joe Biden e di Kamala Harris può e deve essere letta come la capacità del sistema di superare la crisi, ma rimane il vulnus rappresentato da un presidente uscente che ha dimostrato fino a che punto si possono mettere in tensione le istituzioni americane e quanto forti siano le aporie del sistema.
Le divisioni che hanno portato per la prima volta dal 1812 a vedere violato l’edificio del Congresso rimangono inalterate perché non sono state alimentate solo da Trump, ma da un Partito repubblicano che ha la responsabilità di aver avallato una presidenza anti-sistema come quella uscente e corteggiato razzismo, suprematismo ed estremismo armato. E se Mike Pence ha avuto la decenza di comprendere che le norme costituzionali non potevano essere stravolte - contravvenendo peraltro a uno dei principi del Partito repubblicano, quello della centralità degli Stati nell’assetto federale -, altri come Ted Cruz e un manipolo di senatori e di deputati che hanno presentato mozioni per contestare il voto in Georgia, Arizona e Pennsylvania, continuano a solleticare gli istinti profondi della base trumpiana, con l’opportunismo miope di chi crede in questo modo di utilizzare il capitale politico e di consenso lasciato in eredità dal quasi ormai ex presidente.
L’interrogativo cruciale, adesso, è se i repubblicani, spaventati da quello che è successo, saranno in grado di fare un passo indietro ed esprimere qualcosa di più di frasi di circostanza per lavarsi la coscienza.
Il capo carismatico e l’identificazione con l’oppressore
di Sarantis Thanopulos (il manifesto, 27.07.2019)
Dalle elezioni politiche del 2013, il paese uscì quasi equamente diviso in tre poli: il centrosinistra, il centrodestra e il M5S. Bersani, il segretario del Pd di allora, cercò di aprire la prospettiva di un dialogo con i “grillini”. Il suo progetto, per niente ingenuo, anzi lungimirante, fallì, anche per l’arroganza dei suoi interlocutori (che ne pagano ora le conseguenze). Un’alleanza tra il centrosinistra e il centrodestra portò ai governi di Letta, di Renzi e di Gentiloni. Questi governi non sono riusciti a risolvere nessuno dei problemi strutturali del paese o a porre le basi di una soluzione futura. La disgregazione delle alleanze socioculturali che sostenevano il centrosinistra si è consolidata e le elezioni di un anno fa l’hanno marginalizzato.
Il fenomeno M5S non è mai stato espressione di un processo trasformativo. La sua presenza è, nondimeno, manifestazione, pur confusa e dispersivamente protestataria (e manipolabile), del disagio stagnante e impotente del popolo, in particolare dei ceti sociali che la sinistra dovrebbe rappresentare. Eppure si persevera nel rifiutare di riconoscere che non essendo il centrosinistra autarchico, né potendo esserlo nel prossimo futuro, qualcosa dovrebbe muoversi sul piano del confronto con i 5S. Dopo la scelta catastrofica di spingerli tra le braccia di Salvini, di cui tutti gli “opinion leader” del centrosinistra, che ora non sanno che pesci pigliare, ripetendo slogan stantii, hanno una responsabilità enorme, il nuovo segretario del Pd, un uomo politico decente, ha definito il partito concorrenziale al M5S e “alternativo” alla Lega.
È così difficile percepire l’evidente? La sinistra non è alternativa, nell’ambito di un’“alternanza” democratica, a un partito razzista, retrogrado e profondamente autoritario come la Lega. Non offre soluzioni alternative (è meglio la frittella o il gelato di prima mattina?) a quelle barbariche di Salvini, ma opposte, nell’ambito di un’incompatibilità totale, la stessa che esiste tra democrazia e autoritarismo totalitario.
Nel campo di questa opposizione fondamentale, da cui dipende il futuro democratico del paese, la concorrenza necessaria con il M5S deve includere la prospettiva di un’alleanza, altrettanto necessaria, almeno con una sua parte e soprattutto con gli interessi reali, mal rappresentati, del suo elettorato tendente ora a disperdersi nell’astensionismo.
Salvini è stato fortemente avvantaggiato dall’essergli stato permesso di andare al governo. Com’era prevedibile, sta procedendo, usando tutti i mezzi a disposizione, complice la scarsa opposizione da parte delle istituzioni democratiche di controllo, a una doppia fidelizzazione. Quella dei funzionari dello stato più sensibili alla demagogia del potere (il piacere sadomasochistico di sentirsi forti con i deboli e deboli con i forti). Quella delle masse disorientate e scollegate dai legami solidali che investendo il capo carismatico e autocratico, incarnano in lui un principio di deresponsabilizzazione: ciò da una parte li fa sentire,
llusoriamente, liberi e, dall’altra, li fa pensare non colpevoli, non punibili in un mondo di repressione, punizione. Nella doppia fidelizzazione, di cui Salvini è insieme vittima (pericolosa) e promotore, gioca un ruolo fondamentale l’“identificazione con l’aggressore”: l’identificazione con le forze minaccianti la propria umanità, trovatasi in condizione di precarietà, che crea un senso di invulnerabilità, al prezzo di una grave alienazione. Con tutte le perplessità che si possono avere nei loro confronti, i 5S sono perlopiù periferici a questo processo e piuttosto che cercare di omologarli ad esso è meglio cercare di recuperarli.
CRONACA
"Una ferita profonda e dolorosa", un "passaggio delicato" che richiede una reazione forte e immediata: o si riscatta "con i fatti il discredito che si è abbattuto su di noi o saremo perduti". E’ affidato alle parole del vicepresidente David Ermini il senso di una crisi istituzionale senza precedenti che ha scosso il Consiglio superiore della magistratura per effetto dell’Inchiesta di Perugia, nella quale sono indagati Luca Palamara, e Stefano Rocco Fava, pm a Roma, e il togato dimissionario del Csm Luigi Spina. Ma la sua non era l’unica sedia vuota ieri pomeriggio nell’aula Bachelet dove si è riunito un plenum straordinario convocato a seguito della bufera che ha travolto il Consiglio e l’interra magistratura italiana: quattro togati si sono autosospesi.
Lunedì sera Corrado Cartoni e Antonio Lepre, di Magistratura Indipendente, non indagati ma che avevano preso parte a incontri con gli esponenti del Pd Luca Lotti e Cosimo Ferri per discutere della nomina del procuratore di Roma, e ieri, annunciandolo poco prima del plenum, Gianluigi Morlini, di Unicost, e Paolo Criscuoli di Mi. Ma dall’assemblea di Palazzo dei Marescialli, insieme alla presa d’atto della gravità della situazione, arriva anche una forte assunzione di responsabilità e un richiamo alla compattezza: con un documento approvato all’unanimità tutti i consiglieri, laici e togati, si dicono "sgomenti e amareggiati", denunciano comportamenti da cui "prendere con nettezza le distanze" e richiamano la necessità di "un radicale percorso di autoriforma. E da più parti arriva il riconoscimento al vicepresidente Ermini di una gestione saggia, ferma e responsabile della situazione e al valore imprescindibile della guida del capo dello Stato, Sergio Mattarella, che del Csm è il presidente.
Di "un giorno cupo come pochi altri" per il Csm parla il togato di Autonomia &indipendenza Piercamilo Davigo, che esprime apprezzamento per la posizione unitaria su cui tutti i consiglieri si sono ritrovati facendo prevalere allo "spirito di appartenenza o di fazione" la "tutela dell’Istituzione". Michele Ciambellini, di Unicost, invita il Consiglio a dare "una risposta seria energica senza ambiguità e a percorrere insieme una strada che riaffermi il prestigio dell’Istituzione". Da Giuseppe Cascini, di Area, il paragone forte del momento "grave e drammatico" con i tempi dello scandalo della P2. Invita a una "generale presa di coscienza" il primo presidente della Corte di Cassazione Giovanni Mammone, che esprime l’auspicio che "la consapevolezza costituisca un valido deterrente a che ulteriori comportamenti individuali vengano adottati in violazione delle regole fondamentali della deontologia".
Il laico M5S Fulvio Gigliotti si dice certo che il Csm "continuerà a mantenere quell’alto livello di garanzia e credibilità istituzionale" attraverso "il più attento rigore e la massima fermezza" nelle funzioni che tutti i componenti sono chiamati a esercitare. Al centro delle riflessioni di Ermini, inevitabilmente, anche il tema delle nomine ai vertici degli uffici che devono essere "trasparenti", compiute "fuori da logiche spartitorie", e preservate dalle "degenerazioni correntizie" e dai "giochi di potere" che sono emersi dall’inchiesta dei pm perugini. E ogni determinazione del Consiglio deve essere assunta "al riparo da interessi esterni" e "al solo fine di assicurare l’efficienza e la conformità alla costituzione dell’attività giurisdizionale" il tutto sotto la "guida illuminata" del Capo dello Stato. Il plenum ha anche preso atto delle dimissioni di Spina e ha deliberato il suo rientro in ruolo alla procura di Castrovillari, suo ufficio di provenienza.
LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"! .... *
La scoperta della libertà
di Maurizio Viroli Il Fatto, 18 aprile 2017
Per molti della mia generazione la lettura degli scritti di Antonio Gramsci ha avuto l’effetto di una liberazione dal marxismo-leninismo banale e dogmatico che teneva banco, alla fine degli anni Sessanta, fra i movimenti della sinistra extraparlamentare. Non ho prove storiche da offrire, ma credo che molti giovani si siano avvicinati al Pci anche perché quel partito si proclamava erede di Gramsci e si impegnava attivamente a farne conoscere gli scritti.
Nel 1975 esce infatti per Einaudi, sotto l’egida dell’Istituto Gramsci, la prima edizione critica dei Quaderni del carcere, a cura di Valentino Gerratana. Su quei quattro volumi furono promosse molte iniziative e si aprì un importante dibattito culturale e politico sul concetto di egemonia, sul rapporto fra democrazia e socialismo, sul ruolo e la natura del partito, sulla Rivoluzione d’Ottobre, sugli intellettuali, sulla storia d’Italia, sulla questione meridionale.
A Gramsci va riconosciuto il merito storico di aver avviato nel mondo comunista la consapevolezza che non era possibile in Italia seguire la via della Rivoluzione d’Ottobre. Lo ha fatto con l’unico argomento che poteva essere efficace, vale a dire la considerazione realistica delle condizioni storiche.
Sarebbe sbagliato sostenere che Gramsci aveva capito che la trasformazione socialista della società deve avvenire soltanto nel pieno rispetto delle libertà civili e delle regole democratiche. Ma una volta dichiarato che la via sovietica non poteva essere percorsa, che il proletariato “può e deve essere dirigente [vale a dire ottenere il consenso degli altri gruppi sociali] già prima di conquistare il potere governativo”, e che deve continuare a essere dirigente anche dopo la conquista del potere, restava aperta, di fatto, soltanto la via democratica.
L’intuizione più felice di Gramsci è, a mio giudizio, l’idea della “riforma intellettuale e morale”. In un passo delle Noterelle sul Machiavelli, la descrive come “elevamento civile degli strati depressi della società”, simile, per la sua capacità di coinvolgere ampi strati delle classi subalterne, alla Riforma protestante e all’Illuminismo, ma capace di conservare e rielaborare “i caratteri di classicità della cultura greca e del Rinascimento italiano”.
E giustamente sottolinea che la riforma intellettuale e morale “non può non essere legata a un programma di riforma economica, anzi, il programma di riforma economica è appunto il modo concreto con cui si presenta ogni riforma intellettuale e morale”.
“Banditore” della riforma intellettuale morale doveva essere per Gramsci, il “moderno Principe”, il partito comunista, che diventa, nella sua visione, non più un’avanguardia volta esclusivamente al lavoro di agitazione e organizzazione in vista della conquista del potere politico, ma un partito educatore e formatore di coscienze, una vera e propria scuola dove gli elementi migliori delle classi subalterne imparano a dirigere il complesso della vita sociale alla luce di ideali di emancipazione.
Il limite dell’idea gramsciana della riforma intellettuale e morale non risiede nella sua concezione del partito politico come educatore e formatore di coscienze, ma nella sua convinzione che il partito della classe operaia debba essere il punto di riferimento del giudizio morale e politico: “Il moderno Principe sviluppandosi sconvolge tutto il sistema dei rapporti intellettuali e morali in quanto il suo svilupparsi significa appunto che ogni atto viene concepito come utile o dannoso, come virtuoso e scellerato, solo in quanto ha come punto di riferimento il moderno principe stesso e serve a incrementare il suo potere o a contrastarlo”.
Il Principe , conclude Gramsci, “prende il posto, nelle coscienze, della divinità o dell’imperativo categorico” (Quaderni del carcere, vol. III, p. 1561). Ma la coscienza personale è e deve rimanere rigorosamente individuale: può accogliere l’imperativo morale o la divinità, ma mai lasciare entrare come sua guida suprema un soggetto collettivo, non importa se è lo Stato, o il partito o una chiesa. Se la coscienza personale accetta la guida o l’autorità di un soggetto collettivo non è più pienamente libera e non può costruire né uno Stato né una società liberi.
In quegli stessi anni, nel confino di Lipari, Carlo Rosselli scriveva su Socialismo liberale: “Non esistono fini della società che non siano, al tempo stesso, fini dell’individuo, in quanto personalità morale; anzi questi fini non hanno vita se non quando siano profondamente vissuti nell’intimo delle coscienze. [...] Uno Stato libero vuole prima e soprattutto uomini liberi. E uno Stato socialista spiriti socialisti. Io non esito a dichiarare che la rivoluzione socialista sarà tale, in ultima analisi, solo in quanto la trasformazione della organizzazione sociale si accompagnerà a una rivoluzione morale, cioè alla conquista, perpetuamente rinnovantesi, di una umanità qualitativamente migliore, più buona, più giusta, più spirituale”. Carlo Rosselli partiva da Giuseppe Mazzini; Gramsci da Karl Marx e da Lenin.
Per arrivare all’idea del socialismo come trasformazione sociale sorretta da una riforma intellettuale e morale capace di realizzare l’elevamento civile delle classi subalterne, aveva percorso una lunga strada grazie alla libertà morale e intellettuale che gli diede la forza di andare contro le idee prevalenti nel suo stesso partito, senza paura di affrontare, anche nelle terribili condizioni del carcere, l’ostilità degli stessi compagni comunisti che lo giudicavano un traditore della causa. La sua è una testimonianza di libertà, per tutti i tempi.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
C’E’ CAPO E "CAPO" E STATO E "STATO": MUSSOLINI E LENIN A CONFRONTO. L’analisi di Gramsci (già contro derive staliniste!), una bussola per non naufragare e una lezione di vita e di libertà
ANTONIO GRAMSCI, SULLA "ZATTERA DELLA MEDUSA". Una lettera dal carcere
KANT E GRAMSCI. PER LA CRITICA DELL’IDEOLOGIA DELL’UOMO SUPREMO E DEL SUPERUOMO D’APPENDICE.
Federico La Sala
La critica radicale del presente: l’eredità di Marx
di Maurizio Viroli (Il Fatto, 28.04.2018)
Non saprei dire quanti altri giovani della mia generazione misero in soffitta Karl Marx dopo aver letto l’articolo Esiste una teoria marxista dello Stato? che Norberto Bobbio pubblicò nel 1975 su Mondoperaio, e ripubblicò nel 1976 nel libro Quale socialismo?, ma sospetto siano stati molti.
La risposta di Bobbio era netta: negli scritti di Marx e di Friedrich Engels, “una vera e propria teoria socialistica dello Stato non esiste”. A nulla valsero le centinaia di pagine scritte dagli intellettuali ‘organici’, come si diceva allora, al Partito comunista per confutare Bobbio e salvare Marx. Se Marx non aveva fornito una teoria dello Stato, come poteva essere guida intellettuale di un partito che aspirava a guidare lo Stato democratico?
Messo da parte Marx, cercammo altri maestri che potessero aiutarci a credere nel socialismo senza essere marxisti. Trovammo per nostra fortuna Carlo Rosselli e il suo Socialismo liberale che proprio Bobbio aveva curato in una bella edizione Einaudi del 1973. La prima pagina di quel libro aveva il valore di una rivelazione o di una conferma di quanto già pensavamo, vale a dire che il limite maggiore della teoria sociale e politica di Marx era la pretesa (rafforzata e popolarizzata dal buon Friedrich Engels) di essere dottrina scientifica : “L’orgoglioso proposito di Marx fu quello di assicurare al socialismo una base scientifica, di trasformare il socialismo in una scienza, anzi nella scienza sociale per definizione [...] Doveva avverarsi, non poteva non avverarsi; e si sarebbe avverato non per opera di una immaginaria volontà libera degli uomini, ma di quelle forze trascendenti e dominanti gli uomini e i loro rapporti che sono le forze produttive nel loro incessante svilupparsi e progredire.”
Rosselli capì che il Manifesto del Partito comunista aveva immensa forza d’ispirazione perché era profezia travestita da scienza: “Quale pace, quale certezza dava il suo linguaggio profetico ai primi apostoli perseguitati! “
Ma già agli inizi del Novecento, dopo la disputa sul revisionismo aperta dal libro di Eduard Bernstein, uscito nel 1899 (che Laterza ha pubblicato in traduzione italiana nel 1974 con il titolo I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia), i più intelligenti giudicarono la scienza di Marx del tutto incapace di spiegare la realtà economica e sociale, e non trovarono più né conforto né guida nella profezia ormai irrigidita in stanche formule ripetute meccanicamente. Eppure, molte pagine di Marx, soprattutto del giovane Marx, offrono ancora, se le leggiamo senza i vecchi condizionamenti ideologici, elementi per una teoria dell’emancipazione sociale.
La lettera che Marx spedisce ad Arnold Ruge da Kreuznach, nel settembre del 1843, poi pubblicata nei Deutsch-Französische Jahrbücher del 1844, ad esempio, è un testo che ci insegna i lineamenti di una critica sociale e politica intransigente: “Costruire il futuro - scrive Marx - e trovare una ricetta valida perennemente non è affar nostro, ma è certo più evidente ciò che dobbiamo fare nel presente: la critica radicale di tutto l’esistente”. Critica radicale perché senza riguardi, senza paura né dei suoi risultati né del conflitto coi poteri attuali. E ci insegna che la lotta per la libertà e per la giustizia deve essere in primo luogo lavoro paziente di educazione delle coscienze: “Indi il nostro motto sarà: riforma della coscienza, non con dogmi, bensì con l’analisi della coscienza mistica, oscura a se stessa, in qualunque modo si presenti (religioso o politico)”.
L’emancipazione politica e sociale non era per il giovane Marx risultato di tendenze oggettive della storia, ma conquista di coscienze emancipate che sanno riscoprire il sogno o la profezia di giustizia che l’umanità ha coltivato in varie forme nella sua lunga storia: “così si vedrà che da tempo il mondo sogna una cosa, di cui deve solo aver la coscienza per averla realmente. Si vedrà che non si tratta di tracciare una linea fra passato e futuro, ma di realizzare le idee del passato. Si vedrà infine come l’umanità non inizi un lavoro nuovo, bensì attui consapevolmente il suo antico lavoro”.
Nello stesso fascicolo (l’unico che vide la luce) Marx pubblicò anche un’Introduzione a Per la critica della Filosofia del diritto di Hegel, dove sostiene che il proletariato è la sola classe sociale che emancipando se stessa emancipa l’intera società e che la filosofia può trovare nel proletariato “le sue armi materiali”. La filosofia (ovvero gli intellettuali) è dunque la “testa di questa emancipazione”; “il suo cuore è il proletariato”. Due illusioni nobili, queste del giovane Marx, ma pur sempre illusioni.
Il proletariato, allora come oggi, è una classe oppressa e umiliata, ma resta una classe particolare che nella sua storia ha lottato e sofferto per finalità di emancipazione generale, ma ha anche sostenuto demagoghi autoritari. Attribuire al proletariato il semplice ruolo di cuore e forza materiale dello sforzo di emancipazione e agli intellettuali quello di cervello, significa aprire la strada, come la storia ha abbondantemente dimostrato, a freddi professionisti della rivoluzione e del governo, incapaci di condividere le sofferenze e le speranze degli oppressi e dunque pronti a diventare non compagni di lotta, ma nuovi dominatori.
In questo saggio, nato in un contesto segnato da appassionati dibattiti su religione e emancipazione sociale (ben documentato dalla recente biografia scritta da Gareth Stedman Jones, Karl Marx. Greatness and Illusion, Harvard University Press, 2016) Marx ha consegnato alla storia la sua celebre critica dell’alienazione religiosa: “L’uomo fa la religione, e non la religione l’uomo. [...] Essa è la realizzazione fantastica dell’essenza umana, poiché l’essenza umana non possiede una realtà vera. La lotta contro la religione è dunque mediatamente la lotta contro quel mondo, del quale la religione è l’aroma spirituale. La miseria religiosa è insieme l’espressione della miseria reale e la protesta contro la miseria reale. La religione è il sospiro della creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, così come è lo spirito di una condizione senza spirito. Essa è l’oppio del popolo”. Sarebbe facile osservare che la religione, in particolare la religione cristiana, ha sostenuto importanti esperienze di liberazione politica e sociale.
Ma dalla critica alla religione, Marx trae due conclusioni di straordinario valore morale e politico: la prima consiste nel principio che “l’uomo è per l’uomo l’essere supremo”; la seconda nell’“imperativo categorico di rovesciare tutti i rapporti nei quali l’uomo è un essere degradato, assoggettato, abbandonato, spregevole”. Un principio e un imperativo da riscoprire in questo nostro tempo che ha completamente perso l’idea stessa, e anche la speranza, dell’emancipazione sociale.
Lo Stato deve manifestare contro i fascisti
di Maurizio Viroli (Il Fatto, 10.02.2018)
Altro che vietare le manifestazioni, a Macerata deve manifestare lo Stato: manifestare la sua ferma determinazione di combattere i fascisti con tutte le sue forze, nel pieno rispetto della Costituzione e delle leggi. A Macerata deve andare il presidente della Repubblica e parlare, con i corazzieri alle spalle, e con lui sul palco devono esserci il presidente del Consiglio, il ministro degli Interni e quello della Difesa, i presidenti di Senato e Camera, i comandanti militari e delle forze di sicurezza. Devono dire con parole chiare che la Repubblica s’impegna solennemente a non dare tregua ai fascisti e a proteggere la libertà e la sicurezza di tutti, cittadini e non cittadini.
Possibile che le alte cariche dello Stato, uomini e donne colti e saggi, almeno si spera, non si rendano conto che sottovalutare il pericolo neofascista è moralmente ignobile e politicamente suicida? Possibile che non sappiano che lo Stato liberale è crollato nel 1922 perché non volle e non seppe combattere i fascisti, non certo perché i fascisti erano più forti?
Se Vittorio Emanuele III avesse decretato lo stato d’assedio e mandato contro i fascisti l’esercito e i carabinieri, avrebbe salvato lo Stato liberale.
Con tutte le differenze del caso, oggi la Repubblica democratica può sconfiggere il neofascismo soltanto se lo combatte con la massima intransigenza. In Italia il fascismo è un reato, l’antifascismo è un dovere civile. Ha, quindi, perfettamente ragione Giuseppe Civati a sostenere che “Fascismo e Antifascismo non sono in nessun modo paragonabili”. E con lui hanno ragione le associazioni e le organizzazioni che hanno chiesto alle autorità competenti di autorizzare la manifestazione. È un loro dovere ancor prima che loro diritto.
Sarebbe una vergogna tirarsi indietro. Ma i cittadini da soli non possono vincere contro i fascisti, poiché i fascisti usano la violenza: sparano, aggrediscono, intimidiscono. I cittadini non possono e non vogliono scendere sul terreno della violenza.
Soltanto lo Stato può usare la forza legittima e se non lo fa chi lo rappresenta si carica di una responsabilità gravissima. Per giustificare la scelta iniziale - per fortuna ieri rivista - di vietare le manifestazioni non vale l’argomento dell’ordine pubblico.
Lo Stato deve garantire agli antifascisti il diritto di manifestare e proteggerli da aggressioni fasciste. Se vuole, può farlo. Permettere agli antifascisti di manifestare significa non solo fare capire ai fascisti che lo Stato questa volta non è con loro ma contro di loro, ma dare forza alle istituzioni repubblicane. Altrettanto dissennato è l’argomento di chi sostiene che il gesto di Traini è stato un atto di solitaria follia. Chiunque abbia letto qualche libro sulle organizzazioni terroristiche intende perfettamente che quel che ha fatto Traini è puro terrorismo: violenza indiscriminata e a qualunque costo, contro un determinato gruppo sociale. I terroristi, infatti, agiscono anche a rischio della libertà e della vita, quando sanno di poter contare su una comunità che li sostiene. Infatti ecco Forza Nuova che si fa carico delle spese legali e manifesta con Casapound per aiutarlo, ecco Salvini che dichiara che la colpa è di chi ha fatto arrivare gli immigrati, ecco i molti che non parlano ma lo considerano un eroe.
Proprio perché l’atto terroristico di Macerata è segno della forza delle idee fasciste, la risposta deve essere una guerra senza quartiere. Le parole del sindaco di Macerata, Pd, che approva la scelta di vietare le manifestazioni in nome di un silenzio che rispetti le ferite della città sono penose. Qualcuno gli spieghi che il silenzio è atto di rispetto e di pietà per le vittime, ma che il dovere più importante e pressante è fermare gli aguzzini.
Il dato vero che deve preoccupare è che la solidarietà antifascista, che in passato aveva unito liberali, democristiani, repubblicani, socialdemocratici socialisti, comunisti e aveva saputo fare argine valido contro il neofascismo e ogni altra idea che mirasse a destabilizzare lo Stato, oggi non esiste più. Provino Pietro Grasso e Giuseppe Civati a proporre a chi a vario titolo è alla testa degli altri partiti politici (Silvio Berlusconi, Matteo Renzi, Giorgia Meloni, Luigi Di Maio, Matteo Salvini) di firmare prima del 4 marzo un documento comune in cui ciascuno s’impegna solennemente a combattere il neofascismo. Sarà un fallimento.
Lo scenario che probabilmente ci aspetta è quello di un governo di centrodestra guidato, di fatto, da Berlusconi. Com’è noto Berlusconi in più di un’occasione ha manifestato la sua simpatia per Mussolini, ed è poco incline a combattere i fascisti e felice di bastonare gli antifascisti, che poi per lui sono comunisti camuffati. Così, nel 2022, avremo le piazze piene di fascisti ed essi stessi, o i loro amici, al governo.
I fatti di Macerata rappresentano una svolta fondamentale. Le alte cariche dello Stato possono salvarla o agevolarne la morte. Rinnovo l’appello: vada il presidente Mattarella a Macerata e pronunci le parole giuste per sconfiggere il pericolo fascista, prima che sia tardi.
“Il fascismo è eterno: ecco come lo si può riconoscere”
Non pensiero ma azione
di Umberto Eco (Il Fatto, 11.01.2018)
Il termine “fascismo” si adatta a tutto perché è possibile eliminare da un regime fascista uno o più aspetti, e lo si potrà sempre riconoscere per fascista. [...] Ritengo sia possibile indicare una lista di caratteristiche tipiche di quello che vorrei chiamare l’“Ur-Fascismo”, o il “fascismo eterno”. che non possono venire irreggimentate in un sistema; molte si contraddicono reciprocamente, e sono tipiche di altre forme di dispotismo o di fanatismo. Ma è sufficiente che una di loro sia presente per far coagulare una nebulosa fascista.
1. [...] Il culto della tradizione. Il tradizionalismo è più vecchio del fascismo. Non fu solo tipico del pensiero controrivoluzionario cattolico dopo la Rivoluzione francese, ma nacque nella tarda età ellenistica come una reazione al razionalismo greco classico. Nel bacino del Mediterraneo, i popoli di religioni diverse (tutte accettate con indulgenza dal Pantheon romano) cominciarono a sognare una rivelazione ricevuta all’alba della storia umana. Questa rivelazione era rimasta a lungo nascosta sotto il velo di lingue ormai dimenticate. Era affidata ai geroglifici egiziani, alle rune dei celti, ai testi sacri, ancora sconosciuti, delle religioni asiatiche. Questa nuova cultura doveva essere sincretistica. [...] tollerare le contraddizioni. Come conseguenza, non ci può essere avanzamento del sapere. La verità è stata già annunciata una volte per tutte [...] È sufficiente guardare il sillabo di ogni movimento fascista per trovare i principali pensatore tradizionalisti. [...]
2. Il tradizionalismo implica il rifiuto del modernismo. [...] Tuttavia, sebbene il nazismo fosse fiero dei suoi successi industriali, la sua lode della modernità era solo l’aspetto superficiale di una ideologia basata sul “sangue” e la “terra” (Blut und Boden). [...] L’illuminismo, l’età della ragione vengono visti come l’inizio della depravazione moderna. In questo senso, l’Ur-Fascismo può venire definito come “irrazionalismo”.
3. L’irrazionalismo dipende anche dal culto dell’azione per l’azione. [...] Pensare è una forma di evirazione. Perciò la cultura è sospetta nella misura in cui viene identificata con atteggiamenti critici. [...]
4. Nessuna forma di sincretismo può accettare la critica. Lo spirito critico opera distinzioni, e distinguere è un segno di modernità. Nella cultura moderna, la comunità scientifica intende il disaccordo come strumento di avanzamento delle conoscenze. Per l’Ur-Fascismo, il disaccordo è tradimento.
5. Il disaccordo è inoltre un segno di diversità. L’Ur-Fascismo cresce e cerca il consenso sfruttando ed esacerbando la naturale paura della differenza. [...] è dunque razzista per definizione.
6. L’Ur-Fascismo scaturisce dalla frustrazione individuale o sociale. Il che spiega perché una delle caratteristiche tipiche dei fascismi storici è stato l’appello alle classi medie frustrate, a disagio per qualche crisi economica o umiliazione politica, spaventate dalla pressione dei gruppi sociali subalterni.
7. A coloro che sono privi di una qualunque identità sociale, l’Ur-Fascismo dice che il loro unico privilegio è il più comune di tutti, quello di essere nati nello stesso paese. È questa l’origine del “nazionalismo”. Inoltre, gli unici che possono fornire una identità alla nazione sono i nemici. Così, alla radice della psicologia Ur-Fascista vi è l’ossessione del complotto, possibilmente internazionale. I seguaci debbono sentirsi assediati. Il modo più facile per far emergere un complotto è quello di fare appello alla xenofobia. [...]
8. I seguaci debbono sentirsi umiliati dalla ricchezza ostentata e dalla forza dei nemici. [...]
9. Per l’Ur-Fascismo non c’è lotta per la vita, ma piuttosto “vita per la lotta”. Il pacifismo è allora collusione col nemico[...].
10. L’elitismo è un aspetto tipico di ogni ideologia reazionaria, in quanto fondamentalmente aristocratico. Nel corso della storia, tutti gli elitismi aristocratici e militaristici hanno implicato il disprezzo per i deboli. L’Ur-Fascismo non può fare a meno di predicare un “elitismo popolare”. Ogni cittadino appartiene al popolo migliore del mondo, i membri del partito sono i cittadini migliori, ogni cittadino può (o dovrebbe) diventare un membro del partito. Ma non possono esserci patrizi senza plebei. Il leader, che sa bene come il suo potere non sia stato ottenuto per delega, ma conquistato con la forza, sa anche che la sua forza si basa sulla debolezza delle masse, così deboli da aver bisogno e da meritare un “dominatore”. [...]
L’Ur-Fascismo può ancora tornare sotto le spoglie più innocenti. Il nostro dovere è di smascherarlo e di puntare l’indice su ognuna delle sue nuove forme - ogni giorno, in ogni parte del mondo.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
"PUBBLICITA’ PROGRESSO": L’ITALIA E LA FORZA DI UN MARCHIO REGISTRATO!!! NEL 1994 UN CITTADINO REGISTRA IL NOME DEL SUO PARTITO E COMINCIA A FARE IL "PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA" DEL "POPOLO DELLA LIBERTA’"
UNA DOMANDA ALL’ITALIA: MA COME AVETE FATTO A RIDURVI COSI’?! UN "BORDELLO STATE": UN PAESE BORDELLO. Una nota di Maurizio Viroli (dagli Usa) - e una risposta (agli americani, dall’Italia)
Federico La Sala
Elezioni USA 2016
Trump, la seconda profezia del regista Moore: “Non arriverà a fine mandato”
Il documentarista americano aveva già profetizzato la vittoria del magnate repubblicano alle primarie e poi alle presidenziali. Ora è sicuro che il tycoon si dimetterà o subirà l’impeachment: "Un narcisista come lui è probabile possa infrangere la legge"
di F. Q. (12 novembre 2016)
“Donald Trump non porterà a termine il suo mandato”. E’ la seconda profezia di Michael Moore. Il regista, che a luglio aveva preannunciato la vittoria del magnate repubblicano alle primarie e poi alle presidenziali, sostiene che si dimetterà o dovrà subire l’impeachment, la messa in stato d’accusa del presidente, prima della fine del suo mandato. “Il motivo per cui non dovremo soffrire per 4 anni è il fatto che Trump non ha nessuna ideologia se non la sua - ha detto alla Msnbc il premio Oscar del 2003 con ‘Bowling for Columbine‘ - e quando ti trovi davanti a un narcisista come lui, è probabile che possa, anche involontariamente, infrangere le leggi”.
Moore è sicuro: “Trump infrangerà le leggi perché penserà solo a ciò che è meglio per lui”. Secondo il regista, la vittoria del tycoon si rivelerà una benedizione per la sinistra e i democratici non cadranno nella disperazione dopo il risultato inaspettato delle elezioni. “Resisteremo e ci opporremo - ha aggiunto Moore - sarà una resistenza massiccia, un milione di donne hanno già annunciato che marceranno nel giorno del suo insediamento. Sarà la più grande manifestazione mai organizzata”. Il documentarista americano è ormai una bandiera della sinistra schierata contro il miliardario newyorchese: a ottobre è uscito il suo ultimo film ‘Michael Moore in TrumpLand‘, una sorta di instant movie realizzato per contrastare la corsa alle presidenziali americane del candidato repubblicano.
Trump presidente, l’imprenditore-showman che ha distrutto i politici e convinto gli americani
Il ritratto - Miliardario di famiglia, ha sempre curato più l’immagine che la sostanza. Berlusconi tra i modelli, la politica come il luogo in cui appagare il suo ego smisurato. Le tante ombre della sua carriera non hanno minimamente pesato davanti al messaggio-chiave, quello che gli elettori atterriti dagli effetti della globalizzazione volevano sentirsi dire: "L’establishment vi ha tradito"
dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI *
NEW YORK - Il Silvio Berlusconi americano. Molti lo hanno descritto proprio così, anche fra i più brillanti analisti dei media Usa, compresi alcuni opinionisti repubblicani. E’ proprio da qui che bisogna partire. Donald Trump, appena eletto presidente degli Stati Uniti, non ha inventato quasi nulla - solo un brillante show televisivo, The Apprentice - ma ha studiato modelli vincenti. Berlusconi è uno di quelli, altri più locali sono Ronald Reagan, Arnold Schwarzenegger, Jesse Venture (in decrescendo).
Grande imprenditore, geniale uomo d’affari. O affarista mediocre, truffatore seriale, bancarottiere, evasore fiscale. Doctor Jekyll e Mister Hide, insomma. La verità su Trump è sempre sfuggente. Come immobiliarista, non si è fatto da solo: ha ereditato una discreta fortuna dal padre, e secondo le stime più accurate della sua fortuna (molto poco trasparente) non avrebbe aggiunto molta ricchezza a quella paterna. Le "torri" (grattacieli) Trump che si vedono a New York, a Las Vegas, in Florida, spesso non sono più sue da tempo. I grossi immobiliaristi newyorchesi lo considerano un protagonista minore del loro business. Lui però ha curato il "brand", lasciando il suo marchio anche in cose che non gli appartengono più. Ha investito nei casinò, ma anche lì ha avuto meno successo di quanto si creda, le bancarotte sono state numerose. Trump è presidente degli Stati Uniti: la notizia sui siti internazionali
Ha varie linee di "merchandising", abbigliamento o vini, sempre utili ad alimentare la sua notorietà ma non necessariamente generose di fatturato. Ha posseduto e gestito il marchio di diversi concorsi internazionali per reginette di bellezza, come Miss Universo: anche lì, più immagine che sostanza. Non è un Bill Gates né uno Steve Jobs, nel mondo del grande capitalismo americano è un microbo. Solo come showman ha dimostrato un talento innegabile. The Apprentice, il reality tv in cui lui selezionava aspiranti imprenditori, è stato uno dei più grandi successi della tv americana.
La politica lo ha sempre attirato. Probabilmente perché sentiva che poteva appagare il suo ego, il suo narcisismo smisurato. E’ stato democratico prima che repubblicano, ha frequentato i Clinton e tutti i notabili del partito democratico newyorchese. Ha capito da tempo, però, che la sua fortuna poteva essere legata alla destra. Ne ha corteggiato le frange più radicali e razziste. Il suo vero ingresso sulla scena politica nazionale avviene quando lui si fa capo del movimento "birther": quattro anni fa, all’epoca della campagna elettorale del 2012, lui comincia ad accusare Obama di essere nato in Kenya, quindi ineleggibile, un usurpatore. La menzogna diventa leggenda metropolitana, vi si aggiunge l’insinuazione che Obama sia anche musulmano. Che sia falsa non conta, è un messaggio subliminale grazie al quale Trump diventa il beniamino di tutta l’America bianca e arrabbiata che non può ammettere un afroamericano come leader della nazione. Trump si accorge che manipolando i social media acquista rapidamente un seguito enorme, entusiasta. Comincia il suo uso intenso, quasi ossessivo, di Twitter. La campagna del 2012, anche se lui non si candida, diventa la prova generale di quel che verrà.
Nessuno lo prende sul serio quando lancia la sua candidatura nell’estate 2015. Gli altri repubblicani però esitano ad attaccarlo. Pensano che il fenomeno Trump si sgonfierà da solo. Lo corteggiano, sicuri che verrà il momento di ereditarne i fan. E lui li frega tutti, uno per uno cadono come birilli politici di professione come Jeb Bush, Ted Cruz, Marco Rubio. Li distrugge ridicolizzandoli. Azzecca tutte le parole d’ordine vincenti: il Muro, la denuncia dei trattati di libero scambio. All’America che soffre per la globalizzazione lui dice: l’establishment vi ha traditi, vi ha venduti alla Cina e al Messico. Ha interpretato, meglio di chiunque altro, l’aria del tempo.
Una campagna insurrezionale, rivoluzionaria, un’Opa ostile su un partito antico che ebbe come leader Abraham Lincoln, Dwight Eisenhower, Ronald Reagan. E’ riuscito perfino a farsi votare dai mormoni e dagli evangelici, lui che è al terzo matrimonio e si vantato di numerose conquiste e avventure extra-coniugali, fino alla ex modella di riviste per soli uomini che è la sua moglie attuale, Melania. Non lo ha danneggiato la rivelazione che Melania ha lavorato come fotomodella violando le leggi sull’immigrazione. Non gli ha nuociuto il fatto di avere impiegato immigrati clandestini nei suoi cantieri. Mentre tutti gli scandali di Hillary l’affondavano incollandole addosso l’immagine di una disonesta, lui è diventato presidente dopo essere stato un candidato-teflon, come a suo tempo Reagan.
* * la Repubblica, 09 novembre 2016 (ripresa parziale - senza immagini).
Quando la fantapolitica ha il profilo di Trump
Arriva in Italia “Da noi non può succedere”, il romanzo di Sinclair Lewis che nel 1936 immaginava l’avvento negli Usa di un regime parafascista
di Federico Rampini (la Repubblica, 27.10.2016)
Ci voleva un grande conservatore per osare pronunciare quella parola. Il fascismo in America? A spezzare il tabù è stato Robert Kagan, già consigliere di George W. Bush, “neocon” esperto di geopolitica, autore della celebre metafora su «gli americani che vengono da Marte, gli europei da Venere». In un editoriale-shock sul “Washington Post”, il 18 maggio 2016 Kagan ha messo da parte cautele verbali, circonvoluzioni e inibizioni dell’intellighenzia. Il titolo è stato come un pugno nello stomaco: Ecco come il fascismo arriva in America.
Il portatore della peste nera, Kagan non aveva dubbi, si chiama Donald Trump. L’intellettuale di destra in quell’intervento drammatico non risparmiava le accuse ai suoi compagni di partito: «Lo sforzo dei repubblicani per trattare Trump come un candidato normale sarebbe ridicolo, se non fosse così pericoloso per la nostra repubblica». Seguiva una descrizione del ciclone- Trump in tutti i suoi ingredienti: «l’idea che la cultura democratica produce debolezza», «il fascino della forza bruta e del machismo», «le affermazioni incoerenti e contraddittorie ma segnate da ingredienti comuni quali il risentimento e il disprezzo, l’odio e la rabbia verso le minoranze ». Il verdetto finale: «è una minaccia per la democrazia », un fenomeno «che alla sua apparizione in altre nazioni e in altre epoche, fu definito fascismo ».
Tutto ciò accadeva all’inizio del duello fra Trump e Hillary Clinton. Mentre scrivo, il verdetto finale non è ancora arrivato. La Clinton viene data per favorita. Ma anche se dovessimo evitare il peggio, l’America avrà vissuto un’incredibile campagna elettorale, dove è accaduto tutto ciò che Da noi non può succedere. Un candidato ha sdoganato il razzismo, la misoginia, l’evasione fiscale. Ha elogiato Vladimir Putin e altri regimi autoritari in giro per il mondo. Ha invocato l’aiuto degli hacker russi contro la sua rivale. Ha promesso di mandare in galera la candidata democratica. E, anche se chi mi legge sta vivendo in un futuro in cui lo scenario peggiore non si è avverato, come spero, resta il fatto che col fenomeno Trump abbiamo convissuto per un’intera campagna presidenziale. Con lui dovremo fare i conti a lungo, molto a lungo: per tutto ciò che ha fatto emergere dall’America di oggi.
Torno al monito severo di Kagan. Dopo che il guru neo-conservatore aveva lanciato contro The Donald l’accusa che molti non osavano pronunciare, il New York Times decise di sbattere la controversia in prima pagina. Con il titolo L’ascesa di Trump e il dibattito sul fascismo, il quotidiano liberal dava conto nella primavera del 2016 di un allarme che stava diventando esplicito. Un politico, l’ex governatore del Massachusetts William Weld, paragonava il progetto di Trump per la deportazione di undici milioni di immigrati alla “notte dei cristalli” del 1938 in cui i nazisti si scatenarono nelle violenze contro gli ebrei. Il New York Times allargava l’orizzonte per cogliere dietro il fenomeno Trump una tendenza più globale: mettendo insieme una generazione di leaders che vanno da Vladimir Putin al turco Erdogan, dall’ungherese Orban ai suoi emuli in Polonia, più l’ascesa di vari movimenti di estrema destra in Francia, Germania, Grecia.
È così che l’élite intellettuale newyorchese ha riscoperto due romanzi di fantapolitica. Scritti da due premi Nobel, in epoche diverse, ma con la stessa trama: l’avvento di un autoritarismo nazionalista in America. Il primo è questo Da noi non può succedere di Sinclair Lewis, finalmente disponibile in italiano. Affermazione rassicurante, quella del titolo: ma contraddetta dalla trama narrativa. Scritto e ambientato nel 1936, immagina che Franklin Roosevelt dopo un solo mandato sia sconfitto e sostituito da un fascista. L’altro romanzo è di Philip Roth, molto più recente (2004): immagina che nel 1940 Roosevelt sia battuto dall’aviatore Charles Lindbergh, simpatizzante notorio di Hitler e Mussolini. È probabile che Roth si sia ispirato al precedente di Lewis. La grande letteratura aveva previsto ciò che i politologi non vollero prendere in considerazione?
La reticenza che aveva impedito questo dibattito ha varie spiegazioni. Al primo posto, la fiducia sulla solidità della più antica tra le liberal-democrazie. Poi, l’America è abituata a considerarsi all’avanguardia; è imbarazzante ammettere che nel 2015-2016 ha importato tendenze già in atto da molti anni in Europa (Berlusconi-Bossi- Grillo, tanto per citare solo i nostri) e culminate nel Regno Unito con Brexit. L’autocensura che ha trattenuto gli intellettuali nasce anche da un complesso di colpa: la narrazione dominante dice che l’élite pensante ha ignorato per anni le sofferenze di quel ceto medio bianco (declassato, impoverito dalla crisi, “marginalizzato” dalla società multietnica) che nel 2016 si è invaghito di Trump. Dargli del fascista può sembrare una scorciatoia per ignorare le cause profonde di un disagio sociale: quel tradimento delle élites che ho messo al centro del mio ultimo saggio.
Sulle etichette, molti preferiscono sfumature diverse, dalla “democrazia illiberale” ai “populismi autoritari”. L’allarme di Kagan si è rivelato comunque troppo tardivo per arrestare la tendenza dei repubblicani a salire sul carro del vincitore. Frastornati, storditi, imbarazzati, umiliati, ma in larga parte troppo codardi, i repubblicani avranno una responsabilità immensa: l’aver consegnato il Grand Old Party di Abraham Lincoln e di Dwight Eisenhower a un affarista imbroglione, egomaniaco, narcisista e con pulsioni autoritarie. La cui somiglianza col protagonista di questo romanzo è impressionante, inquietante.
L’undicesima domanda a Silvio Berlusconi
L’ex Cavaliere, ottanta anni il 29 settembre, adesso è fuori gioco. Nel 2009 le 10 domande al Cavaliere di Giuseppe D’Avanzo su Repubblica. E oggi è il tempo di porne un’altra
di Ezio Mauro (l’Espresso, 26 settembre 2016)
L’Undicesima domanda arriva alla fine del tempo, quando si è chiuso il baldacchino della politica, oltre lo scontro tra destra e sinistra, fuori dai calcoli delle competizioni elettorali e dopo la grande partita per il potere. Quella partita durata vent’anni tra Berlusconi e la sinistra è finita: il Cavaliere è fuori gioco, la sinistra non sa a che gioco deve giocare.
Ci accorgiamo che quelle due anime perimetravano il campo, lo definivano e a noi assegnavano il posto sugli spalti per uno dei più grandi spettacoli politici del dopoguerra. Adesso il campo è vuoto, e come tutti gli spazi abbandonati è preda di incursioni casuali, episodiche, quasi aliene. Senza passione. Bisogna ammettere che l’ultima grande passione politica, per metà del Paese, è stato lui. E l’altra metà si è appassionata altrettanto all’idea di contrastargli il passo, cercando di fermare il piano di conquista di quello che era in quel momento l’uomo più potente d’Italia.
Era già tutto pronto anni prima che l’avventura incominciasse ufficialmente. Due anni prima, quando lavoravo a Torino alla "Stampa", l’avvocato Agnelli, editore del giornale, mi disse che avevamo un invito a pranzo ad Arcore con l’imprenditore televisivo Berlusconi e ci saremmo andati insieme, come capitava talvolta con uomini d’impresa ma anche con Luciano Lama. Poi ci fu un contrattempo, e mi presentai da solo.
Il pranzo che doveva essere a quattro diventò a tre, con il Cavaliere che non conoscevo e Fedele Confalonieri. Parlammo di tutto e di niente, in modo aperto e sciolto. Tanto che a un certo punto domandai: «Ho sentito dire che sta pensando di candidarsi a sindaco di Milano, è vero?». Mi rispose con un gesto infastidito della mano: «Una sciocchezza». Poi mi domandò quante lettere riceveva ogni giorno "Specchio dei tempi", la rubrica di dialogo coi lettori della "Stampa". Più di cento, risposi, pensando che avesse voluto cambiare discorso. Invece lo riprese: «Sa perché glielo chiedo? Perché io ricevo duecento lettere al giorno e sono delle massaie, felici perché ho regalato loro la libertà con le mie televisioni che guardano al mattino mentre fanno i mestieri, come si dice qui a Milano quando si rigoverna la casa. Bene, se pensassi di entrare in politica, io non farei il borgomastro di Milano ma fonderei un partito reaganiano, punterei proprio su quel mondo, prenderei la maggioranza dei voti e governerei il Paese».
Una sorta di "Bum!" silenzioso risuonò nella stanza, attorno al tavolo dov’eravamo seduti con le finestre aperte. A me quella frase entrò da un orecchio e uscì dall’altro, pensai a una boutade estemporanea, un paradosso gratuito, come se Renzi mi dicesse oggi che pensa di fare il centravanti nella Fiorentina. E infatti quando Agnelli chiamò in macchina per sapere se c’era qualche curiosità in quell’incontro gli raccontai la conversazione, saltando quel piccolo particolare. Glielo avrei ricordato due anni dopo, d’urgenza, quando sullo sfondo di una politica disastrata si avvertivano i primi scalpiccii berlusconiani misteriosi, le voci di vertici segreti a Publitalia, la rete di uomini di Dell’Utri, le simulazioni strategiche e coperte con i giornalisti del gruppo, i sussurri di qualche navigatore democristiano di lungo corso che cercava una scialuppa di salvataggio dopo il grande naufragio, una cena al Cambio con imprenditori torinesi a cui era stato raccontato tutto chiedendo il silenzio come nelle sette, nelle operazioni di marketing, nei blitz militari.
Io sapevo, anche se non avevo capito nulla. Non avevo considerato che il vuoto chiama il pieno. Che nella grande desertificazione della politica italiana dopo il suicidio di partiti centenari con le tangenti tutto era prosciugato, meno il deposito elementare ma identitario dell’anticomunismo, catalizzatore e collante istintivo: a patto che qualcuno fosse capace di riportare l’istinto in politica dopo l’uniformità scolastica degli anni democristiani e la rigidità monumentale della piramide comunista. Non avevo creduto possibile, soprattutto, che una creatura politica nuova potesse nascere dal nulla, dagli spettri del caos come direbbero i russi, senza il seme di una tradizione culturale, la selezione di un’élite allargata, la rappresentanza esplicita di una base sociale riconoscibile e riconosciuta.
Eppure, il Cavaliere senza accorgersene mi aveva consegnato il bandolo, la scintilla identitaria con quell’aggettivo buttato sul tavolo dopopranzo: reaganiano. Non democristiano, o moderato, o conservatore o liberale. No: reaganiano. Qualcosa di sconosciuto alla politica italiana, ma qualcosa che contiene il vero elemento fondante dell’intera operazione. L’outsider che in Italia come in America viene da un altro mondo, e guarda caso è il mondo dello spettacolo che dà la temperatura del rapporto con la folla, abitua ai riflettori, evoca intorno a sé un’avventura più che un progetto, in un paesaggio smart di successi, denaro e sorrisi.
La politica - per Reagan come per il Cavaliere - scoperta in età matura, come un’incursione estranea, senza l’imprinting originario dei professionisti. Proprio per questo, il tocco permanente del grande dilettante che non conosce il vocabolario istituzionale ma sa sfiorare perfettamente i tasti (basta leggere Lou Cannon, il biografo del presidente americano) dell’emozione popolare in ogni occasione, presentandosi come uomo nuovo, estraneo ai professionismi degli apparati. E infine, il nocciolo duro di quell’aggettivo: il profilo reaganiano disegnava fin dall’origine un progetto di destra, destra popolare ma destra vera, che dopo la mediazione democristiana puntava direttamente al comando, più che al governo.
La “rivoluzione conservatrice” non c’è stata. E anche la sinistra non è stata all’altezza del suo compito storico Naturalmente i denti d’acciaio (con cui il vecchio Gromiko misurava la durezza dei candidati alla guida del Cremlino) erano ben nascosti dentro il sorriso televisivo del Cavaliere, la cui iniziazione è insieme una grande dissimulazione. Deve nascondere i debiti che pesano come una macina al collo dell’azienda («ci vogliono vedere sotto un ponte», diceva allora Confalonieri), il debito politico dell’impero televisivo al Psi per le leggi che hanno consentito alla tv privata il volo nell’etere di Stato, la filiazione diretta del personaggio pubblico Berlusconi dal Caf, l’alleanza d’agonia della Prima Repubblica tra Craxi, Andreotti e Forlani, la macchia imprenditoriale nascosta (i tribunali l’accerteranno più tardi) del grande furto della Mondadori, la tessera P2 numero 625 fin dal 1978, e soprattutto le obbligazioni sotterranee che ne derivano. Proprio queste fragilità e queste ambiguità celate dietro i mausolei berlusconiani auto-eretti consigliavano prudenza ai personaggi più vicini al Cavaliere, secondo un modello democristiano teorizzato da Confalonieri: non vale la pena di gettarsi in politica in prima persona correndo il rischio di rompersi l’osso del collo, anche perché con tre televisioni basta avere pazienza, verrà la politica a cercare il becchime nella tua mano.
E invece proprio qui c’è il rovesciamento delle aspettative, il ribaltamento delle convenienze. Il Cavaliere si dimostra uomo d’avventura, l’egolatria fino a quel momento tenuta a bada lo trascina ad un protagonismo diretto e gli fa puntare l’intera posta su una nuova partita, dopo quella immobiliare, quella editoriale, quella televisiva: la politica, o meglio il comando, soprattutto il potere. La politica vista come il cuore del potere, ben più che il cuore dello Stato, qualcosa da conquistare più che da governare. C’è in questo la "pazzia" di cui parla Giuliano Ferrara, che tradurrei con l’azzardo di pensare l’impensabile, crederci costringendo gli altri a credere nell’incredibile realizzandolo prima ancora di renderlo plausibile. Farlo senza adattare la propria natura estranea alle regole auree e comunemente accettate del sistema, ma anzi deformando quelle regole e quelle modalità secondo la propria natura. Siamo a un passo - magari senza saperlo - da Carl Schmitt, secondo cui il vero sovrano non è il garante dell’ordinamento esistente ma è colui che crea un nuovo ordinamento decidendo sullo stato d’eccezione.
Mi sono sempre chiesto, in tutti questi anni, quanto tutto ciò fosse puro istinto di destra - destra reale, realizzata, come c’era il socialismo reale - e quanto invece progetto teorico dissimulato nel rifiuto del "culturame", ma in realtà accumulato con cura. Certo, l’istinto di classe ha convinto fin dall’inizio il Cavaliere a puntare sul ceto medio emergente proponendogli di mettersi in proprio per diventare finalmente soggetto politico, autonomizzandosi sia dalla grande borghesia che dal proletariato. Il progetto lo ha spinto a evocare un vero e proprio sovvertimento della classe dirigente, quasi una ribellione dei garantiti, perché c’è sempre un’élite più o meno ristretta contro cui mostrarsi ribelle. Il calcolo gli ha suggerito di infilarsi nella breccia aperta da Mani Pulite, nel solco della prima seminazione di antipolitica della Lega, e di radunare queste incoerenze sotto il doppiopetto miliardario, paradossalmente credibile proprio perché rivestiva un outsider rispetto all’aristocrazia delle grandi famiglie industriali cresciute nel fordismo e nell’acciaio, che lo consideravano imprenditore dell’immateriale e lo tenevano in fondo al tavolo. Ancora l’istinto barbaro e redditizio lo ha spinto a consigliare al cittadino di disinteressarsi dello Stato cercando un demiurgo, nascondendogli che su questa strada lo Stato avrebbe finito per disinteressarsi di lui, perché quando la sua libertà non si combina con la vita degli altri e l’esercizio dei suoi diritti resta esclusivamente individuale, separato, lui diventa un’entità anonima da rilevare nei sondaggi, realizzando la vera solitudine dei numeri primi.
Ma questo paesaggio misto, abitato da solitudine e ribellione, era in realtà lo scenario perfetto di un esperimento del tutto nuovo per l’Italia e per le democrazie occidentali. Era nella mia stanza il direttore di un grande giornale europeo, a dicembre del 1994, mentre sul video subito dopo il telegiornale scorrevano riflessi negli addobbi rotondi e lucenti di un gigantesco albero di Natale le immagini di un Berlusconi sorridente, magnanimo, circondato dai bambini su un prato, mentre accarezzava i cani, o alzava le coppe vinte dal Milan. Mascherati da innocenti auguri di Natale erano i primi spot subliminali di un’avventura politica del tutto nuova. «Il solito italiano», disse il mio amico, «manca soltanto la chitarra o il mandolino». Naturalmente arrivarono, insieme all’iperrealismo di una bandana sulla fronte. Ma era tutt’altro che il volto di un arcitaliano, quello che stavamo vedendo: piuttosto l’inizio di un esperimento che l’Europa non aveva ancora conosciuto, e che in questi anni non ho saputo chiamare altrimenti che neo-populismo, qualcosa di modernissimo e primitivo insieme, con la sua neolingua e una dilatata dismisura.
Ottimismo ad ogni costo, poiché le mani del demiurgo sono sul timone, soluzioni semplici davanti a problemi complessi (l’efficacia del "puerilismo", come lo chiamava Huizinga), invulnerabilità assoluta, tanto che le sconfitte sono sempre colpa di una truffa o di un inganno sopraffattore, in modo che il leader esca comunque dalla prova innocente, magari ferito ma superstite, nel cerchio intatto del carisma perenne. È un investimento sull’indebolimento dello spirito critico, a vantaggio di una visione mitologica dell’avventura eroica. Il cittadino viene autorizzato a farsi i fatti suoi, elevati a cifra privata della nuova dimensione pubblica. In cambio il leader gli parlerà direttamente saltando ogni intermediazione partitica, istituzionale, politica, e mentre provvederà alla guida del Paese gli chiederà soltanto una vibrazione costante di consenso, e una delega elettorale periodica e fissa. Principio e fine di tutto questo, l’evocazione di una destra che il Paese nel dopoguerra non aveva conosciuto, perché il filtro democristiano drenava al centro gli istinti post-fascisti del Paese. Berlusconi ha fatto l’opposto, radicalizzando a destra una propensione politica sconosciuta a se stessa, camuffata e scusata dal doroteismo di potere, liberandola nella sua vera natura. Una destra sdoganata con un progetto puramente elettorale e non culturale, senza chiedere revisioni e abiure, con la complicità dell’intellettuale italiano strabico, che per vent’anni (fino al declino del nuovo potere col calcio dell’asino) non ha usato a destra la pedagogia liberale impiegata giustamente a sinistra con il Pci.
Il mix ha funzionato tre volte, perché il fuoco in pancia del Cavaliere lo ha trasformato in uno straordinario campaigner (salvo quando ha incontrato Romano Prodi), tanto quanto è risultato sempre un pessimo uomo di governo. A Palazzo Chigi quel fuoco si è ogni volta spento e tra le ceneri brillavano fisse le quattro anomalie del Cavaliere rispetto a qualsiasi moderna destra occidentale: le leggi ad personam, il conflitto d’interessi, lo strapotere economico che gli consentiva di comperare i deputati a grappoli, lo strapotere mediatico che alterava il mercato del consenso. A un certo punto l’uomo della grande avventura diventava un avventuriero, fino al punto di usare l’esecutivo per piegare il legislativo a fermare il giudiziario, con buona pace di Montesquieu. Le coalizioni assemblate senza il crogiuolo di una fusione culturale capace di dare al Paese una destra moderna, ogni volta si sfaldavano perdendo prima Bossi, poi Casini, quindi Fini, con gli intellettuali che se n’erano già andati. Infine la vicenda giudiziaria prese il sopravvento. Lui teorizzò la decapitazione per via processuale. In realtà aveva imposto una tale torsione al sistema che eravamo giunti al dubbio estremo: se la legge era ancora uguale per tutti, oppure no, nel suo unico caso.
Anche qui, la concezione carismatica del populismo era perfettamente coerente con il rifiuto di essere giudicato, anzi con la giustizia vista come sopruso. Il leader unto dal Signore col voto popolare infatti risponde solo al popolo, ed è per questa sua stessa speciale natura insofferente ad ogni controllo, costituzionale da parte delle autorità di garanza, politico da parte del parlamento, di legalità da parte della magistratura. La legittimità dell’investitura assorbe la legalità fino a soffocarla nell’irrilevanza, l’annulla subordinandola. Ma proprio la specialità di questa eccezione - ecco il punto - rende oggi impossibile sciogliere il nodo gordiano del dopo-Berlusconi. Politicamente, la sua creatura è ancora irrisolta così com’è nata per conquistare il potere e non per cambiare il Paese, ferma al bivio tra moderatismo e radicalità. Leaderisticamente, bisogna prendere atto che ogni successione nel senso democratico e moderno del termine è nei fatti impossibile perché Crono divora ogni possibile figlio tanto che si è davvero pensato al passaggio dinastico come unica soluzione, in quanto avrebbe trasmesso integrale il conflitto d’interessi insieme con il dna familiare, perpetuando l’anomalia berlusconiana nella contemplazione perpetua del peccato originale.
Siamo davanti alla metafisica di sé, con un’avventura straordinaria che consuma se stessa replicandosi ogni giorno in sedicesimo, come una condanna infernale, ormai fuori dal tempo. E guardando quel poco che resta, da qui nasce l’undicesima domanda: Cavaliere, ne valeva la pena?
La trattativa
Il Codice piegato a misura di Colle
Se anche la Magistratura si allinea alla trasformazione della Repubblica in Reame, le speranze di resistere, resistere, resistere sono poche
di Bruno Tinti (il Fatto, 11.10.2014)
Le sentenze si emanano nel rispetto della legge. Che garantisce alle parti del processo la possibilità di far valere le proprie ragioni. Si chiama contraddittorio e, in uno con l’informazione fornita dai mass media, permette il controllo dei cittadini sui processi. Secondo la Corte d’Assise di Palermo il contraddittorio è variabile; pieno, parziale, anche inesistente. Lo decidono discrezionalmente i giudici, in base non alla legge ma a presunti principi generali astratti cui le leggi dovrebbero conformarsi; e, se conformi non sono, non si applicano. Che la legge ritenuta non conforme alla Costituzione debba esser rimessa alla Corte costituzionale per il relativo giudizio, questi giudici non lo sanno. E scrivono ordinanze inaccettabili.
La questione è nota. Napolitano ha “acconsentito” (non poteva fare diversamente, la legge lo obbligava) a rendere testimonianza nel processo per la trattativa Stato-mafia. Riina, Bagarella, Mancino e Parte civile hanno chiesto di essere presenti. E qui è nato il problema. Perché, a quanto pare (ma proprio non capisco perché), Napolitano non vuole trovarsi a tu per tu con i boss mafiosi. E ha opposto resistenza: testimonio, ma non voglio la presenza di questi imputati.
L’art. 205 c. p.p. prevede che il capo dello Stato sia interrogato presso il Quirinale. La Corte d’Assise si è arrampicata sui vetri con argomentazioni diverse: alcune più strettamente giuridiche, per interpretare le norme processuali in modo da giustificare la renitenza di Napolitano; altre extra-giuridiche, asseriti principi fondamentali che renderebbero il Quirinale e il capo dello Stato non sottomessi alle norme ordinarie.
LA LEGGE si limita a prevedere che la testimonianza del presidente della Repubblica deve avvenire presso “la sede in cui esercita la funzione di capo dello Stato”. Altro non dice. In particolare non detta specifiche regole che differenzino l’assunzione di questa testimonianza da tutte le altre. Così si deve applicare un principio ben noto ai giuristi, una frase latina di 2000 anni fa: ubi lex voluit, dixit; ubi noluit, tacuit; quando la legge prevede qualcosa, lo dice; quando non vuole prevederla, tace. Siccome eccezioni alle modalità di assunzione della testimonianza del capo dello Stato, a parte il luogo in cui essa è prevista, non sono previste da alcuna legge, tutte le norme processuali che regolano il dibattimento penale si applicano anche a questo caso particolare.
E qui sta il primo errore della Corte che ha ritenuto di natura analogica l’applicazione di queste norme alla testimonianza del capo dello Stato: “La norma non prevede nulla; dunque - per analogia - si dovrebbero applicare le altre norme processuali sulla testimonianza; ma non si può per via dei principi generali sull’immunità, etc”.
Solo che l’analogia non c’entra nulla: le norme generali sulla testimonianza si applicano a tutte le testimonianze, salvo le eccezioni previste dalla legge; una di queste è quella prevista dall’art. 205 (il Quirinale e non l’aula d’udienza). Per il resto non cambia niente.
E non potrebbe cambiare. Perché le norme processuali che la Corte vuole disinvoltamente “abrogare” sono, non a caso, assistite da una sanzione di nullità: se non rispettate, tutto il processo è nullo. Così l’art. 502 del codice di procedura prevede che, in caso di udienza che si tenga in luogo diverso dall’aula di Tribunale, “il giudice, quando ne è fatta richiesta, ammette l’intervento personale dell’imputato interessato all’esame”. “Ammette”, non “può ammettere”; ammissione obbligatoria. E l’art. 494 prevede che, l’imputato ha facoltà “di rendere in ogni stato del dibattimento le dichiarazioni che ritiene opportune, purché esse si riferiscano all’oggetto dell’imputazione”. Come può un imputato cui si impedisce di presenziare rendere “le dichiarazioni che ritiene opportune”? E qui entra in gioco l’art. 179: “Sono insanabili le nullità derivanti dalla omessa citazione dell’imputato”. E siccome non gli si può dire che non deve entrare nel posto dove, con obbligatoria citazione, gli è stato detto che può recarsi, il risultato di questa ordinanza è la nullità del processo.
Nell’ansia di difendere l’indifendibile, la Corte commette anche errori marchiani. Va bene, Riina e Bagarella al Quirinale non ci possono andare perché la legge non lo permette agli imputati per reati di mafia. Proprio per questo è prevista la videoconferenza. Ma - dice la Corte - l’art. 146 bis delle disposizioni di attuazione al codice di procedura la prevede solo per le attività svolte nell’aula di udienza; e il Quirinale è un luogo diverso. Non è vero. L’art. 146 bis prevede casi in cui la videoconferenza può essere attivata tra diversi istituti penitenziari, in modo da consentire a ogni imputato di interloquire con quanto avviene in questi luoghi. Dunque videoconferenza tra le carceri sì e con il Quirinale no? E perché poi?
ALLA FINE la Corte lo dice: esistono “speciali prerogative di un organo costituzionale qual è la Presidenza della Repubblica”; che vanno correlate all’“immunità della sede, all’ordine pubblico e alla sicurezza nazionale”. Siamo sempre lì. A questo presidente della Repubblica la legge comune non si applica. È già successo ai tempi della distruzione delle sue telefonate con Mancino. Ora succede di nuovo. Il grave è che succede a seguito di un provvedimento giudiziario. Se anche la Magistratura si allinea alla trasformazione della Repubblica in Reame, le speranze di resistere, resistere, resistere sono proprio poche.
Vedi alla parola “rivoluzione”
risponde Furio Colombo (il Fatto, 05.10.2014)
SE CI SI PENSA BENE, la parola non è fuori posto né per Renzi, che l’ha detta e ripetuta nei discorsi del viaggio in America, né per Berlusconi che dice “rivoluzione” per annunciare e poi celebrare il suo ritorno alla rilevanza nazionale dopo la condanna, l’espulsione dal Senato, l’interdizione dai pubblici uffici.
Infatti rivoluzione significa “cambiamento immediato della organizzazione sociale”.
Le prove:
1- La elezione a Camere riunite del Capo dello Stato, imposta dalla scadenza dell’attuale titolare della carica, non ha avuto luogo. La sequenza di votazioni è stata interrotta dopo due tentativi, ed è stata decisa la rielezione del Presidente in carica, benché la Costituzione non lo preveda.
2 - Maggioranza e opposizione sono state abolite, introducendo la formula, senza precedenti, nel mondo democratico, delle “larghe intese” (tutto il Pd più tutto il Popolo delle Libertà) al fine di realizzare insieme (ovvero contro o al di fuori delle indicazioni degli elettori) le cosiddette “riforme strutturali”. La strana formula delle larghe intese si è poi evoluta attraverso un curioso camuffamento: una parte del Popolo delle Libertà si è riorganizzato in una vecchia-nuova aggregazione politica detta Forza Italia, e ha finto di passare all’opposizione. Un’altra parte si è organizzata in “Nuova Destra”, ed è diventata socia di governo con ministeri importanti, e sostiene il governo in Parlamento. Berlusconi controlla direttamente una parte (la finta opposizione) ma è il leader storico anche dell’altra, che sta trattando per rientrare.
3 - È stato chiamato a fare il primo ministro un cittadino noto e apprezzato come sindaco di Firenze, ma senza rapporti con il Parlamento. Si è deciso di scambiare la sua vittoria interna alle Primarie del Pd per elezione a capo del Governo e la sua vittoria a elezioni europee intese a decidere se restare in Europa o uscirne, come un plebiscito su di lui in quanto premier. Allo stesso tempo uno dei partiti di “maggioranza”, il Pd, lo ha eletto segretario. In questa doppia veste di eletto - non eletto, e di vincitore di elezioni nazionali che non ci sono state, guida il governo sulla base di un sostegno automatico preventivo.
4 - Il capo del Governo così eletto e così sostenuto è tenuto a consultarsi a stretti intervalli, e nelle forme più vistose, con il capo della presunta opposizione (Berlusconi) che però garantisce i suoi voti in tutti i casi che dovessero essere difficili o delicati o simbolici. Evidentemente non è importante che il capo della presunta opposizione sia un condannato a pena definitiva per crimine rilevante, e arrivi scortato e in gran cerimoniale a Palazzo Chigi, benché interdetto dai pubblici uffici. Il suo assenso è indispensabile alle decisioni chiave del governo. Si può parlare o no di rivoluzione?
Gli intellettuali (ahimè) ci sono
di Maurizio Viroli (il Fatto, 04.10.2014)
Sarà contento Matteo Renzi - che or non è molto ha tuonato “basta con gli esperti e i professori professionisti della tartina che amano fare i pessimisti e ai convegni sono i primi a buttarsi sui buffet” - di apprendere dalle colonne de La Stampa pochi giorni fa a firma di Luigi La Spina, che l’Italia non ha più intellettuali.
Non solo, precisa l’autore, non si trovano “gli eredi di Croce e Gentile”, ma neppure quelli di Pasolini e delle sue “lucciaole”, di Sciascia contro i “professionisti dell’antimafia”, di Bobbio e delle sue polemiche con Togliatti, e via discorrendo. L’epidemia non ha badato agli schieramenti politici, e sono così caduti sia gli intellettuali organici e disorganici e gli “utili idioti” della sinistra, sia le “foglie di fico” dell’incolta destra. Una vera ecatombe. La via alle oscene riforme di Renzi, in fraterno sodalizio con Berlusconi, è aperta e luminosa.
Premetto che a mio parere sarebbe assai utile avere eredi di Croce ma del tutto deleterio avere eredi di Gentile perché sarebbero o mediocri studiosi o teorici dello stato totalitario o l’uno e l’altro, e proprio non se ne avverte la necessità. Né davvero arrecherebbero qualche bene allievi dello Sciascia che accusa di protagonismo Paolo Borsellino, mentre sarebbe una benedizione avere ancora il Bobbio che discute con Togliatti e anche il Bobbio che definisce Forza Italia un partito personale ed eversivo. Di quali intellettuali parla La Spina? Se si riferisce all’intellettuale cortigiano maestro nell’arte di adulare i potenti, allora altro che morte: ce ne sono a bizzeffe e scoppiano di salute ingrassati dai consigli di amministrazione, dai grandi giornali e dalle consulenze profumate.
DI QUELLA “razza dannata” come li apostrofava Rigoletto, nel nostro povero Paese, povero anche a causa loro, non c’è mai stata e mai ci sarà inopia. Se La Spina non ci crede legga sui giornali gli articoli di tanti suoi stimati colleghi grondanti di servo encomio all’apparire dell’astro Renzi, e prima ancora in occasione della rielezione di Giorgio Napolitano, e prima ancora quando Berlusconi regnava incontrastato. Per aiutarlo posso inviargli gli articoli di Marco Travaglio che raccolgono un florilegio di adulazioni davvero mirabile, se non fosse penoso. E La Spina è troppo colto per non sapere che gli editorialisti sono intellettuali a pieno titolo.
Se invece La Spina intende dire che non ci sono più intellettuali come Emile Zola che hanno il coraggio di denunciare la volgarità, la meschinità e l’arroganza dei potenti, allora non legge i libri che si stampano. Ci sono, eccome, studiose e studiosi giovani e vecchi che non hanno avuto e non hanno paura di smascherare e denunciare ieri il ripugnante sistema di potere di Berlusconi, oggi l’arroganza infantile di Renzi, le inaccettabili interferenze di Giorgio Napolitano sul Parlamento, il sistema della corruzione politica e gli intrecci fra la mafia e la politica, per citare soltanto alcuni dei problemi sui quali ancora intellettuali degni di rispetto scrivono. Non devono fuggire all’estero per sfuggire al carcere come Emile Zola, ma stai certo, caro La Spina, che gli intransigenti in Italia pagano in altri modi. Puoi disapprovare tutto ciò che scrivono, ma non dire che non ci sono più. Avresti dovuto trovare almeno una parola di rispetto.
SOTTOLINEA La Spina che gli intellettuali non hanno più la medesima incidenza sulla vita pubblica che avevano in passato. Non ne sarei così sicuro. Ho ascoltato la medesima considerazione anche trent’anni or sono, e proprio da Norberto Bobbio il più celebre e ascoltato dei nostri intellettuali del dopoguerra. Luigi Einaudi ha scritto Prediche inutili; data di pubblicazione: 1959. Verissimo che nei talk show buffoni e provocatori fanno miglior prova di chi offre dati seri e ragionamenti sensati. Ma allora il lamento va rivolto agli organizzatori di quelle indegne gazzarre, non agli intellettuali seri che o partecipano per avere una qualche sana incidenza o non partecipano per non abbassarsi a tanta volgarità.
Insomma, se siamo inutili, morti e sepolti perché il Presidente del Consiglio non perde occasione non per criticare i nostri argomenti, impresa per lui e i suoi troppo ardua, ma per sbeffeggiarci? O siamo morti, e allora lasciateci in pace; o siamo vivi e allora provate a discutere con un minimo di serietà. Mettetevi d’accordo.
Amnesie vaticane per brutti alleati
di Marco Politi (il Fatto Quotidiano, 22 dicembre 2012)
Ora che Berlusconi è diventato ufficialmente cattivo, perché i vertici ecclesiastici hanno trovato il Monty-Party da caldeggiare, una singolare amnesia coglie i vessilliferi del cattolicesimo istituzionale. Con la minacciosa impudenza di sempre Berlusconi ricordava l’altro giorno le sue benemerenze nei confronti di Chiesa e Vaticano. Non aveva bisogno di elencarle.
Sono tante, sono agli atti: le norme imbroglione per non fare pagare l’Ici agli enti ecclesiastici con attività commerciale, i finanziamenti alle scuole, i finanziamenti a pioggia a opere confessionali varie anche prelevando le somme che i cittadini con l’8 per mille avevano destinato espressamente a “iniziative umanitarie statali”, l’appoggio alla campagna astensionistica del cardinal Ruini per sabotare il referendum sulla procreazione artificiale, il blocco ad una legge sull’omofobia, l’adesione al Family Day per impedire una legge sulle coppie di fatto, il catenaccio contro una legge sul testamento biologico che garantisca l’autodeterminazione del paziente, il tentativo di sovvertire con un decreto legge la sentenza del tribunale che autorizzava il padre di Eluana a lasciarla spegnersi in pace, la pressione in Europa per rovesciare la sentenza della corte di Strasburgo che sanciva la non sostenibilità di una presenza monopolistica di un simbolo religioso (vedi crocifisso) nelle aule scolastiche.
“AUSPICO - ha detto il Caimano - che i si ricordi tutto quello che abbiamo fatto per la Chiesa”. I cittadini ricordano... Ma l’Avvenire, stizzito, ha reagito con un corsivetto del direttore, in cui si accusa B. di muoversi “con poco garbo e nessuna eleganza” e di ignorare che i cattolici sono “gente che è piuttosto difficile incantare con stentoree o suadenti propagande”.
Dice il giornale dei vescovi che l’elettorato sa valutare con “saldi criteri civili e morali.... (sia i programmi che) i profili politici e personali” di chi vuole governare l’Italia. Un tono davvero sferzante, sintomo del nuovo corso chiesastico.
Giorni fa l’Avvenire rimarcava anche il “fallimento” del governo Berlusconi e la Tv dei vescovi gli accreditava un comportamento politico “miope e meschino”. Peccato soltanto che una grande amnesia avvolga il fervido appoggio a Berlusconi di Chiesa e Vaticano per un intero ventennio. Sì, si possono ripescare dagli archivi singoli interventi critici, che di quando in quando hanno rotto i grandi silenzi di complicità con il governo del Caimano. Si possono anche citare gli ultimi duri interventi (cinque) dell’era Boffo, poi lasciato massacrare dal Giornale di Feltri. “Lasciato” massacrare, perché poche settimane dopo all’aeroporto di Ciampino (26 settembre 2009) il Papa salutava cordialmente il patrono della decapitazione dell’allora direttore di Avvenire, esclamando: “Che piacere rivederla”. C’è stata anche qualche bacchettata della Cei nel corso post-ruiniano.
Piccoli lampi nella grande nube di silente sostegno alle follie rovinose del governo berlusconiano. Non si è sentita la voce della Chiesa tra gli oppositori, quando il Caimano anno dopo anno ha scardinato il sistema giuridico. Non si è sentita quando ha falsato la legge sul bilancio e si è aggiustato i processi a colpi di deformazioni di legge. Non si è sentita quando la magistratura è stata sistematicamente delegittimata. Anzi, il ruinismo allora ha rispolverato una comoda versione degli opposti estremismi, evocando un’inesistente guerra tra giudici e politica che in nessun Paese occidentale è mai stata citata (tra gli ultimi casi, l’esemplare atteggiamento di Israele dove è possibile processare senza turbative e senza “legittimi impedimenti” un capo di stato o un ministro degli esteri). Non si è sentita, peraltro, nemmeno la voce laica di molti odierni rinnovatori.
GLI ITALIANI ricordano invece le esortazioni di mons. Fisichella a “contestualizzare” le bestemmie. Gli italiani ricordano la volonterosa partecipazione del Segretario di Stato vaticano cardinale Bertone ad una cena organizzata in casa di Vespa per sponsorizzare il riavvicinamento tra Casini e Berlusconi. Ricordano le pressioni del cardinal Ruini perché continuasse l’alleanza tra l’Udc e il Pdl dell’allora premier, oggi diventato improvvisamente impresentabile.
Gli italiani ricordano anche il grande assist della Chiesa a B. alla vigilia del voto di sfiducia del 14 dicembre 2010 (quando Fini e il neonato Fli, si ribellarono). La scena si svolse ad un ricevimento nell’ambasciata d’Italia presso la Santa Sede. “Da parte mia non verrà mai nulla contro il Vaticano”, scandì Berlusconi. Il suo governo, replicò Bertone perché il messaggio fosse sentito ben bene su tutti i media, “va ringraziato per aver svolto un’azione che ha tenuto in gran conto le istanze della Chiesa, in un contesto di relazioni pacificate”.
“Memoria ottima”, titolava l’Avvenire ieri. Si vede che i saldi criteri di giudizio funzionano a intermittenza. Facile oggi dire che Monti ha salvato l’Italia dal “baratro”. Tra gli oppositori di chi trascinava l’Italia verso la rovina, in quegli anni i grandi prelati non c’erano. Signori, capaci di indignarsi al momento giusto, si nasce (direbbe Totò). Certe pensose figure, adesso veloci a ripudiare il Caimano, non lo nacquero
Il trattatello immorale della signorina Terry
di Concita De Gregorio (la Repubblica, 19 settembre 2011)
No, non è gossip. È un trattato di antropologia culturale quello che Terry D e Nicolò, probabilmente Teresa, consegna al suo intervistatore in un video che da giorni migliaia e migliaia di persone stanno scaricando in rete. Un trattatello immorale in dieci semplicissimi punti, l’abbecedario della mutazione genetica di cui Pier Paolo Pasolini fu profeta e Silvio Berlusconi responsabile, per un trentennio suadente magnaccia. Colpevole del delitto politico di istigazione alla prostituzione di una generazione intera, corruttore morale e culturale di un Paese.
Sconcertante, ipnotica nel suo non essere mai sfiorata dal dubbio, semplicemente sicura di essere nel giusto la ragazza barese che ha trascorso le sue notti a pagamento in letti di destra e di sinistra fino ad arrivare al Letto Supremo espone in dieci minuti la quintessenza del berlusconismo. Parla all’Italia e molta parte dell’Italia - bisogna dirlo molto chiaro, questo - la trova ragionevole. Una ragazza che sa quello che vuole, che sa stare al mondo. Del resto, molta parte dell’Italia politica, da diverse latitudini, le ha dato ragione.
Dunque no, non faremo troppi pettegolezzi anzi non ne faremo alcuno. Semplicemente proviamo a decifrare le parole di una ragazza di vent’anni che ci spiega come si vive nel Paese in cui abitiamo, l’Italia com’è diventata. Dice Terry De Nicolò che «Tarantini è un imprenditore di grande successo, un mito». L’uomo che ha messo a verbale che «le donne e la cocaina favoriscono gli affari», che ha barattato prostitute in cambio di appalti, che con la moglie ha messo in piedi una ragnatela di ricatti per i quali è oggi agli arresti, è «uno che è riuscito ad arrivare all’apice, e non è da tutti». È stato bravissimo e lo è, perché lui «ha vissuto giorni da leone mentre gli altri vivono 100 anni da pecora». Mussolinianamente, un mito. Se ora si trova nei pasticci è per via «dell’invidia, sono tutti invidiosi, è tutto mosso solo dall’invidia». Quindi, il sottotesto è: quello che conta è arrivare all’apice. Non importa come, anzi bisogna sapere come - con le donne, la cocaina, il ricatto - e semplicemente farlo.
Non esiste un problema di rispetto delle leggi, esiste la legge di natura, che è la seguente: «Quando sei onesto non fai grande business, rimani nel piccolo. Se vuoi arrivare in alto devi rischiare in proprio, devi rischiare il culo. Per avere successo devi passare sui cadaveri degli altri ed è giusto che sia così». È giusto che sia così. Chi lo nega non è mosso da una diversa visione delle relazioni fra gli uomini ma da un risentimento personale: è invidioso, perché tutti potendo farebbero come Berlusconi, se non lo fanno è perché non possono. Difatti la sinistra «ha rotto le palle» con questa «idea moralista che tutti devono guadagnare duemila euro, tutti devono avere i diritti». Eccheppalle, i diritti. «Se vuoi guadagnare ventimila euro al mese ti devi mettere sul campo. Ti devi vendere tua madre. È così». Dunque apparentemente l’alternativa è guadagnare due o ventimila euro al mese, ventimila essendo la cifra appropriata al bisogno di ciascuno.
Qui va detto che l’esegeta del berlusconismo dimostra pochissima conoscenza di un Paese in cui anche i duemila sono per una moltitudine una chimera. Ma è un difetto di dettaglio. Dunque, abbiamo detto: rischiare il culo e vendere tua madre. Si fa così. A sinistra, garantisce la ragazza che ne ha contezza, è lo stesso: «Solo che sono più loffi e non pagano». Fra l’originale e la copia è sempre meglio l’originale. Difatti per andare dall’Imperatore devi mettere una collana di smeraldi, «per andare con Frisullo ti puoi anche mettere la collanina dei cinesi». E veniamo dunque al cuore della questione: la prostituzione. Le donne usate come tangenti, retribuite per fare sesso: pagate in denaro, in seggi, in consulenze a Finmeccanica, in posti al parlamento o all’europarlamento e anche di più.
E allora? Il problema qual è? Dice De Nicolò: «La bellezza, come dice Sgarbi, è un valore. È come la bravura di un medico. Se sei bella e ti vuoi vendere devi poterlo fare. Se sei racchia e fai schifo devi stare a casa. È così da che mondo è mondo. Tutte queste storie sul ruolo delle donne, che palle, quelle che non lo vogliono fare stiano a casa e non rompano i coglioni». Cioè: se una ha belle gambe non ha altri problemi della vita, ogni donna è seduta sulla sua fortuna come scrivono persino certi editorialisti, le belle vendono la patonza come i dottori la loro sapienza e finita lì. Le racchie a casa, a meno che non vogliano investire sul futuro: che significa farsi la quinta di reggiseno dalchirurgo e tirarsi un po’ su le natiche. Una piccola spesa che vale la partita, l’Esteta apprezzerà e ti retribuirà per questo. L’Esteta, dice proprio così Terry De Nicolò, è l’Imperatore: «Davanti all’Imperatore non ti puoi presentare con una pezza da cento euro, devi avere minimo un abito di Prada. Perché lui è un esteta, apprezza la bellezza».
A chi dovesse obiettare che si tratta "solo" delle opinioni di una prostituta faremo osservare alcuni dati di cronaca recente. Nei licei le ragazzine di sedici anni - non tutte, parecchie - hanno il book fotografico. Delle ragazze che visitano palazzo Grazioli una viene accompagnata in auto dal padre. Il genitore di una di quelle non ammesse minaccia di darsi fuoco. La madre della giovane che dal bagno del presidente del Consiglio la chiama per dire "mamma indovina dove sono" le risponde brava anziché chiamare la polizia. Il fratello della presunta fidanzata del premier, un giovane dell’hinterland torinese, famiglia operaia, alla domanda: è proprio sua sorella la fortunata? risponde «magari». La professoressa della scuola di Noemi Letizia, all’epoca minorenne, intervistata in tv dice «chi non vorrebbe essere amica di un uomo così potente?». Certo, naturalmente: non tutta l’Italia è così. Non tutte le ragazze sono in fila per accedere al lettone di Putin, la manifestazione delle donne di febbraio lo ha mostrato. Tuttavia ce n’è abbastanza per dire che un modello di vita si è imposto, in questi anni. È il modello della prostituzione. È da sfigati dire che compito di un uomo di governo non è "foraggiare" le prostitute con buste da diecimila euro ma offrire loro possibilità alternative di vita e di lavoro. Se poi si azzardano a dare voti ai loro amanti, come Manuela Arcuri fa alle Iene, vengono depennate come volgari. Volgare cosa? Istigare alla prostituzione o piegarsi alla legge di mercato? In definitiva, volgare è dare voti sfogliando il catalogo degli uomini di cui si è fatta esperienza. «Questo ha fatto cilecca», ha detto ridendo Manuela Arcuri, ed è stata per questa colpa esclusa dalla lista. Più del giudizio dei tribunali l’Esteta teme, si vede, quello delle sue concubine. Nel tempo di cui l’Imperatore detta le regole l’impotenza è il solo fallimento intollerabile. A Terry De Nicolò, tribunale supremo, l’ultima parola.
Costituzione e prostituzione
di Antonio Padellaro (il Fatto, 17.09.2011)
A chi ancora domanda (gli sbalorditi giornalisti stranieri e tanti comuni cittadini) come sia possibile che un tipo accusato di essere un puttaniere patentato e ricattato resti inamovibile e protervo a Palazzo Chigi, e cosa si possa fare per lavare questa vergogna nazionale non si può che rispondere: troppo tardi, bisognava pensarci prima. Chi è infatti il personaggio che, parlando di ragazze come se fossero agnelli da scuoiare, dice a Gianpi “chi mi porti stasera?” e che versa centinaia di migliaia di euro a Tarantini e ai suoi degni compari perché tengano la bocca chiusa?
È lo stesso che più di tre lustri fa ribaltò, grazie a una montagna di quattrini, il già poco virtuoso tavolo della politica italiana e che ora, disponendo di un patrimonio di quasi 6 miliardi di euro, si è comprato un governo, una maggioranza e tutte le leggi di cui ha bisogno.
E dunque può fare solo rabbia il fatto che ora, nell’opposizione guidata dal Pd, si levino alti i lamenti sul “Berlusconi che ci porta alla rovina” quando per ben due volte (1996 e 2006) la sinistra di lotta e di governo si guardò bene dal varare una seria norma sul conflitto d’interessi per impedire che un miliardario senza scrupoli facesse banco, come poi ha fatto. E che dire della grande stampa d’informazione? Siamo convinti che il galantuomo Ferruccio de Bortoli prima o poi darà voce sulla prima pagina del Corriere della Sera allo sdegno della grande borghesia produttiva, che quel grande giornale rappresenta, per lo spettacolo vergognoso di un premier che vuole trasformare la Costituzione in prostituzione.
Mentre i giornali di Arcore si coprono di ridicolo sostenendo che il padrone non paga le ragazze, ma fa beneficenza (non sposarono festosamente anche la balla suprema di Ruby nipote di Mubarak?), ciò che resta della libera informazione, con poche eccezioni, si limita a commentare il “troiaio” con timide giaculatorie che lasciano il tempo che trovano. Del resto i loro editori, palazzinari, banchieri o industriali dell’auto, hanno un maledetto bisogno del governo di Papi e si adeguano.
Una prece infine sui silenzi vaticani. Sì, quelle purpuree gerarchie che insorgono appena si osi parlare di coppie di fatto, tacciono imperturbabili di fronte allo scempio morale: decine di giovani donne vendute e comprate per il sollazzo di un vecchio. Il quale sa di non temere nulla, finché i mercanti continueranno a bivaccare nel tempio in cambio di un’esenzione Ici.
Un’inchiesta sull’inchiesta
Perché uomini di governo vanno da Bisignani a ricevere istruzioni? Perché sono disorientati o perché il vero potere è altrove? L’opposizione dovrebbe saper rispondere a questa domanda
di Furio Colombo (il Fatto, 26.06.2011)
“Perché uno come Gianni Letta, che ha un ruolo rilevante, direi eccezionale, nel governo del Paese e nelle relazioni istituzionali, deve sapere da Bisignani se nei suoi confronti ci sono o no indagini giudiziarie ? Perché ministri in carica vanno nell’ufficio di Bisignani a chiedere consigli, a ricevere istruzioni e segnalazioni per incarichi pubblici?". Sto citando da un articolo di Emanuele Macaluso (Il Riformista, 22 giugno) perché la sequenza di domande da lui proposta ci porta nell’occhio del tifone. Stiamo assistendo a un muoversi frenetico di personaggi influenti sotto e sopra la linea di galleggiamento delle principali istituzioni, un andare e venire poco chiaro e poco spiegabile fra il sottofondo della Repubblica e gli apparenti titolari del potere.
TUTTI I PEZZI del gioco, qualunque sia il gioco, sono in movimento, si spostano o vengono spostati, si espongono o vengono spinti ad esporsi, ascoltano, non si capisce da chi e si confidano, non si capisce con chi. Qui mi discosto dalle conclusioni di Macaluso che dice, accantonando le sue stesse domande: "Ci sono sempre stati dei Bisignani, perché lo Stato è debole". È vero, ma ciò che sta accadendo è molto di più. Si è scoperto che, nelle vene della politica, è in circolazione un batterio misterioso che ha più forza del potere, nel senso che fa apparire l’intera collezione delle persone di potere come ombre a cui si può sempre cambiare (o far cambiare) posizione, dislocazione, funzione, decisione.
È possibile che Bisignani sia l’artefice di tanta autorità operativa, che sia il punto da cui emanano ordini e comando, secondo un disegno del dinamico ex giornalista che ha abilmente messo le mani su leve che altri, pur vicini al potere, non avevano notato? Poiché so, fin da ora, che il percorso giudiziario, per quanto accurato e meticoloso, ci dirà molto sul modo di operare (ed eventualmente di violare la legge) di Bisignani, ma poco o niente su “chi è Bisignani?” e “perché si va da Bisignani a chiedere istruzioni per esercitare il potere?”. Non resta che un altro percorso, un percorso narrativo .
Qui comincia il racconto, con la dovuta avvertenza che esso si basa sulla pura immaginazione del narratore e che non ha nulla a che fare con documenti e rivelazioni. Nel racconto, il vivace ex giornalista Bisignani viene così intensamente frequentato non perché abbia o rappresenti il potere, o partecipi al potere, o possa dare il giusto consiglio o mettere una buona parola.
Bisignani è un raccordo necessario. Chi deve saperlo sa che si passa attraverso di lui. Non come luogo di saggezza, di esperienza e di eventuale favore, ma come camera di consultazione, ascolto o confessione con un potere che conta.
Un potere o il potere? La domanda è romantica. Nessun potere è il potere. Ma certo la camera di ascolto e conversazione a cui si accede tramite Bisignani conta abbastanza perché il ministro Stefania Prestigiacomo "si rovini" facendosi intercettare al telefono di Bisignani. Quel rischio, forse, non è temuto davvero. Forse è un modo di mostrare il giusto comportamento. A chi? Poiché, come il lettore intuisce, il narratore non ha la risposta finale deve prendere tempo. In quel tempo dobbiamo inserire gli incontri, che non possono essere furtivi e le telefonate, che non possono essere ingenue, del sottosegretario Letta (foto) con l’agile Bisignani.
LETTA È UNA persona saggia, niente affatto impulsiva, capace di una attenzione ferrea e ininterrotta al filo dei suoi rapporti, molti dei quali, comprensibilmente, coperti da discrezione accurata. Non sembra, valutando il personaggio nell’insieme, che il rapporto con Bisignani sia stato un passo falso che interrompe in un punto la sequenza perfetta di ciò che si fa ma non si deve sapere. Sembra una necessità, o così la racconterei se scrivessi questo racconto. Voglio dire: questo tipo di potere terminale che sta al di là e al di sopra del potere fatto di figure e di simboli che potremmo chiamare (ma solo nel racconto) i prestanome, esige un certo rispetto delle forme. Ciò che è dovuto è dovuto. Rimane nell’ombra ciò che deve rimanere nell’ombra. Evidentemente la folla dei potenti-impotenti (nel senso che rappresentano molto e decidono poco) è bene che abbia costantemente la misura del proprio limite e si conformi senza impropri e sconsigliabili gesti di ridicola ribellione.
QUANDO POI entrano in scena personaggi dei Servizi segreti che, a nome e per conto del predetto Bisignani, si recano a conferire con il parlamentare che presiede la commissione di controllo sui Servizi segreti, il narratore si persuade, pur in assenza di evidenze documentali, di essere sulla strada giusta. C’è qualcosa che conta oltre la siepe, cose che noi cittadini non vediamo e non sappiamo, ma che evidentemente smuovono molto e cambiano molto, tanto che fanno correre di qua e di là dei generali appena entrati in possesso delle presunte chiavi della Repubblica.
Se ti è accaduto di avere visto alla Camera Silvio Berlusconi, il 22 giugno, esaltare se stesso, con un discorso identico al 1993, al 1994, al 2001, al 2008, e hai appena notato (e fatto notare in aula) che per lui i deputati della Lega non applaudono e, al momento dell’ovazione, nessuno di loro si alza in piedi per lui, una cosa sai e constati: Berlusconi non è e non ha il potere. E il trucco (persino nel senso cosmetico) non funziona più. “Perché Gianni Letta, che ha un ruolo rilevante, deve sapere da Bisignani...”, si domanda Macaluso nell’articolo che ho citato all’inizio. Ma Letta è Berlusconi. Dunque, fino a questo punto abbiamo un indizio prezioso per la versione narrativa che ho proposto. Continua Macaluso, che di politica ne ha vista tanta: “Perché ministri in carica vanno da Bisignani per ricevere istruzioni?”. Perché sono deboli e disorientati o perché il potere è altrove? Il narratore si ferma qui. Ma chi guida l’opposizione deve saper rispondere a questa domanda.
Sull’antifascismo non si tratta
di Maurizio Viroli (il Fatto Quotidiano, 3 aprile 2011)
L’idea di tre senatori del Pdl e di un “finiano” di presentare un disegno di legge costituzionale per abrogare la disposizione XII che vieta “la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista” sarebbe niente di più di un’ulteriore prova dell’ignoranza dei parlamentari della maggioranza di governo, se non fosse immorale e pericolosa.
Gli sconsiderati senatori sostengono infatti che la disposizione in questione è transitoria e dunque, dopo 65 anni, può essere allegramente abbandonata. Anche chi conosce soltanto i primi rudimenti di diritto costituzionale sa che quella disposizione non è transitoria perché non contiene indicazioni di limiti temporali ed è invece finale, e sta lì in quanto esprime un giudizio storico e morale inappellabile e irreversibile di condanna del regime fascista.
La ragion d’essere della nostra Costituzione è l’antifascismo. Tolta quella disposizione, tutta la carta fondamentale perde la sua fisionomia etica e politica. Ma questo è appunto ciò che il signore e i suoi servi vogliono: liberarsi dalla Costituzione, devastandola pezzo per pezzo. O noi ci liberiamo di loro, o loro si libereranno dalla Costituzione, ultimo baluardo della nostra libertà e dignità civile.
Non c’è via di mezzo. Questo è il carattere dello scontro politico oggi in Italia. La ragione per cui l’idea di abrogare la disposizione XII è immorale la capisce anche un bambino: sarebbe un’offesa alla memoria di coloro che hanno lottato contro il fascismo e un’assoluzione dei crimini e delle responsabilità di quel regime. E’ un’idea pericolosa perché il fascismo, come modo di sentire e di pensare, è nella nostra storia e fa parte del nostro spirito nazionale. E’ dunque semplicemente folle indebolire le difese politiche e legali. Saggezza e rettitudine suggeriscono un comportamento esattamente opposto.
Chiunque abbia la possibilità di fare sentire la propria voce in Parlamento, nelle piazze, nelle televisioni, sui giornali, ha il dovere di parlare per fare nascere un movimento di sdegno nobile e fermo contro questo nuovo attacco alla nostra libertà. Il prossimo 25 aprile sia l’occasione per dire al signore e ai suoi servi che per impedire un simile scempio siamo disposti a lottare con tutte le nostre forze.
Scilipoti copia il manifesto fascista
Nel "programma" dei responsabili
intere frasi riprese dal testo redatto da Giovanni Gentile nel 1925 *
«Interi brani del testo programmatico dei Responsabili sono copiati di sana pianta da quello redatto nel 1925 per il partito di Mussolini. Leggere per credere»: così «l’Espresso» rivela di aver scoperto che il movimento di Scilipoti ha effettuato un vero e proprio «copia e incolla». «Quello che ha fatto il parlamentare Domenico Scilipoti, l’ex dipietrista diventato l’instancabile anima dei Responsabili, supera però ogni aspettativa», aggiunge il settimanale che poi mette a confronto i due testi.
Ecco alcuni passi del testo del movimento dei responsabili: «Responsabilità Nazionale è il movimento recente ed antico dello spirito italiano, internamente connesso alla storia della Nazione Italiana. Responsabilità è politica morale. Una politica che sappia coinvolgere l’individuo a un’idea in cui esso possa trovare la sua ragione di vita, la sua libertà, il suo futuro e ogni suo diritto. Responsabilità di Patria è la riconsacrazione delle tradizioni e degli istituti che sono la costanza della civiltà. Responsabilità è concezione austera della vita, non incline al compromesso, ma duro sforzo per esprimere i propri convincimenti facendo sì che alle parole seguano le azioni».
Le frasi sono identiche a quelle del manifesto redatto da Giovanni Gentile: «Il Fascismo è un movimento recente ed antico dello spirito italiano, intimamente connesso alla storia della Nazione italiana, ma non privo di significato e interesse per tutte le altre. (....) un’idea in cui l’individuo possa trovare la sua ragione di vita, la sua libertà e ogni suo diritto Codesta Patria è pure riconsacrazione delle tradizioni e degli istituti che sono la costanza della civiltà, nel flusso e nella perennità delle tradizioni. È concezione austera della vita, è serietà religiosa (...) ma è duro sforzo di idealizzare la vita ed esprimere i propri convincimenti nella stessa azione o con parole che siano esse stesse azioni».
I due testi sono chiaramente "gemelli". E l’Espresso chiosa: «Un caso? Piuttosto improbabile. Resta solo da chiedersi come sia saltato in mente a Scilipoti di prendere un manifesto fascista e di farlo diventare, con un po’ di correzioni, il testo base del manifesto dei Responsabili».
* La Stampa, 06/04/2011
Scilicopia e Scilincolla
di Massimo Gramellini (La Stampa, 07.04.2011)
Il programma dei Responsabili è copiato di sana pianta dal manifesto degli intellettuali fascisti del 1925. Incredibile. Non tanto per il riferimento ai fascisti, ma agli intellettuali. Uno non fatica a immaginarsi la scena: Scilipoti alla scrivania con la matita in bocca e gli occhi al soffitto.
Responsabilità nazionale è... è... è... Ah, saperlo. All’improvviso, la luce: perché non inserire una parola-chiave su Internet, come uno studente in cerca di ispirazione? «Manifesto», per esempio. Orrore! Sullo schermo è comparso il barbone di Marx. Un momento... più in basso affiora il filosofo Gentile col manifesto degli intellettuali fascisti da lui ispirato. Leggiamo un po’... «Il fascismo è il movimento recente e antico dello spirito italiano, intimamente connesso alla storia della nazione». Scilipoti ha un sussulto: parla di me! Chi è più recente e antico della nostra simpatica combriccola di voltagabbana? Chi più intimamente connesso alla storia della nazione? Il leader recente e antico pigia il tasto «copia e incolla» e il più è fatto. Giusto un paio di ritocchi. «Responsabilità Nazionale» al posto di «Fascismo», che come soggetto è un po’ datato. Anche «intimamente» va sostituito perché fa venire in mente il bunga bunga. Meglio «internamente»: orribile e casto.
Tra una scopiazzata e un’incollata si approda al gran finale. Gentile aveva scritto: «La patria è concezione austera della vita». Scilipoti lo personalizza con la sua griffe inimitabile: «Responsabilità è concezione austera della vita». Ci piace sperare che a quel punto gli sia almeno venuto da ridere.
Deriva pericolosa
di Michele Ainis (Corriere della Sera, 01.04.11)
Una roba così non era mai successa. Il capo dello Stato che convoca i capigruppo al Quirinale, li mette in riga come scolaretti, gli chiede conto dei fatti e dei misfatti. D’altronde non era mai successo nemmeno il finimondo andato in scena negli ultimi due giorni. Il ministro della Difesa che manda a quel paese il presidente della Camera, quello della Giustizia che giustizia la sua tessera scagliandola contro i banchi dell’Italia dei Valori, quello degli Esteri che lascia la Libia al suo destino per votare un’inversione dell’ordine del giorno in Parlamento. Dall’altro lato della barricata, fra i generali del centrosinistra, contumelie e strepiti, toni roboanti, decibel impazziti. E intanto, nelle valli che circondano il Palazzo, folle rumoreggianti dell’opposizione, lanci di monetine, improperi contro il politico che osa esibire il suo faccione.
Diciamolo: la nostra democrazia parlamentare non è mai stata così fragile. Ed è un bel guaio, nel mese in cui cadono i 150 anni della storia nazionale. Perché uno Stato unito ha bisogno di istituzioni stabili, credibili, forti di un popolo che le sostenga. Ma in Italia la fiducia nelle istituzioni vola rasoterra. Per Eurispes nel 2010 le file dei delusi si sono ingrossate di 22 punti percentuali, per Ispo il 73%dei nostri connazionali disprezza il Parlamento. Colpa dello spettacolo recitato dai partiti, colpa del clima di rissa permanente che ha trasformato le due Camere in un campo di battaglia.
Le nazioni muoiono di impercettibili scortesie, diceva Giraudoux. Nel nostro caso le scortesie sono tangibili e concrete come il giornale lanciato in testa al presidente Fini. Ma non è soltanto una questione di bon ton, di buona educazione. O meglio, dovremmo cominciare a chiederci per quale ragione i nostri politici siano scesi in guerra. Una risposta c’è: perché sono logori, perché hanno perso autorevolezza, e allora sperano di recuperarla gonfiando i bicipiti. Sono logori perché il tempo ha consumato perfino il Sacro Romano Impero, e perché il loro impero dura da fin troppo tempo.
Guardateli, non c’è bisogno d’elencarne i nomi: sono sempre loro, al più si scambiano poltrona. Stanno lì da quando la seconda Repubblica ha inaugurato i suoi natali, ed è proprio il mancato ricambio delle classi dirigenti la promessa tradita in questo secondo tempo delle nostre istituzioni. Da qui l’urlo continuo, come quello di un insegnante che non sa ottenere il rispetto della classe. Perché se sei autorevole parli a bassa voce; ma loro no, sono soltanto autoritari. Ma da qui, in conclusione, il protagonismo suo malgrado del capo dello Stato.
D’altronde non sarà affatto un caso se l’istituzione più popolare abita sul Colle: dopotutto gli italiani, nonostante la faziosità della politica, sanno ancora esprimere un sentimento di coesione. E il presidente simboleggia per l’appunto l’unità nazionale, così c’è scritto nella nostra Carta. La domanda è: come raggiungerla? Con un ricambio dei signori di partito, con un’iniezione di forze fresche nel corpo infiacchito della Repubblica italiana. Ci penseranno (speriamo) le prossime elezioni. Quanto poi siano lontane, dipenderà dalla capacità di questo Parlamento di mantenere almeno il senso del decoro.
REPORTAGE
I timori di Napolitano "Così non si va avanti"
Convoca i capigruppo
per lanciare l’allarme:
e c’è chi paventa lo
scioglimento delle Camere
di PAOLO PASSARINI (La Stampa, 01/04/2011)
ROMA Per Giorgio Napolitano «è chiaro che non si può andare avanti così». Il Presidente della Repubblica lo ha detto apertamente ai capigruppo parlamentari convocati ieri al Quirinale con un’urgenza che denota la sua «estrema preoccupazione» per quella che considera una vera e propria «crisi politico-parlamentare». Ne consegue, per lui, la necessità di ricordare a tutti quanto fece già presente in una nota di meno di due mesi fa, e cioè che, se non cambiano le cose, «la stessa continuità della legislatura è a rischio».
Appena rientrato dal suo viaggio negli Usa, dove aveva spiegato agli studenti della New York University i guasti provocati dal clima di permanente «guerriglia politica» dominante in Italia, Napolitano ha avuto soltanto poche ore di sonno prima di trovarsi tra le mani i giornali italiani con i resoconti delle intemperanze parlamentari del ministro Ignazio La Russa, con tutto quello che gli è girato intorno. Atteso da un’agenda indifferente al suo «jet lag» (la visita a una mostra patriottica al Vittoriano nel pomeriggio e un concerto in serata), Napolitano è stato colto da un misto di indignazione e sgomento quando, sul finire della mattinata, è stato informato dei nuovi disordini nell’aula di Montecitorio, con tanto di lanci di oggetti cartacei da parte di membri del governo.
«Siamo in una situazione difficile di politica estera - è sbottato con un collaboratore - c’è l’allarme immigrazione, si aggrava lo scontro sulla giustizia e l’aula di Montecitorio sa solo dare spettacolo». «Uno spettacolo - ha subito aggiunto con amarezza - a cui non si può più assistere». La situazione è grave, ai cittadini si richiede un grande sforzo di coesione, e la classe dirigente della Repubblicaèattivamenteimpegnata in uno sforzo di autodelegittimazione. Inaccettabile, non solo per la «forma», ma anche, e soprattutto, «per la sostanza». E la sostanza è che siamo nel pieno di una paralisi dell’organo più importante della Repubblica, il Parlamento, che si configura, appunto, come una «crisi politico-istituzionale». Della forma si possono occupare gli organi preposti a far osservare la disciplina parlamentare. Sulla sostanza, il garante della Costituzione deve intervenire.
E così, già a tarda mattinata, Napolitano ha fatto disdire la sua partecipazione al concerto della serata e ha dato disposizioni perché venissero convocati al Quirinale tutti i capigruppo parlamentari. Un gesto eccezionale: di fatto consultazioni di tutto l’arco parlamentare come quando c’è una crisi di governo, anche se i collaboratori del Presidente respingono questo termine.
Se l’ufficio-stampa del Quirinale avevailcompito di buttare acqua sul fuoco, spiegando che il Presidente, appena rientrato dall’estero, intendeva soltanto svolgere «una ricognizione a tutto campo» di quanto era successo e che ogni valutazione era rinviata «alla fine di questa ricognizione», i rappresentanti di Pdl, Pd e Udc, ricevuti nel tardo pomeriggio (gli altri seguiranno questa mattina) hanno incontrato un Napolitano agitato come non lo avevano mai visto.
A Fabrizio Cicchitto e Maurizio Gasparri (Pdl), a Dario Franceschini e Anna Finocchiaro (Pd) e a Gianpiero D’Alia e Pier Ferdinando Casini dell’Udc il Presidente non ha taciuto nessuna delle sue considerazioni sullo «spettacolo» e sulla gravità della situazione. Lo stesso farà questa mattina coi rappresentanti della Lega, dell’Idv e degli altri gruppi minori, non nascondendo a nessuno che, in una situazione di paralisi parlamentare e crisi istituzionale, l’articolo 88 della Costituzione gli impone di considerare l’ipotesi di uno scioglimento delle Camere. Quando, il 12 febbraio scorso, prendendo a pretesto la necessità di correggere il resoconto di un giornale sul suo incontro del giorno prima con Silvio Berlusconi a proposito della vicenda Ruby, aveva prospettato le necessità di interrompere una legislatura diventata improduttiva, qualcuno scrisse che Napolitano aveva dato a Berlusconi un mese di tempo per tentare di riaggiustare la sua maggioranza e riportare la situazione alla normalità. Adesso di mesi ne sono passati quasi due e, a dispetto delle tante emergenze, aumentano la conflittualità e la paralisi.
Barbarie a Montecitorio
di Curzio Maltese (la Repubblica, 01.04.2011)
Come si sono ridotti così? Prima un po’ alla volta, poi tutto insieme. Il volto, i volti della classe dirigente riflettono ormai la deriva di un’agonia politica. Il ghigno stupefacente di Ignazio La Russa, l’isterico lancio della tessera del guardasigilli Alfano, lo sguardo esterrefatto di Fini, i deputati leghisti che ringhiano «handicappata di merda» alla collega disabile Ileana Argentin.
La malattia degenerativa di una democrazia di colpo assume i modi, le espressioni, i gesti di un’esplosione schizofrenica. Nell’ora dei telegiornali milioni d’italiani assistono attoniti a uno spettacolo di degrado, di squallore definitivo. Dentro l’aula l’impressione era ancora più penosa. Da un momento all’altro ti aspettavi che i leghisti prendessero anche a calci la carrozzella della deputata tormentata dalla distrofia o che qualcuno estraesse all’improvviso un’arma, come in Bowling for Colombine. Ogni tanto bisognava uscire fuori, per strada, fra la folla ordinata e pacifica che contestava in piazza Montecitorio, per respirare un po’ di normalità civile.
Vergogniamoci pure per loro, che non ne sono capaci. Ma perché sono arrivati a tanto? Il fatto è che il governo non esiste, la maggioranza non esiste e lo sa. Non esistono più da tre mesi, dal 14 dicembre scorso, quando il governo avrebbe dovuto essere sfiduciato dalla Camera e invece la scampò per i voltagabbana dell’ultima ora, i dipietristi pentiti Scilipoti e Razzi. Un colpo di coda col quale il premier è riuscito a garantire la propria sopravvivenza, ma niente di più. Il governo, la maggioranza sono comunque morti il 14 dicembre. Non decidono più, non sussistono. Se non all’unico scopo di sfornare leggi in grado di proteggere il premier dai processi. Per il resto, il governo è una nave fantasma, incapace da dicembre di compiere qualsiasi scelta, qualunque cosa accada. Terremoti, tsunami, crisi nucleari, guerre civili alle porte, rivoluzioni a un tiro di missile da casa. Niente. Disoccupazione, inflazione, scalate estere ai gruppi industriali. Silenzio. Uno dopo l’altro, sono spariti dalla scena i ministeri e i ministri, anche i più popolari e decisionisti. Che fine hanno fatto Brunetta, Maroni, Gelmini, perfino Tremonti? Ridotti a comparse. Sulla scena rimane l’ondivago Frattini, il nulla stesso fatto ministro, inventore del situazionismo in politica estera. E l’improvvisatore Ignazio La Russa, che fa notizia soltanto per calci, insulti e gestacci, mai per essere ministro della Difesa della nazione al centro del Mediterraneo in fiamme. Il mondo procede già come se l’Italia non avesse ufficialmente un governo, a prescindere. Perché convocare a un summit sulla crisi libica una sedia vuota?
Libera da ogni altra missione che non sia la salvaguardia di Berlusconi dalla legge, la maggioranza si divide soltanto sulle linee difensive. Oggi il gran dibattito nel centrodestra si svolge fra avvocati di Berlusconi, all’interno dei due principali studi legali. Quello di Gaetano Pecorella, scettico sulla necessità della battaglia per la prescrizione breve, e l’altro di Niccolò Ghedini, ideatore di leggi ad personam sempre più modellate sulle stringenti esigenze di Berlusconi. Con il ministro Alfano e la Lega nel ruolo di arlecchini servitori di due padroni.
È una condizione abbastanza umiliante da spiegare la deflagrazione di rabbia e violenza di questi giorni, il senso d’inutilità che esplode in un misto di rancore e vittimismo. Tanto più da parte di chi, come gli ex An e i leghisti, coltivava l’ambizione di far politica o almeno la pretesa di farlo credere agli elettori. Ma si ritrova imprigionato nella livrea del maggiordomo, scavalcato nella considerazione dall’ultimo venduto, dall’ultimo compagno di merende e compagna di bunga bunga, e allora se la prende con gli avversari, con i manifestanti, con chiunque ancora osi esibire brandelli di dignità, segnali di esistenza. Il governo e la maggioranza non ci sono più. Nella notte si sono svolte trattative fra i collegi di avvocati del premier, in vista della riconvocazione della Camera. Sarà un altro spettacolo d’angoscia. Per fortuna martedì torneranno in piazza anche i manifestanti in difesa della Costituzione, così potremo uscire ogni tanto dal manicomio di Montecitorio a respirare un po’ di civiltà.
I DOCUMENTI
WikiLeaks, l’Italia vista dagli Usa
"Con Berlusconi paese ormai in declino"
Le valutazioni della diplomazia statunitense contenute nei nuovi documenti segreti.
"La reputazione in Europa è lesa". "Il premier danneggia l’Italia ma ci è utile e non dobbiamo abbandonarlo, alla fine ne trarremo vantaggi"
di FABIO BOGO *
ROMA - Quattromila cables riservati filtrati dall’ambasciata Usa a Roma, oltre 30 mila pagine di documenti finora segreti che raccontano l’Italia e i suoi protagonisti dal punto di vista critico e sferzante del suo più importante alleato. E molti di questi con un denominatore comune: il declino del ruolo internazionale dell’Italia è strettamente legato all’immagine di Silvio Berlusconi, l’uomo che la guida e la condiziona dal 1994, l’anno della sua discesa in campo. Dal 2002 al 2010 parlano ambasciatori, segretari di Stato, diplomatici di alto livello, politici di primo piano. Tutte comunicazioni rigorosamente classificate. Tutte rigorosamente destinate a restare riservate. Tutte, adesso, contenute nei cables che WikiLeaks ha ottenuto e che l’Espresso, in collaborazione con Repubblica, comincia da oggi a pubblicare.
UN PREMIER CHE OFFENDE TUTTI
"Il premier Silvio Berlusconi con le sue frequenti gaffes e la scelta sbagliata delle parole" ha offeso nel corso del suo mandato "quasi ogni categoria di cittadino italiano e ogni leader politico europeo", mentre "la sua volontà di mettere gli interessi personali al di sopra di quelli dello Stato ha leso la reputazione del Paese in Europa ed ha dato sfortunatamente un tono comico al prestigio dell’Italia in molte branche del governo degli Stati Uniti".
E’ il febbraio del 2009 quando Ronald Spogli, ambasciatore americano in Italia nominato dal Presidente George W. Bush, si congeda dal suo mandato e scrive al nuovo segretario di Stato Hillary Clinton un memoriale intitolato "What can we ask from a a strong allied" (Cosa possiamo chiedere ad un forte alleato), classificato come Confidential e che ha un sapore profetico. Non è ancora esploso lo scandalo di Noemi Letizia, non è apparsa all’orizzonte la escort Patrizia D’Addario, non c’è ancora traccia dei festini di Arcore, né delle accuse di sfruttamento della prostituzione minorile con la marocchina Ruby, né delle pressioni sulla questura di Milano per procurarsi il silenzio della vittima. Le leggi ad personam proposte per tutelare il primo ministro dalle conseguenze dei processi in corso non sono state ancora respinte e non ha raggiunto l’apice il violento conflitto con la magistratura.
Ma ad inizio 2009 il premier, visto dagli Usa, è già un uomo debole, prigioniero dei suoi conflitti di interesse e dell’evidenza internazionale dei suoi abusi di potere. Quindi bisognoso dell’aiuto americano per legittimarsi sul piano interno e estero e come tale disponibile, quando richiesto, a comportarsi come "il migliore alleato". Berlusconi insomma non è nelle condizioni di dire alcun "no" a chi lo sostiene. Una sorta di ostaggio, che accetta volentieri tutte le richieste in termini di impegno militare e politico negli scacchieri strategici che vanno dall’Afghanistan alla ricollocazione dei prigionieri di Guantanamo, dalle basi sul territorio italiano alle sanzioni all’Iran. Un prezzo che finora non si sapeva di aver pagato.
L’IMMAGINE DI UN PAESE IN DECLINO
"Il lento ma costante declino economico dell’Italia - scrive l’ambasciatore Spogli - compromette la sua capacità di svolgere un ruolo nell’arena internazionale. La sua leadership spesso manca di una visione strategica. Le sue istituzioni non sono ancora sviluppate come dovrebbero essere in un moderno paese europeo. La riluttanza o l’incapacità dei leader italiani a contrastare molti dei problemi che affliggono la società, come un sistema economico non competitivo, l’obsolescenza delle infrastrutture, il debito pubblico crescente, la corruzione endemica, hanno dato tra i partner l’impressione di una governance inefficiente e irresponsabile. Il primo ministro Silvio Berlusconi è il simbolo di questa immagine". Spiega Spogli: gaffes e preminenza per gli interessi personali, assieme "al frequente uso delle istituzioni pubbliche per conquistare vantaggi elettorali sui suoi avversari politici, la sua preferenza per soluzioni a breve termine hanno danneggiato la reputazione dell’Italia in Europa". Un’immagine che Berlusconi tenta di rivitalizzare con iniziative che lasciano perplessi gli Usa.
L’Italia - annota Spogli - "fa molti sforzi, alcuni seri altri meno, per mantenere una posizione di rilevanza e influenza". Come quando "si propone nel ruolo di grande mediatore delle crisi mondiali, un ruolo autoconferitosi che alcuni politici, specialmente il premier Silvio Berlusconi, pensano possa conferire grande visibilità senza praticamente spendere alcunché". O come quando, senza alcun coordinamento, ritiene di avere i titoli per "mediare tra la Russia e l’Occidente, impegnarsi con Hamas e Hezbollah, stabilire nuovi canali di negoziato con l’Iran, espandere l’agenda del G8 con mandati al di là di ogni riconoscimento".
Insomma, una politica assolutamente velleitaria. Con costernazione Spogli prende atto che in una puntata di "Porta Porta" Berlusconi annuncia il ritiro dall’Iraq: svegliati in piena notte i generali Usa a Baghdad e mandata la trascrizione della puntata tv al Pentagono. Esterrefatto l’ambasciatore registra che mentre Israele bombarda Gaza il Cavaliere rilancia l’idea del tutto estemporanea di costruirvi alberghi e resort, annunciando che potrebbe "trovare investitori". Allibito informa Washington che il premier ha una sua strategia per la Siria, visto che l’allora moglie Veronica "ha conosciuto la consorte di Assad a Damasco", e dice: "Dovremmo coinvolgerla..."
Ma a Washington sono pragmatici. Si deve abbandonare un alleato pasticcione, in declino economico e inviso alle cancellerie europee per idiosincrasia politica?. "No - scrive Spogli alla Clinton - non dobbiamo. Dobbiamo anzi riconoscere che un impegno di lungo termine con l’Italia e i suoi leader politici ci darà importanti dividendi strategici adesso e in futuro"
IL DIVIDENDO DI WASHINGTON
Cosa può incassare l’America da questo governo? Spogli è esplicito. "L’Italia ci permetterà di consolidare i progressi fatti faticosamente nei Balcani negli ultimi vent’anni, le loro forze armate continueranno a giocare un ruolo importante nelle operazioni di peacekeeping in Libano e in Afghanistan, e, infine, il territorio italiano sarà strategico per l’Africom (United States African Command)", l’organismo costituito nel 2008 dalla Difesa Usa per coordinare gli interventi militari in Africa: comando a Stoccarda, ma bombardieri di stanza a Vicenza, nella base Dal Molin, e portaerei della VI flotta a Napoli. " Se useremo una forte pressione - sostiene inoltre Spogli - l’Italia eserciterà la sua influenza economica in Iran per mandare a Teheran un chiaro segnale che potrebbe influire sulla loro politica di sviluppo nucleare". E anche sul fronte del terrorismo Washington sa che Roma spalancherà le sue porte. Già nel febbraio 2009 Spogli avverte infatti che l’Italia si sta diligentemente preparando ad esaudire "quelle che ritengono saranno tra le nostre prime richieste, il farsi carico della custodia di alcuni detenuti nella prigione di Guantanamo (il ministro Frattini ufficializzerà la decisione 4 mesi dopo, ndr.) e un maggiore sforzo militare in Afghanistan (l’Italia sorprenderà gli Usa aggiungendo altri 1200 soldati ad Herat, portando il contingente schierato ad un totale di 4200 uomini).
L’unica vera preoccupazione è il rapporto tra Roma e Mosca, tra Berlusconi e Putin. Gli Usa vogliono controbilanciare la crescente influenza russa sul fronte dell’energia, e notano con disappunto che "l’Italia, sfortunatamente, invece la favorisce". Sui rapporti tra Berlusconi e Putin il punto di vista americano è noto. L’ambasciata Usa anche dopo la sostituzione di Spogli con David Thorne è in allarme e agisce su più fronti. Stimola il ritorno al nucleare, interviene sul governo per spezzare l’asse con Mosca e suggerisce: "dobbiamo far capire a Berlusconi che ha una relazione personale con noi e dobbiamo assecondare la sua convinzione di essere uno statista esperto". Ma l’operazione non è facile, il legame del cavaliere con "il suo amico Vladimir" è solida e ha radici misteriose. tanto misteriose da indurre Hillary Clinton nel gennaio 2010 a chiedere alle rappresentanze diplomatiche interessate di indagare sulle "possibili relazioni e investimenti personali che legano Putin e Berlusconi e che possono influenzare la politica energetica dei due paesi", e di svelare " i rapporti tra l’amministratore delegato dell’Eni Paolo Scaroni, i top manager dell’Eni e i membri del governo italiano, specialmente il premier e il ministro degli esteri Frattini". Gli americani si troveranno davanti ad un muro: in un cable un diplomatico italiano spiega che "tutto avviene direttamente tra Berlusconi e Putin".
UN PREZZO IRRISORIO DA PAGARE
Pasticciona e in difficoltà, l’Italia chiede aiuto agli Usa quando si accorge che l’organizzazione del G8 a L’Aquila comincia a fare acqua. Gli americani se ne sono già accorti, e una serie di cables descrivono la tensione nell’ambasciata di Roma: il flop può tramutarsi in una debacle per Berlusconi, già colpito dalle prime rivelazioni sugli scandali sessuali. Scatta il soccorso all’utile alleato: "Berlusconi - annotano - ha bisogno di mostrarsi un leader credibile a livello internazionale per ripulire la sua immagine, e ci sarà tremenda attenzione" al trattamento che riceverà dagli altri capi di stato e di governo. Obama acconsente e in Abruzzo il presidente "abbronzato" è gentile e comprensivo. Il vertice è un successo, il Cavaliere è salvo, l’opposizione politica è sconfitta
CONDANNATI ALL’INSTABILITA’
Gli americani capiscono dunque che con Berlusconi dovranno conviverci. A lungo. E sfruttarne le debolezze, che utilitaristicamente diventeranno per Washington preziose cambiali in bianco, da riscuotere all’occorrenza. Ne sono consci già prima delle elezioni del 2008, che - dopo la caduta della litigiosa coalizione guidata da Romano Prodi - riporteranno a Palazzo Chigi il Cavaliere, vittorioso su Walter Veltroni. "Se vince Veltroni la situazione sarà eccellente - scrivono da Roma a Washington - se ritorna Berlusconi sarà molto eccellente". Ne sono ancora più convinti dopo il G8 de L’Aquila. Non apprezzano la magistratura, definita "una casta inefficiente e autoreferenziale", priva di controllo e che condiziona la vita politica; non credono nei dissidenti della maggioranza; giudicano il Pd disorganizzato. E anche quando la Corte Costituzionale boccia il lodo Alfano non si preoccupano: Berlusconi resisterà. Temono invece gli effetti sul Paese dello scontro con il presidente Napolitano. Il Presidente è visto come una figura assolutamente cruciale per la stabilità del Paese, è stimato e seguito. Il Quirinale non si tocca, è un assoluto punto di riferimento. "Gli attacchi a una figura molto rispettata potrebbero essere presi male da molti italiani e determinare più ampie divisioni tra le due istituzioni". È uno scenario preoccupante, ma che porta anche dei vantaggi. Il premier infatti "per difendersi dai processi si dovrà distrarre dal lavorare per il popolo italiano". Ma ci sono altri referenti pronti a lavorare per gli Usa. I ministri Frattini e La Russa, ad esempio, vengono definiti particolarmente ansiosi di collaborare. Mentre ad Arcore continuano i festini, il business può proseguire.
BUFERA GIUDIZIARIA SUL PREMIER
Scandalo Ruby, il gip di Milano:
"Berlusconi a giudizio immediato"
Il Cavaliere a processo il 6 aprile
per concussione e prostituzione.
Il Viminale e la ragazza parti lese
Bersani: dimissioni e voto subito
MILANO Il Gip di Milano ha disposto il giudizio immediato nei confronti di Silvio Berlusconi per i reati di concussione e prostituzione minorile. Il processo si aprirà il 6 aprile davanti alla quarta sezione penale composta da 3 donne: Giulia Turri, Carmen D’Elia e Orsola De Cristofaro. La decisione ha immediatamente fatto esplodere la polemica tra i partiti con la maggioranza che parla di «uso politico della giustizia» e l’opposizione, col segretario del Pd Pierluigi Bersani in testa, che chiede le «dimissioni» del premier e le «elezioni anticipate».
Tutto inizia con una nota firmata dal presidente dell’ufficio Gip, Gabriella Manfrin: «In data odierna il giudice per le indagini preliminari Cristina Di Censo, ha depositato il decreto con cui si dispone giudizio immediato a carico dell’onorevole Silvio Berlusconi». La procura gli contesta di aver abusato della qualità di presidente del Consiglio per indurre i funzionari della questura di Milano, la notte tra il 27 e il 28 maggio dell’anno scorso, ad affidare Ruby alla consigliera regionale Nicole Minetti e per avere avuto rapporti sessuali con la minorenne ad Arcore tra il 14 febbraio e il 2 maggio. Parti offese vengono indicati il ministero dell’interno, la giovane marocchina e i tre funzionari della Questura presenti quella notte, Pietro Ostuni, Giorgia Iafrate e Ivo Morelli. «Ora andremo in udienza», si limita a dire il capo dei Pm Edmondo Bruti Liberati. L’accusa sarà sostenuta dagli stessi Pm che hanno svolto le indagini: Ilda Boccassini, Antonio Sangermano e Pietro Forno. «Ce lo aspettavamo», ha dichiarato Piero Longo, uno dei legali del premier.
Sul fronte politico, tra i primi a intervenire il capogruppo Pdl alla Camera Fabrizio Cicchitto: «Il governo va avanti resistendo a questi tentativi di manomettere l’equilibrio politico del Paese». «Mai nella storia d’Italia vi è stato un uso della giustizia così finalizzato alla lotta politica. È inevitabile un intervento del Capo dello Stato». Sollecita il ministro per l’Attuazione del Programma Gianfranco Rotondi. E a scendere in campo è anche il ministro della giustizia Angelino Alfano: «Evidentemente il Gip non ha tenuto conto del voto della Camera», dice aggiungendo che il tema «attiene alla sovranità e all’indipendenza del Parlamento» sulle quali non è il governo «che deve intervenire». Non c’è però nessun motivo per le dimissioni del premier: «E la presunzione d’innocenza?».
Il capogruppo del Pd alla Camera Dario Franceschini invita invece Berlusconi «a difendersi davanti ai giudici» e risparmiare «al Paese la figura di un presidente del Consiglio processato per prostituzione minorile». No comment infine da parte della Lega: «Non rispondo a questa domanda». Taglia corto il ministro dell’Interno, Roberto Maroni.
* La Stampa, 15/02/2011
BERLUSCONI (CON I SUOI COM-PARI) RUBA LE CHIAVI DI CASA DELL’ITALIA INTERA, REALIZZA UN COLPO DI STATO, E IL PARLAMENTO E IL CAPO DELLO STATO PERMETTONO A 17 ANNI DI DISTANZA ANCORA L’ESISTENZA DEL SUO PARTITO!?!
DUE PRESIDENTI (1994-2011) GRIDANO "FORZA ITALIA"!!! E si pensa ancora che sia tutto una barzelletta!!! (fls)
di Gaetano Azzariti (il manifesto, 10.02.2011)
«Farò causa allo Stato», sarebbe questa la reazione di Berlusconi alla richiesta di rito abbreviato presentata dalla Procura di Milano. Vista la nota propensione a raccontar barzellette del nostro Presidente del Consiglio si può pensare che si sia trattato solo di una malriuscita battuta di spirito.
Se, invece, si dovesse prendere sul serio l’affermazione riportata dalle agenzie di stampa, essa apparirebbe sintomatica di una concezione premoderna dei rapporti tra poteri, estranea alla nostra cultura democratica e costituzionale, lontana dalla realtà dello Stato contemporaneo e dall’evoluzione che, dai tempi di Montesquieu, ha portato a conformare lo Stato come un’entità divisa.
Una barzelletta se s’immagina il «Capo» del governo che fa causa a se medesimo, chiedendo magari al «suo» ministro della giustizia il risarcimento per i danni subiti dal tentativo di svolgere i processi che lo vedono coinvolto. Vedere accanto la vignetta-copertina di Vauro, certamente illuminante più di ogni discorso su una simile schizofrenia dissociativa.
A noi non rimane che prendere sul serio quanto è stato detto. La dichiarazione è grave e inquietante perché tende a negare ogni autonomia ai poteri dello Stato, a quello giudiziario in particolare. Se si ha un minimo di rispetto per la divisione dei poteri (carattere fondativo della civiltà costituzionale moderna) si dovrebbe sapere che compete ai giudici l’esercizio della giurisdizione nei confronti di ogni soggetto di diritto, di ogni persona. La minaccia di «far causa» perché il giudice svolge le sue indagini ha come scopo quello di negare l’autonomia e l’indipendenza del potere, mira a delegittimare l’ordine della magistratura nel suo complesso.
Nulla può valere a giustificare le affermazioni del premier, neppure le sue eventuali ragioni «processuali». Non si può escludere allo stato, infatti, che la Procura di Milano stia interpretando male le regole processuali, né si può escludere che in sede dibattimentale le ragioni della difesa prevalgano su quelle dell’accusa, venendosi così a dimostrare la non perseguibilità penale per le imputazioni mosse. Ma ciò dovrebbe indurre Berlusconi a partecipare al processo che lo vede indagato, non a minacciarne un altro «eguale e contrario».
Deve essere chiaro che la Procura sta esercitando le sue funzioni d’indagine nel rispetto delle regole processuali. Ha presentato, infatti al Gip la richiesta di rito immediato ai sensi degli art. 453 e segg. del Codice di procedura penale. Spetterà ora al Giudice verificare la sussistenza dei presupposti.
Ci sono alcuni profili giuridici che dovranno essere valutati con attenzione e pacatezza: quelli concernenti la possibilità di procedere per via breve, oltre che per il reato di concussione, anche con riferimento all’accusa di sfruttamento della prostituzione minorile; quello riguardante la competenza della procura milanese; quello relativo al carattere comune ovvero funzionale del reato di concussione posto in essere - secondo l’accusa - dal Presidente del Consiglio. Questioni delicate, che si dovrebbero sviluppare secondo la normale dialettica processuale, nel contraddittorio delle parti, in base a quanto stabilisce la legge.
Ma chi ha mai detto che è facile fare i processi? Anche le accuse dovranno essere provate. In fondo proprio a questo servono i processi. Sono le «sante inquisizioni» i riti d’indagine che non servono a nulla, avendo sin dall’inizio già formulato una condanna. Per fortuna il medioevo giuridico è alle nostre spalle, sebbene il Presidente Berlusconi non sembra essersene accorto. Noi, che siamo sempre stati garantisti, con tutti e in ogni caso, non indietreggiamo: è nel processo che si provano le accuse e può farsi valere l’innocenza di ciascun indagato.
Per cortesia Cavaliere, si faccia processare. Dimostri, se può, in quella sede la sua innocenza, almeno la non rilevanza penale dei suoi comportamenti privati: l’onore del paese ne verrebbe sollevato. Se è convinto che la procura di Milano non abbia «né la competenza territoriale né quella funzionale» faccia come tutti: lo dica al giudice che dovrà valutare l’operato della procura, eserciti i suoi diritti di difesa. Ma non fugga dal processo, non è più il tempo antico del «diritto sovrano». E poi, signor Presidente se lo faccia dire: se proprio non crede alla giustizia perché vuol far causa allo Stato?
ABBIANO PERMESSO UN PARTITO
CON IL NOME DI "FORZA ITALIA" PRIMA,
E CON IL "POPOLO DELLA LIBERTA’" POI,
SIGNIFICA CHE E’ GIA MORTO!!!
Nel suo nuovo lavoro, Michele Ciliberto analizza le ragioni profonde dell’«anomalia Italia»
Il problema non è solo Berlusconi: sono troppe le comprimissioni della nostra classe dirigente
Per capire la «democrazia dispotica» italiana ci vuole più Gramsci e meno Tocqueville
È in libreria «La democrazia dispotica» di Michele Cilberto (pp. 195, euro 18, editore Laterza): dice lo studioso che quello italiano è un «regime» democratico alla sua massima espressione..
. di Nicola Tranfaglia (l’Unità, 09.02.2011)
Tra i molti libri che gli editori stanno inviando finalmente in libreria ora che l’egemonia berlusconiana è entrata in grave crisi, l’inchiesta di Milano incalza e a fine febbraio o poco tempo dopo, il presidente del Consiglio sarà costretto, con molta probabilità, a comparire di fronte ai suoi giudici ordinari (visto che il legittimo impedimento è in gran parte crollato e lui, almeno formalmente, è tornato ad essere cittadino italiano agli effetti giudiziari), anche l’editore Laterza è ora presente con La democrazia dispotica di Michele Cilberto (pp. 195, euro 18, collana I Sagittari) che è tra i migliori studiosi di Giordano Bruno a livello internazionale e insegna Storia della filosofia moderna e contemporanea alla Normale di Pisa.
Il libro di Ciliberto merita molto interesse anche per chi non è del tutto d’accordo con le categorie adottate dall’autore, specialista, peraltro, di altri secoli e non dell’età contemporanea con cui oggi abbiamo a che fare. Secondo Ciliberto, il regime con cui abbiamo oggi a che fare è un regime democratico nella sua massima espressione, come Tocqueville prefigurava come degenerazione (già nel Settecento, nel suo capolavoro, La democrazia in America), perché sono presenti, nello stesso tempo, un grande apparato burocratico proprio dello Stato contemporaneo e il potere carismatico di Silvio Berlusconi che ha creato un partito a sua immagine e somiglianza e lo governa con criteri che violano ogni giorno i principi della costituzione repubblicana fissati nella prima parte del testo. Quest’affermazione si può sottoscrivere interamente, ma mi chiedo due cose da contemporaneista quale sono da quasi mezzo secolo: tutti i regimi democratici europei sono arrivati alla democrazia dispotica come quella italiana? O invece la Francia, la Germania, la Gran Bretagna e gli Usa hanno ancora regimi democratici e non dispotici?
È un interrogativo centrale sul piano storico perché l’anomalia Italia deriva non solo dalle qualità negative di Berlusconi (sulle quali siamo d’accordo) ma sull’incapacità complessiva che le classi dirigenti soprattutto di centro-destra dominanti hanno avuto nella crisi del 1943-46 di rinnovare lo Stato italiano, sulle caratteristiche indicate proprio da Gramsci che parla di ricorrente sovversivismo delle classi dirigenti, sulla crisi della repubblica sorta con la fine del centro-sinistra e l’assassinio di Aldo Moro e precipitata all’inizio degli anni novanta.
Ciliberto, uno dei nostri migliori studiosi dell’età moderna, fa molto bene a utilizzare tutti i classici della politica europea e americana, da Tocqueville a Marx, a Max Weber e, in piccola parte, anche Gramsci che, a mio avviso, per essere stato un grande storico dell’Italia moderna e contemporanea, avrebbe potuto essere citato e usato meglio di quanto avviene nel libro (ma la giustificazione implicita è che, a settant’anni dalla nascita della repubblica, nessuno storico, e tanto meno quelli che sono stati comunisti, hanno scritto ancora il libro, sempre più necessario e opportuno, sulla interpretazione che Gramsci ha dato della nostra storia).
La situazione italiana, come sappiamo, è drammatica e ha ragione chi afferma che Berlusconi sta declinando come pure la sua personale egemonia, ma che il berlusconismo resiste ancora e potrebbe continuare a dominare l’Italia, se le forze delle opposizioni non saranno in grado, al più presto, di fare un programma preciso e alternativo. Del resto i nostri amici europei ci dicono ogni giorno che siamo ancora nel baratro e non siamo neppure in grado di far precipitare la crisi in modo tale che il Capo dello stato sciolga le Camere e proceda subito alle elezioni, per evitare la rovina totale del settore intero della istruzione e superare la crisi economica che colpisce le classi medie e tutti quelli che hanno difficoltà ad arrivare alla quarta o alla terza settimana del mese. L’attuale situazione, questo è il punto, non è qualcosa che si esprime improvvisamente con l’ascesa di Berlusconi ma piuttosto la sua ascesa è dovuta a ragioni storiche di breve e lunga durata.
Allora o si riscrive la storia d’Italia, sottolineando questi aspetti e i frequenti compromessi delle classi dirigenti italiane di ogni colore verso le associazioni mafiose, i vertici del Vaticano e altre istituzioni dell’Italia più arretrata e non democratica, o si dà un’immagine del nostro paese che non può reggere al confronto internazionale, oggi necessario. Abbiamo bisogno, perciò, di discutere le categorie di metodo, usare più Gramsci e meno Tocqueville, ed elaborare una visione storicamente valida dell’odierno populismo mediatico-autoritario. L’Italia, a mio avviso, non è mai arrivata a una democrazia compiuta e ne paga ancora le conseguenze.
Il papi padrino
di BARBARA SPINELLI
CARI elettori berlusconiani, vi sarà giunta voce, immagino, che gli italiani sono divenuti un enigma per le democrazie alleate. Il mistero non è più Berlusconi, che da anni detiene un potere non normale: controllando tv, intimidendo giornali e magistrati. Dopo tante elezioni, siamo noi, singoli cittadini, a essere il vero rebus.
Quel che ripetutamente ci chiedono è: "Perché continuate a volerlo? Perché insistete anche ora, che viene sospettato di corruzione di minorenni e concussione?". Nessun capo di governo potrebbe durare più di qualche giorno, fuori Italia: la stampa, la televisione, i suoi pari lo allontanerebbero, costringendolo a presentarsi ai giudici. Di questo le democrazie non si capacitano: se non ora, quando vi libererete?
A queste domande ciascuno deve saper rispondere: chi lo vota e chi non l’ha mai votato, giudicando non solo ineguale la battaglia fra schieramenti (per disparità di mezzi d’influenza) ma profondamente atipica. Tutti siamo contaminati, dal modo in cui quest’uomo entrò in politica e dalla natura del suo potere, che costantemente mescola il suo privato col nostro pubblico. Tutti viviamo in una sorta di show, dominato dal sesso e dai processi al premier.
La cosa peggiore a mio parere è quando inveiamo contro le sue passioni senili. Come se a far problema fosse l’età; come se bastasse che a Arcore ci fosse un trentenne, perché le cose cambiassero. È la trappola in cui spesso cadono gli oppositori. Vale la pena leggere quel che ha scritto lo scrittore Boris Izaguirre, a proposito del consenso tuttora vantato dal premier. Le sue debolezze sono in realtà forze nascoste: "La corruzione, quando si espone, crea meraviglia. La capacità di scansare ogni controllo e di schivare la giustizia affascina". Affascina anche l’epifania finale dell’anziano concupiscente. Nella "rivoluzione del gusto" che questi impersona, l’epifania è "l’unica opzione per l’uomo maturo moderno, e ineluttabilmente attrae un elettorato che condivide sogni di eterna gioventù" (El Paìs, 7-2-11). Il nostro, lo sappiamo, è un paese di vecchi: l’offensiva che accoppia età e reati del premier è qualcosa che turba sia voi sia me. Fa cadere ambedue in una rete che imprigiona, che impedisce di far politica normalmente, di reinventare quel che sono, in democrazia, destra e sinistra.
La rete in cui cadiamo è un film che non minaccia davvero il leader: è il suo film, noi e voi siamo comparse di una sua sceneggiatura, impastata di sesso, cattiveria, abuso di potere. Sono anni che abitiamo un mondo-fantasma lontano dalla realtà, imperniato sulla vita privata del capo. È lecito quel che fa? Osceno? I benpensanti sono convinti che di questo si occuperanno i magistrati, che politici e stampa debbano invece cercare una tregua. Ma tregua con chi? Si può patteggiare con un burattinaio che ci tramuta in pupazzi o spettatori di pupazzi? Se non si fa luce sulle notti di Arcore, è inevitabile che i film sulle papi-girl sfocino nel ridanciano. Ogni cittadino, berlusconiano o no, già ci scherza sopra, probabilmente, come gli spettatori ridono increduli negli ultimi giorni dell’uomo descritti da Kierkegaard, quando irrompe il buffone e dice che il teatro brucia. Nel momento in cui inizia la risata lo show sommerge il reale. Anche voi elettori Pdl lo intuite: le novità che attendete da anni rischiano di esaurirsi in un teatro in fiamme, con noi imbambolati a fissare il buffone.
C’è da domandarsi se non sia precisamente questa, la forza del Cavaliere: distruttiva, ma pur sempre forza. Come Napoleone quando parlava dei propri soldati, egli sembra dire: "I miei piani, li faccio coi sogni degli italiani addormentati". Imbullonati nello spettacolo senza vederne le insidie, ammaliati da veline e spazi azzurri che usurpano lo spazio della Cosa Pubblica, continueremo a esser pedine di un suo gioco. Sarà lui a decidere quando termina lo show di cui è protagonista. Lui occupa entrambi gli spazi, il fantasmatico e il reale, secondo le convenienze. È la sua doppia natura a confondere le menti: il suo essere Jekyll e Hyde. Chiamato a presentarsi in tribunale si rifugerà nell’inviolabile privato, esibendo la sguaiataggine di Hyde. Quando lo show tracimerà, ridiverrà l’impeccabile Dr Jekyll e dirà tutto stupito: "Propongo un patto di crescita economica, e l’armistizio sul resto". A Galli della Loggia, che è storico dell’Italia, vorrei chiedere: con questa doppia personalità urge far tregue?
È il motivo per cui nessun politico dovrebbe, oggi, invitare gli italiani a sognare un paese diverso. L’Italia ha già troppo sognato. Nel caldo delle illusioni ha disimparato lo sguardo freddo, snebbiato. Non di sogni c’è bisogno, ma di risvegli. L’altra Italia da raccontare fuori casa non è quella "che va a letto presto", come dice la Marcegaglia. È quella che veglia, che osa di nuovo sapere, informarsi (Umberto Eco ha ben risposto, nella manifestazione di Libertà e Giustizia: "Io vado a letto tardi, signora, ma è perché leggo Kant"). Come i prestiti subprime, l’Italia è chiusa in una bolla, fabbricata da chi si pretende garante della sua stabilità. Ma le bolle scoppiano e voi lo sapete, elettori Pdl: quel giorno i pescecani si salveranno, e il vostro grande sballo finirà.
Finché resta la bolla, è evidente che il premier conserverà influenza. Vi invito a leggere un articolo scritto nel 2002 sul Paìs da Javier Marìas (è riprodotto nel blog mirumir. blogspot. com). Lo scrittore enumera gli ingredienti della seduzione berlusconiana: la sua disinvoltura sempre "sottolineata in rosso", il "sorriso falso perché costante", il passato di cantante come allenamento per staccarsi dai domestici e mischiarsi ai potenti, la mentalità di vecchio portinaio franchista ossequioso coi potenti e sdegnoso coi domestici, il risentimento dietro una bontà caricaturale, il terrore d’essere escluso dalle cerchie dei grandi, l’assenza d’ogni "vergogna narrativa". Egli seduce i declassati identificandosi con loro, e tanto più li sprezza. La sua morale: sei un perdente, se non infrangi come me leggi, diritti, costituzione.
Dicono che vi piace l’antipolitica. Credo piuttosto che vi aspettiate troppo, dalla politica. Avete sognato un re-taumaturgo onnipotente e permissivo al tempo stesso, non un democratico. È inutile proseguire l’omertoso patto che vi lega a lui nell’illegalità: i risultati attesi non verranno. Questo è infatti Berlusconi: un potere fortissimo, ma impotente. Non è il fascismo, ma i primordi del fascismo - quando era pura "dottrina dell’azione" - ripetuti come un disco rotto. Le masse cullate nell’illusione: tali sono i primordi. Poi la dottrina divenne politica, guerra, e fu rovina. Ma fu un agire. Non così Berlusconi. Da anni l’immagine è fissa sui preamboli fascisti del mago che seduce le folle umiliando l’uomo, come il Cavalier Cipolla che ipnotizza le vittime nel racconto Mario e il Mago di Thomas Mann.
L’era Berlusconi è costellata di questi torbidi patti: patti con la mafia per proteggere impresa e famiglia; patti con giudici corrotti; patti con ragazze alla ricerca di soldi e visibilità. Si può indovinare quel che hanno pensato i loro genitori: "Meglio vergini offerte al drago, che precarie in un call-center". Erano pagate per le prestazioni, e poi perché tacessero. Per questo possono divenire, da ricattate, ricattatrici del papi-padrino.
Ma la storia italiana è anche storia di decenza, di morti caduti difendendo lo Stato, contro le mafie. Anche voi ammirate questa storia: avete ammirato i tre ultimi capi di Stato, e prima Pertini. Senza di voi tuttavia il Quirinale può poco e l’Europa ancor meno. Ambedue ci risparmiano per ora il baratro, e forse l’Europa solo economico-monetaria è un po’ la nostra sciagura: i pericoli, ci toccherà intuirli dietro tanti veli. Ma li intuiremo. Se l’Egitto ha avuto la rivoluzione della Dignità, perché l’Italia non può avere una rivolta della decenza? La decenza ricomincia sempre con la riscoperta di leggi superiori a chi governa, del diritto eguale per tutti, della libera parola.
* la Repubblica, 09 febbraio 2011
Per allargare l’orizzonte dell’analisi e del commento, si cfr.:
LEGGE ELETTORALE ("PORCELLUM") E PROSTITUZIONE: ANGELA NAPOLI LANCIA L’ALLARME.
di Valerio Onida* e Paolo Pombeni** (Corriere della Sera, 9 febbraio 2011)
Caro direttore,
il presidente del Consiglio appare ormai prigioniero del ruolo che egli stesso si è costruito e che i suoi avversari hanno concorso a costruire. I fatti emersi- non le accuse ipotizzate della Procura milanese, ma i fatti quali sono stati ammessi e raccontati da lui stesso e da coloro che lo difendono, e che nella sua prospettazione non configurano reati ma, come fatti, sono certi - sono tali che nessuna persona di buon senso può negare oggi la inopportunità del permanere di Silvio Berlusconi nella alta carica che ricopre. Si può considerare accettabile per il Paese avere un premier che, per sua ammissione, ospita in casa propria, senza controlli, persone di ogni genere, fra cui giovani donne, maggiorenni e minorenni, in evidente ricerca di amicizie utili a procurare loro vantaggi e denaro; che è intervenuto presso la Questura di Milano a favore di una minorenne accusata di furto della quale sostiene di avere, fino ad allora, ignorato la vera età e la vera nazionalità, riferendo di una parentela inesistente con un capo di Stato straniero e ottenendo che venisse affidata, non ad una comunità di accoglienza, ma ad una giovane consigliera regionale di sua fiducia, la quale peraltro si è occupata della minorenne solo per lasciarla in compagnia di altra persona per nulla qualificata al compito; un premier che sostiene di essere intervenuto in tal modo nell’esercizio delle sue funzioni per salvaguardare le relazioni internazionali, sulla base di una falsa rappresentazione della presunta parentela, e con ciò ammette di essere stato così platealmente ingannabile?
C’è una dignità e c’è un decoro delle istituzioni che, in situazioni di questo genere, esigono di esser prontamente ripristinati attraverso il ritiro spontaneo dalle cariche istituzionali da parte di colui che, con la sua condotta da lui stesso ammessa, questa dignità e questo decoro ha gravemente compromesso.
Eppure la corale richiesta di dimissioni proveniente dalle opposizioni parlamentari e da tante voci che la condividono non riesce a raggiungere lo scopo. Essa appare a molti motivata dal desiderio di rovesciare, al di fuori delle ordinarie procedure parlamentari, l’attuale governo e l’attuale maggioranza uscita dal voto popolare.
L’iniziativa giudiziaria intrapresa dalla magistratura milanese appare a molti il portato di un intento persecutorio nei confronti di Berlusconi, e ciò basta a far scomparire dall’orizzonte del dibattito politico anche fatti accertati ed ammessi, e a spostare l’attenzione sulla polemica circa vere o presunte deviazioni della magistratura.
A questo punto solo dall’interno della stessa maggioranza di governo possono venire le iniziative necessarie e urgenti per ripristinare subito la normalità politico-costituzionale. Una situazione democratica di normale prevalenza della maggioranza sulle opposizioni si distingue da un vero e proprio regime anche perché, quando si manifesta la opportunità di sostituire il personale di governo indipendentemente da un nuovo confronto elettorale, sono le stesse forze politiche di maggioranza a procedere alle decisioni necessarie a questo scopo, pur mantenendo il ruolo di guida dell’esecutivo che deriva dal consenso elettorale ottenuto (pensiamo per esempio, pur nella evidente radicale diversità di situazioni, alla sostituzione, nel Regno Unito, del primo ministro Margaret Thatcher con John Major).
In un regime, invece, l’allontanamento di colui che lo incarna non è possibile se non abbattendo l’intero edificio. Proprio perché noi riteniamo del tutto normale e da rispettare la dialettica fra maggioranza e opposizioni, e perché vogliamo continuare a ritenere che in Italia non vi sia un «regime» ma vi siano forze politiche che derivano la propria posizione e le responsabilità che esercitano dal consenso elettorale legittimamente espresso, crediamo indispensabile non disperdere il significato profondo di ogni competizione, per cui il voto dei cittadini rispecchia scelte ideali e di programma e non conferisce investiture personali e mandati in bianco. Così come è dovere delle opposizioni rispettare quel voto, è dovere della maggioranza che lo ha raccolto non sminuirlo trasformandolo impropriamente in plebisciti personali che non appartengono allo spirito della nostra democrazia.
Facciamo dunque appello alle personalità e alle forze che, all’interno dell’attuale maggioranza di governo e del Popolo della libertà, condividono non già le nostre valutazioni politiche, ma la convinzione che sia urgente ripristinare la normalità ela dignità delle nostre istituzioni - che appartengono a tutti - perché vogliano riaprire il normale corso della dialettica politica sottraendola alla deriva impropria di un confronto sulle fedeltà personali e riconsegnandola al confronto sulle scelte che stanno davanti al Paese in questa complessa fase storica. Chiedano che gli organi dirigenti dei partiti adottino le necessarie deliberazioni; indichino essi stessi, responsabilmente, la persona che ritengono più idonea, fondandosi sulla stessa attuale maggioranza, a guidare il governo, e la propongano al Parlamento e al capo dello Stato. L’Italia non può attendere oltre, senza che si aggravi irrimediabilmente il danno per tutti.
*ex presidente della Corte costituzionale
**ordinario di Storia contemporanea all’Università di Bologna