spazio di intervento culturale
Jannis Kounellis, repertorio fotografico
giugno 21, 2010 rivista
Addio a Kounellis, il maestro dell’arte povera
Si è spento a Roma all’età di 80 anni. A chi gli chiedeva di spiegare la sua arte, rispondeva che voleva "uscire dal quadro"
di RAFFAELLA DE SANTIS *
Quando cercava di spiegare la sua arte, quella spinta libertaria, che aveva animato la sua opera Jannis Kounellis diceva che voleva uscire dal quadro. Intendeva non rispettare la cornice, il perimetro, lasciarsi alle spalle le regole, osare. Il grande artista, esponente di primo piano dell’arte povera, è morto all’età di 80 anni, dopo un ricovero a Villa Mafalda a Roma. Roma è stata la sua città adottiva, il posto in cui era arrivato dalla Grecia nel 1956, appena ventenne. Nella capitale aveva frequentato l’accademia di Belle Arti, sotto la guida di Toti Scialoja. Si considerava romano, perché qui era iniziata la sua avventura artistica.
L’esordio era stato con una mostra personale nel 1960 alla galleria romana “La Tartaruga” in via del Babuino, posto mitico di ritrovo per artisti e intellettuali. Erano altri anni, in giro c’era voglia di cambiare. Kounellis aveva baffi e zazzera nera. L’invito a quella mostra s’intitolava “Alfabeto” ed era un’esplosione su sfondo bianco di lettere e parole in libertà.
Dopo qualche tempo Kounellis iniziò ad usare materiali organici e inorganici, a organizzare performance. Risalgono al 1967 le prime mostre che lo avvicinano all’arte povera, in cui mette insieme animali vivi e putrelle di ferro, sacchi di juta: pezzi di carne e legno Anche questo è il superamento di una soglia. L’arte tradizionale è ormai alle spalle. Quando doveva spiegare a chi si era ispirato, quando gli veniva chiesto di fare il nome di un maestro, un modello, lui rispondeva Pollock. Non amava la pop art, ma paragonava Pollock ai grandi innovatori del passato, a Caravaggio e Masaccio.
Tra le mostre più incredibili della sua prima fase creativa, l’esposizione-performance nel 1969 di cavalli vivi nella galleria romana di Fabio Sargentini. Negli anni Settanta a San Benedetto del Tronto riuscì a murare una porta con delle pietre. Ormai era diventato un artista internazionale, la sua arte aveva varcato le frontiere: Baden-Baden, Londra, Colonia. Due anni dopo partecipava per la prima volta alla Biennale di Venezia.
Negli anni Ottanta urtava le nostre sensibilità esponendo quarti di bue macellati a Barcellona. Le sue opere sono esposte nei musei di tutto il mondo. Nel nuovo millennio aveva prediletto il Sud America, l’Argentina e l’Uruguay. Era un tipo ombroso, amante delle tonalità scure dei quadri di Goya. Considerava il suo studio il suo teatro. E infatti è una rappresentazione teatrale uno degli interventi più belli dell’ultima fase: nel luglio 2016, alla Pescheria Pesaro, un cavallo vivo attraversa una stanza. Per terra, sul pavimento, giacciono abbandonati corpi ricoperti da teli bianchi. Era il suo modo per parlare della morte.
* la Repubblica, 16 febbraio 2017 (ripresa parziale - senza immagini).
L’epoca dei consulenti
Zagrebelsky: Il rapporto col potere ha polverizzato gli intellettuali
"Si abdica al proprio ruolo e così si finisce per condannarsi all’irrilevanza" "Il punto più basso è dare le proprie idee, le proprie parole, le proprie idee a chi ti paga" In un dialogo uscito su "Alfabeta2" la questione della cultura piegata al servizio degli interessi politici Piuttosto che la ricerca della verità prevale la convenienza immediata e il desiderio di piccoli privilegi "L’indipendenza e la libertà finiscono per essere solo la rivendicazione di uno status"
di Enrico Donaggio (la Repubblica, 05.10.2011)
Che cosa ti sembra di vedere nel rapporto intellettuali-potere, con riguardo alla situazione del nostro Paese, in questo momento? «Una grande diversità di situazioni, tra due estremi: l’improduttiva futilità intellettualistica e il servilismo corruttivo del libero pensiero. Se siamo liberi, siamo superflui; se siamo utili, non siamo liberi. Queste tendenze, per ragioni diverse, hanno in comune l’incapacità della funzione intellettuale, in quanto tale, di svolgere una funzione sociale e si condannano all’irrilevanza e, alla fine, al disprezzo. Nell’insieme, coloro che si dedicano ad attività intellettuali risultano polverizzati, inconcludenti. Non mi pare che, per usare un’espressione gramsciana, essi costituiscano un "gruppo sociale autonomo e indipendente". Rivendicano, certo, autonomia e indipendenza, ma lo fanno forse in vista di un qualche compito comune, in forza del quale li si possa considerare in sé "gruppo sociale"? Ti faccio una domanda. Pensi che sarebbe possibile, nell’Italia di oggi, un’affaire Dreyfus?».
Che cosa intendi dire?
«Che certamente ci sono, nel nostro tempo e nel nostro Paese, grandi scandali del potere, del fanatismo, e della grettezza, alleati tra loro in azioni criminali d’ogni tipo. C’è, rispetto a queste cose, una mobilitazione intellettuale contro "l’emergenza civile"? E, se anche c’è o ci fosse, è o sarebbe in grado di smuovere le acque, fare da contraltare alle logiche del potere, in nome di principi e valori non riconducibili a quelle logiche? Domanda retorica. Sembra che l’ambiente intellettuale sia quello cui il potere si rivolge per trovare giustificazioni, coperture. E di solito le trova. Triste».
Vuoi dire che, da noi, gli intellettuali, in quanto tali, sono inconcludenti?
«Esattamente così! La loro funzione è come polverizzata in mille rivoli. La dispersione deriva dall’incapacità di definire i nodi fondamentali della loro riflessione. Per questo, la libertà e l’indipendenza ch’essi rivendicano non si traducono in una funzione sociale, ma si risolvono in una pretesa di status, non facile giustificare. Da qui, la facile ironia sulla prosopopea degli intellettuali, sulla loro vuota spocchia e, alla fine, sul loro parassitismo. Data la carenza di ruolo sociale, o ci si rifugia nella pura speculazione fine a se stessa, che è una sorta di consolazione del pensiero, oppure, rinunciando all’autonomia e all’indipendenza della funzione intellettuale, si cerca di collegarsi con chi sta dove il potere si esercita effettivamente, nell’economia e nella politica, per diventarne "consulenti". In due parole: il "consulente" sostituisce "l’intellettuale". Il nostro mondo è sempre più ricco di consulenti e sempre meno di intellettuali. C’è da ridere, se si pensa che quella del consulente è la versione odierna dell’"intellettuale organico" gramsciano. Questi si collegava alle grandi forze storiche per la conquista della "egemonia" e per svolgere così un compito certo ambiguo, ma indubbiamente grandioso; quello è l’imboscato nell’inesauribile miniera di ministeri, enti, istituti, fondazioni, aziende, ecc., offrendo servigi intellettuali e ricevendo in cambio protezione, favori, emolumenti. I consulenti si conoscono tutti "personalmente", ma s’ignorano "funzionalmente". Nell’insieme non adempiono una funzione intellettuale indipendente».
E c’è qualcosa di male? Non è bene che chi comanda sia informato, magari anche illuminato, da qualcuno che conosce le cose di cui parla?
«E come no. Ma, a condizione che il consulente non entri "nell’organico" del potente di turno. C’è differenza tra il fornire le tue conoscenze e offrire te stesso, tra il vendere e il venderti cioè, come si dice, essere "a libro paga". Il confine è teoricamente chiaro, praticamente vago. Nel primo caso mantieni la tua libertà, nel secondo la perdi: volontariamente la perdi, ma la perdi. C’è l’attesa, la speranza di ottenere qualcosa, e allora rispondi agli inviti; ai convegni non puoi mancare, perché se manchi, sembra che tu "non ci stia". Perdi il tuo tempo e disperdi la tua vita in convegni pseudo-culturali perché "non si sa mai" che qualcosa di buono ti possa prima o poi arrivare: i posti a disposizione sono tanti e ci può essere anche posto per te. Il punto più basso, l’intellettuale lo raggiunge quando si presta a dare il suo cervello, la sua intelligenza, la sua parola, all’uomo di potere che lo paga per scrivergli i suoi discorsi, i suoi articoli di giornale, le sue interviste. Addirittura, la consideriamo una professione intellettuale, quella del ghostwriter. Ti pare normale che chi scrive discorsi per altri, collaborando a un evidente plagio letterario, sia circondato dal massimo rispetto, ed egli stesso se ne compiaccia: come sono bravo, sono entrato in Tizio e Caio per far uscire dalla sua bocca le mie parole!».
Mah! Non è mica detto che si tratti poi di pura piaggeria. Possono essere grandi discorsi che, semplicemente, passano per un megafono di potenza tale - per esempio, negli Stati Uniti, la voce di un Presidente - che uno studioso, per quanto famoso non potrebbe neppure sognarsi.
«Pensi forse a un Arthur Schlesinger jr., grande saggista, che scriveva i discorsi per Adlai Stevenson e per i fratelli Kennedy? Ma, qui non è questione di qualità delle persone e delle loro prestazioni. Qui parlo della funzione stessa, come concetto. A proposito di Reagan (parliamo di lui e non di gente di casa nostra, per carità di patria), Noam Chomsky ha fatto osservazioni sulle esibizioni pubbliche di politici-attori che dovrebbero essere tenute presenti, come salutari avvertenze per l’uso, nell’ascolto delle loro parole: "quando in televisione si legge un ‘gobbo’ si fa una curiosa esperienza: è come se le parole vi entrassero negli occhi e vi uscissero dalla bocca, senza passare attraverso il cervello. E quando Reagan fa questo, quelli della tv devono disporre le cose in modo che di fronte a lui ci siano due o anche tre gobbi; in tal modo la sua faccia seguita a muoversi rivolgendosi da una parte e dall’altra, e allo spettatore sembra che stia guardando il pubblico, e invece passa da un gobbo all’altro. Ebbene, se riuscite a indurre la gente a votare per persone di questo tipo, praticamente avrete fatto il vostro gioco; l’avrete esclusa da ogni decisione politica. E bisogna fingere che nessuno rida. Se ci riuscite, avrete fatta molta strada verso l’emarginazione politica del popolo". Ecco, quello che voglio dire: gli intellettuali che si prestano a riempire la bocca dei politici di cose delle quali questi non hanno nessuna idea propria, oltre che umiliare la propria funzione, contribuiscono a svuotare di contenuto la democrazia, a ridurla a una rappresentazione».
Ma, non è meglio che i politici dicano cose sensate, piuttosto che insensate?
«No. Se non hanno nulla da dire, frutto del loro ingegno, è meglio che tacciano. E, se tacendo non si fa carriera politica, è meglio che non la facciano. Se poi dal loro ingegno escono sciocchezze, è bene che i cittadini elettori le constatino per quello che sono. Oltretutto, in questo modo, coprendo il vuoto dei politici con le loro non disinteressate "consulenze", contribuiscono a svuotare la politica stessa e, svuotandola, a renderla funzionale a interessi esterni. Non vorrei essere troppo brutale: si finisce per assecondare la sua tendenza a diventare funzione del potere che oggi più di tutti conta, il potere del denaro. Pecunia regina mundi».
Eppure, non credi che proprio questa funzione dell’intellettuale possa servire, al contrario, a dare alla cultura una forza nell’agone politico che altrimenti non avrebbe?
«Questa è l’illusione in cui spesso gli intellettuali rischiano di cadere, quando pensano di fare dei politici il megafono o l’imbuto delle loro idee. La realtà è che, quando non servono più, sono messi da parte. Ricordi la vicenda di Gianfranco Miglio con Bossi? E, ancor prima, con Eugenio Cefis? Oppure, di coloro che si sono messi alla corte Berlusconi pensando di potere fare la "rivoluzione liberale"? Dove sono finiti?».
IL POPOLO D’ITALIA, IL POPOLO DELLA LIBERTA’, IPNOTIZZATO, GIORGIO NAPOLITANO CHE GRIDA "FORZA ITALIA", E SILVIO BERLUSCONI CHE RIDE E RIDE A CREPAPELLE!!!
L’EDITORIALE
La cena di Vespa per sedurre Casini
di EUGENIO SCALFARI *
LE DOMENICHE di afa e di solleone incitano al raccoglimento e a pensieri non degradati dall’attualità. Emerge per esempio - ed è inconsueta la fonte dalla quale provengono questi segnali - un sentimento d’infelicità, una noia di vivere tra immagini false e verità mascherate, il senso d’un declino inarrestabile, la necessità di ricominciare da zero abbandonando ogni retaggio lungo una strada erta di sassi e opaca per la polvere che la sommerge.
Le fonti che emettono questi segnali sono inconsuete perché fino a poco tempo fa essi erano del tutto diversi: si esaltavano conquiste di buon governo, prevalenza di spiriti liberali, dominanza d’un privato efficiente e sano e un lodevole ritrarsi d’un pubblico ancora inquinato da ideologie e impoverito da sprechi e ruberie.
Sembrava - e così veniva fatto credere - che fossimo finalmente entrati in una fase costruttiva della quale perfino una rinata fede religiosa contribuiva a rafforzare i lineamenti e gli obiettivi fornendo un plus di valori ad una buona laicità capace di coniugare la fede con la ragione.
Come mai, nel volger di pochi mesi e addirittura di poche settimane questo quadro positivo ha lasciato il posto allo sconforto? Perché le tinte rosee che lo illuminavano hanno di colpo assunto colori foschi dominati da nubi plumbee cariche di pioggia e di fulmini? Viene in mente che la causa possa essere di materia economica, la crisi che ha investito l’intero pianeta e in particolare le economie occidentali dei paesi opulenti.
Ma non è così, non è questa l’origine dei segnali di sconforto: la crisi infatti è cominciata da oltre due anni e secondo gli esperti ha superato la fase più acuta; anche se molte preoccupazioni persistono, esse non spiegano quel sentimento di frustrazione che si va diffondendo e che molti "laudatores" delle nuove libertà registrano con sconsolato scoramento.
Personalmente non mi stupisco di questo capovolgimento di atmosfera, di questa caduta di speranze e opacità di futuro. Ho scritto un libro in cui si racconta la storia di un’epoca che ha alle sue spalle quattro secoli ed ora dà segnali di estenuazione. Può darsi che non sia il solo ad aver colto il gran finale della modernità, che ha rappresentato il culmine della civiltà occidentale ed ora si decompone di fronte ad una sorta d’invasione barbarica che azzera i retaggi e inventa nuovi linguaggi e nuovi modelli.
La modernità ha dato ciò che poteva ma non si è ancora spenta: sta difendendo i suoi valori che i nuovi barbari imbrattano e insultano. Può darsi - me lo auguro - che alcuni intellettuali organici a quel nuovo e barbaro potere si siano resi conto della deriva in corso e siano diventati disorganici, secondo una felice definizione di Umberto Eco. Sarebbe un evento fausto. Spero che non sia un vago miraggio destinato rapidamente a dissipare.
* * *
L’attualità di queste ore ci riporta alle consuete banalità di un potere che si disarticola giorno dopo giorno: all’indomani d’uno sciopero di tutto il sistema dell’informazione che ha risposto massicciamente all’appello dei suoi sindacati e della propria coscienza professionale, il presidente del Consiglio non ha trovato di meglio che accusare i giornali di sinistra di menzogna e disfattismo perché racconterebbero un’immagine del paese che sarebbe secondo lui l’opposto di una realtà positiva, stabilizzata economicamente e socialmente equa.
Nelle stesse ore i sondaggi d’opinione hanno registrato - confrontando i dati della prima settimana di maggio con la prima di luglio - un calo di fiducia nel "premier" dal 50 al 41 per cento e un aumento della sfiducia dal 48 al 57.
I sondaggi sono una fotografia del presente e nulla ci dicono su come evolverà, ma non accadeva da anni uno smottamento così cospicuo del consenso berlusconiano. La caduta più vistosa si è verificata nel Nordest, nel Mezzogiorno continentale e nelle isole (specialmente in Sardegna). Il caso Brancher è stato l’elemento determinante insieme alla manovra economica e alla legge-bavaglio sull’informazione.
Lo scrittore Salman Rushdie, in un articolo di lunedì scorso sul nostro giornale, a proposito delle contraddizioni che costellano il nostro presente cita il romanzo "Gold!" di Joseph Heller e il personaggio dell’Assistente presidenziale che pronuncia frasi la cui fine contraddice sistematicamente l’inizio. Eccone una: "Il nostro Presidente non vuole dei leccapiedi. Ciò che vogliamo sono uomini indipendenti e integri che, una volta che avremo preso le nostre decisioni, concorderanno con ognuna di esse". Purtroppo siamo abituati a questa tecnica dell’imbonimento sotto la quale non c’è assolutamente nulla.
* * *
La manovra economica è stata un altro macroscopico esempio della disarticolazione del blocco di consenso berlusconiano. Fino all’ultimo il presidente del Consiglio ha cercato di disinnescare le mine che scuotevano il dissenso nelle sue file. Ha ottenuto poco o niente: briciole di piccoli miglioramenti lobbistici che hanno appagato piccole categorie (rinvio delle multe sul latte, compensazione tra debiti e crediti verso il fisco in favore di alcuni settori industriali) senza alcun piano coerente.
La coerenza è così rimasta quella di Tremonti che ha ormai portato in salvo la sua manovra da 25 miliardi invocando l’Europa come madre di queste restrizioni che tutti i paesi membri hanno adottato e che Berlusconi alla fine ha dovuto sottoscrivere.
Il problema non è se la manovra tremontiana dovesse farsi oppure no. Abbiamo più volte scritto e qui lo ripetiamo che la manovra che ha come obiettivo la stabilizzazione del debito pubblico era necessaria. I criteri possono essere controversi ma l’aggiustamento sui Ministeri e sulle Regioni era indispensabile.
Il problema riguarda la seconda parte della manovra, quella che non è mai stata scritta perché Tremonti, sostenuto dalla Commissione di Bruxelles e soprattutto da Bce e dal suo presidente Trichet, si è rifiutato di prenderla in considerazione: cioè gli stimoli alla crescita e il sostegno della domanda, dei redditi medio bassi e degli investimenti che ne conseguono.
Paul Krugman, premio Nobel per l’Economia, ha ricordato in una recente intervista al Sole 24 Ore che nel 1933 l’allora presidente degli Stati Uniti, Herbert Hoover, lanciava messaggi in tutto simili a quelli che oggi lanciano la Commissione di Bruxelles, la Banca centrale europea e il governo della Germania federale: rigore rigore rigore, è questa la sola ricetta che scoraggia la speculazione e farà aumentare la domanda quando gli effetti di stabilizzazione saranno consolidati.
Quando Franklin D. Roosevelt arrivò alla Casa Bianca pochi mesi dopo l’economia americana era alla canna del gas. Avesse tardato ancora a mettere in opera la reflazione, il sistema sarebbe crollato ancor più di quanto stava avvenendo, con una crisi che ancora non era stata domata nel 1937, cioè otto anni dopo il suo primo insorgere.
Tremonti si ripara dietro le spalle dell’Europa, Berlusconi non ha alcun piano alternativo da contrapporgli poiché ha le mani legate dal suo "mantra" di non toccare le tasse. Mantra già smentito dai fatti poiché per tacitare almeno i Comuni e le Province Tremonti ha concesso la "tassa di servizio", nuova imposta di cui gli enti locali si serviranno per sopravvivere e che gli procurerà 5 miliardi l’anno. Ecco il primo buco nelle tasche degli italiani, cui altri inevitabilmente seguiranno, purtroppo senza sortire effetto desiderabile di rilanciare la crescita. Ci vorrebbe infatti un programma coerente, non uno stillicidio lobbistico. L’opposizione ha promesso che lo sta studiando. Si sbrighi e poi lo ponga come base di una politica forte e innovativa. Il tempo non aspetta.
* * *
Nel frattempo c’è anche chi trova il tempo per festeggiare in pompa magna il cinquantenario giornalistico di Bruno Vespa. Cena giovedì scorso nell’abitazione del conduttore - padrone di "Porta a Porta" ospiti con le rispettive consorti: Gianni Letta, Mario Draghi, Cesare Geronzi e Pier Ferdinando Casini; Silvio Berlusconi con la figlia Marina e il cardinale segretario di Stato, Bertone, ovviamente celibe.
Sembra si sia parlato di tutto, manovra economica compresa. Forse anche dei Mondiali di calcio e della non brillante performance degli "azzurri". Forse di intercettazioni. Sicuramente dell’invito a "Pier" di tornare a casa, cioè nell’alleanza di centrodestra. Berlusconi gli avrebbe proposto di rifondare la Dc, gli avrebbe offerto il ministero dello Sviluppo, forse quello degli Esteri, sicuramente la vicepresidenza del Csm. Casini avrebbe ringraziato ma declinato, a meno che non si passi attraverso una formale crisi di governo. Letta ha concluso che tutto è rinviato ma qualche cosa è cominciato.
Mentre scrivo mi arriva sul tavolo un’Ansa con un comunicato ufficiale del ministro dell’Interno, Bobo Maroni. Con riferimento appunto alla cena di Vespa, Maroni accusa la classe politica d’esser tornata ai salotti del 1992, aggiunge che qualunque ritorno al governo dell’Udc provocherebbe l’immediata uscita dal medesimo della Lega e comunica che in caso di crisi ministeriale la Lega chiederebbe l’immediato ritorno del popolo sovrano alle urne. Una specie di convitato di pietra che si è fatto vivo con ventiquattr’ore di ritardo per stabilire chi è il padrone del vapore in questo momento.
Non si hanno altre notizie su quella cena, soprattutto sul ruolo di Draghi, Geronzi e Bertone nella conversazione. Si strologa. Che altro si può fare? Geronzi si è complimentato con Draghi per il suo lavoro allo Stability Financial Forum. Draghi con Bertone per l’efficienza del volontariato cattolico. Bertone con Marina per le opere di assistenza da lei finanziate.
Casini ha chiesto notizie a Marina sulla causa in corso con De Benedetti per il risarcimento del danno subito dalla Cir per il lodo Mondadori. Berlusconi ha pestato un piede alla figlia e le ha fatto gli occhiacci affinché lasciasse cadere la domanda. Marina non ha capito e ha fatto cadere in terra il tovagliolo. Bertone s’è inchinato per raccoglierlo ma ha dato una testata al bordo del tavolo.
Letta ha pregato la padrona di casa di portare ghiaccio e bende di lino per la fronte del porporato. Vespa ha versato champagne nei calici, il premier ha gridato Viva Vespa, ricordando il Viva Verdi che infiammava le riunioni dei cospiratori giacobini del Risorgimento. Vespa ha obiettato che i presenti non erano né cospiratori né tanto meno giacobini.
Alla fine sono tutti usciti da un portoncino laterale su piazza Mignanelli. Notte afosa. Nuvole di zanzare intorno alla fontana della Barcaccia. La macchina nera targata Vaticano ha sgommato verso il Babuino. Un ragazzotto in maglietta ha detto ad un altro che era con lui: "Aò, là drento c’era ’n cardinale. Chissà ’n do va a quest’ora". "Ma che te frega a te" ha risposto l’altro. "Annerà a pregà per i peccati der prossimo e pe li sua".
[I fatti qui riferiti sono di pura fantasia. Ogni riferimento è puramente casuale].
* la Repubblica, 11 luglio 2010
La forza dell’intellettuale di destra
di Fausto Curi (il manifesto, 21.08.2010)
Se si discute seriamente degli intellettuali, la prima cosa che conviene osservare è che è il dibattito sugli intellettuali che si è logorato, non la loro funzione. Anzi. L’efficacia degli intellettuali di destra è evidente a tutti. Nessuno di loro è un genio, sono rozzi anche quando sono colti, spesso sono servili e impudichi. Ma ci sono. Contano. Possiamo disprezzarli, non possiamo sottovalutare l’efficacia della loro funzione. Servono, appunto. Hanno la grande opportunità di potersi appoggiare a un regime, al potere, a una realtà strutturale, insomma, e questo li rende forti. I nostri sarcasmi non li scalzano. Conviene, anzi, riflettere sulla loro funzione, prima di discutere della funzione degli intellettuali di sinistra.
Il potere e il denaro
Essere organici, più che a un partito, al potere conferisce una forza e un’efficacia molto rilevanti, essenziali. Perché il potere di cui parliamo non è un potere metafisico. È una struttura nel senso di Marx, è un potere strutturale, strutturato. È fatto di giganteschi conflitti di interessi, di continue violazioni delle leggi e delle regole, di corruzione, di impunità. È fatto di un’enorme, pervasiva, penetrante capacità mediatica. È fatto di istituzioni corrotte e corrompibili, di grandi industrie, di sindacati docili quando non servili. E di danaro, molto danaro. A questa struttura cosa può contrapporre la sinistra? O meglio, cosa possono contrapporre gli intellettuali di sinistra, ché di questo posso e voglio parlare.
La sovrastruttura
Incominciamo con l’osservare che gli intellettuali di sinistra sono sovrastrutturali, non solo nel senso che la loro opposizione investe o piuttosto può investire soltanto, come è ovvio, delle realtà sovrastrutturali, ma anche nel senso che essi possono essere organici soltanto a organizzazioni partitiche, per di più esigue, fragili e litigiose, a una cultura, a delle idee, o meglio, se non si ha paura della parola, a delle ideologie. Possono essere organici, insomma, a qualcosa di immateriale. Mentre, oggi, è la materialità che conta, anche per chi finge di nutrire soltanto ideali.
Il punto che mi preme sottolineare, e che, credo, dovrebbe essere al centro di un dibattito, è l’organicità e la disorganicità dell’intellettuale. La disorganicità, elogiata da Umberto Eco, è facile da assumere e da praticare, può essere preziosa sul piano culturale, ma sul piano politico, o meglio sul piano strutturale, ben difficilmente produce risultati apprezzabili. L’intellettuale disorganico possiede di solito un’intelligenza lucida e penetrante, una cultura raffinata, è brillante, versatile, ironico, a volte sarcastico, spesso scettico, non di rado sfiora il cinismo. È libero e soprattutto si sente libero e si compiace della propria libertà. Vanta la propria funzione sociale e culturale, non manca di esibire i propri meriti.
La funzione dell’apparire
Esiste anche una disorganicità di sinistra, e non è meno raffinata di quella di destra. Sono gli intellettuali disorganici di sinistra che sostengono che gli intellettuali non esistono più, o sono diventati inutili, non contano, così come non serve discutere, perché non se ne può più di proposte astratte, sganciate dalla realtà, in conflitto fra di loro, che lasciano il tempo che trovano. Ma intanto loro discutono, sono presenti, non rinunciano a prendere la parola e ad apparire. E mostrano di aver ragione. Perché intellettuali come loro sono davvero inutili. Ma ha più ragione Massimo Raffaeli che invita a tener conto dell’esempio di Brecht e propone la via dell’umiltà. Sono le domande semplici e apparentemente ingenue che possono imbarazzare e mettere con le spalle al muro una cultura aristocratica e cinica.
Fiducia e coraggio
L’ottimismo è degli imbecilli, la fiducia è di chi ha coraggio, non si arrende e soprattutto non tradisce. Perché chi si vergogna o esita a dirsi comunista o marxista o di sinistra, tradisce. È fatta anche di tradimenti, di molti tradimenti, l’agevole ascesa di Silvio Berlusconi.
Ma, prima di concludere, non possiamo trascurare l’intellettuale organico. L’intellettuale organico chi è, oggi? Prima di tutto: esiste ancora? Certo che esiste, o che può esistere. Non può più essere organico a un grande partito di sinistra, ma può essere organico a una determinata cultura, a una determinata ideologia.
Serietà e coerenza
Una cultura non solo non conformistica, ma radicalmente antagonistica. Un’ideologia ben strutturata, razionalmente contestativa. Può essere organico, in primo luogo, a una classe sociale, se non crede alla favola fatta circolare dagli intellettuali reazionari secondo la quale le classi non esistono più. Gli operai di Pomigliano, e non solo loro, stanno a dimostrare il contrario. Organicità implica serietà, implica coerenza, implica fedeltà. A volte implica anche rinunce e sacrifici.
Per quanto mi riguarda, non ho paura a dire, o, se si preferisce, a ripetere, che organicità chiede disciplina intellettuale e morale. E chiede impegno. Saranno i sarcasmi degli intellettuali disorganici a disarmarci e a metterci a disagio? Chi ha detto che una cultura organica è incapace di ironia? Noi, che abbiamo perduto tutto, o quasi, noi, pessimisti organici, abbiamo imparato da tempo che è attraverso l’ironia che va guardato il mondo alla rovescia in cui ci tocca vivere.
LA POLEMICA
Gli scrittori, i libri e il conflitto d’interesse
di EUGENIO SCALFARI *
A leggere dichiarazioni, articoli, interviste degli autori interessati e dello stesso Vito Mancuso che ha sollevato il caso su Repubblica, sembrerebbe che tocchi a me chiudere (o riaprire) il discorso sulla compatibilità di avere come editore dei propri libri il gruppo Mondadori oppure andarsene cercando altre case editoriali eticamente e politicamente più pulite.
Non mi aspettavo questo privilegio. Forse dipende dalla cosiddetta età veneranda o dall’essere stato a suo tempo anch’io editore (ma di giornali e non di libri che è cosa diversa). Comunque mi si chiede un giudizio e forse una decisione. Da tre anni sono un autore dell’Einaudi, società che dal 1994 è controllata dalla Mondadori. Resto o me ne vado?
Da quanto ho capito, questa risposta sta particolarmente a cuore a Mancuso il quale è sull’orlo di una decisione ma, ch’io sappia, ancora non l’ha presa. E da me che cosa ti aspetti, caro Vito? Che io t’incoraggi a cercare nuovi lidi editoriali dove magari seguirti o ti convinca a restare dove sei e dove dici di trovarti bene, se non fosse per un rovello etico che ti rode dentro da quando hai letto sul nostro giornale, cui tu collabori, lo scandalo della legge "ad aziendam" imposta dal premier-editore per consentire alla sua Mondadori di saldare un debito fiscale presuntivamente accertato in 350 milioni di euro pagandone in tutto 8,6?
Tu sei un mio amico ed ho molta stima per la tua cultura religiosa. Diciamo "martiniana" e tu sai con quanto affetto e rispetto io guardi al cardinal Martini sebbene non condivida la fede che lo anima. Perciò rispondo alle tue sollecitazioni e per maggior chiarezza lo farò esaminando i vari aspetti della questione.
1. Il governo, dopo averci provato varie volte senza riuscirvi, ha inserito surrettiziamente in un recente decreto convertito in legge una norma che autorizza le aziende che abbiano una vertenza tributaria in corso ed abbiano vinto nei due primi gradi di giurisdizione, a chiudere la vertenza pagando una sanzione irrisoria. La Mondadori - vedi caso - si trova esattamente in questa condizione ed ha utilizzato uno "scivolo" estremamente favorevole.
2. Non ci sarebbe molto da obiettare se non fosse che il presidente del Consiglio è proprietario di riferimento della stessa Mondadori. Il problema nasce dunque dal gigantesco conflitto di interessi incorporato nella figura di Silvio Berlusconi.
3. Il suddetto conflitto di interessi è un morbo che avvelena la vita politica italiana fin dal 1993 e la condizionò anche prima. Quando Berlusconi faceva ancora l’impresario televisivo i suoi politici di riferimento erano Bettino Craxi e in minor misura Forlani. Poi entrò in politica portandosi appresso quel conflitto che permane tuttora senza che la classe politica vi abbia posto alcun rimedio. Ricordo queste cose per dire che il problema non nasce oggi ma almeno 17 anni fa se non prima.
4. La mia esperienza di autore è stata abbastanza lunga e varia. Ho avuto come editori Laterza, Feltrinelli, Mondadori (dove pubblicai "La sera andavamo in Via Veneto" quando quella società era controllata dalla Cir e dal gruppo dell’Espresso), Rizzoli. Alla Rizzoli ero affezionato al direttore editoriale Rosaria Carpinelli che seguiva gli scrittori con rara competenza professionale. Quando la Carpinelli lasciò la Rizzoli me ne andai anch’io e scelsi Einaudi pur sapendo che la proprietà di quella casa editrice era della Mondadori. Fu dunque nel mio caso una scelta perfettamente consapevole.
5. Scelsi Einaudi perché il gruppo dirigente che ha al suo vertice editoriale Ernesto Franco è ancora quello formatosi con Giulio Einaudi. La Einaudi fu per tanti anni una delle case editrici che contribuì fortemente alla formazione culturale del nostro paese e che tuttora - non a caso - vanta un catalogo di scrittori di prima grandezza nella narrativa, nella saggistica, nella storia, con particolari presenze di scrittori civilmente e politicamente impegnati, da Ingrao alla Rossanda, da Asor Rosa a Zagrebelsky.
6. Se il gruppo editoriale che guida la Einaudi cambiasse o se i suoi dirigenti si piegassero a richieste politicamente scorrette e per me incompatibili, non esiterei un istante ad andarmene. Finché questo non avverrà, alla Einaudi mi trovo benissimo e ci resto.
7. Ho avuto anche un’altra esperienza che forse è utile raccontare perché riguarda pur sempre il settore della comunicazione. Due anni fa la casa cinematografica Medusa di proprietà della Fininvest mi informò che era interessata a fare un film utilizzando come soggetto un mio romanzo intitolato "La ruga sulla fronte". In quello stesso giro di mesi la Medusa stava realizzando il film "Baarìa" con Giuseppe Tornatore. Accettai la proposta e si arrivò fino alla stesura del copione ma a quel punto accadde un fatto: il presidente della Medusa, Carlo Rossella, intervenendo alla trasmissione televisiva "Ballarò" e pochi giorni dopo a quella di "Porta a porta", fece affermazioni molto gravi e a mio avviso faziose in favore di Berlusconi e si lasciò andare a veri e propri insulti contro i partiti di opposizione. Scrissi dunque alla Medusa rescindendo il rapporto che avevo con lei. In campo cinematografico questa società è il solo produttore e distributore esistente sul mercato italiano, a differenza del mercato dei libri. Perciò chi rifiuta di lavorare con Medusa rinuncia a veder realizzato il film che lo interessa.
8. Il conflitto di interessi di Berlusconi è un’anomalia che - in queste proporzioni - esiste soltanto in Italia. Si combatte eliminando l’anomalia, cioè si combatte politicamente. Lo sciopero degli autori, degli operatori televisivi e, perché no, quello dei lettori o dei telespettatori non sono armi facilmente realizzabili. Si possono determinare casi personali come quello di Roberto Saviano, insultato da Berlusconi e da sua figlia Marina con giudizi offensivi sul suo libro "Gomorra" ancorché pubblicato dalla Mondadori. Ma si tratta di casi personali che l’interessato risolve come ritiene più opportuno.
L’importante è che le idee possano circolare liberamente senza condizionamenti o ricatti. Questa è la ragione della nostra battaglia contro la legge-bavaglio. Chi ci impone un bavaglio avrà da parte nostra pane per i suoi denti come si è visto nei mesi scorsi e come ancora si vedrà se quella legge dovesse essere nuovamente riproposta.
* la Repubblica, 25 agosto 2010
POLITICA, FILOSOFIA, E MERAVIGLIA.
di Adriano Prosperi (la Repubblica, 05.09.2010)
Vorrei dire due parole sulla questione aperta - e chiusa - da Vito Mancuso. Lo faccio sfidando consapevolmente un forte senso del ridicolo. Che l’opinione di qualche saggista e di qualche professore sulla propria collaborazione con le edizioni Einaudi e Mondadori possa avere un qualche interesse per i lettori o addirittura un peso politico è - secondo me - un seducente autoinganno. Ma il problema soggettivo e morale esiste: e vorrei spiegare come l’ho personalmente affrontato. Lo faccio in pubblico perchè mi preoccupa il clima che sta montando intorno a un ambiente di lavoro che conosco e che mi è caro: quello, appunto dell’Einaudi. Anni fa , quando avvenne il passaggio di proprietà della Mondadori e dell’Einaudi, la scelta di andarsene da parte di autori storici come Carlo Ginzburg e Corrado Stajano pose anche agli altri il problema della compatibilità tra il lavoro intellettuale e il rapporto con la proprietà di Berlusconi. La mia scelta privata, privatissima, fu quella di continuare in una collaborazione da cui avevo avuto ben più di quanto potessi sperare di riuscire a dare.
Pensai allora che la corruzione di un sistema si ostacola cercando di contendergli il terreno, di salvare quello che vale la pena di trasmettere. Avevo in mente il modo in cui Benedetto Croce aveva risolto il problema - ben più grave - del suo rapporto con l’Italia fascista: espatriare o restare? Un problema che qualcuno si è posto di nuovo in questi anni e che forse potrebbe diventare attuale se andranno in porto le «riforme» della giustizia, l’informazione, la scuola e l’università concepite dal regime attualmente dominante. Arginare la corruzione, salvare gli strumenti e la memoria del lavoro culturale.
Questa fu la giustificazione morale che mi detti e che ancor oggi mi sembra valida. L’Einaudi valeva la pena. Einaudi era allora - e continua a essere oggi - una casa editrice con una identità scolpita nel suo catalogo, con una storia speciale nel contesto della cultura italiana: una storia condivisa e mantenuta in vita da una folla di dirigenti, redattori, impiegati, collaboratori, autori, traduttori, correttori di bozze e - non certo ultimi - da una rete di librai e di venditori rateali, tramite prezioso con la comunità dei lettori.
Farne parte, sia pure a livelli minimi, era - è - un onore: un onore per se stessi, un qualcosa che rincuora, non una patacca di appartenenza a una scuderia di cavalli di razza. Perché una cosa va detta a scanso di equivoci: non si è «autori di qualcuno»; non si è una merce posseduta da un padrone. Nell’umbratile campo dove lavoro l’unica cosa di cui si ha bisogno è la libertà. Quell’aria di libertà che ho ritrovato nell’ambiente di «Repubblica» non è diversa da quella che si è respirata all’Einaudi in tempi ben più difficili di quelli presenti e che ancora vi si respira.
Cari amici di Mondadori preferisco la giustizia
di Vito Mancuso (la Repubblica, 03.09.2010)
Giornali, radio, siti, tv, non vi è stato mezzo di comunicazione che non abbia ripreso e alimentato il dibattito sviluppatosi in seguito al mio articolo del 21 agosto «Io autore Mondadori e lo scandalo ad aziendam». Naturalmente ognuno ha detto la sua, sia in merito alla questione in sé sia a me che l’avevo sollevata, facendomi provare l’ebbrezza di un viaggio sulle montagne russe della psiche col passare da coscienza profetica a povero ingenuo, da eroe coraggioso a ipocrita opportunista.
Su quest’ultimo aspetto non ho nulla da replicare, registro solo lo spettacolo di individui così incapaci di prescindere dall’ego e concentrarsi sulle cose in sé da risultare impossibilitati a concepire che qualcuno faccia qualcosa senza volerci guadagnare. Molto più interessante è la dimensione oggettiva della questione, che ritengo di poter riassumere come segue.
1. Esistenza del problema: il problema da me sollevato esiste, non è per nulla nuovo perché risale al 1993 cioè a quando il proprietario della Mondadori entrò in politica, e spesso riaffiora come i sintomi di una malattia non curata. Persino i giornali e le tv (Tg1) che ne hanno sostenuto l’inesistenza in realtà col loro zelo hanno confermato che esiste, perché non si dedicano pagine e minuti preziosi a un falso problema. Si fa così solo con un problema vero di cui si vuole sostenere capziosamente la falsità.
2. Essenza del problema: nella sua specificità il problema consiste in quell’immenso agglomerato di potere che (caso unico in occidente) fa capo all’attuale premier e che genera il nodo da tutti conosciuto come «conflitto di interessi». Se il Gruppo Mondadori non fosse «sua» proprietà, la discutibile legge ad aziendam voluta dal «suo» governo rientrerebbe al massimo nelle normali pressioni che le singole lobby esercitano in ogni democrazia di libero mercato. Purtroppo però la proprietà del Gruppo Mondadori e la guida del governo coincidono, il che conduce chi riflette in modo disinteressato a non poter evitare di associare la legge di cui ha beneficiato il «suo» gruppo editoriale (pagando solo 8,6 milioni invece di 350) alle altre leggi ad personam finora volute dal «suo» governo, compresa la legge-bavaglio contro la libertà di stampa e il progetto di legge sul processo breve.
3. Prospettive di soluzione del problema: Eugenio Scalfari (le cui parole affettuose ricambio con
gratitudine) affermava in risposta al mio articolo che il problema «si combatte politicamente». È
vero, ma mi permetto di replicare che la politica, come l’essere secondo Aristotele, «si dice in molti
modi», non tutti riservati ai politici di professione. Uno di questi modi è la pubblicazione che, come
dice la stessa parola, è un gesto pubblico, spesso non privo di risvolti politici e mai privo di risvolti
economici, soprattutto per autori da primi posti della classifica vendite.
In questa prospettiva io chiedo due cose:
A) l’autore ha il dovere di verificare la correttezza etica (e
non solo giuridica) del proprio editore?
B) l’autore ha il dovere di chiedersi quali investimenti
sostiene con il profitto da lui generato?
A entrambe le domande si può rispondere di no, che un tale dovere dell’autore non c’è, sostenendo da un lato che l’autore si deve preoccupare solo della libertà di esprimere le proprie idee, del prestigio del catalogo, della professionalità dei funzionari editoriali e basta, e dall’altro lato che ciò che conta per lui è unicamente la capacità di promozione, distribuzione e vendita dell’editrice alla quale affida il suo testo.
Molti degli autori del Gruppo Mondadori intervenuti a seguito del mio articolo hanno sostenuto in parte o per intero queste prospettive, compresi Eugenio Scalfari, Corrado Augias e Adriano Prosperi. Mentre nessuno si è posto la domanda B, nella risposta alla domanda A Scalfari ha distinto gli attuali dirigenti che guidano l’Einaudi dalla proprietà da cui i medesimi dirigenti dipendono, Augias ha dichiarato che il suo rapporto con la Mondadori «non è con una marca ma con uomini», Prosperi è stato il più duro giungendo a negare la stessa pertinenza del problema: «Mettersi ad aprire una discussione in termini moral-editoriali lascia il tempo che trova».
Io non sono d’accordo. Io penso che discutere pubblicamente delle pubblicazioni sia qualcosa di molto utile se non un dovere, e penso che alle due domande poste sopra si debba rispondere con un netto sì: l’autore ha il dovere di vagliare la correttezza etica della sua editrice (e del Gruppo al quale essa fa capo) e si deve chiedere a quali investimenti contribuisce con il profitto generato dalle vendite delle sue opere. Naturalmente mi posso sbagliare, posso essere ingenuo e mancare di realismo, ma questo è il mio pensiero. Il quale ritengo valga soprattutto per quegli autori che scrivono di etica, di politica, di filosofia e che sono giunti grazie al valore del proprio lavoro a vedersi riconosciuto il ruolo pubblico di «intellettuali», svolgendo così un compito abbastanza delicato verso la società.
Penso sarebbe auspicabile che tutti gli autori fossero attivi nel cercare di arginare l’immenso conflitto di interessi del quale da quasi un ventennio tutti noi italiani (di destra, di centro, di sinistra non importa) siamo prigionieri, ma so bene che non tutti possono sempre permettersi questa battaglia, perché esprimere pubblicamente il proprio pensiero è un privilegio abbastanza raro.
Primum vivere deinde philosophari, questa antica massima di saggezza vale per tutti, nessuno è chiamato a fare l’eroe. Per quanto mi riguarda poter esprimere liberamente il mio pensiero coincide con la possibilità di «combattere la buona battaglia», per riprendere la celebre espressione di san Paolo.
Naturalmente non condanno nessuno né chiamo nessuno a crociate, mi permetto solo di dire che provo ammirazione per tutti quegli intellettuali che, potendo permetterselo, evitano di contribuire con i proventi delle loro opere a finanziare quel conflitto di interessi che è «la madre di tutti i problemi». Sono consapevole altresì che ognuno si sceglie le battaglie ideali come meglio crede e io non intendo insegnare nulla a nessuno, tanto meno alle insigni personalità che in questo articolo ho chiamato in causa, cerco solo di dare il mio contributo perché l’Italia possa un giorno non essere più il paese dei furbi.
Quando avrò concluso il volume per il quale ho un contratto in essere con la Mondadori tirerò le logiche conseguenze di tutto questo ragionamento, come lo stesso farò per un piccolo saggio che avrei dovuto consegnare entro dicembre all’Einaudi per un volume a più autori a cura di Gustavo Zagrebelsky. Ai cari amici che ho in Mondadori ai quali mi legano stima e affetti incancellabili ho scritto ieri: «... magis amica iustitia».
Come vivere senza Berlusconi?
di Philippe Ridet (Le Monde, 7 settembre 2010 - traduzione: www.finesettimana.org)
Si deve ad un teologo discreto una delle cose più vivaci dell’estate italiana. Approfittando di una - molto - breve pausa sul fronte delle polemiche politiche, Vito Mancuso si poneva un grave problema tramite una lettera aperta al quotidiano la Repubblica del 21 agosto: poteva continuare a pubblicare, “in pace con la coscienza” i suoi libri da Mondadori, mentre a questa casa editrice, controllata da Mediaset - il settore dei Media della holding finanziaria della famiglia Berlusconi (Fininvest) -, veniva consentito un ristorno fiscale di svariate centinaia di milioni di euro? La sua risposta è no.
Bisogna riconoscere che questa presa di posizione, piuttosto rara, e questa denuncia di un ennesimo conflitto di interessi non ha scombussolato nessuno più di tanto. Gli scrittori e gli intellettuali sollecitati dalla stampa a reagire non si sono precipitati ad esprimere la loro solidarietà ad un uomo che ormai si rifiuta che il proprio lavoro possa, in qualsiasi modo, arricchire Berlusconi. Al contrario, non sono mancate le riserve, né i sarcasmi. Perché una presa di coscienza così tardiva? gli si è rimproverato, sospettandolo di avere orchestrato una campagna pubblicitaria. Perché tanta ingenuità? gli hanno detto altri, per i quali questa battaglia individuale è persa in partenza.
Dal 1994, data della presa di controllo di Mondadori e della vecchia casa editrice torinese Einaudi da parte della Fininvest (per mezzo di un giudice la cui corruzione è stata accertata in seguito) nessuno ignora chi sia il proprietario di queste aziende. Questo non vuol dire tuttavia che gli autori pubblicati dalle case editrici del presidente del Consiglio non si siano posti il problema.
Roberto Saviano, l’autore del best-seller Gomorra, si è posto la questione della propria fedeltà alla Mondadori, quando, in primavera, Berlusconi aveva accusato gli scrittori che trattavano di “Mafia” di “rovinare l’immagine del paese”. Rassicurato da una lettera del presidente della Mondadori, Marina Berlusconi, figlia del Cavaliere, Saviano aveva messo a tacere i propri dubbi.
Ad oggi, quattro autori delle case editrici controllate da Mediaset - tra cui il Premio Nobel della letteratura del 1998 José Saramago (morto a giugno) - si sono visti rifiutare un libro a causa del contenuto ritenuto troppo ingiurioso nel confronti dell’azionista di maggioranza. Vuol dire forse che gli scrittori pubblicati da Mondadori o Einaudi hanno perso ogni capacità di indignazione, preferendo venire a patti col nemico per assicurarsi delle buone vendite?
In verità, è piuttosto un diffuso senso di stanchezza quello che si potrebbe notare. Stanchezza di fronte ad un dibattito continuamente rilanciato a partire dalla prima apparizione di Silvio Berlusconi al potere. Stanchezza all’idea di affrontare questo problema ricorrente: si può boicottare Berlusconi, vivere senza Berlusconi? Bisogna dire che l’impresa non è semplice. Se è facile denunciare l’onnipresenza del suo impero nell’economia italiana, è più difficile farne a meno.
Prendiamo il caso di un antiberlusconiano duro e puro, che per nulla al mondo vorrebbe contribuire all’arricchimento del Cavaliere. Chiamiamolo signor Rossi. Per la televisone è abbastanza semplice, il signor Rossi dovrà evitare i tre canali del “Cavaliere” (Canale 5, Italia 1, Rete 4). Il sacrificio non è particolarmente costoso vista la mediocrità dei programmi. Tuttavia dovrà usare con parsimonia i canali della TV pubblica: il capo del governo ha nominato la maggior parte dei dirigenti.
Al cinema il signor Rossi non andrà a vedere i film prodotti da Mediaset o distribuiti da Medusa. Per la stampa eviterà il Giornale, di proprietà del fratello di Silvio Berlusconi. Il signor Rossi rinuncerà ugualmente al settimanale Panorama, come pure ad una quarantina di riviste.
Andando oltre, le cose si complicano. Occorrerà al signor Rossi l’attenzione puntigliosa del vegetariano alla ricerca dei grassi animali. La Finivest possiede infatti partecipazioni in due società italiane, la banca Unicredit e l’assicurazione Generali, che sono tra i maggiori investitori italiani. Con un effetto a cascata, queste partecipazioni piazzano la Fininvest al centro dell’economia e dell’industria del paese. Qualche esempio: se il signor Rossi deve cambiare i pneumatici dell’automobile o il materasso, dovrà rinunciare a Pirelli. Per un conto in banca eviterà Intesa San Paolo, la più grande banca italiana. Se prende l’autostrada, deve evitare la Milano-Torino. Tifoso di calcio, eviterà gli incontri del Milan, di cui Berlusconi è proprietario e presidente. Si vede da questo che la vita senza Berlusconi non è cosa agevole in Italia.
Vito Mancuso è comunque deciso a tentare la sorte. Venerdì 3 settembre, in un nuovo scritto su la Repubblica, ha rinnovato la sfida chiamando gli scrittori di Mondadori e Einaudi a “liberarsi da questo conflitto di interessi nel quale sono tutti prigionieri”. Ma aggiunge: “so bene che non tutti possono sempre permettersi questa battaglia, perché esprimere pubblicamente il proprio pensiero è un privilegio abbastanza raro. Primum vivere deinde philosophari, questa antica massima di saggezza vale per tutti, nessuno è chiamato a fare l’eroe”. Il signor Rossi ne sa qualcosa.