IN ITALIA, NEL 1994 UN CITTADINO REGISTRA IL NOME DEL SUO PARTITO E COMINCIA A FARE IL "PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA" DEL "POPOLO DELLA LIBERTA’": "FORZA ITALIA"!!! E ANCOR OGGI, IL SONNO DELLA RAGIONE COSTITUZIONALE CONTINUA. "DUE PRESIDENTI" DELLA REPUBBLICA CONTINUANO A GRIDARE: FORZA ITALIA!!! LA SCHIZOFRENIA ISTITUZIONALE IMPERVERSA E DEVASTA ISTITUZIONI E CERVELLI ....
Per i posteri, alcune note. (Ogni articolo è un link che rimanda a ulteriori approfondimenti. Buona ’navigazione’):
ACCADEMIA E BERLUSCONISMO. PREMIATO IL PRESIDENTE BERLUSCONI, PER IL RILANCIO DEL PLATONISMO ATEO E DEVOTO. "IO, PLATONE, SONO LA VERITA’": "FORZA ITALIA"!!! Nelle piazze e nei campi di calcio il popolo ateo-devoto è tutto in festa, in un mare di bandiere "nazionali"
Federico La Sala (03.03.2011)
FOTO: ALFABETA 2 - O1. IL PRIMO NUMERO, "INTELLETTUALI SENZA", CON LE IMMAGINI DI JANNIS KOUNELLIS
MARGINI della filosofia. Intervento libero. In memoria di Jacques Derrida...
Siccome orientarsi nell’infinito è un problema meta-fisico e costituzionale, e - dopo Kant e la sua "rivoluzione copernicana" - non sappiamo ancora distinguere "dewey"anamente tra "prima di Cristo" e "dopo Cristo", tra Tolomeo e Copernico, tra il tutto e la parte, tra antropologia e andrologia - e ginecologia, tra Italia e "Italia", tra Costituzione e Partito, tra forza Italia e "Forza Italia", mi è sembrato opportuno fornire un piccolo banale (comune!) elemento per uscire dal sonnambulismo e dalla confusione! Siamo o non siamo "Dopo Dewey" !? O no?!
P. S. - SUL TEMA, MI SIA CONSENTITO, SI CFR.:
FILOSOFIA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO
MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI?!
Federico La Sala
STORIA DELLA QUESTIONE INFAME. Dal Discorso (Logos) della Costituzione al Logo del Partito della Democrazia Deformata...
Se FERRERO è FERRERO, VENDOLA è VENDOLA, GIORDANO è GIORDANO, BERTINOTTI è (ancora) BERTINOTTI, VELTRONI è (ancora) VELTRONI, e PRODI è (ancora) PRODI ... UNA MOBILITAZIONE CULTURALE GENERALE, SUBITO - ORA. Un appello ... “Al Pd serve un padre.”. Intervista a Romano Prodi
UNA LEZIONE TEOLOGICO-POLITICA DI BAGET BOZZO SU OGNI PROGETTO DI “RIFONDAZIONE COMUNISTA” FUTURA CHE SI VUOLE COME PARTITO. Avanti o popolo alla riscossa. Il populismo trionferà: “Forza Italia”!!!
STORIA DELLA QUESTIONE INFAME: COME L’ITALIA, UN PAESE E UN POPOLO LIBERO, ROVINO’ CON IL “GIOCO” DEI “DUE” PRESIDENTI DELLA REPUBBLICA.
La sinistra che c’era è andata a destra
di Furio Colombo (Il Fatto, 25.02.2018)
La destra e la sinistra non esistono più. La frase, che circola anche nei migliori partiti, è come una benda gettata all’improvviso sugli occhi dei cittadini per costringerli a un gioco a mosca cieca. Dovunque cerchi, non trovi. L’epoca, affollata di computer e robot, non ha ricordi. Che senso ha cercare la destra del mercato e del capitale, se non esiste più (non conta niente) il sindacato della lotta di classe? Se sei italiano, però, prima di rispondere alla domanda su destra e sinistra, devi tener conto di un fatto.
L’Italia ha due destre, una di interessi economici e di difesa dei capitali, con la sua visione conservatrice. L’altra destra è ideologica, è fondata sulla violenza e sul potere, che trucca, tradisce, condanna, reprime, se ha il potere. -Qual è la destra che non esiste più, al punto che vi dicono: la parola non ha più senso? Evidentemente la prima, che partecipava al gioco con la sinistra sapendo di avere sempre delle buone carte in mano, ma anche interessata (la pace sociale costa meno) a non rompere i ponti. Il fatto strano, almeno per l’Italia, è che è stata la sinistra ad alzarsi dal tavolo e ad abbandonare il gioco, imperfetto ma funzionante, delle due parti con interessi diversi e la comune convenienza.
Mille convegni non hanno spiegato perché la sinistra se ne è andata o si è sempre più travestita da destra, arrivando a spingere più in là di quel che le imprese volevano. Qui è accaduto un effetto collaterale che forse la sinistra non aveva calcolato: il suo popolo, sentendosi non più rappresentato se n’è andato alla spicciolata, lasciando un largo spazio vuoto. Perché quello spazio vuoto sia tuttora celebrato come “il popolo della sinistra” non si sa.
Certo che se c’è stato un tempo in cui la destra erano Agnelli e Pirelli e la sinistra erano Pertini e Berlinguer, stiamo parlando di un universo perduto. Ora c’è la sala vuota della Confindustria, ci sono i circoli chiusi del Pd e qualcuno ha la faccia tosta di organizzare la Festa dell’Unità dopo avere fatto morire, deliberatamente, il giornale di Gramsci.
Il fenomeno però non è così simmetrico come sembra. Impossibile negare che la sinistra non c’è più, nel Paese in cui domina l’anelito di tagliare le pensioni e diminuire i salari (vedi Fornero e Whirpool).
Ma, delle due destre, ne è rimasta una, quella ideologica e del potere, quella fascista. È viva negli Usa, con il suo presidente che vuole armare gli insegnanti, con il capo dell’estrema destra (alt right) Steven Bannon che è appena un passo dalla Casa Bianca, con i misteriosi contatti con Putin. È viva nei Balcani e nell’Europa dell’Est (dall’Ungheria all’Austria alla Polonia). E dove sembra che non ci sia fascismo compare un Breivik niente affatto povero e marginalizzato, un fascista abbiente e bene armato, che uccide in un paio d’ore cento giovani socialisti di una scuola di partito.
Se pensate che il fascismo, per tornare a crescere, abbia bisogno di un popolo abbandonato dalla sinistra, ecco l’idea: dedicarsi a diffondere e far crescere la paura dell’immigrazione. Gli stranieri sono gente impura, non cristiana, sconosciuta, diversa, con cui vorrebbero obbligarti a dividere la vita fino a sottometterti. Poiché questo è ciò di cui bisogna occuparsi, anche con la forza, se necessario: qualcuno sta organizzando l’invasione di una immensa quantità di stranieri in Italia e dunque sta creando un grave pericolo per la pura razza italiana.
Se pensate di non aver notato nulla di così sconvolgente, ma solo povera gente terrorizzata da fame, guerra e dal pericolo di annegare in mare, se temete che ci sia una falsificazione o una esagerazione dei dati, ecco la vera notizia, il complotto. Come aveva previsto Umberto Eco ne Il pendolo di Foucoult, ne Il cimitero di Praga e nel bellissimo testo Il fascismo eterno, arriva la notizia del complotto.
Qualcuno trama per la sostituzione dei popoli, i neri (i neri!) prenderanno, qui, nel nostro Paese di pura razza italiana, il posto dei bianchi. Naturale che i popoli non si sostituiscono da soli. Ci vuole il miliardario canaglia che, come è naturale in un mondo fascista, è ebreo. Si tratta di un certo Soros, e anche se persino Minniti o Salvini o Meloni o Lombardi (il cuore d’oro del M5S) non hanno ancora rivelato la causa di questo complotto (ci impongono di accettare nuovi schiavi o nuovi padroni?), il complotto c’è e vi partecipano persino (quando non sono in Siria a salvare bambini o in mare a salvare naufraghi) le Ong, compresi i “Medici senza frontiere” onorati dal presidente della Repubblica. E l’invasione continua. Non dite vanamente che l’invasione non c’è. Nessun partito importante in queste elezioni vi starebbe a sentire.
Abbiamo dunque alcune certezze. La sinistra non c’è. Ma la destra, con il coraggio di dirsi fascista, c’è e conta.
La frase finale di Berlusconi
risponde Furio Colombo (il Fatto, 14.05.2013)
CERTO, IL COMIZIO di Brescia in difesa di un imputato di reati gravi, condannato per reati gravi, in attesa di imminente sentenza per reati gravi, appena raggiunto da un rinvio a giudizio per reati gravi, non era né una festa né un evento politico. Il fine era chiaro e indiscutibile: creare una barriera insormontabile, tra un imputato e i suoi giudici. Lo ha fatto il capo di quello che, al momento, risulta il partito più grande.
E quel capo ha mobilitato per l’occorrenza il ministro dell’Interno e vice primo ministro, mentre sta governando in una presunta “grande coalizione” con un partito che dovrebbe essere il principale antagonista. Purtroppo non ci sono segnali dal governo di coalizione, non ci sono segnali dal partito antagonista, e i media trattano la materia come una notizia interessante, ma non meritevole di allarme, di denuncia e di condanna. Così i cittadini sono autorizzati a pensare che forse è normale che tutta la forza di un esecutivo (uno dei tre poteri della democrazia) venga lanciato contro la magistratura, ovvero un altro potere indipendente, nel silenzio del terzo potere, il Parlamento.
Per capire il rischio che stiamo correndo, si riveda la frase conclusiva del monologo di Berlusconi, nel suo comizio a due piazze (una gremita di sostenitori più o meno spontanei, l’altra di disciplinati obiettori).
La frase era: “Nessuna sentenza e nessuna prepotenza della magistratura potrà impedirmi di essere capo di un popolo che mi elegge con milioni di voti”. Non parlava di legame ideale o affettivo. Dichiarava la superiorità dei voti sulle sentenze, come se ci fossero democrazie in cui il votato non è più come tutti gli altri, ma qualcuno esente da ogni giurisdizione e giudizio. Ovvio che Berlusconi non parlava di democrazia, parlava di sé e del suo progetto di rivolta, in caso di altre condanne. E ci ha ricordato che non gli si può rimproverare il sotterfugio.
Berlusconi si comporta da fuorilegge e lo dice prima. Eppure, non vi sono risposte politiche o risposte istituzionali. E i segnali non sono buoni. La giudice Fiorillo ha visto segnato il fascicolo della sua carriera da una censura del Csm per avere smentito quanto detto da Berlusconi e quanto dai complici sulla vicenda Ruby. Berlusconi ha potuto tenere il suo comizio di minaccia alla Repubblica senza che seguisse, per decenza, almeno un “pacato” cenno di dissenso.
"FORZA ITALIA": LA LUNGA E ’BRILLANTE’ CAMPAGNA DI GUERRA DI SILVIO BERLUSCONI CONTRO L’ITALIA ....
CONFLITTO D’INTERESSI E BARRIERE DI PROTEZIONE. Walter Veltroni annuncia una sua proposta di legge, Furio Colombo ha già depositato alla Camera la sua del 1996 e del 2006
Uno spettro si aggira per l’Europa: Carl Schmitt
di Roberto Esposito (la Repubblica, 01.02.2018)
La traduzione del saggio di Carl Schmitt su Legalità e legittimità, curata e introdotta magistralmente da Carlo Galli per il Mulino, presenta più di un motivo di interesse. Pubblicato nel 1932, subito dopo le ultime elezioni tedesche, prelude al collasso della Repubblica di Weimar e alla vittoria nazista. Se non si può dire che prepari la svolta totalitaria - pure accettata di buon grado dall’autore l’anno successivo - coglie tutti gli elementi della crisi che avrebbe portato al crollo della democrazia in Germania. Il tramonto dello Stato legislativo apre un varco nell’ordinamento che spezza l’equilibrio costituzionale tra legalità e legittimità, norma e decisione, diritto e politica.
Schmitt, almeno in linea di principio, non contrappone i due termini. Anzi tenta di articolarli, collocando il potere costituente nella volontà del popolo tedesco. In questo modo resta all’interno del quadro democratico, ma lo spinge all’estremo limite arrivando a richiedere un Custode della Costituzione capace di incarnare la volontà popolare. Ciò che in sostanza Schmitt propone è una democrazia plebiscitaria che modifichi in senso autoritario il regime di Weimar. Il secondo motivo di interesse è l’attitudine camaleontica dell’autore a “ripulire” a ritroso la propria storia, ampiamente compromessa col nazismo.
Nella postfazione, scritta nel 1958, Schmitt individua in Legalità e legittimità il «tentativo disperato di salvare» la Costituzione di Weimar dall’attacco concentrico delle forze antisistema di destra e sinistra. Ora è vero che Schmitt non fuoriesce formalmente dalla cornice costituzionale. Ma schierandosi per un rafforzamento senza bilanciamento dei poteri del presidente, apre la strada allo strappo del 1933, quando si passa dalla possibile dittatura commissaria di Hindemburg alla reale dittatura sovrana di Hitler: la legge sul conferimento dei pieni poteri e l’abrogazione dei partiti sono l’esito controfattuale del tragico tentativo di stabilizzare la Repubblica, lacerandone il tessuto istituzionale.
Eppure l’interesse del saggio di Schmitt non è circoscrivibile a una vicenda storica fortunatamente chiusa. Nonostante la distanza che ci separa, sono troppi gli echi che risuonano in queste pagine.
A cos’altro richiamano la crisi di legalità e il deficit di legittimità, l’impotenza del Parlamento e il conflitto dei partiti, le forzature della costituzione e il rischio di ingovernabilità, se non alle ferite delle nostre democrazie?
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
VOLONTA’ DI POTENZA E DEMOCRAZIA AUTORITARIA. CARLO GALLI NON HA ANCORA CAPITO CHE, NEL 1994, CON IL PARTITO "FORZA ITALIA", E’ NATO ANCHE IL "NUOVO" PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA.
LA BRUTTEZZA DI UNA DIPINTURA: "FABULA LEMURUM". In memoria di Giambattista Vico
STORIA DELLA QUESTIONE INFAME: COME L’ITALIA, UN PAESE E UN POPOLO LIBERO, ROVINO’ CON IL "GIOCO" DEI "DUE" PRESIDENTI DELLA REPUBBLICA.
Il caso italiano
Rischio autoritarismo: rappresentare non basta più, la democrazia sia più efficace
Rinforzare la democrazia
di Romano Prodi (Il Mulino, 08 gennaio 2018) *
Per molti anni, soprattutto dopo la caduta del muro di Berlino, ci siamo illusi che l’espansione della democrazia fosse irresistibile. Una speranza alimentata da numerosi rapporti di organismi internazionali dedicati a sottolineare come il numero delle nazioni che affidavano il proprio futuro alle sfide elettorali fosse in continuo aumento. La convinzione di un “fatale” progresso della democrazia veniva rafforzata dalla generale condivisione delle dottrine che sono sempre state i pilastri della democrazia stessa, cioè il liberalismo e il socialismo che, alternandosi al potere, avrebbero sempre garantito la sopravvivenza ed il rafforzamento del sistema democratico. Tanto era forte questa convinzione che divenne dottrina condivisa il diritto (o addirittura il dovere) di imporre il sistema democratico con ogni mezzo, incluse le armi.
La guerra in Iraq e in Libia, almeno a parole, si sono entrambe fondate sulla motivazione di abbattere un tiranno per proteggere, in nome della democrazia, i sacrosanti diritti dei cittadini in modo da arrivare, con la maggiore velocità possibile, a libere elezioni.
La realtà ci ha obbligato invece a conclusioni ben diverse. Le guerre “democratiche” hanno mostrato l’ambiguità delle loro motivazioni e si sono trasformate in tragedie senza fine, mentre le elezioni imposte dall’esterno, soprattutto nei Paesi africani, sono state sempre più spesso utilizzate per attribuire al vincitore un potere assoluto, quasi patrimoniale, sul Paese. Colui che è stato eletto democraticamente si trasforma in proprietario dei cittadini e dei loro beni e la tornata elettorale successiva viene trasformata in una lotta impari se non addirittura in una farsa perché il leader democratico si è nel frattempo trasformato in un dittatore. Guardiamoci quindi dal ritenere che il progresso democratico sia fatale e inevitabile perché la democrazia non si esaurisce nel giorno delle elezioni. Essa si regge non sulle sue regole astratte ma sul rispetto di queste regole e, crollata l’influenza delle ideologie che ne stavano alla base, sui comportamenti e sui risultati delle azioni dei governanti.
Non dobbiamo quindi sorprenderci se, a quasi trent’anni dalla caduta del muro di Berlino, ci troviamo invece in un mondo in cui il desiderio e la richiesta di autorità crescono a discapito del progresso della democrazia. Lo vediamo a tutte le latitudini: non solo in molti Paesi africani ma in Russia, in Cina, in Vietnam, nelle Filippine, in Turchia, in Egitto, in India, nei Paesi dell’Est Europeo e perfino in Giappone. Un desiderio di autorità che si estende alle democrazie più mature e che lievita perfino negli Stati Uniti pur essendo, in questo grande Paese democratico, temperato dagli infiniti pesi e contrappesi della società americana.
Tutti questi eventi ci hanno portato ad un punto di svolta: la democrazia sta cessando di essere il modello di riferimento della politica mondiale e non si esporta più.
Possiamo simbolicamente collocare il riconoscimento ufficiale di questa svolta nel XIX Congresso del Partito Comunista Cinese dello scorso ottobre. Il presidente Xi, forte dei suoi successi, ha indicato nel sistema cinese lo strumento più adatto per promuovere lo sviluppo ed il progresso non solo della Cina ma anche a livello globale. La proposta della via della seta intende sostituire nell’immaginazione popolare il piano Marshall come modello di riferimento per la crescita globale e, in particolare, dei Paesi in via di sviluppo.
Un compito facilitato dalle fratture fra i Paesi democratici e dalla moltiplicazione dei partiti politici all’interno di questi Paesi, evoluzioni che rendono sempre più complessa la formazione di governi democratici robusti e capaci di durare nel tempo. Il susseguirsi degli appuntamenti elettorali (locali, nazionali ed europei) e le analisi demoscopiche, che rendono di importanza vitale ogni pur piccolo appello alle urne, abbreviano l’orizzonte dei governi che, invece di affrontare i grandi problemi del futuro, si concentrano solo sulle decisioni idonee a vincere le sempre vicine elezioni.
A rendere più difficile e precaria la vita dei governi democratici si aggiunge la moltiplicazione dei partiti, figlia della maggiore complessità della società moderna e della crisi delle grandi ideologie del passato. Ci sono voluti sette mesi di trattative per formare un governo in Olanda e, dopo oltre tre mesi dalle elezioni, non vi è ancora alcun accordo per un governo tedesco.
Di fronte a tutti questi eventi il favore degli elettori si allontana sempre più da una democrazia che “rappresenta” e si sposta verso una democrazia che “consegna”, che opera cioè in modo efficace.
Se non vogliamo vedere crescere in modo irresistibile anche nei nostri Paesi il desiderio di autoritarismo dobbiamo rendere forte la nostra democrazia: è nostro dovere primario rinnovarla e irrobustirla per metterla in grado di “consegnare”.
Quest’obiettivo può essere raggiunto solo adottando sistemi elettorali sempre meno proporzionali e sempre più maggioritari.
Il sistema elettorale non è fatto per fotografare un Paese ma per renderne possibile il governo.
Di queste necessarie trasformazioni l’Italia se ne sarebbe dovuta rendere conto da gran tempo e invece le ha volute ignorare: speriamo che possa metterle in atto fin dall’inizio della prossima legislatura.
* Questo articolo è uscito su «Il Messaggero» del 7 gennaio 2018.
TWEET (18.09.2016).
L’ITALIA CONTESA DA "DUE" PRESIDENTI DELLA REPUBBLICA E IL MANCATO " GIUDIZIO DI SALOMONE":
UN OMAGGIO A #Ciampi. A sua memoria. RIPARTIRE DALL’#Italia: VIVA L’ITALIA, VIVA LA #Costituzione ... http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=913
#Ciampi LA #BIBBIACIVILE e il #Giudizio di #SALOMONE (la #Cortecostituzionale senza #coscienza e #sapienza) ... http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5171
La trattativa
Il Codice piegato a misura di Colle
Se anche la Magistratura si allinea alla trasformazione della Repubblica in Reame, le speranze di resistere, resistere, resistere sono poche
di Bruno Tinti (il Fatto, 11.10.2014)
Le sentenze si emanano nel rispetto della legge. Che garantisce alle parti del processo la possibilità di far valere le proprie ragioni. Si chiama contraddittorio e, in uno con l’informazione fornita dai mass media, permette il controllo dei cittadini sui processi. Secondo la Corte d’Assise di Palermo il contraddittorio è variabile; pieno, parziale, anche inesistente. Lo decidono discrezionalmente i giudici, in base non alla legge ma a presunti principi generali astratti cui le leggi dovrebbero conformarsi; e, se conformi non sono, non si applicano. Che la legge ritenuta non conforme alla Costituzione debba esser rimessa alla Corte costituzionale per il relativo giudizio, questi giudici non lo sanno. E scrivono ordinanze inaccettabili.
La questione è nota. Napolitano ha “acconsentito” (non poteva fare diversamente, la legge lo obbligava) a rendere testimonianza nel processo per la trattativa Stato-mafia. Riina, Bagarella, Mancino e Parte civile hanno chiesto di essere presenti. E qui è nato il problema. Perché, a quanto pare (ma proprio non capisco perché), Napolitano non vuole trovarsi a tu per tu con i boss mafiosi. E ha opposto resistenza: testimonio, ma non voglio la presenza di questi imputati.
L’art. 205 c. p.p. prevede che il capo dello Stato sia interrogato presso il Quirinale. La Corte d’Assise si è arrampicata sui vetri con argomentazioni diverse: alcune più strettamente giuridiche, per interpretare le norme processuali in modo da giustificare la renitenza di Napolitano; altre extra-giuridiche, asseriti principi fondamentali che renderebbero il Quirinale e il capo dello Stato non sottomessi alle norme ordinarie.
LA LEGGE si limita a prevedere che la testimonianza del presidente della Repubblica deve avvenire presso “la sede in cui esercita la funzione di capo dello Stato”. Altro non dice. In particolare non detta specifiche regole che differenzino l’assunzione di questa testimonianza da tutte le altre. Così si deve applicare un principio ben noto ai giuristi, una frase latina di 2000 anni fa: ubi lex voluit, dixit; ubi noluit, tacuit; quando la legge prevede qualcosa, lo dice; quando non vuole prevederla, tace. Siccome eccezioni alle modalità di assunzione della testimonianza del capo dello Stato, a parte il luogo in cui essa è prevista, non sono previste da alcuna legge, tutte le norme processuali che regolano il dibattimento penale si applicano anche a questo caso particolare.
E qui sta il primo errore della Corte che ha ritenuto di natura analogica l’applicazione di queste norme alla testimonianza del capo dello Stato: “La norma non prevede nulla; dunque - per analogia - si dovrebbero applicare le altre norme processuali sulla testimonianza; ma non si può per via dei principi generali sull’immunità, etc”.
Solo che l’analogia non c’entra nulla: le norme generali sulla testimonianza si applicano a tutte le testimonianze, salvo le eccezioni previste dalla legge; una di queste è quella prevista dall’art. 205 (il Quirinale e non l’aula d’udienza). Per il resto non cambia niente.
E non potrebbe cambiare. Perché le norme processuali che la Corte vuole disinvoltamente “abrogare” sono, non a caso, assistite da una sanzione di nullità: se non rispettate, tutto il processo è nullo. Così l’art. 502 del codice di procedura prevede che, in caso di udienza che si tenga in luogo diverso dall’aula di Tribunale, “il giudice, quando ne è fatta richiesta, ammette l’intervento personale dell’imputato interessato all’esame”. “Ammette”, non “può ammettere”; ammissione obbligatoria. E l’art. 494 prevede che, l’imputato ha facoltà “di rendere in ogni stato del dibattimento le dichiarazioni che ritiene opportune, purché esse si riferiscano all’oggetto dell’imputazione”. Come può un imputato cui si impedisce di presenziare rendere “le dichiarazioni che ritiene opportune”? E qui entra in gioco l’art. 179: “Sono insanabili le nullità derivanti dalla omessa citazione dell’imputato”. E siccome non gli si può dire che non deve entrare nel posto dove, con obbligatoria citazione, gli è stato detto che può recarsi, il risultato di questa ordinanza è la nullità del processo.
Nell’ansia di difendere l’indifendibile, la Corte commette anche errori marchiani. Va bene, Riina e Bagarella al Quirinale non ci possono andare perché la legge non lo permette agli imputati per reati di mafia. Proprio per questo è prevista la videoconferenza. Ma - dice la Corte - l’art. 146 bis delle disposizioni di attuazione al codice di procedura la prevede solo per le attività svolte nell’aula di udienza; e il Quirinale è un luogo diverso. Non è vero. L’art. 146 bis prevede casi in cui la videoconferenza può essere attivata tra diversi istituti penitenziari, in modo da consentire a ogni imputato di interloquire con quanto avviene in questi luoghi. Dunque videoconferenza tra le carceri sì e con il Quirinale no? E perché poi?
ALLA FINE la Corte lo dice: esistono “speciali prerogative di un organo costituzionale qual è la Presidenza della Repubblica”; che vanno correlate all’“immunità della sede, all’ordine pubblico e alla sicurezza nazionale”. Siamo sempre lì. A questo presidente della Repubblica la legge comune non si applica. È già successo ai tempi della distruzione delle sue telefonate con Mancino. Ora succede di nuovo. Il grave è che succede a seguito di un provvedimento giudiziario. Se anche la Magistratura si allinea alla trasformazione della Repubblica in Reame, le speranze di resistere, resistere, resistere sono proprio poche.
Napoli.
La vita di un ragazzo: il prezzo da pagare per aver abbandonato le città
di Tomaso Montanari (Il Fatto Quotidiano, 10 luglio 2014)
Dopo cinque giorni di agonia, ieri Salvatore Giordano è morto: a quattordici anni. Sabato era stato colpito da alcuni calcinacci staccatisi dal soffitto della Galleria Umberto I, nel cuore di Napoli. Perché è successo? Di fronte a eventi terribili come questo, ci si è sempre interrogati. Gesù, nel Vangelo di Luca, sfida le superstizioni dei benpensanti del suo tempo: “Quei diciotto sopra i quali rovinò la torre di Siloe e li uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, vi dico”.
Oggi, invece, ci chiediamo: si poteva evitare? È davvero una fatalità? O è colpa di qualcuno? Non è possibile non vedere il nesso tra la tragica morte di Salvatore Giordano e l’abbandono di ogni manutenzione delle nostre città. Il centro storico di Napoli si va lentamente disfacendo, nell’indifferenza generale: ma il problema non è solo di Napoli.
Il 4 gennaio 2012, alle cinque di pomeriggio, a Firenze si rischia una strage: dalla Colonna dell’Abbondanza, nell’affollatissima Piazza della Repubblica, si stacca un frammento lapideo di ottanta chili, che precipita al suolo, miracolosamente senza ammazzare nessuno. Sempre a Firenze, pochi giorni fa quel miracolo non si è ripetuto: un ramo staccatosi da un albero nel Parco delle Cascine ha ucciso una donna e la sua nipotina. “Alla manutenzione, l’Italia preferisce l’inaugurazione”. Lo scriveva Leo Longanesi nel 1955, e oggi è ancora più sistematicamente vero.
La morbosa politica “culturale” dei Grandi Eventi rende praticamente inimmaginabile che un ministro o un sindaco trovino conveniente annunciare una campagna di manutenzione ordinaria a tappeto: troppo poco, troppo grigio, troppo umilmente anonimo. Ma il problema è ancora più profondo, e riguarda la mentalità indotta dal consumismo di massa nella sua fase estrema e (chissà) finale: è l’idea stessa della conservazione, della cura quotidiana degli oggetti ad essere uscita dal nostro orizzonte mentale. Se questo è vero per il nostro stesso corpo, lo è ancora di più per il corpo delle nostre città.
Non è difficile oggi capire l’ardimento visionario con cui nacque, per esempio, Venezia: difficile è capire il lavoro quotidiano della Repubblica Serenissima, che incessantemente ha curato la Laguna ogni giorno di ogni mese di ogni anno di ogni secolo. Eppure, senza quel lavoro quotidiano non avremmo Venezia. Oggi, quando va bene, la manutenzione si identifica con l’intervento eccezionale (vedi il Mose): meglio se spettacolare, e meglio ancora se costosissimo.
Nulla potrà ridare Salvatore ai suoi cari, ma noi questa lezione dobbiamo impararla: prima che non solo Napoli, ma tutte le nostre città storiche ci cadano, letteralmente, sulla testa.
Il populismo tecnocratico del «rottamatore»
di Lelio De Michelis *
Un’analisi impeccabile dell’ideologia e della prassi che hanno provocato il successo dell’uomo che ha costruito e rafforzato il suo potere divorando i suoi antagonisti e assorbendone così i nefasti caratteri. Sbilanciamoci info, newsletter, 4 luglio 2014 *
L’Italia, paese di populisti e di populismi. Ne ha conosciuti ben tre (e mezzo), nel ultimi vent’anni, un record mondiale. Populismo: che è concetto classico della politica e della sociologia ma che tuttavia è un processo culturale prima che politico. E oggi economico prima che culturale e politico, nel senso che è appunto l’economia capitalista ad essere oggi un processo culturale prima che economico, producendo - prima delle merci e del denaro - le mappe concettuali, cognitive, relazionali, affettive necessarie per la navigazione nel mercato; trasformando quello che era il cittadino dell’illuminismo in lavoratore, merce, capitale umano - ovvero in mero homo oeconomicus. Tre populismi interi: Berlusconi, Grillo e Renzi. E il mezzo populismo della Lega. Tre padri politici invocati dal popolo perché lo sorreggano, lo portino da qualche parte, gli dicano cosa deve fare, perché questo stesso popolo si ritiene incapace (o non più desideroso) di assumersi la responsabilità di essere sovrano di se stesso. Effetto culturale - questo - dell’antipolitica capitalista, che per essere sovrano assoluto e culturalmente monopolista deve rimuovere ogni sovrano concorrente.
Berlusconi: il populista che prometteva la modernizzazione neoliberale del paese. In realtà, un populismo del cambiare tutto per non cambiare nulla (soprattutto i suoi interessi personali e aziendali). Un populismo aziendalista, con la figura del padre/leader sostituita da quella dell’imprenditore che si è fatto da solo (o quasi), perfetta nell’esprimere il modello culturale che tutti dovevano apprendere: l’edonismo, il godimento immediato, la deresponsabilizzazione egoistica ed egotistica. Per legittimare - questa l’azione appunto culturale, pedagogica prima che economica - le retoriche neoliberiste dell’essere imprenditori di se stessi e della competizione come unica forma di vita.
Bossi e la Lega: il mezzo populismo (non solo perché limitato a una parte del territorio), apparentemente il più classico dei populismi con il richiamo alla tradizione, ai simboli di terra e di sangue. All’essere padroni a casa nostra: da intendere però non come sovrani sulla nostra terra ma come padroni nel senso antico del capitalismo. Populismo da piccola impresa, da capitalismo molecolare come versione localistica dell’ordoliberalismo tedesco e della sua pedagogia per imporre il modello impresa all’intera società.
Grillo: il populista contestatore, il teorico del net-populismo come forma perfetta della democrazia. Grillo come l’uomo del cambiamento ma incapace di cambiare (dice solo no) e forse populista anche di se stesso.
E Matteo Renzi. Un populismo di tipo nuovo ma evoluzione dei precedenti. Perché anch’egli cerca il rapporto diretto con il popolo e lo invoca come propria totalizzante legittimazione. Perché aspira ad essere insieme Partito di Renzi e Partito della Nazione. Un partito-non-partito tuttavia, ormai anch’esso trasversale - e quasi un non-luogo nel senso di Marc Augé: come un aeroporto, un supermercato, un luogo di consumo di politica.
Un populismo che invoca il popolo contro le caste e il sindacato salvando invece le oligarchie che lo sostengono come un sol uomo; che ha grandi mass-media schierati dalla sua parte e che gli consentono ciò che mai avrebbero consentito a Berlusconi; un populismo fideistico e teologico-politico (noi contro loro, noi il tutto che non accetta il due e il tre e il molteplice e gli eretici; noi il nuovo, gli altri il vecchio).
Un populismo che vuole rottamare appunto il vecchio, ma che non rottama, non corregge (una volta si chiamava autocritica, ma il nuovo che avanza travolge anche la memoria) i molti errori del passato: il sì all’austerità, all’articolo 81 della Costituzione sul pareggio di bilancio.
Un populismo finalizzato alla modernizzazione dell’Italia - e ogni populismo è stato, storicamente anche una via per la modernizzazione, facendo accettare al popolo, in nome del popolo quelle trasformazioni che altrimenti non sarebbero state possibili per trasformare un paese e quel popolo. Per questo, quello di Renzi è un populismo tecnocratico: che produce quella modernizzazione neoliberista che Berlusconi non è riuscito a produrre e Grillo fatica a poter produrre.
Un populismo nel nome della tecnocrazia, che la tecnocrazia ama; un populismo che trasforma (forse questa volta per davvero) il potere politico nel senso richiesto dalla tecnocrazia: meno democrazia (la riforma del Senato, le proposte di nuova legge elettorale); meno diritti sociali e quindi politici (diventati un costo); più decisionismo; meno partecipazione e più adattamento alla realtà immodificabile del mercato; meno cittadinanza attiva e più accettazione della ineluttabilità del reale. Perché le sue pratiche politiche - al di là delle apparenze e delle discussioni con Angela Merkel e di alcuni interventi comunque virtuosi - sono tutte dentro alla cultura della modernizzazione richiesta dall’ideologia neoliberista (flessibilità del lavoro, privatizzazioni, un nuovo modo di essere imprenditori di se stessi, riduzione ulteriore dello stato sociale, crescita invece di sviluppo, competizione invece di solidarietà); e la flessibilità sul Fiscal compact (invece della sua abolizione, per evidente irrazionalità e surrealtà economica), pure invocata, è un pannicello caldo rispetto al nuovo new deal che sarebbe invece necessario (e urgente). Un populismo futurista, inoltre: nel nome della velocità, delle macchine, delle parole in libertà, dell’azione per l’azione.
Il populismo di Renzi è dunque più di un classico neopopulismo, che ha dominato la scena per trent’anni coniugando populismo e neoliberismo, mercato e popolo, modernizzazione e impoverimento e disuguaglianze. E’ un neopopulismo tecnocratico - per altro discendenza diretta di quello neoliberista - che scardina ancor più di quello neoliberista le forme e le pratiche della democrazia; riduce a niente la società e la società civile; attacca il sindacato o lo rende inutile (in coerenza con le tecnocrazie globali); che spettacolarizza se stesso proponendosi come outsider, come rottura, come alternativa, in realtà portandoci nella società dello spettacolo della tecnocrazia.
Una tecnocrazia che non si espone più direttamente con i noiosi e antipatici tecnici, ma con la fantasia e l’estro di un populismo mediatico e spettacolare, moderno e postmoderno insieme, dove twittare è più importante che ascoltare.
Nelle nebbie della seconda Repubblica: Diario di un naufrago
Nel testo di Crainz il ritratto di un ventennio tra i fallimenti della sinistra e l’avanzata del populismo
di Oreste Pivetta (l’Unità, 18.12.2013)
LA CRONACA DEGLI ULTIMI DIECI ANNI POTREBBE APRIRSI SULLA SCENA DI PIAZZA NAVONA, nel febbraio del 2002, quando con un colpo di teatro Nanni Moretti scosse una manifestazione dell’Ulivo al grido: «Con questi dirigenti non vinceremo mai!». Il Pd, sopravvissuto a quell’esperienza, sopravvissuto a sconfitte elettorali, vivendo i suoi momenti di gloria e le sue crisi identitarie, socialdemocratico, neoliberista, chissà che, ha dismesso quei dirigenti e ne sta, in questi giorni, cercando altri. Nuovi? Reduci della passata politica? Innovatori autentici?
Viene in mente il titolo di un film del ’68 di Lina Wertmüller: Riusciranno i nostri eroi... Altra epoca e le epoche contano. Altra epoca di contraddizioni feroci, ma anche di slanci libertari, democratici (di una democrazia che cercava nella sua imperfezione una propria via alla partecipazione contro i legacci e i limiti istituzionali), riformatori (dal divorzio al diritto di famiglia, dallo statuto dei lavoratori alla 180), altra epoca che si smarrì nei gioiosi anni 80 e nel ventennio berlusconiano. Resta l’interrogativo: riusciranno i nostri eroi?
Le ultime righe della cronaca che Guido Crainz, storico (si leggano i tre volumi che compongono il ritratto dell’Italia dal dopoguerra ad oggi, pubblicati da Donzelli), ricostruisce nel suo ultimo Diario di un naufragio (pagine 256, euro 19,50, Donzelli) mi sembrano attestino la difficoltà fino alla disperazione dell’impresa: eredità e detriti della stagione berlusconiana che gravano «come un macigno sulla nostra capacità politica di ricostruire il paese e di progettare». Ammettendo appunto che è impossibile ancora considerare per conclusa la «stagione berlusconiana»: conclusa, come si spera, magari sul terreno politico-elettorale, improbabile che lo sia sul piano della cultura profonda, del costume di un paese.
LA CRITICA AL PD
Il «diario», il «giorno per giorno» di uno storico, cronista, commentatore, riguarda le forze politiche in campo, i loro comportamenti (in tutti i sensi, anche in quello che testimonia la progressione della corruttela, da Tangentopoli al Batman di Anagni, dalle tangenti di Craxi alle condanne di Berlusconi, mentre si vede crescere «la forbice fra i durissimi sacrifici imposti al paese e i perduranti privilegi e sperperi di un sistema politico travolto dagli scandali»), i loro fallimenti. Nella rappresentazione dei fallimenti, senza tregua è la critica al Pd, una insistenza polemica che si comprende da parte di chi sta a sinistra e di chi coltiva attese di cambiamento e di chi pensa o spera che ancora nel Pd vi siano le forze, l’intelligenza, la moralità su cui far leva per interrompere la discesa all’inferno (come sarebbe stato possibile scriveva Crainz proprio nei giorni delle ultime elezioni se il Pd avesse avuto anche il coraggio di una proposta radicale, di «una radicalità senza precedenti» nei contenuti programmatici e nell’alto e nuovo profilo del governo).
Ma nel Diario di un naufragio colpiscono altre note: non tanto quelle che ci restituiscono alcuni diversi frammenti di una storia dell’antipolitica che va, nel dopoguerra, dal qualunquismo di Giannini al «nullismo» di Grillo, quanto quelle che riferiscono di una partecipazione al voto che tocca nel dopoguerra tetti inusuali, anche in Europa, scavalcando l’asticella del 90 per cento e che declina a partire dalle regionali del 1980 fino a precipitare senza sosta sotto la soglia del 50 per cento. Di fronte all’Italia che vota c’è un’altra Italia, ugualmente consistente, tanto varia da diventare inafferrabile: delusa, scoraggiata, indifferente o estranea alla politica, perché semplicemente pensa ad altro, un’altra Italia dentro la quale si è inabissata quella società civile, che ai tempi del «grido» di Nanni Moretti aveva illuso di rappresentare la chiave di volta di una resurrezione-rigenerazione del paese.
Sistema politico e società civile capita che si dividano con pari dedizione le spoglie di pochi valori sopravvissuti e il peso o il vantaggio di tanti peccati (cominciando da una diffusa disponibilità alla corruzione e all’obnubilamento mediatico, al torpore di fronte alle più gravi accuse, minori e prostituzione e persino alle condanne). Quando, in un miracoloso travaso, grazie ad esempio al tragico Grillo, la società civile non si è riversata nel sistema politico, dimostrando adattabilità e nessuna difficoltà ad apprendere. Come se la «mutazione», si fosse del tutto compiuta, senza scampo.
LA MALATTIA DEL BELPAESE
Il Diario di Crainz mi pare dimentichi alcune «voci» nel repertorio dei protagonisti del naufragio, intanto gli intellettuali (un tramonto e basta) e poi la stampa italiana, pesantemente, malinconicamente in deficit di fronte a una missione che le spetterebbe per definizione: informare sullo stato del paese, sulle varie forme, politiche e sociali, in cui la malattia si manifesta, tralasciare le scritture consolatorie quando i buoi scappano, ignorare gli amori di Dudù per la barboncina bianca di Palazzo Grazioli quando in «terra dei fuochi» i bambini muoiono di cancro. Restituire davvero al Belpaese Benpensante l’immagine della tragedia che incombe, naufragio, terremoto, frana, allagamento o veleno, per mare e terra, politica e morale, immagine da fine del mondo. Non ci rimarrebbe una speranza in più se almeno un foglio, dalle tirature potenti, avesse rivendicato autonomia di fronte ai suoi padroni, avesse alzato qualche velo, sostenuto qualche battaglia (magari per difendere il semplice principio che la legge è uguale per tutti)?
Lo spirito della Costituzione
di BARBARA SPINELLI *
Forse è venuta l’ora di dire in termini chiari che l’imperatore è nudo: in Italia, e in tutti i Paesi dell’Unione europea immersi nella crisi. Non ha più scettro né manto.
E non è vero quello che i nostri capi di governo vanno dicendo: che saremmo in mano alla trojka di Bruxelles, se svanisse il bene molto equivoco di una stabilità politica che dipende dal condannato Berlusconi.
Quel condizionale - saremmo - va sostituito con l’indicativo. L’Italia non rischia commissariamenti se cade il governo Letta, così come non li rischiava quando caddero Berlusconi o Monti, perché da tempo siamo sotto tutela. I nostri imperatori sono oltre che nudi, finti. La stabilità tanto vantata, da salvare ad alti costi, è in realtà stasi sanguigna, imperio di un’oligarchia che fa capo non a un re ma a un reggente.
Nel vocabolario Treccani, reggente è colui che "esercita le funzioni della Corona in sostituzione del re, in via straordinaria e in determinati casi (incertezza su chi ha diritto al regno, incapacità giuridica o impedimento fisico del monarca)". Tanto più perniciosa una stabilità che dovesse scaturire dalla spaccatura, clamorosa ma forse provvisoria, del Pdl. Anche abbandonato dai suoi, Berlusconi non cesserà di influenzarli. Surrettiziamente, continuerà a esser lui la garanzia della nostra solvenza finanziaria e della nostra onestà: soprattutto se in extremis voterà la fiducia.
Monti d’altronde lo annunciò, il 16 ottobre 2011 sul Corriere, un mese prima di divenire Premier: "Siamo già oggetto di "protettorato": tedesco-francese e della Banca centrale europea". Il protettorato ha assunto fattezze più civili, ma protettorato resta. Inutile continuare a dire che siamo sull’orlo del commissariamento. Ci siamo dentro, come Atene, Lisbona, Dublino, Madrid. A forza di fissare l’abisso, l’abisso guarda dentro di noi e ci inghiotte. Se le cose non stessero così, non ci allarmeremmo: "Chi sarà capace di parlare con Draghi, dopo Monti e Letta?" In altre parole: chi amministrerà, conscio di non essere che un reggente?
Questo non vuol dire che i giochi siano fatti per sempre. Che subordinazione e reggenza siano fatali leggi della natura. Vuol dire però che tutto va mutato, a Roma e in Europa: i vocabolari mistificatori che usiamo, le politiche che ne discendono, il nostro sguardo sulle istituzioni, le Costituzioni. Dice lo scrittore austriaco Robert Menasse, dei monarchi europei: "Uno Stato nazionale non può più risolvere problemi da solo, la sovranità è già ceduta". Tanto più in Italia, le cui anomalie hanno dilatato la subalternità oltre misura. Non solo l’anomalia di Berlusconi. È anomalia anche governare con un partito estraneo alla cultura giuridica. È anomalia anche un Parlamento che con bradipica lentezza espelle (se espelle) un senatore condannato per frode fiscale, quando la legge ordina di farlo "immediatamente".
Senza fare chiarezza impossibile affrontare l’instabilità vera: il disfarsi delle democrazie, e in primis della nostra. Lo dice chi proprio per questo s’aggrappa alla Costituzione, e il 12 ottobre a Roma scenderà in piazza per difenderla. Se trema la democrazia, per forza tremerà la sua Carta fondativa. Cosa significa oggi avere governi di reggenza, ipocritamente sovrani? Significa che "il monarca tradizionale è in una condizione di incapacità giuridica, di impedimento fisico". Lo scettro è in mano a potenze esterne, e il reggente lo sa ma non lo dice.
Gli effetti già li vediamo, li viviamo. La nostra Repubblica si è fatta presidenziale, sotto Napolitano, e la metamorfosi non è stata decisa dal popolo sovrano: è avvenuta come se l’avesse dettata, motu proprio, la natura. L’antagonismo politico piano piano è stato bandito, bollato come populista secondo la già collaudata, emergenziale logica degli opposti estremismi. È populista Berlusconi, che entrò in politica per restaurare un’oligarchia corrotta dopo Mani Pulite. Sono definiti specularmente populisti Syriza in Grecia o i movimenti cittadini vicini a Grillo, che dell’era Mani Pulite sono figli.
Ne consegue l’impotenza crescente delle costituzioni nazionali, quasi ovunque in Europa. Il popolo di cittadini non può far valere bisogni e paure, quando è amministrato (non governato) da oligarchie che pretendono regalità che non hanno più. Quando un rapporto della JP Morgan (28 maggio ’13) definisce infide le costituzioni nate dalla Resistenza, caratterizzate come sono "da esecutivi deboli verso i parlamenti; dai diritti dei lavoratori; dall’eccessiva licenza di protestare contro modifiche sgradite dello status quo". Nella storia francese, il periodo in cui Filippo d’Orleans amministrò al posto di Luigi XV si chiama reggenza ed è sinonimo di governi brevi, dediti a sanare bilanci. Orleanismo è predominio delle coterie: cioè delle consorterie, o cricche.
Perché, visto che siamo sotto tutela, battersi perché la Costituzione incompiuta si compia? Perché è il suo spirito che conta: i suoi articoli sono la confutazione vivente degli imperatori apparenti come dei commissariamenti fatali. Nelle costituzioni democratiche non è scritto che lo Stato-nazione è sovrano. Pienamente sovrani sono i cittadini, e ciascuno di essi deve contare ai vari livelli del potere: comunale, nazionale, ed europeo. La democrazia è oggi postnazionale: le elezioni europee del 22-25 maggio prossimo sono importanti come quelle nazionali, ma governi e partiti fanno lo gnorri.
Non è nemmeno scritto, nelle costituzioni, che una sola politica sia buona, e le vie diverse illegittime o populiste. La Carta sta lì a dirci le forme della democrazia che vogliamo, ma anche i suoi contenuti: l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge; il lavoro, l’istruzione e la stampa libera come fondamenti; la tutela del patrimonio naturale e artistico; la separazione dei poteri; la protezione dei deboli, degli svantaggiati, di chi dissente.
Nelle crisi le Carte sono preziose perché aprono possibilità, non congelano i rapporti di potere esistenti. Consentono politiche alternative, non organizzano solo alternanze: né da noi né in Europa. Muoiono, se niente si muove. Oggi sono i nazionalisti a reclamare il nuovo (in Germania o in Austria, dove le destre estreme, antieuropee, hanno raccolto domenica il 30,8 % dei voti) ma perché la sinistra classica ha smesso da tempo di incarnare l’alternativa.
Prima del voto tedesco, su Spiegel online, il giornalista Wolfgang Munchau ha messo in relazione il declino socialdemocratico con il rifiuto di un’alternativa, nazionale e europea, all’austerità della Merkel. Risale agli anni ’90 la rottura con Keynes, quando Schröder concepì la terza via: che non era affatto terza ma - come per Blair, per il Pd - adesione al mercato senza freni naufragato nel 2007-2008. Erano ancora keynesiani Brandt e il suo ministro del Tesoro Karl Schiller, nel ’69. Lo fu anche Schmidt, negli anni ’70. Solo l’estrema sinistra tedesca (la Linke) resta keynesiana.
Un’alternativa è possibile, se non se ne ha paura. Alexis Tsipras, capo di Syriza in Grecia, ha chiesto il 20 settembre al Forum Kreisky di Vienna un’Europa non frantumata dall’austerità, e una lotta "contro l’alleanza fra cleptocrazia ellenica e élite europee". Simile la lotta in Italia: il fronte costituzionalista di Rodotà e Landini, Zagrebelsky e Settis, dice questo. Quanto a Berlino, una maggioranza parlamentare alternativa alla Merkel esiste già (socialdemocratici, verdi, Linke), ma solo sulla carta. Da otto anni i socialdemocratici rinunciano a gettar ponti verso la Linke, a liberarla dal passato comunista.
Da noi l’alternativa potrebbe nascere se il Pd non proponesse solo reggenti, e scoprisse che per vent’anni la Carta è stata l’arcinemico della destra berlusconiana. Se dicendo il vero sul commissariamento, separasse la sovranità dei cittadini da quella degli Stati, e si battesse per una Costituzione che sarà compiuta quando i suoi princìpi s’estenderanno all’Europa.
* la Repubblica, 02 ottobre 2013
Berlusconi, uno e due, virtuale e reale
di Mons. Giuseppe Casale
in “Adista” - Segni nuovi - n. 30 del 7 settembre 2013
Ma chi è il personaggio Berlusconi, che tiene in agitazione un intero Paese, che suscita accesi contrasti, che mette a rischio la tenuta stessa del governo, mentre ben altri e gravi problemi (crisi economica, disoccupazione giovanile, criminalità organizzata, immigrazione) esigono interventi urgenti e indilazionabili?Non è una domanda retorica. Perché il caso Berlusconi va ben al di là del fatto di cronaca riguardante una persona. È il termometro che segna una grave anomalia nella vita della democrazia italiana.
Si fa presto a descrivere il Berlusconi reale: un imprenditore che ha accumulato un’enorme ricchezza, non si sa con quali metodi; un uomo politico che ha suscitato forti critiche e riserve da parte di tanti onesti cittadini e numerosi interventi della magistratura per una condotta che è apparsa a coloro che indagavano su di lui riprovevole, in contrasto con le leggi dello Stato e l’etica pubblica, sia quando Berlusconi vestiva i panni di uomo di governo sia quando dirigeva, direttamente o indirettamente, le sue aziende. Alla fine di uno dei tanti procedimenti giudiziari che lo hanno visto indagato o imputato è stato condannato in maniera definitiva dalla Cassazione. Non è un perseguitato. È, tecnicamente, un condannato. La sentenza della Cassazione doveva perciò bastare per chiudere questo triste e avvilente capitolo della storia italiana recente.
Non è così. Perché se cade Berlusconi, cade tutta una costruzione pseudo-politica che ha in lui sostegno e spinta propulsiva. Ecco quindi che a fianco del Berlusconi reale c’è il Berlusconi virtuale, quello che ha fatto dimenticare ad un’intera generazione il rispetto delle leggi, della Costituzione e dei poteri dello Stato, assieme alle stesse norme minime di comportamento che vigono in una società organizzata. E che continua ad alimentare suggestioni collettive e un fitto reticolo di interessi. Ci sono ancora milioni di persone che vedono in Berlusconi il “salvatore della patria”, il politico che fa sognare e dispensa dal pensare. Vi sono, inoltre, altre centinaia di persone alle quali Berlusconi assicura potere, posti di lavoro, carriera politica, posizioni di rilievo nell’apparato dello Stato.
E allora la condanna? Per tutte queste persone non conta. È solo il frutto di una magistratura di sinistra che perseguita "l’unto del Signore. Gli insuccessi nel governo della cosa pubblica? Solo la conseguenza di una democrazia che impedisce al “capo” di governare con rapidità e decisione. Bisogna quindi salvare Berlusconi - si dice - perché è stato eletto da milioni di italiani. Come se l’essere eletti comporti non la responsabilità, ma l’impunità. Bisogna salvare Berlusconi, perché - si insiste - altrimenti tutto crolla. È vero. Però crolla una costruzione che non si basa sull’apporto responsabile dei cittadini, ma sulla verbosità, spesso menzognera, di chi pensa e decide per tutti.
Bisogna resistere alla tentazione di chiudere gli occhi, di accettare gli italici compromessi. Il bene comune non esige l’acquiescenza, il salvacondotto, la tortuosità di pseudo giustificazioni. La condanna di Berlusconi è l’uscita di sicurezza da un populismo mistificatore verso una democrazia sana, costruita ogni giorno con l’apporto intelligente e responsabile di tutti i cittadini. Che ne pensano i tanti cattolici “berluscones”? Non è giunto il momento per fare un serio esame di coscienza e... convertirsi?
* Arcivescovo emerito della diocesi di Foggia-Bovino
La sindrome CFMP che ammala l’italia
di Franco Cordero (la Repubblica, 11 giugno 2013)
Gli affari italiani propongono al patologo un quesito diagnostico: cos’abbia la paziente; malattia grave, a lungo termine letale; e l’esperienza esclude una regressione spontanea. Il nome, formato dalle iniziali, è sigla quadrilettera, CFMP. Sciogliamola e viene fuori una quaterna d’Apocalisse: corruzione, frode (includiamovi l’incretinimento d’una massa mediante ipnosi mediatica), mafia, parassitismo; e il tutto presuppone una politica gaglioffa.
La malattia ha qualche lontana radice organica (l’anamnesi chiama in causa potere ecclesiastico, Comuni, Signorie, Controriforma, una cultura vuota e megalomane, abiti cortigianeschi) ma il fattore degli ultimi trent’anni è un caimano allevato dal malaffarismo governativo: viene su dal niente abissale; istupidisce le platee con l’arnese televisivo, del quale diventa duopolista disgregando pensieri, sentimenti, gusto; e caduta l’oligarchia i cui favori venali lucrava gonfiandosi, raccoglie la successione. Presiede il Consiglio in tre legislature, otto anni e mezzo e negli altri sette era egemone: profondamente volgare, ignorante, bugiardo, istrione, circonventore degl’indifesi, clown sguaiato, estorsore senza complimenti, sfoga un’acuta nomofobia; le norme esistono affinché lui le vìoli impunito; non tollera poteri separati; sfida tribunali e corti; compra sentenze; allunga i piedi nel piatto legislativo dissestando l’ordinamento. Insomma, esercita la pirateria da Palazzo Chigi, arricchendosi ancora (ai tempi della lira vantava quarantamila miliardi), patrono del malaffare in colletto bianco. Rispetto alla gang che gli gira intorno, i politicanti facili d’una volta erano eremiti. L’ideologia è prassi nichilistica: enrichissez vous,ma l’Italia è alquanto meno florida della Francia sotto Luigi Filippo; e siccome l’economia ha equazioni non mistificabili sine die, viene il collasso.
Diciotto mesi fa, ignobilmente costretto a dimettersi, era mummia torva: gli restava qualche stalliere senza futuro (fuori della compagnia piratesca); chiunque s’illudesse d’averne, indossava maschere miti, qualificandosi colomba; e un ex ministro, poi coordinatore del partito, credente bellicoso, prendeva nota degl’infedeli. Come sia riemerso, è argomento da discutere a parte. Sparito l’Olonese, un governo cosiddetto tecnico aveva dissanguato i meno benestanti sferrando nel mucchio misure draconiane intese a ridurre il debito (che paghino i poveri diavoli, è vecchia storia, vedi l’imposta sul macinato). Adesso stiamo peggio. Ultima in Europa, l’Italia continua a indebitarsi perdendo colpi, e non c’entrano congiunture planetarie, destino baro, influssi siderali. È questione d’elementare economia: quante volte la corte dei Conti l’ha formulata calcolando in 60 o più miliardi il prelievo annuo clandestino CFMP; i «fondamentali» tenderanno al basso finché: il vampiro succhi; e sappiamo con quanta cura intransigente Re Lanterna se lo covasse sabotando ogni tentativo serio d’un risanamento.
Se poi lo sguardo passa dal quadro economico al politico, lo scenario taglia il fiato: la mummia d’allora (12 novembre 2011) tiene al governo uomini suoi, nel senso più possessivo; lo spirituale Angelino Alfano, vicepremier, comanda gl’interni; alle riforme costituzionali provvede tubando la colomba Gaetano Quagliarello; sotto la stessa figura ornitologica vola Maurizio Lupi (trasporti e infrastrutture). Inutile dire chi muova i fili: appena lui fischi, le colombe mettono rostro e artigli diventando falchi; li abbiamo visti e uditi in parti davanti alle quali lo spettatore rimane allibito.
Il divus Berlusco gioca su due tavoli: governativo finché gli conviene, schiera 17 mila teste, rigorosamente non pensanti, pronte all’azione qualunque cosa lui comandi, fosse anche una scalata alla luna; e giurano, «lo difenderò nella guerra dei vent’anni» (qui 2 giugno).
È dogma che sia vittima d’una magistratura assatanata: «uso politico della giustizia», farfugliano i dignitari, monotona filastrocca; almeno tentino qualche variante. Tribunali e corti decidono in base alle prove, sicché arrivano delle condanne. Tanto tempo fa s’era presa una laurea in legge ma, assordato dall’ego, ha dimenticato i rudimenti, quindi strepita: «il Quirinale deve difendermi»; e la Consulta stronchi «l’accanimento» persecutorio (4 giugno).
Tale sarebbe mandare a giudizio chi, secondo i reperti, frodava il fisco, imboscando milioni a centinaia, o gestiva un harem mercenario, o, presidente del Consiglio, ha buttato in pasto al pubblico un segreto d’ufficio contro l’avversario. Viste le norme, ovvia la condanna qualora i fatti constino. Eventuali errori sono rimediabili in appello e Cassazione. La Pasionaria chiama otto milioni d’elettori allo sciopero fiscale, se mercoledì 19 p. v. la Consulta non accoglie il ricorso. Parliamone perché l’aneddoto fa lume sulle tecniche berlusconiane: lunedì 1 marzo 2010 era fissata da un mese e mezzo una delle tante udienze del dibattimento Mediaset diritti tv; è affare acrobatico condurle; pretende d’esservi ma non può quasi mai, carico d’impegni. Intenti al perditempo strategico, i difensori chiedono il rinvio perché l’imputato ha un consiglio dei ministri: il tribunale risponde picche; s’era affatturato l’impedimento aggiornando una seduta 26 febbraio. Ma fosse anche motivo plausibile, solo i cultori d’una procedura asinina pensano che svanisca l’intero processo, se in quell’udienza non è avvenuto niente d’influente sulla decisione; le testimonianze ivi acquisite sono parole al vento; vizio innocuo, dunque.
Con questi architetti il Pd s’accinge a demolire le strutture costituzionali fondando un regime del presidente dai larghi poteri, eletto dal popolo (cavallo di battaglia berlusconiano): bel disegno, come se una neoplasia comandasse i sistemi immunitari; quando vuol colpire qualcuno, Iupiter gli toglie il senno.
L’ombra lunga del dispotismo
Dal presidenzialismo al dispotismo
di Michele Ciliberto (l’Unità, 06.06.2013)
La discussione, accesa e a volte aspra, sul presidenzialismo va considerata con attenzione, senza condanne pregiudiziali. Essa conferma che nel nostro Paese è aperta la questione della sovranità: chi è oggi il sovrano, in quali forme si esprime, su quale equilibrio dei poteri è fondato?
È un problema cruciale ed è singolare che esso non sia mai afferrato e affrontato nella sua necessaria e obiettiva radicalità. Si continua a restare alla superficie dei process, senza capire che i fenomeni che abbiamo sotto gli occhi compreso quello che si è soliti definire «populismo» hanno questa radice e a questo livello vanno considerati. Che cosa sta facendo il Movimento 5 Stelle se non riaprire, in modo perfino brutale, la questione di chi oggi sia il «sovrano»? Il rifiuto che ha opposto, con durezza, al tentativo di Bersani non scaturisce da una risposta precisa a questa domanda che prescinde volutamente da una dialettica parlamentare ordinaria e si situa fuori dagli argini della «tradizione» repubblicana? Come non capire che su questo punto specifico i capi di quel Movimento si muovono su un’altra onda, che non si incrocia con gli ordinari soggetti della sovranità e con le sue forme tradizionali?
Eppure non è questione di questi giorni, di questi mesi e nemmeno di questi ultimi anni: si è aperta negli anni Settanta, e da allora è iniziato nel nostro Paese uno scontro nel quale sono stati impegnati forze e soggetti diversi politica, magistratura, forze economiche proprio come accade quando, rotto un equilibrio, si sviluppa uno scontro frontale, e di carattere generale, sui caratteri, i soggetti, le forme del nuovo equilibrio da costruire: in una parola, sulle «nuove» forme della sovranità.
Se si analizza la storia italiana da questo punto di vista, si vede che lo scontro ha visto in campo fin dall’inizio una ipotesi di soluzione di carattere autoritario, decisionistico, secondo una vocazione tipica delle classi dirigenti italiane fin dalla fondazione dello Stato nazionale. Che cosa è stato il craxismo, che pure si muoveva in un’area di tipo socialista, se non un tentativo di risolvere il problema della sovranità dall’alto, in una prospettiva di tipo autoritario con il progetto della Grande Riforma? È proprio su questo terreno insidiosissimo perché tocca la dimensione delle istituzioni repubblicane che si può individuare un filo rosso di continuità tra craxismo e berlusconismo (due fenomeni per tanti versi differenti).
Il problema del presidenzialismo viene quindi da assai lontano, e va collocato su questo sfondo per essere compreso e anche combattuto. Oggi arriva in superficie, assumendo questa forma, un problema che percorre come un fiume carsico tutta la nostra storia recente, al quale le forze riformatrici, spesso chiuse in una trincea difensiva, non hanno saputo dare una risposta.
Certo, ha ragione Bersani quando sottolinea che la missione di un partito come il Pd esclude, in linea di principio, ogni forma di «uomo solo al comando». Ma per battere posizioni di questo tipo e capire perché esse si ripropongano periodicamente, assumendo come un Proteo varie forme e penetrando anche nel Pd occorre comprendere le ragioni storiche obiettive da cui questa spinta al presidenzialismo ha preso e continua a prendere forza.
È un fatto: gli equilibri della democrazia repubblicana si sono consumati, le forme della politica di massa sono finite, le culture dell’antifascismo sono tramontate; e sono venute anche meno alcune delle principali preoccupazioni che avevano animato i costituenti formatisi nel fuoco della lotta al fascismo.
In breve, un mondo è finito e occorre costruirne un altro, sapendo quali sono i termini delle alternative oggi in campo: una soluzione di tipo presidenzialistico o una soluzione in termini di democrazia diretta soluzioni polarmente contrapposte, ma entrambe da respingere perché l’una e l’altra autoritarie e, sia pure in forme diverse potenzialmente, dispotiche? Oppure, e questa è la soluzione su cui lavorare, nuove forme istituzionali, politiche e sociali che risolvano in termini di espansione democratica la questione della sovranità ma confrontandosi con i problemi politici e sociali e anche con le nuove esigenze di governabilità proprie di un mondo complesso e globalizzato come il nostro?
È un problema assai vasto, analizzabile da molti punti di vista, a cominciare da quello rappresentato dal bipolarismo e dal rapporto, delicatissimo, tra presidenzialismo e bipolarismo. La forza dell’ipotesi bipolare sta infatti qui: nonostante i suoi limiti sconta un difetto di semplificazione in una storia complessa come le nostra essa può contribuire a una modernizzazione e a uno sviluppo in chiave democratica, del nostro sistema politico, specie se è fondata su un sistema elettorale a doppio turno.
Ma se si sceglie questa strada come io ritengo che si debba fare il presidenzialismo, va respinto in tutte le sue forme.
Se è vero, infatti, che «è nell’essenza dei governi democratici che il predominio della maggioranza sia assoluto», dal presidenzialismo scaturisce, in modo ineluttabile, una moderna forma di «dittatura della maggioranza», con uno stravolgimento dell’equilibrio dei poteri e un netto primato dell’esecutivo sia sul legislativo che sul giudiziario. Se questa è la prospettiva, ciò di cui la nostra democrazia ha bisogno è precisamente il contrario: essa necessita di una alta magistratura che si configuri come principio di equilibrio, garanzia di un bilanciamento dei poteri, base e riferimento di una positiva ed efficace dinamica bipolare.
Dunque una istituzione forte e condivisa, da delimitare con precisione nelle sue prerogative e nei suoi confini. E tanto più indispensabile in una situazione come quella attuale nella quale mancano, o sono assai deboli, strutture in grado di contrapporsi a forze che pur generate democraticamente possono svolgersi in termini autoritari e perfino dispotici, come avviene sempre quando si afferma, in modo incontrollato, il potere della «maggioranza». Ne abbiamo cominciato a fare esperienza negli ultimi venti anni.
Il giorno della fine della guerra civile
risponde Furio Colombo (il Fatto, 06.06.2013)
CARO FURIO COLOMBO, non so se ha notato, ma è finita la guerra civile. Lo ha dichiarato Silvio Berlusconi alle ore 14.12 del 5 giugno. Che cosa diranno gli storici? Luigi
É MOLTO IMPORTANTE esaminare il testo del bollettino della vittoria firmato da Silvio Berlusconi. É scritto così: “Siamo riusciti a mettere insieme il centrodestra e il centrosinistra ponendo fine a una guerra civile”. Berlusconi dunque si attribuisce (“siamo riusciti...”) il merito dello storico evento e mostra di mettersi alla testa, novello generale Cadorna.
Per capire l’improvviso comunicato straordinario, dobbiamo provare a metterci dalle due parti di chi vi partecipa. Dunque, visto da destra e visto da sinistra. A sinistra troviamo un evento piccolo ma esemplare. Il tema è giustificare la nuova vita insieme di una deputata di Berlusconi (Laura Ravetto ) e un deputato del Pd ( Dario Ginefra).
Come può accadere una cosa simile? Semplice, spiega il giovane Pd: “Non sono accecato dall’antiberlusconismo” (Corriere della Sera, 31 maggio). Sulla destra compare in televisione (Tg3, 4 giugno) l’austera Gelmini che sillaba questo messaggio: “Una eventuale condanna di Berlusconi sarebbe lesiva della democrazia”. Che vuol dire “non fatevi venire delle strane idee sulla indipendenza della magistratura , perché allora la guerra continua”.
Posso raccontare, senza che sembri un vanto, una storia del tutto simile che mi riguarda, ovvero “chi tocca i fili muore?” Dunque, leggo su “Dagospia” del 4 giugno questa frase di Paolo Madron che risponde a una mia obiezione al suo libro). “I ricordi di Bisignani sul suo soggiorno americano erano più precisi. Ricordava come, in quanto capo della Fiat Usa, Colombo fosse presente nei consigli di amministrazione di alcune banche, tra cui la Overseas Union Bank, entrate poi, ai tempi di Tangentopoli, nelle indagini del pool di Mani Pulite”.
Strana memoria. Identica a quella del capo gruppo Pdl Renato Brunetta, che, per rispondere (anche lui) a una frase che non gli andava, è stato folgorato dallo stesso frammento di memoria, espresso con lo stesso argomento e le stesse parole.
Ma tutto ciò, parola per parola, si trova in un articolo di due pagine (la 2 e la 3) con foto gigante, (ma con il titolo a bandiera a pag. 1) a firma Renato Farina, sul quotidiano “Libero” del 30 marzo 2001. Ti dicevano che tutto era già scritto in un libro di Marco Travaglio. Quel libro è stato ripubblicato e distribuito da “L’Unità” quando io lo dirigevo. Come vedete, la guerra è finita, ma solo per chi accetta la resa, che deve essere incondizionata, come allora. Non c’è posto, nel mondo delle larghe intese, per chi sia ancora “accecato dall’antiberlusconismo”.
Paese alla deriva
Logo Italia: nulla si crea tutto si distrugge
di Furio Colombo (il Fatto. 02.06.2013)
Nulla si crea, tutto si distrugge”. Propongo che questo sia il logo dell’Italia in cui da vent’anni stiamo vivendo, e che il governo collaborazionista Letta-Alfano purtroppo conferma e continua.
Ecco il primo punto: nessuno può dire che in 20 anni di quasi ininterrotta egemonia berlusconiana vi sia qualcosa da ricordare, un cambiamento che in qualsiasi modo abbia modernizzato il Paese e lo abbia accostato ad altri Paesi della stessa tradizione occidentale, industriale e democratica. Sono avvenuti molti interventi, ma tutti di spaccatura, demolizione, rimozione, cancellazione, blocco di funzioni e normali attività istituzionali, aggressioni del potere esecutivo agli altri poteri dello Stato, oppure dell’esecutivo e del legislativo che fanno insieme mobbing contro il giudiziario.
Se volete un simbolo, il più noto nel mondo è la cancellazione del falso in bilancio. È un punto in cui si incrociano la legge, la democrazia e il mercato, con tre esigenze di garanzia che sono state negate.
La rimozione di quella garanzia è stato come l’issare la bandiera della pirateria sul galeone Italia per annunciare: “D’ora in poi qui tutto è permesso”. Ma il vero delitto era avvenuto prima e si chiama “conflitto di interessi”. Quando uno può governare allo stesso tempo un Paese e le sue aziende, ed è lasciato libero di farlo per un numero tanto grande di anni, avviene, da parte di chi tace e consente, una sorta di concorso nell’attività distruttiva dell’impresa Italia, che per vent’anni non si spiega, finché non nasce - come è accaduto adesso - un governo insieme. Insieme con chi? Voltiamoci a guardare con chi stiamo collaborando.
PRIMA VIENE GENOVA, dove si sperimenta una macabra Disneyland delle fioriere, delle esecuzioni in piazza e delle torture in caserma, che sconvolgono un mondo di giovani italiani e stranieri travolti da una repressione inutile e selvaggia, che non hanno dimenticato. Funzioni, direttive, ordini sono rimasti oscuri, come i misteriosi black bloc ferocemente distruttivi, perfettamente organizzati e mai identificati, mentre masse di ragazzi inermi e innocenti venivano investiti da un violento vento cileno, bestiale ma non folle.
C’era un progetto, all’inizio di una alleanza di governo che poi si è spezzata ma al momento era forte, assurda e compatta, un progetto che è stato fermato solo dal fatto che una parte della polizia e dei giudici non si sono prestati. Perché assurda? Perché, con alto senso delle istituzioni, Berlusconi, l’uomo del conflitto di interessi e del falso in bilancio, appena possibile ha affidato il ministero della Difesa a ciò che resta in Italia della destra fascista; e il ministero degli Interni al leader di un partito secessionista, la Lega Nord per l’indipendenza della Padania. Il primo, come tutti i fascisti, ha giocato la carta dei caduti ovvero dei morti, dalla tragica imboscata ai soldati indifesi di Nassirya che credevano di essere impegnati in una missione di pace, al famoso evento che si ricorda con le parole misteriosamente registrate “adesso ti faccio vedere come muore un italiano”.
IL SECONDO INVECE ha avuto mano libera nelle persecuzioni degli immigrati, nell’inventare prigioni senza giudice e senza regole, aperte alle intemperie ma non ai diritti, e nei famosi e tragici “respingimenti in mare” che voleva dire deliberato abbandono dei naufraghi in presenza di motovedette italiane armate di ultima generazione con ufficiali libici e marinai e armamento italiano, obbligati a obbedire da un indimenticabile trattato Italia-Libia che offriva anche altissime cifre in dollari alle bande che si impegnavano, nelle prigioni libiche o in mare, a eliminare per conto Italia gli immigrati, donne, bambini e titolari del diritto d’asilo inclusi. È un percorso che fa paura questo che porta al governo collaborazionista delle “grandi intese”, ma non abbiamo ancora parlato della Giustizia (bisogna punire i giornalisti definendo gli articoli sgraditi “diffamazione” e moltiplicando le pene; bisogna vietare le intercettazioni, qualunque sia il reato su cui si sta indagando; bisogna sbriciolare il reato di concorso esterno in attività mafiosa troppo ingombrante per troppa gente, bisogna fermare in tempo “i giudici politicizzati”.
COME LI INDIVIDUI? Decide l’imputato. E non abbiamo detto nulla della devastazione personale, morale e professionale, introdotta nell’epoca della violazione di tutti i diritti, dal quasi totale dominio (a cui si aggiunge la spontanea cortesia) dei media che ti cancellano o ti diffamano a richiesta di governo. Non abbiamo detto che più passa il tempo, più l’austero personaggio che adesso si è piazzato alle spalle del Pdl, nelle vesti dello statista senior, diventa ogni giorno di più materiale adatto alla farsa, che sarà una ferita irrimediabile per l’Italia, della nomina a senatore a vita o peggio. Nulla ci salva dal peso e dalla colpa del pregresso. Nulla tranne i giudici. Ecco perché ci hanno detto per vent’anni di non sperare nei giudici. Perché restano l’ultima speranza.
A proposito della "mostruosa fratellanza" tra pubblico e privato
di Maria Cristina Gibelli (il manifesto, 28 Maggio 2013)
In due recenti appuntamenti alla Casa della Cultura e alla Provincia di Milano si è discusso dell’ultima fatica di Mario De Gaspari: un libro snello ma importante dall’intrigante titolo e dall’inquietante sottotitolo Bolle di mattone. La crisi italiana a partire dalla città. Come il mattone può distruggere l’economia (Milano, Mimesis edizioni). Invitati a discuterne Roberto Camagni e Giancarlo Consonni nel primo incontro; Arturo Calaminici, Massimo Gatti e Maria Cristina Gibelli nel secondo).
Preceduto da una bella introduzione di Walter Tocci (http://www.eddyburg.it/2013/03/bolle-di-mattone-di-mario-de-gaspari.html), Bolle di mattone affina ulteriormente, grazie a un supporto teorico rigoroso, le riflessioni sull’intreccio fra rendita, speculazione immobiliare, finanza e comportamenti della pubblica amministrazione: temi già affrontati dall’Autore in altri scritti recenti , e sempre con uno sguardo acuto che gli deriva dalla sua ‘doppia personalità’ di intellettuale critico ma anche, nel passato recente, di amministratore locale (prima come sindaco di Pioltello, un comune dell’hinterland milanese, e poi come consigliere della Provincia di Milano).
Mario De Gaspari conosce quindi bene ciò che, con una locuzione efficace, definisce la “mostruosa fratellanza” fra pubblico e privato, fra chi dovrebbe amministrare per il bene collettivo e chi vuole trarre il massimo vantaggio dalla città della rendita: il settore finanziario immobiliare, e le sue “bolle di mattone” appunto, che ha ottenuto in passato e continua ad attendersi, anche in epoca di crisi, margini di gran lunga più elevati di qualsiasi altro settore produttivo.
Centrale in questo nuovo libro è una riflessione teorica su moneta bancaria, sviluppo e rendita che parte dai classici, Marx e Ricardo, e si estende a Keynes, Schumpeter e Minsky; fondamentale altresì la capacità di ricollocare la attuale e peculiare crisi del settore immobiliare e finanziario del nostro paese in una dimensione teorico-interpretativa complessa.
Importante è il parallelismo, che De Gaspari illustra benissimo, fra creazione di moneta bancaria (attraverso l’attivazione del credito alle imprese) e creazione di moneta urbanistica, il “cubo”, (attraverso l’attivazione di concessioni e diritti volumetrici). In entrambi i casi, i processi portano a crisi rovinose non appena si invertono le aspettative di mercato: allo scoppio delle bolle finanziarie e immobiliari.
Come ha sottolineato Roberto Camagni nella prima tavola rotonda, c’e una differenza sostanziale fra i due processi. Nel primo, il credito bancario genera uno spazio all’imprenditore all’interno della distribuzione del reddito nazionale, attraverso un processo inflazionistico, a fronte di una promessa di profitti da innovazione (come indica Schumpeter), e dunque a fronte di uno sviluppo produttivo. Nel secondo caso, si realizza lo stesso effetto, ma a fronte di una generazione di rendita (e di qualche sviluppo edilizio): una rendita che in Italia non viene assolutamente intaccata dalla fiscalità pubblica per effetto proprio della sopra evocata“mostruosa fratellanza”.
De Gaspari, nelle due occasioni di presentazione del libro, ci ha spiegato il ‘suo’ malessere (oltre a quello della città, che aveva costituito il titolo di un suo precedente bel libro): un malessere che deriva dalla peculiarità della ‘speculazione edilizia’ italiana e dalla debolezza della pianificazione.
Tutti i PRG (o loro succedanei) messi assieme valgono oggi in Italia - ci ha detto l’Autore - molto più di qualsiasi altra attività produttiva in termini di punti di PIL. Dopo 20 anni di liberismo e di deregolamentazione urbanistica, e in assenza di una riformata legge urbanistica nazionale e di una nuova legislazione di fiscalità immobiliare risolutamente orientata alla tassazione della rendita, i beni immobiliari si sono trasformati, con l’indebitamento sui mutui, in “risparmio abortivo” (una locuzione di Keynes).
Si tratterebbe attualmente, secondo quanto dichiarato recentemente dall’immobiliarista Puri Negri in un dibattito in televisione, di 400 miliardi di euro di crediti immobiliari complessivi in possesso delle banche più importanti. E questo dato evidenzia un intreccio fra mattone e finanza, fra filiera immobiliare e banche che appare sempre più soffocante e senza prospettive, in un contesto in cui il ‘cubo’ è diventato la moneta urbanistica corrente.
Ma anche i governi locali hanno fatto la loro parte: per fare cassa hanno infatti inventato la “zecca immobiliare” (come la definisce Walter Tocci nell’introduzione al libro), continuando a concedere sempre più estesi diritti edificatori e consumando con voracità risorse territoriali preziose, perché “nella strisciante concezione estremisticamente liberista della città del 2000 la rendita dei suoli è considerata una variabile assolutamente avulsa, indipendente, ininfluente (...) e il governo della città un fatto quasi privato delle amministrazioni comunali e le conseguenze economiche delle scelte urbanistiche, a livello locale e sul piano nazionale, del tutto trascurate” (De Gaspari: 110).
Nel dibattito che si è sviluppato in occasione delle due presentazioni del libro sono emerse alcune considerazioni interessanti, sia da parte di studiosi che di amministratori locali.
A fronte della crisi immobiliare che ha colpito un po’ ovunque nei paesi avanzati, altrove ci sono già state delle risposte che hanno saputo ridurre il danno; e, certamente, sono alcuni paesi ‘mediterranei’ che hanno subito più danni perché, con l’entrata nell’Euro, hanno goduto del vantaggio dato dall’opportunità di sostituire monete deboli con una moneta forte concessa con prestiti a basso tasso di interesse.
In Italia si è creata una grande quantità di moneta urbanistica, grazie alla concessione generosissima di diritti edificatori e alla altrettanto generosa attribuzione agli immobiliaristi di credito bancario con garanzia sui diritti stessi. Oltre un certo limite, ampiamente superato, di crescita irrazionale dei prezzi immobiliari, la crisi della bolla non poteva che esplodere.
In più, in Italia il contesto politico-istituzionale si caratterizza per una evidente mancanza di cultura e di una legislazione sulle procedure negoziali pubblico/privato capace di garantire adeguati vantaggi pubblici nello scambio.
Due esempi sono stati evidenziati nella discussione per porre in evidenza questa ingiustificabile propensione allo scambio ineguale fra pubblico e privato: la tassazione ‘ordinaria’ associata ai permessi di costruire; gli ‘extra-oneri’ ottenibili dai progetti in deroga. A differenza di altri paesi europei, nel nostro paese gli oneri concessori di legge continuano ad essere molto bassi: 244 euro/mq a Milano; 155 euro a Torino; 105 a Bologna; i più elevati a Firenze con 480 euro.
A puro titolo di paragone, in Francia, con la legge n. 2010-1658 del dicembre 2010 si è introdotta la Taxe d’aménagement che sopprime e unifica 11 tasse precedentemente vigenti, fissando un valore unico per gli oneri da versare alla PA: 748 euro per metroquadro di superficie netta di pavimento (SHON) nell’Ile-de-France e 660 euro nel resto del territorio nazionale. A questa tassa si è aggiunto nel 2012, in coerenza con gli obiettivi della Grenelle de l’Environment (la legge nazionale sull’ambiente del 2010), un ulteriore balzello (VSD/Versement pour sous-densité) per contenere i consumi di suolo e le basse densità edilizie in aree urbane e periurbane.
Un’altra significativa differenza riguarda la ripartizione fra pubblico e privato dei valori realizzati attraverso progetti di rigenerazione in deroga ai piani urbanistici vigenti. Da indagini mirate sui bilanci di grandi progetti di trasformazione realizzati a Roma e Milano, è emerso che la quota della rendita si aggira fra il 45% e il 55%, mentre alla città pubblica spetta circa il 5% del valore complessivo. Si tratta di valori bassissimi, se comparati con altre città europee che con i progetti negoziati arrivano a recuperare per la collettività fino al 30-32%.
E’ evidente, e De Gaspari ce lo spiega con accuratezza ma anche con grande disincanto, che la mostruosa fratellanza fra immobiliaristi, banche e PA che ha dato luogo a uno scambio così ineguale sta alla base della bassa qualità delle nostre città, della loro progressiva perdita di vivibilità, della mai risolta, anzi sempre più drammatica, questione delle abitazioni che evidenzia soprattutto nelle maggiori città “il paradosso della povertà nell’abbondanza. I grattacieli in costruzione e i senza tetto accampati sotto i ponteggi”.
L’Italia è un paese anomalo? Forse sì, perché gli amministratori locali sempre più si sono limitati a svolgere meramente un ruolo di ‘facilitatori’, con il risultato che la quota di invenduto/sfitto nelle grandi città risulta ormai patologica. E quando un invito a tassare la rendita arriva da amministrazioni locali in mano alla sinistra, sottolinea l’Autore, non può non sorgere un sospetto di rapporto collusivo con le cooperative rosse che godono, dal punto di vista fiscale, di un regime speciale.
E se 400 miliardi di euro di crediti immobiliari sono oggi in possesso della banche, se le banche spesso sono diventate proprietarie di un tale ingentissimo patrimonio dopo il fallimento di speculatori immobiliari cui avevano garantito prestiti elevatissimi, esse avranno tutto l’interesse a esercitare il loro potere di influenza per continuare (e anzi potenziare) i progetti speculativi.
Le banche si comportano dunque come ‘speculatori’: spingono per evitare riduzioni di prezzo degli immobili (che costituirebbero il solo modo per avviare un rilancio dell’edilizia) e usano la loro autorevolezza per valorizzare le loro garanzie fondiarie e immobiliari, onde evitare forti effetti negativi sui loro bilanci.
Come uscirne? Occorrerebbe ri-legittimare la pianificazione. Occorrerebbe porre argine alle procedure perequative - specie quelle ‘estese’, che distribuiscono diritti edificatori atterrabili ovunque -; porre argine alla flessibilità delle destinazioni d’uso e, sopratutto, porre argine alla inarrestabile concessione da parte dei comuni di diritti edificatori amplissimi e staccati da ogni razionale previsione sulla domanda effettiva: anzi, occorrerebbe revocarne molti elargiti in passato, come è nei poteri delle amministrazioni locali (importante, a questo proposito, la recente sentenza del Consiglio di Stato 6656/2012 che conferma la legittimità del nuovo PRG di un piccolo comune del Salentino che ha destinato a verde privato un’area precedentemente destinata a zona di completamento, affermando che « l’urbanistica e il correlativo esercizio del potere di pianificazione, non possono essere intesi, sul piano giuridico, solo come un coordinamento delle potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà, ma devono essere ricostruiti come intervento degli enti esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo complessivo e armonico del medesimo; uno sviluppo che tenga conto delle potenzialità edificatorie dei suoli, non in astratto, ma in relazione alle effettive esigenze di abitazione della comunità...”: http://www.eddyburg.it/2013/02/e-confermato-non-esistono-diritti.html).
Ma l’ottimismo non è aleggiato negli incontri milanesi, perché né il contesto politico nazionale attuale, né i comportamenti delle amministrazioni locali, per lo più acquiescenti, o anestetizzate, o con un complesso di inferiorità nei confronti degli immobiliaristi e delle banche, lo autorizzano.
Sull’idiozia sociale
di Nicola Fanizza *
La genialità e l’idiozia, pur configurandosi come situazioni estreme e complementari della nostra coscienza sociale, sono comunque coestensive. L’idiozia abita a pieno titolo nei sotterranei del nostro immaginario e vive e vegeta proprio nel cono d’ombra della genialità. Si può dire che l’idiozia pervade a tal punto la nostra vita, è così immanente ad essa da risultare quasi del tutto assente. Da qui la scarsa attenzione nei confronti di una modalità della nostra esistenza che nelle sue molteplici declinazioni presenta risvolti davvero interessanti.
L’idiozia può essere divertente. Questo accade, specialmente, quando si presenta commista con la pazzia. A tale proposito, l’altro ieri, sulla Linea rossa della Metropolitana milanese, un folle vivente con la sua perfomance - un monologo, in cui trovavano posto simpatici rilievi sui viaggiatori, canzonature dei politici, ardite analogie e frammenti di lucida follia - ha sortito un inconsapevole sorriso su tutti i volti dei viaggiatori. Ho rivisto in lui i tratti del filosofo cinico che dice la verità (parresia) e, insieme, l’immagine dei Santi folli di Bisanzio, che, al fine di riattivare la comunicazione con la città che non li voleva più ascoltare, ricorrevano a gesti estremi, privi di senso e comunque spettacolari.
A volte l’idiozia è disarmante. Ciò accade in particolare quando ci troviamo di fronte all’idiozia dei bambini o degli stupidi. Nondimeno questi ultimi non sono tutti uguali, poiché accanto agli stupidi disarmanti come i bambini ci sono quelli che Ciano, icasticamente - in riferimento a Starace -, chiamava i «coglioni che fanno girare i coglioni». Quando li incontriamo, corriamo quasi sempre il rischio di perdere il controllo delle nostre azioni. La collera, infatti, in quelle rare e fuggitive occasioni, pervade a tal punto la nostra coscienza da offuscare le nostre stesse capacità razionali.
L’idiozia produce i maggiori disastri, quando si coniuga con l’insipienza di chi svolge una funzione di potere: gli ufficiali, specialmente, in caso di guerra, i docenti e i politici. Questi ultimi - in quanto conoscitori delle diverse tecniche e, insieme, possessori della phronesis (l’astuzia, la capacità di mediare fra le esigenze tecniche e la necessità di salvaguardare i legami sociali) - dovrebbero essere i migliori. Eppure non è sempre così.
Nondimeno, nell’inedito spazio sociale prodotto dalle dinamiche della globalizzazione - accanto alle idiozie di cui sopra -, è possibile cogliere il fantasma di una nuova forma di idiozia. Si tratta dell’idiozia sociale che si configura come un vero e proprio ossimoro. La cifra di tale ossimoro, tuttavia, può diventare intellegibile solo se si fanno i conti con il significato che la parola idiota aveva nella lingua greca. Il termine idiotes stava, infatti, a indicare l’uomo privato in contrapposizione all’uomo pubblico, il quale ultimo rivestiva cariche politiche proprio perché era colto, capace ed esperto. Ebbene, oggi, la dissoluzione dei vincoli sociali - determinata dalle politiche neoliberiste - si configura come lo sfondo da cui si origina l’idiozia sociale e, insieme, l’incanaglimento che sempre più pervade il tessuto delle nostre relazioni. Di fatto l’idiozia sociale si dà nella misura in cui ciò che è privato pervade lo spazio pubblico. Non sta pertanto in alcun modo a indicare l’insipienza, ma l’assenza dell’obbligo nei confronti degli altri.
L’idiozia sociale è ormai onnipervasiva. Gli interessi privati signoreggiano nello spazio pubblico, che è stato colonizzato da politici che hanno per lo più lo stesso stile. Quelli di destra - si dice - sono volgari; quelli di sinistra, invece, sono spocchiosi. Se è vero che la plebaglia con la sua volgarità trova sempre più spazio sulle reti televisive di Berlusconi (vedi il talk show Quinta Colonna), è altresì certo che la maggior parte i nipotini di Togliatti continua ad aver come proprio modello il gaga degli anni Trenta (D’Alema). Non si tratta di una grande differenza! La volgarità e la spocchia sono termini coestensivi e, insieme, coessenziali: ambedue rimandano, infatti, alla mancanza di rispetto nei confronti degli altri.
L’insipienza, la supponenza e il sussiego si configurano come i tratti più rilevanti che ineriscono allo stile dei nostri politici, i quali svolgono la loro funzione senza avvertire alcun obbligo nei confronti dello spazio pubblico. Alcuni anni fa mi è capitato di assistere - in occasione della presentazione a Mola di Bari di un libro di Gino Giugni - a uno spettacolo oltremodo vergognoso. Nonostante alcuni dirigenti del Pd avessero accolto a tempo debito l’invito del padre dello statuto dei lavoratori a presentare il suo libro, dichiararono senza alcun pudore di non aver trovato il tempo per leggerlo. E la stessa cosa è accaduta in altre occasioni: gli intellettuali squillo presentano i libri senza averli letti!
D’altra parte, i mezzi di comunicazione di massa ci offrono ogni giorno quantità industriali di idiozia condita in tutte le salse, e con l’arrivo della televisione e dei giornali e di facebook non c’è neppure bisogno di mescolarsi agli idioti, perché l’idiozia ci viene portata a domicilio in modo quasi gratuito.
Campagna elettorale in Italia
Piano strategico di Berlusconi per il potere
di Hans-Jürgen Schlamp (Der Spiegel, 19 dicembre 2012)
Silvio Berlusconi raggiunge nuovamente la piena forma. Lusinga gli italiani e racconta frottole politiche come ai bei tempi. Tutto ciò ha effetto orripilante, ma segue una strategia astuta, che alla fine potrebbe fare avere a lui successo- e una nuova crisi all’Europa. - (traduzione dal tedesco di José F. Padova) *
L’uomo ha paura, ha molto denaro e possiede il comando su tre reti televisive e su centinaia di esperti nelle faccende della pubblica opinione. Questa è la situazione di partenza per la campagna elettorale di Silvio Berlusconi. Già adesso tutto il suo macchinario corre al massimo dei giri. Ciò che risulta parzialmente debole o pazzesco è elaborato in effetti da esperti mediatici, padroni di tutti i trucchi. Sondaggisti misurano giornalmente l’umore del popolo e comunicano al quartier generale di Berlusconi ciò che va a segno e ciò che non.
Al momento annunciano risultati positivi:il partito di Berlusconi Popolo della Libertà negli ultimi giorni ha guadagnato tre punti percentuali. Anche così finora è soltanto il 17% degli italiani che hanno veramente la volontà di votare ancora una volta per l’ex-premier. Ma il loro numero potrebbe crescere, se lo show di Berlusconi va al massimo.
Showtime domenica pomeriggio
Inoltre tutto deve andare adesso molto in fretta. Già nei primi giorni di gennaio il nuovo bel mondo, che Berlusconi vuole descrivere agli italiani, dovrebbe essersi fissato nelle teste del maggior numero possibile di elettori. Infatti dopo, 45 giorni prima delle elezioni, la presenza dei politici in TV è limitata dalla legge. Berlusconi può alzare in pieno il volume adesso. E lo fa.
Nei notiziari delle sue emittenti vengono messi a confronto i “successi” del precedente governo, retto da Berlusconi, con gli errori e i lavori incompiuti del premier Mario Monti. Nel popolare show del pomeriggio domenicale sul suo Canale 5 il Grande Silvio è stato presente per quasi un’ora e mezza. “Intervista”, ha chiamato la moderatrice il format, durante il quale ha fornito spunti che si adattavano esattamente alla declamazione dell’Ospite dello studio. “La gente per strada si lamenta per il peso dell’imposta sugli immobili”, ha detto per esempio, e Berlusconi ha annuito con fare serioso. Le lagnanze sarebbero giustificate, molte famiglie sono state gettate in amara povertà, ma Lui abolirà subito queste tasse, così dice Berlusconi.
Già, e per il denaro che manca allo Stato? Nessun problema, per quello bastano piccoli aumenti delle tasse sulla birra e la grappa. E se la moderatrice - da 35 anni al servizio dell’emittente berlusconiana e amica di Sua figlia - eccezionalmente salta una battuta, l’Ospite dello Studio la rimette sui binari durante le pause per la pubblicità. Davanti allo schermo sedevano 2,5 milioni di telespettatori, la maggior parte non più giovani, con una cultura inferiore alla media, che vivono nel Sud sottosviluppato. Gli elettori di Berlusconi.
All’altra metà del Suo potenziale elettorato, gli italiani più anziani, per lo più dell’Italia settentrionale, per lo più donne, aveva provveduto giorni prima Rete 4. Anche lì ci fu una “intervista” con Silvio il Grande, registrata nel suo splendido salone della Villa di Arcore.
Il trauma di Berlusconi: gattabuia o esilio
Berlusconi non sale sul ring per divertimento. Lui lo deve fare. Oggi egli è di nuovo esattamente come era nel 1994 - in grande pericolo. A quel tempo, quando iniziò la sua carriera politica, il suo impero aziendale era sull’orlo della bancarotta e lui stesso con un piede in prigione. Entrò in politica per salvarsi. E questo l’hanno ammesso più tardi egli stesso e molti dei suoi compagni di viaggio.
Oggi il suo impero mediatico è di nuovo in caduta libera. Gli introiti pubblicitari precipitano, non solamente a causa della crisi. Quando Berlusconi governava il Paese gli era possibile, ovviamente per le dimensioni economiche dell’Italia, piazzare la sua pubblicità prima di tutto nel suo regno mediatico. In fondo, per risolvere i suoi problemi più vistosi, si era arrivati a contratti statali e alla copertura politica. Tutto questo è acqua passata da novembre dello scorso anno, quando Berlusconi dovette sgomberare dalla sede del governo, il Palazzo Chigi.
”Mi sento tanto solo”
La strategia di questa lotta per la sopravvivenza è stata sviluppata in molteplici riunioni di un team ampio e professionale. Si chiama: fare forza con la debolezza. Per esempio, gli scandali per i suoi festini con il “bunga-bunga” e dozzine di giovani donne. Nell’Italia rigorosamente cattolica e conservatrice tutto questo non ha trovato appoggio. Tanto più che il resto del mondo sfotteva la “Bella Italia”. No, diceva allora Berlusconi contrito alla televisione, non andava bene, di ciò doveva scusarsi. Ma ahimè, “mi sentivo tanto solo, separato da mia moglie, mia madre era morta, anche mia sorella e i miei figli sono sempre in giro per il mondo”.
Allora arrivava qualcuno e gli prometteva distrazioni serali. Un errore, adesso lui lo sa. Eppure adesso tutto va bene, ha trovato di nuovo una partner. Di quasi 50 anni gli è più giovane la fidanzata e lui la conosce già da sette anni. Era a capo di un club di fan di Silvio Berlusconi, che ha fatto ronzare sulla Sua villa in Sardegna aerei che trainavano striscioni con un “Silvio, sentiamo la Tua mancanza”. Più tardi ha personalizzato la sua iniziativa e ha cambiato la scritta in “Silvio, mi manchi”. Così è entrata nel Suo entourage.
Adesso è stata esaudita. E Berlusconi può nuovamente presentare una vita privata ordinata. Gli italiani, questo è il calcolo retrostante, devono perdonargli le sue scappatelle.
Tedeschi non solidali ed egoisti
Anche la debacle economica, che aveva provocato durante il suo ultimo periodo di governo, viene abilmente ribaltata. La situazione è seria, dice adesso il Grande Imprenditore. Colpevole sarebbe “la politica di austerità inflitta al Paese dai tedeschi non solidali ed egoisti”. Monti seguirebbe gli ordini di Berlino nel modo più servile. Ma lui, Berlusconi, la farà finita con tutto questo. Di nuovo mette in gioco l’uscita dell’Italia dall’eurozona, per accudire gli umori dei suoi seguaci. Tutta questa risparmiosità a carico dei vecchi e dei bambini, dei lavoratori e degli imprenditori, tutto questo non deve più esserci, promette Berlusconi. È sbagliato. È giusto ciò che non fa male! Marcia indietro con le imposte per tutti, deve suonare il nuovo motto, fare credito agli imprenditori, perché possano di nuovo mettersi sulla via della crescita.
La vita in Italia sarà nuovamente bella, solo che lui prenda il potere, dice Berlusconi. Chi non ascolta ciò volentieri? E se poi questa tesi ogni giorno è confermata da esperti economisti, in televisione, nelle televisioni di Berlusconi? Può mai essere errato eleggerlo ancora una volta, forse ed eventualmente?
Ogni giorno 72 flessioni
Berlusconi l’ha dunque promesso - egli salverà l’Italia. Deve soltanto avere il potere. In realtà lui non lo vuole proprio. Mio Dio, è ricco, potrebbe godersi i suoi ultimi anni, sulle spiagge della Sardegna o sul suo yacht, da qualche parte nei climi caldi.
Non ha forse offerto più volte a Monti di lasciargli il potere? Ma Monti l’ha rifiutato. Berlusconi già molti mesi fa ha scelto nel suo partito un successore, che potrebbe sostituirlo. Ma semplicemente non lo può. Berlusconi deve quindi veramente rientrare? Lui non ne è entusiasta, ma la gente lo chiama, lo incalza. Naturalmente lui è in forma, come un trentenne. Ogni giorno fa 72 flessioni, dice Berlusconi. Tutto secondo copione.
In realtà tutto questo, considerato realisticamente, è uno spettacolo dissennato e stupido: un vecchio uomo spinto dalla paura, “ossessionato dal sesso” lo definiscono alcuni, “confuso” appare ad altri, liftato e con capelli artificiali in testa, racconta storie orripilanti. Eppure nelle soap-opera delle sue emittenti televisive sono rappresentate ogni giorno storie di questo tipo - e molte persone se ne stanno sedute davanti alo schermo, si meravigliano e sognano, invece di sghignazzare e fare zapping altrove. Gli spettatori delle televisioni berlusconiane sono i suoi più fedeli elettori.
Lui non vincerà le elezioni. È senza speranze, sembra. Tuttavia egli ha bisogno anche soltanto di un pezzetto di potere. A lui serve causare intralcio e fastidio in quantità sufficiente ad assicurargli politicamente i suoi interessi [privati]. Nel sistema italiano multipartitico, in cui certi deputati nel corso di una legislatura cambiano volentieri il loro fronte politico con alleanze che possono riformarsi diverse a seconda delle situazioni, un politico con il 20, 25 % dei voti ha un peso considerevole. E se dovesse governare la sinistra lui guiderebbe giusto la destra. Quindi in caso di necessità potrebbe bloccare qualche provvedimento, tirarlo in lungo - o fare scambi contro una legge, ciò che lo salverebbe nuovamente dalle grinfie della giustizia.
Allora per l’Italia sarebbe emergenza ed è possibile lo sia perfino per tutta l’Europa.
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STORIA D’ITALIA, 1994-2011: LA COSTITUZIONE, LE REGOLE DEL GIOCO, E IL "MENTITORE" ISTITUZIONALIZZATO ... CHE GIOCA DA "PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA" CON IL LOGO - PARTITO DI "FORZA ITALIA" E DI "POPOLO DELLA LIBERTA’"!!!
(...) I margini di successo sono tanto più ridotti, come ha rilevato il Presidente della Repubblica, dopo anni di contrapposizione e di scontri nella politica nazionale" (...)
Il Presidente della Repubblica grida: Forza Italia.
Il Presidente del Partito "Forza italia" grida: Forza Italia....
Chi è il vero Presidente della Repubblica?!!!
Il Presidente della Repubblica o il "Presidente della Repubblica"?!!!
IL "QUIZ" CONTINUA ....E L’ITALIA LENTAMENTE MUORE !!!
Il vuoto che affonda il Paese
di MARIO DEAGLIO (La Stampa, 8/11/2011)
Non c’è forse mai stata nel mondo, tanta attenzione per l’Italia come nella giornata di ieri. Non l’attenzione benevola che si riserva a un Paese curioso, noto per non rispettare sempre fino in fondo le regole ma dotato di inventiva e flessibilità, con i suoi paesaggi e i suoi musei; ma l’attenzione fredda e ostile di chi considera l’Italia come un rischio per tutti, di chi sa che da quel che succede in Italia può dipendere il futuro del sistema globale e anche il proprio.
L’attenzione di chi ha visto il disastro greco e sa che un analogo disastro italiano sarebbe molte volte maggiore, sconvolgerebbe gli equilibri economici, già precari, di tutto il pianeta; e che, se questo dovesse succedere, subito dopo sarebbe la volta della Francia - che non a caso ieri ha varato il suo piano di austerità con aumento dell’Iva - e dopo la Francia, forse, degli Stati Uniti.
I mercati pensano che l’Italia possa fare la differenza tra il collasso mondiale e la ripresa globale. In queste circostanze, Silvio Berlusconi ha smesso di essere considerato all’estero un signore un po’ strano che spesso fa battute imbarazzanti.
Uno vicino al quale da un paio d’anni i capi di Stato e di governo degli altri Paesi non si fanno fotografare volentieri. E’ diventato una fonte, quasi «la» fonte di rischio, una mina vagante nel mare tempestoso di una crisi mondiale dalle dimensioni sempre maggiori. Ecco allora i media mondiali, la «Reuters» e il «New York Times», domandarsi se questo sia il «finale di partita» per l’Italia, ecco «Wall Street Journal» e «Financial Times» scoprire quanto stereotipata sia l’immagine dell’Italia e quanto poco il resto del mondo sappia di questo anello della catena mondiale divenuto improvvisamente debole.
Mentre il resto del mondo si pone interrogativi così gravi, il presidente del Consiglio, assai prima di occuparsi degli affari di Stato, è in riunione, nella sua villa di Arcore, con i figli e con Fedele Confalonieri, il presidente di Mediaset che siede nel consiglio di amministrazione delle principali aziende di famiglia, con le Borse che esultano prematuramente per le dimissioni ormai ritenute questione di ore. Poi vede i vertici della Lega, forse su come avviare le «riforme» (di cui Umberto Bossi è il ministro responsabile), quelle riforme che l’estero interpreta in maniera così diversa da noi, che molti in Italia, opposizione compresa, sperano di fare soprattutto a parole. Solo più tardi parte per Roma, per andare a fare (ancora) il presidente del Consiglio.
Il piano degli interessi personali di Silvio Berlusconi si contrappone così al piano dei problemi europei e dell’economia mondiale. Forse è sempre stato così ma il mondo non se ne era curato, così come non se ne erano curati molti italiani. Tra questi due piani, quello globale e quello personale, si colloca l’Italia, un’Italia costretta a farsi dettare le politiche e controllare i conti dai mercati globali perché ha difficoltà a pagare i debiti. Con il resto del mondo interessato soprattutto al programma, indipendentemente dal governo e il mondo politico italiano interessato soprattutto al governo, quasi indipendentemente dal programma. Quest’Italia si configura come un vuoto; un vuoto politico, con le dimissioni-non dimissioni del premier e con le forze politiche dell’opposizione incapaci di posizioni sufficientemente chiare. L’Italia purtroppo si configura anche, e forse è questo l’aspetto più preoccupante, come un terribile vuoto sociale, con quasi un giovane su quattro più di due milioni di persone in tutto - tra i 15 e i 29 anni che non lavora né studia, come ha messo in luce ieri una ricerca della Banca d’Italia, mentre di quel lavoro e di quello studio il Paese avrebbe grandissimo bisogno.
In questo vuoto l’Italia rischia di affondare. Prima di tutto perché si tratta di un vuoto che costa. E’ possibile, anche se complicato, calcolare quanto costa al Tesoro un giorno in più di permanenza, in queste condizioni, di Silvio Berlusconi a Palazzo Chigi. Questo costo si misura in termini di maggiori interessi sul debito italiano che viene via via rinnovato a tassi fortemente crescenti, così che il beneficio che dovrebbe derivare all’erario dall’aumento dell’Iva viene divorato dall’aumento dei tassi. Oggi si misura in 500 punti base, cinque punti percentuali in più che il mercato pretende, come «premio per il rischio Italia» per sottoscrivere titoli italiani invece di titoli tedeschi. Vi è poi il costo occulto, dato dalla perdita di prestigio e di credibilità dell’Italia nel mondo della finanza, e non solo; un costo che gli imprenditori conoscono benissimo e il resto del Paese comincia a intuire in tutta la sua gravità.
E’ con questo vuoto che il Paese deve fare i conti. Tutte le conquiste del passato, dalle posizioni sui mercati internazionali al peso politico all’interno dell’Unione Europea, ai diritti «acquisiti» di lavoratori e pensionati, tutto sembra essere risucchiato in un gorgo dal quale cominceremo a uscire soltanto con un cambiamento dell’esecutivo. L’errore più grave è, però, illudersi che basti questo cambiamento a risolvere miracolosamente tutto. Se tutto andrà bene, avremo davanti qualche lustro di cammino difficile e faticoso.
La coscienza dello Stato
di Ezio Mauro (la Repubblica, o1.10.2011)
Ieri Giorgio Napolitano ha rotto un pezzo dell’incantesimo che blocca il Paese in questa lunga agonia del berlusconismo. Spazzando via false credenze, mitologie e leggende politiche che pure hanno imprigionato e condizionato l’attività di questo governo, il Capo dello Stato ha detto chiaramente quel che la politica (anche di opposizione) non riesce a spiegare: non esiste un popolo padano, pensare ad uno Stato lombardo-veneto che competa nella sfida della globalizzazione mondiale è semplicemente grottesco, e una via democratica alla secessione è fuori dalla realtà.
Dopo queste parole, vivere nella finzione non sarà più possibile. Ci vuole coraggio istituzionale - quindi responsabilità - nel pronunciarle, perché l’Italia politica ha accettato per anni che crescesse dentro la cultura della destra berlusconiana questa leggenda nera della secessione possibile, della Padania immaginaria, fino alla buffonata delle false sedi ministeriali al Nord, col ritratto di Bossi appeso ai muri. Oggi, semplicemente e finalmente, lo Stato dimostra di avere coscienza e nozione di sé, e dice di essere uno e indivisibile, frutto di una vicenda nazionale e di una storia riconosciuta.
È una frustata alla politica, Lega, governo e maggioranza in primo luogo: ma anche all’opposizione. Napolitano infatti denuncia la rottura del rapporto tra eletti ed elettori, come se la politica si sentisse irresponsabile. E proprio nel giorno in cui le firme per il referendum abrogativo hanno raggiunto un milione e duecentomila, chiama in causa per questo il Porcellum: voluto e votato da Berlusconi e dalla Lega, colpevole di aver spostato la scelta dei parlamentari nelle mani dei capi-partito, spezzando il collegamento tra i cittadini e i loro rappresentanti. Per questo il Presidente chiede espressamente una nuova legge elettorale per ripristinare la fiducia nelle istituzioni.
Guai se le parole del Quirinale restassero inascoltate, al punto in cui è giunta la disaffezione dei cittadini verso il sistema politico-istituzionale. È un invito a dire la verità, a farla finita con gli inganni, a restituire la parola ai cittadini, a "cambiare aria" nel Palazzo. Se accadrà, anche la finzione di governo che si arrocca a Palazzo Chigi avrà vita breve.
Il purgatorio che ci attende
di Franco Berardi, Bifo (il manifesto, 15.09.2011)
Sarà un governo della Bce impersonato da un banchiere o da un confindustriale osannato dai legalitari a distruggere la società italiana, e i prossimi anni saranno peggiori dei venti che abbiamo alle spalle. È meglio saperlo. «L’operaio tedesco non vuol pagare il conto del pescatore greco», dicono i pasdaran dell’integralismo economicista. Mettendo lavoratori contro lavoratori la classe dirigente finanziaria ha portato l’Europa sull’orlo della guerra civile. Le dimissioni di Stark segnano un punto di svolta: un alto funzionario dello stato tedesco alimenta l’idea (falsa) che i laboriosi nordici stiano sostenendo i pigri mediterranei, mentre la verità è che le banche hanno favorito l’indebitamento per sostenere le esportazioni tedesche. Per spostare risorse e reddito dalla società verso le casse del grande capitale, gli ideologi neoliberisti hanno ripetuto un milione di volte una serie di panzane, che grazie al bombardamento mediatico e alla subalternità culturale della sinistra sono diventati luoghi comuni, ovvietà indiscutibili, anche se sono pure e semplici contraffazioni. Elenchiamo alcune di queste manipolazioni che sono l’alfa e l’omega dell’ideologia che ha portato il mondo e l’Europa alla catastrofe.
Cinque manipolazioni
Prima manipolazione: riducendo le tasse ai possessori di grandi capitali si favorisce l’occupazione. Perché? Non l’ha mai capito nessuno. I possessori di grandi capitali non investono quando lo stato si astiene dall’intaccare i loro patrimoni, ma solo quando pensano di poter far fruttare i loro soldi. Perciò lo stato dovrebbe tassare progressivamente i ricchi per poter investire risorse e creare occupazione. La curva di Laffer che sta alla base della Reaganomics è una patacca trasformata in fondamento indiscutibile dell’azione legislativa della destra come della sinistra negli ultimi tre decenni.
Seconda manipolazione: prolungando il tempo di lavoro degli anziani, posponendo l’età della pensione si favorisce l’occupazione giovanile. Si tratta di un’affermazione evidentemente assurda. Se un lavoratore va in pensione si libera un posto che può essere occupato da un giovane, no? E se invece l’anziano lavoratore è costretto a lavorare cinque, sei, sette anni di più di quello che era scritto nel suo contratto di assunzione, i giovani non potranno avere i posti di lavoro che restano occupati. Non è evidente? Eppure le politiche della destra come della sinistra da tre decenni a questa parte sono fondate sul misterioso principio che bisogna far lavorare di più gli anziani per favorire l’occupazione giovanile. Risultato effettivo: i detentori di capitale, che dovrebbero pagare una pensione al vecchietto e un salario al giovane assunto, pagano invece solo un salario allo stanco non pensionato, e ricattano il giovane disoccupato costringendolo ad accettare ogni condizione di precariato.
Terza manipolazione: occorre privatizzare la scuola e i servizi sociali per migliorarne la qualità grazie alla concorrenza. L’esperienza trentennale mostra che la privatizzazione comporta un peggioramento della qualità, perché lo scopo del servizio non è più soddisfare un bisogno pubblico ma aumentare il profitto privato. E quando le cose cominciano a funzionare male, come spesso accade, allora le perdite si socializzano perché non si può rinunciare a quel servizio, mentre i profitti continuano a essere privati. Quarta manipolazione: i salari sono troppo alti, abbiamo vissuto al disopra dei nostri mezzi dobbiamo stringere la cinghia per essere competitivi. Negli ultimi decenni il valore reale dei salari si è ridotto drasticamente, mentre i profitti si sono dovunque ingigantiti. Riducendo i salari degli operai occidentali grazie alla minaccia di trasferire il lavoro nei paesi di nuova industrializzazione dove il costo del lavoro era e rimane a livelli schiavistici, il capitale ha ridotto la capacità di spesa. Perché la gente possa comprare le merci che altrimenti rimangono invendute, si è allora favorito l’indebitamento in tutte le sue forme. Questo ha indotto dipendenza culturale e politica negli attori sociali (il debito agisce nella sfera dell’inconscio collettivo come colpa da espiare), e al tempo stesso ha fragilizzato il sistema esponendolo come ora vediamo al collasso provocato dall’esplodere della bolla. Quinta manipolazione: l’inflazione è il pericolo principale, al punto che la Banca centrale europea ha un unico obiettivo dichiarato nel suo statuto, quello di contrastare l’inflazione costi quel che costi. Cos’è l’inflazione? È una riduzione del valore del denaro o piuttosto un aumento dei prezzi delle merci.
È chiaro che l’inflazione può diventare pericolosa per la società, ma si possono creare dei dispositivi di compensazione (come era la scala mobile che in Italia venne cancellata nel 1984, all’inizio della gloriosa "riforma" neoliberista). Il vero pericolo per la società è la deflazione, strettamente collegata alla recessione, riduzione della potenza produttiva della macchina collettiva. Ma chi detiene grandi capitali, piuttosto che vederne ridotto il valore dall’inflazione, preferisce mettere alla fame l’intera società, come sta accadendo adesso. La Banca europea preferisce provocare recessione, miseria, disoccupazione, impoverimento, barbarie, violenza, piuttosto che rinunciare ai criteri restrittivi di Maastricht, stampare moneta, dando così fiato all’economia sociale, e cominciando a redistribuire ricchezza. Per creare l’artificiale terrore dell’inflazione si agita lo spettro (comprensibilmente temuto dai tedeschi) degli anni ’20 in Germania, come se causa del nazismo fosse stata l’inflazione, e non la gestione che dell’inflazione fece il grande capitale tedesco e internazionale.
Moltiplicazione del disastro
Ora tutto sta crollando, è chiaro come il sole. Le misure che la classe finanziaria sta imponendo agli stati europei sono il contrario di una soluzione: sono un fattore di moltiplicazione del disastro. Il salvataggio finanziario viene infatti accompagnato da misure che colpiscono il salario (riducendo la domanda futura), e colpiscono gli investimenti nella istruzione e nella ricerca (riducendo la capacità produttiva futura), quindi immediatamente inducono recessione. La Grecia ormai lo dimostra. Il salvataggio europeo ne ha distrutto le capacità produttive, privatizzato le strutture pubbliche, demoralizzato la popolazione. Il prodotto interno lordo è diminuito del 7% e non smette di crollare. I prestiti vengono erogati con interessi talmente alti che anno dopo anno la Grecia sprofonda sempre più nel debito, nella colpa, nella miseria e nell’odio antieuropeo. La cura greca viene ora estesa al Portogallo, alla Spagna, all’Irlanda, all’Italia. Il suo unico effetto è quello di provocare uno spostamento di risorse dalla società di questi paesi verso la classe finanziaria. L’austerità non serve affatto a ridurre il debito, al contrario, provoca deflazione, riduce la massa di ricchezza prodotta e di conseguenza provocherà un ulteriore indebitamento, fin quando l’intero castello crollerà.
A questo i movimenti debbono essere preparati. La rivolta serpeggia nelle città europee. In qualche momento, nel corso dell’ultimo anno, ha preso forma in modo visibile, dal 14 dicembre di Roma, Atene e Londra, all’acampada del maggio-giugno di Spagna, fino alle quattro notti di rabbia dei sobborghi d’Inghilterra. È chiaro che nei prossimi mesi l’insurrezione è destinata a espandersi, a proliferare. Non sarà un’avventura felice, non sarà un processo lineare di emancipazione sociale. La società dei paesi è stata disgregata, fragilizzata, frammentata da trent’anni di precarizzazione, di competizione selvaggia nel campo del lavoro, e da trent’anni di avvelenamento psicosferico prodotto dalle mafie mediatiche, gestite da gente come Berlusconi e Murdoch.
Effetti della desolidarizzazione
L’insurrezione che viene sarà un processo non sempre allegro, spesso venato da fenomeni di razzismo, di violenza autolesionista. Questo è l’effetto della desolidarizzazione che il neoliberismo e la politica criminale della sinistra hanno prodotto nell’esercito proliferante e frammentato del lavoro. Nei prossimi cinque anni possiamo attenderci un diffondersi di fenomeni di guerra civile interetnica, come già si è intravisto nei fumi della rivolta inglese, ad esempio negli episodi violenti di Birmingham. Nessuno potrà evitarlo, e nessuno potrà dirigere quell’insurrezione, che sarà un caotico riattivarsi delle energie del corpo della società europea troppo a lungo compresso, frammentato e decerebrato. Il compito che i movimenti debbono svolgere non è provocare l’insurrezione, dato che questa seguirà una dinamica spontanea e ingovernabile, ma creare (dentro l’insurrezione o piuttosto accanto, in parallelo) le strutture conoscitive, didattiche, esistenziali, psicoterapeutiche, estetiche, tecnologiche e produttive che potranno dare senso e autonomia a un processo in larga parte insensato e reattivo.
Nell’insurrezione ma anche fuori di essa dovrà crescere il movimento di reinvenzione d’Europa, ponendosi come primo obiettivo l’abbattimento dell’Europa di Maastricht, il disconoscimento del debito e delle regole che l’hanno generato e lo alimentano, e lavorando alla creazione di luoghi di bellezza e di intelligenza, di sperimentazione tecnica e politica. La caduta d’Europa (inevitabile) non sarà un fatto da salutare con gioia, perché aprirà la porta a processi di violenza nazionalista e razzista. Ma l’Europa di Maastricht non può essere difesa. Compito del movimento sarà proprio riarticolare un discorso europeo basato sulla solidarietà sociale, sull’egualitarismo, sulla riduzione del tempo di lavoro, sulla redistribuzione della ricchezza, sull’esproprio dei grandi capitali, sulla cancellazione del debito, e sulla nozione di sconfinamento, di superamento della territorialità della politica. Abolire Maastricht, abolire Schengen, per ripensare l’Europa come forma futura dell’internazionale, dell’uguaglianza e della libertà (dagli stati, dai padroni e dai dogmi).
Lo scenario Italia
È probabile che il prossimo passaggio dell’insurrezione europea abbia come scenario l’Italia. Mentre Berlusconi ci ipnotizza con i suoi funambolismi da vecchio mafioso, eccitando l’indignazione legalitaria, Napolitano ci frega il portafoglio. La divisione del lavoro è perfetta. Gli indignati d’Italia credono che basti ristabilire la legalità perché le cose si rimettano a funzionare decentemente, e credono che i diktat europei siano la soluzione per le malefatte della casta mafiosa italiana. Dopo trent’anni di Minzolini e Ferrara non ci dobbiamo meravigliare che si possa credere a favole di questo genere. Il Purgatorio che ci aspetta è invece più complicato e lungo. Dovremo forse passare attraverso un’insurrezione legalitaria che porterà al disastro di un governo della Banca centrale europea impersonato da un banchiere o da un confindustriale osannato dai legalitari. Sarà quel governo a distruggere definitivamente la società italiana, e i prossimi anni italiani saranno peggiori dei venti che abbiamo alle spalle. È meglio saperlo. Ed è anche meglio sapere che una soluzione al problema italiano non si trova in Italia, ma forse (e sottolineo forse) si troverà nell’insurrezione europea.
Il golpe di Berlusconi
di Raniero La Valle *
Gli uomini contano. Alla conferenza di pace di Parigi De Gasperi salvò l’Italia: era, in quel consesso, un Paese nemico, distrutto dalla guerra, gravido di miseria; tutto, tranne l’enorme prestigio del presidente del Consiglio italiano e la dignità con cui difese l’Italia, era contro di lui. Ma De Gasperi colpì gli Alleati, apparve credibile, e l’Italia rientrò ben presto a pieno titolo nella comunità internazionale, e cominciò la sua ricostruzione, prima della Germania, prima del Giappone, suoi alleati di guerra, prima della Cina.
Nell’agosto angoscioso appena trascorso, Berlusconi ha portato l’Italia fino all’orlo dell’abisso: l’ha considerata lui stesso un Paese spregevole, l’ha mostrata senza dignità, con un governo indifferente e cinico in ogni sua scelta, fino al punto di poter decidere in poche ore tutto e il contrario di tutto; un Paese giudicato inaffidabile eticamente, e non solo finanziariamente, perfino dai mercati; un potere politico interno irriso dalla stampa internazionale, incapace, per le sue false analisi, di affrontare la crisi, impossibilitato, per le sue contraddizioni, a governarla e indegno, per i suoi comportamenti, di fare appello alle risorse materiali e morali dei cittadini.
Eppure all’Italia non mancherebbe nulla; è un Paese ancora ricco, seppure di una ricchezza ignorata dal fisco, lavora, produce e risparmia, si dà da fare nell’aiuto reciproco, e ai giovani, se è matrigna la società, resta madre la famiglia. Certo, da quando è finito il “caso italiano” e l’Italia ha cessato di essere un grande laboratorio politico per un diverso futuro, essa è ridiventata politicamente bambina e arrendevole (altrimenti non si farebbe guidare così), ma è un Paese straordinario che ha pur sempre grandi risorse di intelligenza, di creatività, di lavoro.
Ora dobbiamo trarre le lezioni che ci ha impartito quest’agosto (agosto è sempre un mese pericoloso, fu il 15 agosto 1972 che Nixon distrusse l’ordine monetario del dopoguerra sancito a Bretton Woods, aprendo la strada all’attuale cataclisma). Il nostro agosto 2011 ci ha insegnato come una crisi economica possa diventare il momento e l’alibi di un grande tentativo reazionario, fino ai limiti di un sovvertimento del sistema.
Questi sono i colpi di mano che il governo ha tentato col pretesto della crisi:
1) Liquidare l’art. 41 della Costituzione che unisce la libertà economica all’utilità - o almeno non dannosità - sociale, per rendere discrezionale ai privati tutto ciò che non è proibito.
2) Mettere nell’art. 81 il vincolo del pareggio del bilancio, il che toglierebbe allo Stato ogni margine di manovra economica e renderebbe incostituzionale anche il pagamento degli stipendi pubblici quando il limite fosse raggiunto (come stava succedendo disastrosamente ad Obama).
3) Demolire un’intera branca del diritto, quello del lavoro, distruggere la contrattazione collettiva e il ruolo dei grandi sindacati, rimuovere l’obbligo della giusta causa e con esso lo stesso Statuto dei lavoratori, tornare ai rapporti tra “padroni” e operai dell’età preindustriale.
4) Revocare i diritti acquisiti in tema di riscatto della leva e della laurea per il calcolo dell’età pensionabile, in tema di tredicesime e liquidazioni, introdurre nuove disuguaglianze tra dipendenti pubblici e privati, residenti e immigrati, ricchi evasori e poveri tartassati.
5) Mortificare il valore simbolico della Repubblica nata dalla Resistenza impedendo la celebrazione festiva del 25 aprile, del 1 maggio e del 2 giugno.
6) Cavalcare il risentimento verso la politica, tagliando demagogicamente quelli che vengono chiamati i costi della politica e che sono invece i costi della corruzione e i costi della democrazia; attaccare al cuore il principio rappresentativo riducendo drasticamente la rappresentanza popolare dai comuni alle province al Parlamento fuori di qualsiasi piano organico e razionale di riordinamento dello Stato.
Non tutte queste cose sono riuscite, per la debolezza e la confusione della leadership, la difesa corporativa dei propri interessi elettorali da parte della Lega, la resistenza degli Enti locali, i veti incrociati nell’ambito della stessa maggioranza e la reazione vigorosa delle classi attaccate e umiliate; mentre un minimo di continuità istituzionale è stato assicurato da quanto resta della divisione dei poteri, che ha permesso il dispiegarsi di un ruolo di supplenza da parte del Presidente della Repubblica e di controllo di legalità da parte dei magistrati.
Ma resta da chiedersi come tutto ciò sia potuto accadere. È accaduto perché il sistema, grazie agli apprendisti stregoni dei patiti della “Seconda Repubblica”, era stato privato di tutte le sue difese, al Parlamento era stata tolta ogni autonomia mentre un’artificiale, esorbitante maggioranza parlamentare era stata messa per legge nelle mani di un padre padrone, e a quest’ultimo era stato permesso di difendere ossessivamente il potere e di mantenerlo con ogni artificio, mentre tutto il resto era abbandonato alla rovina. La tanto agognata “governabilità” è stata realizzata nel modo peggiore, senza un governo che potesse veramente governare e una democrazia che potesse difendersi; per di più senza che si potesse dare una vera, efficace e giusta risposta alla crisi economica. Perciò, per uscirne, bisogna ora ripartire da qui, cioè dall’idea stessa di cosa debba essere una Repubblica parlamentare e rappresentativa, contro la cecità di chi, anche a sinistra, insiste nel dire che “non si può tornare indietro”.
Servi, per libera scelta
Pubblichiamo la prefazione dell’edizione inglese de “La libertà dei servi” di Maurizio Viroli, che uscirà nei prossimi giorni con il titolo “The Liberty of Servants” per la Princeton University Press.
di Maurizio Viroli (il Fatto, 06.09.2011)
L’opinione pubblica di lingua inglese ha già un’immagine abbastanza precisa dell’Italia di Berlusconi. Studiosi e giornalisti hanno accuratamente descritto e spiegato che il sistema di potere berlusconiano non ha né precedenti né equivalenti nella storia dei paesi liberali e democratici Mai un uomo con tanto potere - fondato sul denaro, sulla proprietà dei mezzi di comunicazione di massa e sul controllo di un partito composto da persone a lui devote - è stato in grado di diventare per tre volte capo del governo e di conservare per quindici anni una posizione dominante nel sistema politico e nella vita sociale di un paese democratico.
A RAGIONE, l’opinione pubblica internazionale si preoccupa per questo esperimento politico italiano, anche se spesso lo considera come un ennesimo esempio di carnevalate e di corruzione politiche. I commentatori hanno infatti insistito sui più vergognosi aspetti del regime berlusconiano quali le leggi per proteggerlo dalla giustizia; la sua determinazione nel sostenere la corruzione politica (il suo vecchio sodale Cesare Previti è stato condannato per corruzione di giudici); le sue connivenze, sempre a loro giudizio, con la criminalità organizzata; il suo aperto disprezzo per la magistratura e per la Corte costituzionale che egli considera inaccettabili limitazioni del suo potere basato sul consenso popolare; i vari scandali sessuali che hanno fatto parlaredi“governodelleputtane” e “stato-bordello”; la sua amicizia con leaders impresentabili quali Putin e Gheddafi. In questo saggio cerco di capire in maniera più precisa questo nuovo, ambiguo, tipo di potere politico nato non contro, ma all’interno delle istituzioni politiche democratiche, e sostengo che si tratta di una degenerazione della democrazia nel potere di un demagogo che controlla una massa addomesticata dai suoi mezzi di comunicazione di massa. Come i demagoghi dell’antichità e dell’età moderna, Berlusconi ha dimostrato fin dagli inizi della sua carriera politica una notevole capacità di affascinare la ‘gente’ con tecniche teatrali che mirano ad esaltare la sua immagine e ha dato ripetutamente prova di saper ottenere il consenso dicendo ai cittadini quello che essi vogliono ascoltare. A differenza di quasi tutti i demagoghi, tuttavia, Berlusconi è ricchissimo e usa il suo denaro per comprare le persone, come abbiamo visto, a parere dei commentatori, nelle ultime settimane del 2010 e nelle prime del 2011 quando la sua maggioranza parlamentare ha rischiato di dissolversi. In circostanze più normali della vita politica egli usa il suo denaro, direttamente o indirettamente, per distribuire favori di varia natura e valore, dai posti lucrativi ai regali. In questo modo ottiene la lealtà di un gran numero di persone. Si potrebbe sostenere che Berlusconi ha istituito un’oligarchia all’interno del sistema democratico.
Ma è anche vero che il regime di Berlusconi presenta aspetti che i filosofi politici hanno bollato come tirannide, non nel senso di un potere imposto e conservato con la violenza, ma nel senso di una “tirannide velata”, simile a quella che i Medici costruirono a Firenze. In effetti, come ogni tiranno, anche Berlusconi mira in primo luogo a conservare ed accrescere il suo potere e a proteggere i suoi interessi. Inoltre, come già osservava Norberto Bobbio, Berlusconi ha la tipica mentalità del tiranno. Ritiene infatti che a lui tutto sia lecito, compreso avere tutte le donne per sé, e più giovani sono meglio è. Se lo esaminiamo con l’aiuto dei concetti classici del pensiero politico, il potere di Berlusconi può essere definito come una combinazione originale delle tre forme corrotte di governo: la demagogia, la tirannide e l’oligarchia. È un esempio davvero eloquente della creatività politica italiana, ma è soprattutto un’ulteriore prova di un altro carattere distintivo della storia italiana, vale a dire la nostra cronica incapacità di difendere efficacemente la libertà.
LE LIBERE REPUBBLICHE del tardo Medio Evo non seppero proteggersi dalla tirannide e dal dominio straniero; lo Stato liberale nato dal Risorgimento nel 1861 è stato distrutto cinquant’anni dopo dal fascismo; la repubblica democratica nata il 2 giugno 1946 sulle ceneri del fascismo è degenerata nel sistema berlusconiano. Il paese della libertà fragile, ecco quale potrebbe essere un’appropriata caratterizzazione politica dell’Italia. Come sostengo in questo libro, la semplice esistenza dell’enorme potere di Silvio Berlusconi rende gli italiani non liberi, o meglio liberi, ma nel senso della libertà dei servi, non della libertà dei cittadini. La mia tesi si basa sul concetto di libertà politica elaborato dai filosofi e dai giuristi classici e moderni che hanno spiegato assai bene che essere liberi non vuol dire poter fare più o meno quello che vogliamo, ma essere non essere sottoposti al potere enorme o arbitrario di un uomo o di alcuni uomini. La ragione la capisce anche un bambino: se un uomo ha un potere enorme, può facilmente usarlo per imporre la sua volontà e dunque ridurre i cittadini in condizione di servitù.
Egli può inoltre creare intorno a sè una corte formata da un numero più o meno grande di individui che dipendono da lui per favori, denaro, onori e fama. Anche se il regime di Berlusconi è certo una letale mistura di oligarchia, demagogia e tirannide, il nome che megliolocaratterizzaèsistemadicorte . Berlusconi è un nuovo signore. Come ho osservato all’inizio, è del tutto comprensibile che l’opinione pubblica di lingua inglese consideri Berlusconi un’altra stravaganza italiana. Eppure, per quanto possa apparire del tutto improbabile, i suoi potrebbero trovare imitatori in altri paesi democratici. Nessun sistema democratico è immune dal potere combinato del denaro, dei media e della demagogia. I leaders e i cittadini dei paesi liberi dovrebbero fare tesoro degli errori degli italiani e preparare per tempo le difese contro il formarsi e il consolidarsi di poteri enormi.
Un’inchiesta sull’inchiesta
Perché uomini di governo vanno da Bisignani a ricevere istruzioni? Perché sono disorientati o perché il vero potere è altrove? L’opposizione dovrebbe saper rispondere a questa domanda
di Furio Colombo (il Fatto, 26.06.2011)
“Perché uno come Gianni Letta, che ha un ruolo rilevante, direi eccezionale, nel governo del Paese e nelle relazioni istituzionali, deve sapere da Bisignani se nei suoi confronti ci sono o no indagini giudiziarie ? Perché ministri in carica vanno nell’ufficio di Bisignani a chiedere consigli, a ricevere istruzioni e segnalazioni per incarichi pubblici?". Sto citando da un articolo di Emanuele Macaluso (Il Riformista, 22 giugno) perché la sequenza di domande da lui proposta ci porta nell’occhio del tifone. Stiamo assistendo a un muoversi frenetico di personaggi influenti sotto e sopra la linea di galleggiamento delle principali istituzioni, un andare e venire poco chiaro e poco spiegabile fra il sottofondo della Repubblica e gli apparenti titolari del potere.
TUTTI I PEZZI del gioco, qualunque sia il gioco, sono in movimento, si spostano o vengono spostati, si espongono o vengono spinti ad esporsi, ascoltano, non si capisce da chi e si confidano, non si capisce con chi. Qui mi discosto dalle conclusioni di Macaluso che dice, accantonando le sue stesse domande: "Ci sono sempre stati dei Bisignani, perché lo Stato è debole". È vero, ma ciò che sta accadendo è molto di più. Si è scoperto che, nelle vene della politica, è in circolazione un batterio misterioso che ha più forza del potere, nel senso che fa apparire l’intera collezione delle persone di potere come ombre a cui si può sempre cambiare (o far cambiare) posizione, dislocazione, funzione, decisione.
È possibile che Bisignani sia l’artefice di tanta autorità operativa, che sia il punto da cui emanano ordini e comando, secondo un disegno del dinamico ex giornalista che ha abilmente messo le mani su leve che altri, pur vicini al potere, non avevano notato? Poiché so, fin da ora, che il percorso giudiziario, per quanto accurato e meticoloso, ci dirà molto sul modo di operare (ed eventualmente di violare la legge) di Bisignani, ma poco o niente su “chi è Bisignani?” e “perché si va da Bisignani a chiedere istruzioni per esercitare il potere?”. Non resta che un altro percorso, un percorso narrativo .
Qui comincia il racconto, con la dovuta avvertenza che esso si basa sulla pura immaginazione del narratore e che non ha nulla a che fare con documenti e rivelazioni. Nel racconto, il vivace ex giornalista Bisignani viene così intensamente frequentato non perché abbia o rappresenti il potere, o partecipi al potere, o possa dare il giusto consiglio o mettere una buona parola.
Bisignani è un raccordo necessario. Chi deve saperlo sa che si passa attraverso di lui. Non come luogo di saggezza, di esperienza e di eventuale favore, ma come camera di consultazione, ascolto o confessione con un potere che conta.
Un potere o il potere? La domanda è romantica. Nessun potere è il potere. Ma certo la camera di ascolto e conversazione a cui si accede tramite Bisignani conta abbastanza perché il ministro Stefania Prestigiacomo "si rovini" facendosi intercettare al telefono di Bisignani. Quel rischio, forse, non è temuto davvero. Forse è un modo di mostrare il giusto comportamento. A chi? Poiché, come il lettore intuisce, il narratore non ha la risposta finale deve prendere tempo. In quel tempo dobbiamo inserire gli incontri, che non possono essere furtivi e le telefonate, che non possono essere ingenue, del sottosegretario Letta (foto) con l’agile Bisignani.
LETTA È UNA persona saggia, niente affatto impulsiva, capace di una attenzione ferrea e ininterrotta al filo dei suoi rapporti, molti dei quali, comprensibilmente, coperti da discrezione accurata. Non sembra, valutando il personaggio nell’insieme, che il rapporto con Bisignani sia stato un passo falso che interrompe in un punto la sequenza perfetta di ciò che si fa ma non si deve sapere. Sembra una necessità, o così la racconterei se scrivessi questo racconto. Voglio dire: questo tipo di potere terminale che sta al di là e al di sopra del potere fatto di figure e di simboli che potremmo chiamare (ma solo nel racconto) i prestanome, esige un certo rispetto delle forme. Ciò che è dovuto è dovuto. Rimane nell’ombra ciò che deve rimanere nell’ombra. Evidentemente la folla dei potenti-impotenti (nel senso che rappresentano molto e decidono poco) è bene che abbia costantemente la misura del proprio limite e si conformi senza impropri e sconsigliabili gesti di ridicola ribellione.
QUANDO POI entrano in scena personaggi dei Servizi segreti che, a nome e per conto del predetto Bisignani, si recano a conferire con il parlamentare che presiede la commissione di controllo sui Servizi segreti, il narratore si persuade, pur in assenza di evidenze documentali, di essere sulla strada giusta. C’è qualcosa che conta oltre la siepe, cose che noi cittadini non vediamo e non sappiamo, ma che evidentemente smuovono molto e cambiano molto, tanto che fanno correre di qua e di là dei generali appena entrati in possesso delle presunte chiavi della Repubblica.
Se ti è accaduto di avere visto alla Camera Silvio Berlusconi, il 22 giugno, esaltare se stesso, con un discorso identico al 1993, al 1994, al 2001, al 2008, e hai appena notato (e fatto notare in aula) che per lui i deputati della Lega non applaudono e, al momento dell’ovazione, nessuno di loro si alza in piedi per lui, una cosa sai e constati: Berlusconi non è e non ha il potere. E il trucco (persino nel senso cosmetico) non funziona più. “Perché Gianni Letta, che ha un ruolo rilevante, deve sapere da Bisignani...”, si domanda Macaluso nell’articolo che ho citato all’inizio. Ma Letta è Berlusconi. Dunque, fino a questo punto abbiamo un indizio prezioso per la versione narrativa che ho proposto. Continua Macaluso, che di politica ne ha vista tanta: “Perché ministri in carica vanno da Bisignani per ricevere istruzioni?”. Perché sono deboli e disorientati o perché il potere è altrove? Il narratore si ferma qui. Ma chi guida l’opposizione deve saper rispondere a questa domanda.
Tangenti, spie e burattinai
la corruzione al potere
di Guido Crainz (la Repubblica, 26.06.2011)
«C’era un Paese che si reggeva sull’illecito»: lo scriveva Italo Calvino nel 1980, in un fulminante Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti che segnalava con lucidità un mutamento decisivo. In quei mesi infatti la tangente Eni-Petromin, lo scandalo dell’Italcasse e altri venivano a confermare un imporsi della corruzione come metodo rivelato già nel 1974 dalle tangenti petrolifere.
Quello stesso 1974 in cui era iniziata la parabola discendente di Michele Sindona, inutilmente contrastata da pressioni politiche e criminali (con l’aggressione alla Banca d’Italia di Baffi e di Sarcinelli, e l’assassinio dell’avvocato Ambrosoli). Nel frattempo lo scandalo Lockheed aveva coinvolto, oltre a ex ministri, anche figure di mediatori come Antonio e Ovidio Lefebvre. E ancora nel 1980, mentre Craxi faceva aprire in Svizzera il conto "Protezione", Licio Gelli usciva allo scoperto sulle ospitali pagine del Corriere della Sera.
Poco dopo le liste della P2, rinvenute dai giudici Turone e Colombo nelle indagini su Sindona, faranno emergere meglio la trama che ha i nomi del Banco Ambrosiano di Calvi, dello Ior, della Rizzoli. Ed evocheranno inoltre sia oscure ombre precedenti o presenti (dalle trame eversive del passato sino al ruolo dei servizi durante il rapimento Moro o alla strage alla stazione di Bologna), sia inaspettate proiezioni nel futuro. Anche a prescindere, naturalmente, dai nomi di Berlusconi o di Cicchitto (che sarà allontanato per alcuni anni dal pur comprensivo Psi di allora).
Figura in quelle liste, ad esempio, il socialista Teardo, che sarà al centro di uno dei due scandali che nel 1983 fanno già intravedere - in Liguria, appunto, e a Torino - quella devastazione della vita pubblica che crescerà negli anni Ottanta sino all’esplosione di Tangentopoli. Esplosione che ha la sua massima espressione nell’affare Enimont, che culmina tragicamente con i suicidi di Gabriele Cagliari e di Raul Gardini (preceduti da quello - avvolto in più oscure nebbie - di Sergio Castellari). Fra i condannati al processo Enimont vi è un altro nome già presente nelle liste della P2: Luigi Bisignani.
Un commentatore pur moderato come Sergio Romano osservava allora che gli storici della "prima Repubblica" avrebbero letto gli atti giudiziari di Mani Pulite come gli storici della Rivoluzione francese leggono i cahiers de doléances inviati agli Stati generali: affreschi entrambi di due profondissime crisi di regime. Occorrerà comprendere meglio perché - dopo lunga incubazione e inascoltati segnali - siano poi riesplosi quei fenomeni giganteschi di corruzione e di distorsione delle istituzioni che le intercettazioni sulla "cricca" hanno ampiamente rivelato nel febbraio del 2010. Svelando, ad esempio, che la Protezione civile, lungi dall’essere strumento dell’emergenza, si era trasformata nello svuotamento quotidiano della democrazia, completamente privata di norme e controlli: una deformazione che stava per essere istituzionalizzata al livello più alto.
In quell’occasione molti hanno osservato che rispetto agli anni di Tangentopoli il "rubare per sé" appare oggi molto più diffuso del "rubare per il partito". Osservazione sin troppo scontata, dato che i partiti, nella forma di allora, non esistono più: e sciaguratamente questo ha portato talora ad affrontare in proprio, per così dire, i "costi della politica". Così come ha dato un peso crescente alle cricche e a quelle forme di relazione che le cronache di questi giorni hanno illuminato di luce cruda. Ricordandoci la vecchia intervista di Gelli al Corriere: da piccolo, disse, volevo fare il burattinaio.
FILOSOFIA, ANTROPOLOGIA E POLITICA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO ....
STATO DI MINORITA’ E FILOSOFIA COME RIMOZIONE DELLA FACOLTA’ DI GIUDIZIO. Una ’lezione’ di un Enrico Berti, che non ha ancora il coraggio di dire ai nostri giovani che sono cittadini sovrani. Una sua riflessione - con una nota
(...) Da noi si insegna soprattutto storia della filosofia (...) Più realista, e meno illuminista, di Kant è stato Hegel, il quale ha criticato i pedagogisti suoi contemporanei che volevano insegnare a «pensare con la propria testa», a inventarsi ciascuno una propria filosofia, come se la filosofia non fosse mai esistita prima e quindi non esistesse già. Per filosofia Hegel intendeva la verità, iscritta nella mente di Dio (l’Idea) e realizzata nel processo della natura e nello spirito. Più modestamente la filosofia si può intendere come il pensiero dei grandi filosofi, che è bene conoscere e col quale è bene confrontarsi, cioè dialogare (...)
LE PAROLE DELLA POLITICA E LA FILOSOFIA ITALIANA. Dopo quasi venti anni di berlusconismo e dopo altrettanti anni di una quasi generale connivenza sonnambolica ....
FILOSOFIA IN STATO COMATOSO. IL PARADOSSO DELL’IDENTITA’: IO E GLI ALTRI. REMO BODEI CERCA DI SVEGLIARSI E SI RIATTACCA AL VECCHIO E LOGORO FILO POPPERIANO. Ecco le tesi del suo "manifesto per vivere in una società aperta"
Le termiti nelle istituzioni
di Guido Crainz (la Repubblica, 25 giugno 2011)
No, non era questo il modo di essere di quella "prima Repubblica" che pure fu sepolta con ignominia meno di vent’anni fa, in una damnatio memoriae che proiettava arbitrariamente su tutta la sua storia le nefandezze della sua agonia. Non lo era, a ben vedere, neppure negli infausti anni del Caf di Craxi, Andreotti e Forlani: nessuna microspia infilata in qualche camper avrebbe registrato qualcosa di simile a quello che abbiamo letto in questi giorni. La peggior cifra della "prima Repubblica" fu semmai - nei suoi momenti più cupi, e in un diversissimo clima internazionale - la tragedia, non la farsa maleodorante. Non la corrosione mefitica delle più elementari norme della democrazia e della decenza. Anche in passato ci venne da pensare a un "doppio Stato", spinti dalle suggestioni di Ernst Fraenkel. Ma quello che avvertivamo muoversi al di sotto della legalità, e contro di essa, era piuttosto un coacervo drammatico di trame eversive, di servizi deviati, di torbide ingerenze esterne, di grumi inquietanti che affondavano le radici nel passato. Quello che scorgiamo ora - lo ha scritto benissimo Carlo Galli su questo giornale - è un esercito di termiti e di tarli che insidiano quotidianamente, per lucro e sete di potere, i pilastri delle strutture pubbliche e delle regole istituzionali. Alla vigilia dell’esplosione di Tangentopoli Altan fece dire ad un suo personaggio: ma a questa classe politica, dovevano dargli il soggiorno obbligato proprio in Italia? Quella battuta è ancor più attuale oggi, perché nelle intercettazioni della P4 un crimine sicuramente c’è, ed è il peggiore: l’attentato alla dignità della democrazia, il vilipendio dell’idea di bene comune.
Una corte indecente si muove dunque all’ombra del premier, sempre più delegittimato, e il suo erede designato pensa solo ad avvolgere di nebbie protettive quelle trame: è questa la cifra di un’agonia intrisa di minacce e di pericoli per il Paese. Riproponendo oggi la legge-bavaglio il ministro Alfano proclama a voce altissima quel che le opposizioni hanno sempre detto, e cioè che quella legge non ha proprio nulla a che vedere con i diritti dei cittadini. E sfida frontalmente l’idea di giustizia che essi hanno affermato nel referendum sul legittimo impedimento. Anche questo è l’esito dell’antipolitica fatta trionfare da Bossi e da Berlusconi nella crisi della "prima Repubblica", e comprendiamo sempre meglio quanto sia stato grave non aver contrapposto ad essa solidi bastioni di "buona politica".
Di fronte al quadro che si è delineato è certo legittimo riflettere sulle modificazioni profonde che negli ultimi vent’anni hanno attraversato non solo il Palazzo ma anche parti non piccole del Paese. E sarebbe improprio immaginare - come facemmo nella crisi dei primi anni novanta - una compatta e virtuosa società civile totalmente contrapposta a un universo partitico corrotto: del resto nella rete della P4 ci sono anche pezzi di società prima estranei alla politica (ed entrati in essa, appunto, solo grazie all’antipolitica del premier). Eppure, l’Italia non è tutta lì. Non si riduce per nulla a quelle vergogne, al quotidiano operare di chi svuota e corrode la democrazia.
Indubbiamente in questi ultimi anni abbiamo fatto grandi passi all’indietro, sia sul terreno dell’etica pubblica che su quello dell’economia. Luca Ricolfi su La Stampa ha osservato che, dopo esser cresciuti troppo in fretta nel passato, nell’ultimo periodo stiamo declinando troppo lentamente per accorgerci veramente del piano inclinato su cui ci siamo incamminati. Come se fossimo su un ghiacciaio che si ritira di un metro l’anno, e ogni anno non sembra così diverso da prima: eppure, sta sciogliendosi inesorabilmente. Chiedersi perché ciò sia avvenuto significa al tempo stesso chiedersi come ricostruire l’edificio comune, come potenziare energie pur presenti. Come valorizzare quelle risorse che il Paese ha sempre dimostrato di avere: e lo ha fatto nella maniera più inattesa e forte anche nell’ultimissimo periodo.
Le elezioni amministrative e i referendum sono stati indubbiamente una grandissima ventata di democrazia e proprio per questo è necessario comprenderne appieno il valore, a partire da un dato centrale: l’irrompere sulla scena di un protagonismo giovanile tanto straordinario quanto inatteso. Anche alla vigilia del ’68, del resto, sociologi e opinionisti avevano liquidato con uno slogan sprezzante i giovani di allora, considerati ormai integrati nella società dei consumi e privi di valori: li chiamarono la "generazione delle 3 M" (macchina, moglie e mestiere). Furono costretti a rivedere quel giudizio, ma quei giovani trovarono in realtà pochi riferimenti e pochi interlocutori veri: e anche per questo - non solo per questo - non diedero poi tutto il meglio di sé.
Come è evidente, oggi il centrosinistra è più che mai chiamato in causa nel suo insieme e in prima persona: per svolgere il suo ruolo, per assolvere ai suoi compiti. Per aiutare le nuove esperienze nei loro momenti più difficili (o drammatici, come è ora a Napoli) e per valorizzare al massimo i momenti fecondi che già si segnalano, a partire da Milano. È un aspetto centrale: nella "prima Repubblica" il buon governo a livello locale fu a lungo un tratto forte e distintivo della sinistra, e l’appannarsi di questa cifra coincise con la sua crisi più generale. E forse non vennero poi considerate in modo adeguato le positive esperienze dei sindaci eletti a partire dal 1993. Non si trassero da esse tutte le indicazioni possibili per costruire un’alternativa anche nazionale al centrodestra.
È un errore da non ripetere, e del resto sono immediatamente comprensibili alcune delle ragioni che hanno contribuito alla vittoria nelle amministrative: la capacità di valorizzare quel che di positivo il centrosinistra ha saputo costruire, come a Torino, ma al tempo stesso anche di privilegiare - come è avvenuto altrove, anche contro le indicazioni ufficiali - proposte limpidamente alternative al centrodestra nei contenuti e nelle persone candidate, spesso estranee alla nomenklatura più stretta. Questa appare la via maestra anche a livello nazionale: è il momento di mettere in campo tutte le potenzialità possibili di "buona politica". Senza perdere tempo.
Un problema di democrazia
di Ezio Mauro, (la Repubblica, 24 giugno 2011)
Un potere ormai terrorizzato da se stesso, dagli scandali che mettono a nudo la sua debolezza, dal consenso in fuga, decide di alzare il ponte levatoio e chiudersi nel Palazzo assediato, separandosi dai cittadini. È questa la vera ragione della legge bavaglio che per la seconda volta Berlusconi vuole calare sulla stampa e sulle inchieste con la cancellazione delle intercettazioni telefoniche, impedendo ai magistrati di indagare sul crimine e ai cittadini di conoscere, di capire e di giudicare.
È un’altra legge ad personam, costruita per proteggere il vertice del governo dall’inchiesta sulla P4, che infatti ieri il ministro Alfano ha attaccato come "irrilevante", dimenticandosi di essere Guardasigilli: perché l’inchiesta svela il malaffare di una centrale governativa di potere occulto e piduista per condizionare le istituzioni, l’economia e la Rai, minacciando, promettendo e proteggendo.
Un potere indebito, di fronte al quale si genuflettono incredibilmente ministri, grand commis e uomini di un falso establishment tarlato, incapace di autonomia e di dignità, valvassori che chiedono insieme protezione e libertà di saccheggio. Ma questa deviazione - ecco il punto - nasce nel cuore del berlusconismo, e riporta al vertice del governo, per conto del quale si promettono nomine, si minaccia fango, si imbandiscono affari. È questo che gli italiani non devono sapere. Dunque, legge bavaglio bis: i magistrati non potranno perseguire i reati secondo le procedure di tutti i Paesi civili. I cittadini potranno conoscere le notizie sui crimini nella misura che il governo vorrà.
Con ogni evidenza è un problema di democrazia, che riguarda tutti. Già una volta l’opinione pubblica ha bloccato il bavaglio, con la battaglia del post-it. Lo farà ancora, perché l’Italia di oggi non può accettare un abuso sui doveri dello Stato, sui diritti dei cittadini, sulla libertà.
di Carlo Galli (la Repubblica, 23.o6.2011)
Gli italiani hanno scoperto di esser stati governati per anni da un esecutivo Berlusconi-Bisignani. Ci eravamo abituati a criticare con estrema durezza il potere pseudo-carismatico, mediatico, affabulatorio del premier. A criticare la sua prassi extra-istituzionale di rappresentare i cittadini - trasformati in popolo adorante che si identifica in una icona, in un corpo mistico virtuale -, il suo indirizzarsi contro gli avversari come contro dei ‘nemici’, il suo saper produrre prevalentemente immagini (sogni o incubi) a uso e consumo degli italiani, e il suo interessarsi solo a sé e ai suoi amici per quanto riguarda gli interessi concreti da salvaguardare. A opporci alla sua pretesa di essere sopra la legge, oltre la Costituzione, ai limiti della democrazia (e estraneo alla democrazia liberale parlamentare e alle sue garanzie).
Sembrava, tutto sommato, di avere a che fare con un potere eccezionale, con un concentrato di potenza difficilmente riconducibile alla misura costituzionale, con un’enormità e con un’anomalia che sovrasta (o cerca di farlo) l’ordinamento. Ora, si scopre che tutto ciò è certamente ancora vero, ma che c’è dell’altro: che questo potere - come le scatole cinesi - è a sua volta una maschera, che cela in sé un vuoto; e non solo perché è vuoto di ogni istanza pubblica ed è pieno di una sola istanza privata - quella di Berlusconi - ma perché è abitato da altri, da occulti manovratori, da tessitori di trame economiche, politiche, mediatiche, giudiziarie, dai soliti noti che costruiscono ignote reti di potere, più efficaci del potere ufficiale, dalle quali questo viene distorto, piegato, corrotto. Non soltanto, insomma, abbiamo a che fare col potere gigantesco e iper-visibile del premier, ma anche con il potere oscuro della P4 (e chissà di quante altre P, ancora, ci toccherà apprendere l’esistenza); non solo con un potere che sta (o pretende di stare) sopra la Costituzione, ma con uno, ramificato e pervasivo, che sta dietro e sotto le istituzioni, non visibile ma coperto.
Nel 1941 un esule tedesco, Ernst Fraenkel, scrisse in America un libro intitolato Il doppio Stato, in cui spiegava il funzionamento del potere nazista: secondo lui, allo "Stato normativo", lo Stato delle istituzioni legali, la Germania di Hitler affiancava un secondo Stato, lo "Stato discrezionale", che funzionava con l’arbitrio e la violenza, al di là di ogni norma e di ogni garanzia. La differenza rispetto alla nostra situazione - al di là, naturalmente, del fatto che nel nostro Paese non vi è nulla di neppure lontanamente paragonabile al delirio di violenza criminale che caratterizzò il regime nazista - è che oggi, in Italia, i sistemi di potere politico, compresenti, non sono due, ma tre: quello legale-costituzionale, quello carismatico-populistico, e quello occulto delle trame oscure e delle cricche d’affari. Il primo, l’unico che una democrazia liberale può e deve conoscere, ovvero l’unico legittimo, è sotto stress, logorato e minacciato; il secondo, che al primo ha voluto sovrapporsi, ha funzionato per almeno dieci anni come portatore di una legittimità alternativa alla costituzione - formalmente intatta, nonostante i numerosi progetti di manomissione, ma bypassata da un’altra immagine della politica, dallo splendore del carisma populistico -; e infine, ormai logorato anche questo secondo sistema di potere, emerge ora il terzo, un potere indiretto e manipolatorio che ha scavato, come un esercito di termiti o di tarli, all’interno delle strutture pubbliche, penetrandole, corrodendole, piegandole a fini di parte.
Questo terzo potere è l’antitesi del primo, come l’illegalità lo è della legalità, l’opacità della trasparenza; ma è anche la verità del secondo, la logica conseguenza dello svuotamento idolatrico della democrazia che questo ha operato. L’idolo luccicante con cui troppi italiani hanno voluto sostituire la prosa e la serietà dell’impegno civile, e anche la semplice legalità, è stato l’incuatrice - li ha allevati in sé, e li ha coperti - dei robusti, tenaci e voraci animaletti, che all’insaputa dei cittadini hanno scavato cunicoli e gallerie nelle istituzioni, e hanno così minato l’essenza della vita democratica. L’idolo che oggi si rivela pullulante di vite parassitarie, infatti, ha privato gli italiani del diritto di essere liberi cittadini, in grado di decifrare razionalmente la vita pubblica, e ne ha fatto degli ignari spettatori di innumerevoli arcana imperii, orditi da pochi, che li hanno avvolti nelle trame insidiose dei poteri distorti. A ulteriore e tardiva dimostrazione che è soprattutto l’assenza di potere autenticamente democratico a generare mostri e mostriciattoli.
“Mi stupisce molto il silenzio di Napolitano”
intervista a Roberta De Monticelli,
a cura di Caterina Perniconi (il Fatto Quotidiano, 6 maggio 2011)
“Mi mancano quasi le parole per articolare il disgusto per quelle persone che si arrogano il diritto di parlare di fronte ai cittadini dopo averne sbeffeggiato la dignità”. La descrizione fatta da Roberta De Monticelli, docente di Filosofia della persona all’Università Vita-Salute del San Raffaele, calza a pennello sui nuovi nove sottosegretari Responsabili.
Professoressa, si riferisce a loro?
Certo. Ieri abbiamo assistito al perfezionamento di uno scambio palesemente annunciato. Sa qual è la cosa che mi stupisce di più?
Dica.
Che nessuna voce istituzionale si levi contro una pratica così difforme dal ruolo delle istituzioni stesse.
Si riferisce al capo dello Stato?
Per nessuna istituzione intendo davvero tutte quelle che hanno una voce pubblica, compresa la stampa, e che non sollevano la questione. Se poi mi chiede delle istituzioni preposte al controllo del funzionamento della democrazia, come la Presidenza della Repubblica, le dico di sì, certo, questo silenzio mi stupisce molto.
Nel suo libro “La questione morale”, lei affronta il problema della corruzione. E spiega che la maggioranza degli italiani approva e nutre quest’impresa. Non c’è più nessuno in grado di indignarsi?
Purtroppo è scomparso anche quel velo d’ipocrisia che nascondeva ciò che ormai è conclamato. E si è rotto il muro della sanzione che spetta all’opinione pubblica. In questi casi il consenso informato e legittimante dei cittadini dovrebbe esercitare una sanzione morale. Se questo non avviene siamo in un regime senza controllo. Di certo i limiti vengono travalicati di più sotto le elezioni. Ma il controllo dei cittadini non deve ridursi al solo potere elettorale. Dovrebbero levare la loro voce più spesso.
Lei, per esempio, lo ha fatto quando il rettore della sua Università offrì a Barbara Berlusconi, durante la cerimonia di laurea, la possibilità di restare a lavorare in ateneo.
In quel caso ho protestato per la mancanza di sensibilità del rettore nei confronti degli altri laureati. E per l’assenza di un criterio di merito nell’auspicio della formazione di un nuovo professore.
Quale crede sia il criterio con cui deve essere plasmata la classe dirigente di questo paese, dall’Università fino ai ruoli di governo?
Credo che ormai sia chiaro come in Italia, a qualsiasi livello, il meccanismo di una civiltà di sudditi si sia sostituito a quello di una civiltà di cittadini. Di questo fanno parte la selezione e il reclutamento, che non sono fatti in base a criteri di merito e trasparenza, ma a quelli di consorteria e appartenenze. Va invertita completamente la rotta.
Che giudizio si sente di dare allo spettacolo che ci stanno offrendo il governo e il Parlamento?
Mi mancano quasi le parole per articolare il disgusto per quelle persone che si arrogano il diritto di parlare di fronte ai cittadini dopo averne sbeffeggiato la dignità. Fornire appoggi politici in cambio di posizioni di vantaggio personale è quanto di più lesivo possa esistere per l’etica pubblica. E lo estendo a tutti coloro che non reagiscono, alzano le spalle e pensano ‘è sempre stato così’. Perché non è assolutamente vero e la nostra storia ce lo insegna.
Le ossessioni del capo
di Carlo Galli (la Repubblica, 17.04.2011)
Nella prossimità delle elezioni Berlusconi si scalda e ricorre ai suoi cavalli di battaglia più logori e pericolosi. Qualcosa è cambiato, tuttavia; il tono è sempre più esasperato, minaccioso, truce, come di chi - nonostante i successi in Parlamento e le mille trappole legali a cui si dedicano i suoi avvocati - si sente perseguitato, colpito, braccato.
E reagisce con crescente furore. Così, i giudici sono ormai comunisti, eversori, un’associazione a delinquere che complotta per indebolire il premier, per danneggiarlo; ed è giusto e opportuno che il Legislativo, le Camere, organizzi una commissione d’inchiesta per appurarlo.
Così, il Capo va protetto da indagini e processi, perché il suo ruolo è troppo importante perché lo si possa disturbare con "bazzecole" mentre "deve difendere il suo Paese in politica estera" (la citazione letterale è dovuta). Così, è ormai venuto il momento di vibrare il colpo finale: andare alle urne per elezioni anticipate e confermare l’attuale maggioranza, coesa, dura e pura, per potere finalmente, nel quarto tempo della parabola tendenzialmente infinita di Berlusconi, riformare la Costituzione e in particolare la Giustizia.
Così, soprattutto, si potrà mettere in chiaro che la sovranità appartiene al popolo, che la "cede" (letterale) al Parlamento; e che quindi questo - naturalmente si parla della maggioranza, opportunamente prodotta da un’apposita legge elettorale - deve essere lasciato legiferare in santa pace, al riparo dalle pretese di una Corte Costituzionale oggi in mano ai comunisti e ai pm di sinistra, che non si potrà più permettere di disfare con un tratto di penna i frutti di un lungo lavoro parlamentare (con particolare riguardo al lodo Schifani, al lodo Alfano e alla legge sul legittimo impedimento). Il registro espressivo di questa politica è ormai paradossale, isterico, estremistico: è strutturato per ossessioni. Che sono certamente rivolte a utilizzare e attizzare pulsioni di lungo periodo dell’elettorato del Pdl, ma che ormai sono, altrettanto certamente, condivise anche da Berlusconi, che ne è come prigioniero, in una sorta di perfetta identificazione tra se stesso e il suo popolo. In una solitaria prefigurazione di un regime monocratico.
La prima è quella del comunismo: Berlusconi lo vede ovunque, nei pm, nei giudici, nel personale politico dei partiti d’opposizione. Non sa bene che cosa è, e non si cura di definirlo per i suoi ascoltatori; al riguardo s’intendono benissimo: c’è una sorta di precomprensione empatica tra di loro. Comunismo è una natura diabolica che si impossessa di una persona e non la abbandona mai più, rendendola per sempre malvagia e animata da spirito critico verso la tradizione, il buon senso, le persone per bene e i buoni sentimenti; e soprattutto istillando odio per lui, per Berlusconi. Comunista, anzi, è chiunque si opponga al Cavaliere e alla sua politica, anche se - poniamo - è liberale. Questo anticomunismo è la vendetta postuma del moderatismo italiano contro la sinistra, nell’epoca storica che sta vedendo l’estinzione di questa.
L’altra ossessione, fondamentale, è quella della magistratura - che va insultata e minacciata con particolare enfasi e vigore -; e qui emerge un altro elemento storico chiarissimo: Berlusconi è la rivincita postuma di Craxi su Mani Pulite, ed è al tempo stesso l’esorcisma collettivo della maggioranza degli italiani verso il soprassalto di legalità che li colse vent’anni fa, e che ora va dimenticato come un lontano errore.
L’ultima ossessione - anche questa condivisa da Berlusconi e dalla sua ‘gente’ - è quella del popolo; entità misteriosa, evocata continuamente come ‘sovrana’ contro le élites, anzi contro l’ultima élite sopravvissuta: appunto la magistratura. Che questo sovrano sia maneggiato, attivato e disattivato a piacere da Berlusconi e dalle sue molte macchine comunicative non è percepito dal popolo stesso, che ha appreso da tempo a sentirsi libero solo quando per bocca del Capo può sfogare il proprio rancore postumo contro gerarchie sociali e culturali ormai tramontate. Il trionfo della maggioranza sulla competenza, dell’omogeneità sulla distinzione, si compie così, felicemente, attraverso il magnate populista, attraverso colui che sta costruendo per sé solo l’eccezione assoluta che lo rende superiore a ogni norma e a ogni regola.
È, quello di Berlusconi, un populismo monocratico, reso profondamente antidemocratico appunto dal richiamo al popolo a vantaggio di una persona sola. E soprattutto dalla necessità che il cavaliere ha di alimentarlo con l’attivazione di un conflitto permanente tra il popolo e le istituzioni. Un populismo di micidiale efficacia, che viene da un passato collettivo potenziato dalla volontà di Uno, e che cerca di impadronirsi del futuro; un populismo che è frenato solo, per ora, da ciò che - giustamente - esso identifica come il proprio avversario: il moderno costituzionalismo, il sistema di equilibri e di garanzie, che informa di sé la nostra Costituzione. Il baluardo che ci separa da una postmodernità squilibrata, informe e feroce.
Privatizzare la libertà statale
di Adriano Prosperi (la Repubblica, 17.04.2011)
Sulle mura di Milano è ancora fresca la colla dei manifesti che attaccano i giudici come terroristi dando voce alle irresponsabili piazzate di un capoparte populista: e oggi è sempre lo stesso capoparte che si lancia in un nuovo attacco a testa bassa, questa volta contro la scuola pubblica. Si tratta di attacchi eversivi.
Nel senso proprio del termine, diretti cioè a distruggere le istituzioni statali. Non è per caso se si è passati dai giudici delle Procure alla scuola pubblica. Sono i luoghi dove per definizione tutti i cittadini sono o dovrebbero essere posti in condizioni di uguaglianza nel godimento di diritti fondamentali. Se non lo sono, questo accade per strozzature sociali a monte che i padri costituenti della Repubblica ebbero ben presenti e indicarono come ostacoli da rimuovere. Oppure accade per strozzature a valle, perché le risorse disponibili sono scarse, perché si taglia il personale che dovrebbe garantire il funzionamento delle istituzioni pubbliche più delicate. Sappiamo molto bene come, riducendo mezzi e persone, chi manovra le finanze statali possa uccidere le reti istituzionali della vita associata: lo vediamo tutti i giorni sotto i nostri occhi.
Non è difficile però comprendere le ragioni dell’odierno attacco contro la scuola pubblica. Vediamole, premettendo che l’accusa alla scuola pubblica di essere un luogo di indottrinamento ideologico da parte della sinistra è una tesi indimostrabile e speciosa. Ma è probabile che l’attacco del premier sia stato ispirato dalla scoperta fatta dai 19 deputati del Pdl guidati dall’onorevole Gabriella Carlucci che nei manuali di storia c’è chi "getta fango su Berlusconi", da cui la richiesta di una commissione d’indagine. Se tutto il problema si riduce a questo, si faccia pure l’indagine: ma non certo per sostituire i manuali oggi scelti autonomamente dagli organi scolastici competenti con la lettura obbligatoria dell’autobiografia del premier.
La scuola pubblica è tale proprio perché è il luogo della serietà e della libertà dell’apprendimento, cioè l’esatto contrario dell’indottrinamento passivo. La scuola pubblica come palestra di formazione non può che essere luogo di responsabile libertà del docente e dell’impegno serio e assiduo dei discenti, mentre allo Stato deve garantire quel principio liberale del premiare i capaci e meritevoli tra i docenti e tra i discenti. Su questi e non su altri fondamenti è nata la scuola che, dai tempi di Napoleone, si definisce "pubblica" per distinguerla da quella "privata".
C’è però una ragione più generale alla radice di questa polemica: l’avversione contro tutto ciò che è pubblico, dall’ordinamento istituzionale del paese ai valori della carta costituzionale che lo tengono unito. È questo che suscita la reazione dell’uomo che sta risucchiando nei gorghi del suo privato tutto ciò che tocca.
Quello che vediamo è la versione italica di un conflitto profondo e sostanziale tra la privatizzazione capitalistica delle risorse pubbliche e i fondamenti stessi della democrazia. In un progetto che tende allo svuotamento della sostanza democratica e costituzionale del paese la scuola non è un obbiettivo secondario.
Come ha ricordato il presidente Napolitano, è alla scuola e all’istruzione pubblica che spetta un compito fondamentale: «Diffondere tra le nuove generazioni una più approfondita conoscenza dei diritti e dei doveri che da più di mezzo secolo la Costituzione repubblicana garantisce e indica a tutti i cittadini». Un compito importante e delicato : è stato ancora Napolitano a sottolineare quanto ne dipenda la crescita del paese nel contesto del sistema e dei valori dell’Europa unita. Ecco perché non bisogna stancarsi di difendere i diritti alla scuola dall’attacco dei privatizzatori; ed ecco perché agli studenti bisogna chiedere che non si stufino di difendere la scuola pubblica dagli attacchi di chi avrebbe tante ragioni per dichiarare fallimento e ritirarsi da una scena politica dove ha portato solo divisione e scandali.
Il potere sottosopra
Nei 150 anni dell’unità d’Italia, Torino si conferma centro del pensiero politico: dal 13 al 17 aprile, affronterà con "Tutti. Molti. Pochi", il problema delle oligarchie. Ovvero, quando il normale sistema democratico si capovolge a favore di un’élite
di Gustavo Zagrebelsky (la Repubblica, 05.04.2011)
Biennale Democrazia è un luogo di discussione civile per la formazione di un’opinione pubblica consapevole. È un laboratorio pubblico permanente, articolato in una serie di momenti preparatori e di tappe intermedie (laboratori per le scuole, iniziative destinate ai giovani, seminari di discussione) che culminano, ogni due anni, in cinque giorni di appuntamenti pubblici: lezioni, dibattiti, letture, forum internazionali e momenti diversi di coinvolgimento attivo della cittadinanza.
In questa seconda edizione di Biennale Democrazia, intitolata Tutti. Molti. Pochi, l’attenzione si ferma in modo particolare sulle derive oligarchiche che minacciano le democrazie contemporanee, nella sfera economica, in quella culturale e in quella politica. La presenza di élite o classi dirigenti capaci di assumere su di sé responsabilità pubbliche e onori corrispondenti è, entro certi limiti, un fenomeno fisiologico delle democrazie. Patologica è invece la concentrazione oligarchica del potere in circoli sempre più ristretti, sempre più potenti, sempre più impermeabili alle domande e al controllo dei cittadini.
Una discussione pubblica su questi temi ha un significato particolare in una fase storica nella quale l’interruzione dei canali di dialogo tra i cittadini e i decisori pubblici determina nel nord Africa la reazione delle popolazioni e si accompagna, anche nel ricco Occidente, a povertà e diseguaglianze crescenti, a insicurezza sociale, a una generalizzata incapacità di dare forma al futuro.
In cinque giorni di lezioni e dibattiti con la partecipazione attiva dei cittadini, Biennale Democrazia sottopone ad analisi i grandi fenomeni contemporanei che danno corpo al "potere dei pochi" a danno dei molti: l’economia finanziarizzata, che sembra aver scaricato sulla società il peso della propria incapacità di regolarsi autonomamente, la contrazione delle garanzie nel mondo del lavoro, il rapporto strumentale dell’uomo con l’ambiente, l’autoreferenzialità crescente nel ceto politico.
Nelle lezioni e nei numerosi momenti di discussione con i cittadini non si guarda però a questi fenomeni come a problemi insolubili, ma come a sfide aperte per le democrazie contemporanee che, qui e ora, chiedono nuove risposte, e a volte le trovano. Nell’impegno sociale per uno sviluppo sostenibile, per un diverso rapporto tra i sessi e tra le generazioni o, ancora, nei movimenti di reazione all’ingiustizia sociale diffusi sulla Rete e, più in generale, in quell’assunzione di responsabilità da parte dei giovani e dei cittadini che Biennale Democrazia si è data il compito di promuovere.
Giustizia, ma quale dialogo: dieci ragioni per dire no
di Furio Colombo (il Fatto, 13.03.2011)
“Gentile Furio Colombo,
sono una casalinga demoralizzata e incazzata, ma purtroppo del tutto impotente. Mi permetto un piccolo sfogo sulla sua pagina perché mi fa sentire un po’ meno sola di fronte all’attuale, allucinante situazione italiana. Ma come è possibile, mi chiedo, che a un presidente del Consiglio imputato in quattro processi sia offerta collaborazione per riformare ‘insieme’ la giustizia?
Curatola Gabriella”.
L’osservazione è semplice e netta e difficile da eliminare. Penso che rappresenti lo stato d’animo di tanti cittadini, che forse voteranno a sinistra e forse no e stanno col fiato sospeso per vedere se il brusio di favore alla grande riforma di Berlusconi, che comincia a sentirsi tra le file dell’opposizione e nelle dichiarazioni di alcuni con nome e ruolo di prima fila nel Pd, diventerà davvero un modo di partecipare alla grande riforma costituzionale della Giustizia italiana. Ovviamente, in tempo di elezioni, la grande riforma apparirà in testa alla lista dei successi del gruppo Berlusconi (inteso sia come partito sia come azienda) e tra le colpe non perdonabili dell’opposizione in generale e del Pd in particolare.
Bisogna ammettere che l’infiltrazione nelle file e nelle teste dei parlamentari e degli opinionisti di area Pd dell’idea, dopotutto, sulla giustizia si può collaborare, è avvenuta con cautela e bravura , cominciando dalle colonne del Riformista, dai suoi opinionisti di prima fila e dai suoi ex, molto stimati e molto invitati nella vetrine Tv come “rappresentanti della sinistra”. La trovata è stata di iniziare subito il dialogo, (ma anche la zuffa va bene, l’importante è partecipare al gioco) sulle singole parti, innovazioni, trovate e articoli del progetto di legge Berlusconi-Ghedini-Alfano. Qui l’importante è di impedire che si manchi di rispetto al grandioso evento che cambierà la vita italiana, e che tutti, anche gli avversari, prendano sul serio la prova di forza (e di vittoria) che sta per attraversare come una valanga non resistibile il Parlamento mercenario che oggi decide a nome della Repubblica italiana.
MERITA UNA riflessione la possibilità che i Radicali eletti nel Pd, alla Camera e al Senato, accettino di lavorare alla riforma della Giustizia secondo Berlusconi. Penso che sia un errore, che però è coerente con tutte le cose dette e fatte dal partito di Pannella e Bonino (condivise o no dai compagni di strada dei Radicali in tutti questi anni). Infatti i Radicali, che si battono da decenni per una loro riforma della Giustizia (molto prima del 1994, anno che l’uomo di Arcore indica come data di nascita del suo progetto) vedono Berlusconi accostarsi al loro percorso e non viceversa.
Io non accetterei monete da un falsario, persino se sembrano identiche a quelle vere, e credo che a un certo punto scatterà la ben nota intransigenza di quel gruppo politico, e ci sarà una netta rottura, come è accaduto in passato. O almeno lo spero.
Meno facile è mobilitare contro Berlusconi le piazze, le donne, la raccolta di firme, una platea vasta e diversa, come sono gli elettori e I cittadini vicini al Pd, per poi chiedergli all’improvviso di rassegnarsi a discutere di giustizia “insieme”, mentre cominciano, a uno a uno, i processi a carico del grande timoniere della giustizia italiana. E infine, eventualmente, tornare in piazza e poi mobilitarsi per votare contro.
Propongo dunque le dieci ragioni da offrire al Pd per non partecipare in alcun modo alla riforma della Giustizia Berlusconi-Ghedini-Alfano.
1) La riforma nasce come “punizione” e come “vendetta”, e come tale viene annunciata. Anzi è stata rilanciata di colpo dopo l’incriminazione del premier per l’affare Ruby (concussione e prostituzione minorile);
2) Le imputazioni contestate al capo del governo italiano sono troppo gravi, anche come simbolo e immagine del Paese nel mondo, per poter intrattenere una discussione “insieme” sui problemi della giustizia e dei giudici;
3) Berlusconi ha invocato come ragione fondante della sua riforma la vicenda di “Mani Pulite”, il maggior evento di lotta contro la corruzione in Italia. Con la sua nuova legge - promette - la lotta giudiziaria alla corruzione non potrà mai più verificarsi in Italia;
4) Berlusconi è stato coinvolto, in accertate vicende giudiziarie (alcune ancora in corso) nel reato di corruzione di giudici. In altre parole, ha pagato e comprato giudici. Il suo partito-azienda, i suoi avvocati-deputati e lui stesso non possono accostarsi all’argomento “giustizia” e “riforma della Giustizia”, senza suscitare, sospetto e discredito;
5) La maggioranza di cui Berlusconi dispone è una maggioranza in parte comprata. La mancanza di “vincolo di mandato”, indicato dalla Costituzione, non sana questo grave aspetto o sospetto di corruzione. Meno che mai in una legge che riforma vita e attività dei giudici;
6) Berlusconi, personal-mente e attraverso il suo Giornale, ha definito i giudici “un cancro”, “un gruppo eversivo”, una “associazione a delinquere”, una aggregazione di poveri matti. Ci si può associare?;
7) Nell’annunciare che la legge costituzionale di riforma della Giustizia era sul punto di essere presentata in Parlamento, Berlusconi ha detto, riferendosi alla sua “persecuzione: “Così questa storia indegna finirà per sempre”. In tal modo e intenzionalmente, ha voluto rendere chiara per tutti la natura della nuova legge costituzionale: non renderà mai più possibile l’incriminazione dei potenti;
8) È evidente, ripetuta e vistosa la intenzione del premier e dei suoi avvocati di sterilizzare uno dei tre poteri su cui si fonda lo Stato democratico, il potere giudiziario, dopo avere ottenuto il controllo del Parlamento attraverso una poderosa e sfacciata campagna acquisti, e avere stabilito un record di ore di presenza su tutte le reti televisive, di Stato e private, e mentre sono in corso attività finanziarie per alterare gli equilibri di potere in uno dei due maggiori quotidiani italiani ancora indipendenti;
9) Berlusconi ha bisogno di complici. L’Italia è oggetto di scrutinio attento da parte delle democrazie e dell’opinione pubblica democratica del mondo. Una legge che riformi drasticamente il sistema giudiziario italiano, sotto bandiera Berlusconi, sarebbe guardata, fuori dall’Italia, con il sospetto che merita. È indispensabile per lui e i suoi avvocati, avere ben più che i “responsabili” a tariffa che hanno abbandonato altri partiti per offrirgli reputazione, lealtà e voto. Ora occorrono complici che siano la prova della buona fede di questa avventura;
10) La legge di riforma costituzionale della Giustizia non può arrivare sul tavolo del capo dello Stato senza i nomi e le firme di almeno una parte della opposizione e, soprattutto, di una parte del Pd in funzione di garanzia notarile.
Ecco dove il Pd si presenta al Paese come una opposizione invalicabile oppure come il complice necessario di Berlusconi. La campagna elettorale che ci sarà subito dopo si decide qui.
Non si dialoga con chi insulta i giudici
di Giovanni Maria Bellu *
"La sovranità in Italia è passata dal Parlamento al partito dei giudici". (Bonn, 10 dicembre 2009). “Ci sarebbe da chiedere una commissione parlamentare che dica se, come credo io, c’è un’associazione a delinquere nella magistratura.” (29 settembre 2010, dopo la festa per il 74° compleanno). "E’ una vergogna, ormai siamo una Repubblica giudiziaria commissariata dalle procure" (Bruxelles, 2 febbraio 2011).
Sono solo alcuni tra i più recenti attacchi lanciati contro la magistratura dallo stesso presidente del Consiglio che ha appena varato la riforma "epocale" della giustizia. Quale sia lo scopo, l’abbiamo già scritto: creare un gigantesco alibi preventivo in caso di condanna per il caso Ruby. Già i maggiordomi mediatici stanno preparando il terreno alla tesi dell’eventuale condanna (per prostituzione minorile!) come ritorsione. E d’altra parte Berlusconi, nel suo protervo candore, ha immediatamente confermato quel che l’ha animato nel sostenere con tanto accanimento la riforma "epocale": il desiderio di vendicare l’Italia da Tangentopoli. E di umiliare i pubblici ministeri. Sul punto è stato esplicito: "Il pm - ha detto - per parlare con il giudice dovrà fissare l’appuntamento e battere con il cappello in mano e possibilmente dargli del lei".
L’allarmante novità è che - nonostante le parole chiarissime dette dai vertici del Pd e dell’Idv - in alcuni settori dell’opposizione stanno riemergendo i “dialoganti”, che sono in sostanza l’ala sinistra del vasto movimento dei "cerchiobottisti". Quelli che dicono: “Stiamo a vedere, sentiamo, può darsi che si tratti di una buona riforma”.
A parte il fatto che è una pessima riforma, e che i principali destinatari, i giudici, l’hanno subito qualificata come tale, credono davvero i “dialoganti” che una riforma tanto delicata per il Paese (e certo meno urgente di tante altre) possa essere fatta con un personaggio che da anni insulta la magistratura? E che lo fa dalla posizione dell’indagato e dell’imputato di fatti gravissimi? Non hanno il dubbio che questa riforma sia entrata nell’agenda politica solo perché il premier è nei guai?
E’ in atto un tentativo di rilancio dell’’idea secondo cui l’essere antiberlusconiani è una forma di “fanatismo giustizialista” e non, come dovrebbe essere ormai evidente, una banale norma di igiene civile. E’ l’idea in base alla quale prima di definire "regime" una struttura di potere che corrompe la politica, si dovrebbe attendere di essere incarcerati o mandati in esilio. L’aspetto più triste è che queste posizioni tornano a galla proprio mentre si consolida la convinzione che il governo Berlusconi-Scilipoti protrarrà l’agonia un po’ più del previsto. Che pena.
* l’Unità, 09 marzo 2011
Inadatto al compito
di Concita De Gregorio (l’Unità, 10 marzo 2011)
In dissenso con un buon numero di opinioni lette ieri su giornali di destra di sinistra e di centro - opinioni argomentate, ironiche, pensosissime o sagaci - vorrei spiegare qui in modo chiaro perché ritengo che nessuna riforma della giustizia si possa e si debba discutere con questo governo. Lo dirò in pochissime parole, credo che bastino: non si riforma la giustizia con chi è imputato. Sarebbe certamente urgente e necessario mettersi al lavoro per rendere la giustizia più efficace, per dare più strumenti a chi la amministra. Purtroppo, però, non siamo in condizioni di farlo per via del fatto che il Presidente del Consiglio si trova in questo momento sotto processo come lo è stato innumerevoli volte in passato, quasi senza soluzione di continuità, quasi che la sua passione per la politica fosse in qualche modo collegabile alla sua esigenza di mettersi in salvo dalle conseguenze dei suoi gesti. Quasi che.
Non ci si siede ad un tavolo a discutere di giustizia se dall’altra parte del tavolo c’è qualcuno che con ogni mezzo si sottrae alla giustizia stessa: non è, come posso dire, un interlocutore all’altezza del compito. C’è un conflitto di interesse endemico: il suo interesse ad avere una giustizia che gli convenga confligge a priori, per il solo fatto di esistere, con l’interesse collettivo. Non c’è bisogno di entrare nel merito, anzi non lo si può fare.
Allo stesso modo non si discute di riassetto del sistema radiotelevisivo con chi ne detiene il monopolio, errore già occorso in passato e dal quale evidentemente non si è tratto alcun insegnamento. Semplicemente: si impedisce a chi detiene il monopolio del sistema radiotelevisivo di governare. Poi eventualmente, se costui preferisce fare politica al fare miliardi per la sua famiglia con le sue aziende, allora cede realmente le sue tv, si candida e corre con gli stessi mezzi economici e mediatici degli altri, se eletto diventa un valido interlocutore per discutere persino di tv. O di giustizia, o di scuola, o di impresa.
Se così non fosse - se questo non fosse un principio fondativo delle democrazie rappresentative - a capo dei governi dei paesi occidentali ci sarebbero gli uomini più ricchi dei medesimi paesi, i Murdoch e i Bill Gates, i signori dei colossi informativi sarebbero tutti presidenti e i miliardari corruttori (ce ne sono a tutte le latitudini) anzichè rispondere delle loro malefatte sarebbero tutti lì a riformare i sistemi-giustizia a loro misura. Possiamo dunque annoverare l’esigenza di una vera e rapida riforma del processo fra le ragioni che dovrebbero determinare le dimissioni di Berlusconi e il rapido ricorso alle urne. Non succederà, perché dopo aver permesso che l’uomo col più straordinario potere mediatico ed economico del paese si candidasse alla guida del medesimo non possiamo ora aspettarci che divenga ragionevole, acceda alla causa comune, si interessi al bene di tutti e non pretenda, come deve sembrargli ovvio, di continuare ad occuparsi del suo.
Conflitto tra i poteri dello Stato
di Carlo Federico Grosso (La Stampa, 10.03.2011)
Oggi il Consiglio dei ministri dovrebbe varare la riforma costituzionale della giustizia. Una riforma «epocale», l’ha definita qualche giorno fa il presidente del Consiglio.
Se il Parlamento, a chiusura del lungo iter parlamentare previsto, dovesse davvero approvarla, la giustizia italiana non sarebbe, in effetti, più la stessa. Cambierebbe pelle, caratura, peso, incisività, colore. Sarebbe una giustizia del tutto diversa rispetto a quella che conosciamo.
I punti salienti della riforma dovrebbero essere, stando alle indiscrezioni, la separazione delle carriere, la spaccatura in due del Csm, l’istituzione di una «Alta corte di giustizia» destinata a gestire la disciplina dei magistrati, un diverso livello d’indipendenza a seconda che si tratti di giudici o di pubblici ministeri.
L’ elenco prosegue con la limitazione dell’obbligatorietà dell’azione penale (che diventerebbe esercitabile «secondo le priorità stabilite da una legge» votata ogni anno dal Parlamento), la polizia giudiziaria autonoma dal pubblico ministero, l’introduzione della responsabilità civile dei magistrati che sbagliano.
Ebbene, nel suo insieme questo complesso di innovazioni determinerebbe una profonda alterazione del rapporto oggi esistente fra i poteri dello Stato. L’idea liberale di una magistratura destinata ad esercitare in modo indipendente il controllo di legalità sull’attività dei cittadini, soggetta soltanto al rispetto della legge, cederebbe il passo all’idea di una magistratura condizionata dal potere politico, ed in particolare dal potere esecutivo. Si realizzerebbe in modo traumatico, e fortemente limitativo delle prerogative della giurisdizione, quel «riequilibrio» fra i poteri che viene da tempo vagheggiato da una parte consistente della nostra classe politica.
Soprattutto, una riforma così configurata rischierebbe d’incidere profondamente sull’autonomia delle Procure della Repubblica e, pertanto, sull’esercizio dell’azione penale da parte dell’ordine giudiziario. Pensate: il pubblico ministero, secondo quanto si prefigurerebbe, non farebbe più parte di un «ordine autonomo ed indipendente da ogni altro potere dello Stato», ma costituirebbe, più semplicemente, un «ufficio» al quale la legge «assicura l’indipendenza»; esso non sarebbe più il protagonista delle indagini, ma dovrebbe sottostare alle iniziative ed alle valutazioni di una polizia giudiziaria resa autonoma dal suo ufficio e gerarchicamente dipendente dal governo; esso non sarebbe più libero di scegliere le priorità nelle indagini penali, ma dovrebbe comunque sottostare alle priorità dettate dal Parlamento.
Si consideri, d’altronde, la profonda modificazione che subirebbe il principio di indipendenza dell’ordine giudiziario, considerato a ragione cardine dello Stato di diritto. Oggi il principio d’indipendenza della magistratura è formulato in maniera piena dalla Costituzione, che stabilisce che «la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere», e prevede, a presidio concreto di questo enunciato, un Csm forte ed autorevole, presieduto dal Capo dello Stato. Domani, se la riforma avviata dal governo dovesse essere approvata, s’indebolirebbe il principio generale d’indipendenza (riconoscendo la funzione di potere dello Stato autonomo dagli altri poteri soltanto alla magistratura giudicante), e, soprattutto, si vanificherebbe il presidio concreto dell’indipendenza dell’ordine giudiziario costituito dal sistema di autogoverno della magistratura.
Dividere, spaccare, significa già di per sé indebolire. S’ipotizza, peraltro, non soltanto di dividere in due il Csm, ma, altresì, di privarlo dei suoi poteri più nobili e incisivi, attraverso i quali esso ha potuto, negli anni, costituire uno strumento di tutela efficace dei singoli magistrati e della magistratura nel suo insieme ed essere voce autorevole dell’ordine giudiziario, riducendolo, nei fatti, a mera istituzione burocratica per la gestione dei trasferimenti e delle promozioni dei magistrati. Davvero una iniziativa utile per il Paese?
C’è un ulteriore profilo che, su tutt’altro piano, preoccupa. Si prevede che i due Csm siano modificati nella loro composizione, con incremento dei componenti laici di designazione politica, si prevede di istituire una «Alta corte di giustizia» anch’essa a maggioranza «laica», si prevede di introdurre la responsabilità civile dei magistrati che sbagliano. Talune di queste innovazioni di per sé potrebbero anche essere apprezzate. Non c’è tuttavia il rischio che esse, ancora una volta considerate nel loro insieme, e sommate alle altre novità proposte, realizzino, nei fatti, una intimidazione destinata a rendere i magistrati timorosi, e pertanto più timidi nel perseguire i reati e i loro autori?
Tutti riteniamo che la giustizia italiana oggi non funzioni come dovrebbe e che sia pressante l’esigenza di una riforma in grado di restituirle efficienza, rapidità e credibilità. Per soddisfare questa esigenza prioritaria servono peraltro incisive modificazioni dei codici e della legislazione ordinaria. Non serve sicuramente l’azzardo di una modifica dei principi costituzionali.
L’avanzata dei responsabili tra paradosso e spudoratezza
di Ermanno Rea (la Repubblica, 7 marzo 2011)
Che in Italia la responsabilità sia una merce piuttosto rara è cosa nota: me lo insegnò già al ginnasio un originale professore di storia che mi diede da leggere una sintesi delle famose tesi di Lutero: impara, ragazzo, impara. Siamo uno strano paese, sempre in bilico tra paradosso e spudoratezza. Oggi si autodefiniscono «responsabili» quei parlamentari, transfughi da varie formazioni politiche, che sono corsi a puntellare il traballante baraccone governativo. Naturalmente, dicono, in maniera del tutto disinteressata, animati da genuino amore per il premier calunniato, insomma senza alcuna ricompensa, in cambio di nulla.
Siamo sinceri: che gli onorevoli in questione affermino amenità simili, e si costituiscano ufficialmente in «gruppo dei responsabili», ci può anche stare: chi dirà mai che si è lasciato sedurre da qualche succosa promessa politica (per esempio dalla riconferma sicura del mandato parlamentare in caso di elezioni) o addirittura da un bel gruzzolo di contanti (mai lasciare tracce bancarie)? Allarmante invece è il fatto che il titolo di «responsabili», sempre meno velato d’ironia, sia riuscito ad affermarsi nel comune gergo televisivo e giornalistico, per cui Tizio e Caio, come che sia, sono dei «responsabili»; piaccia o no, incarnano una delle massime virtù civili e politiche e perciò sono esempi da imitare. Prendiamo Scilipoti. Nei telegiornali è decisamente un «responsabile». Lo stesso accade a Razzi e a Galearo: fanno parte dell’«area dei responsabili», insomma sono la quintessenza della «responsabilità», senza scherzi. La gente ascolta: qualcuno se la ride ma altri ci credono.
Ricordo lo splendido verso di J. Ramòn Jimenez: «Intelligenza, dammi il nome esatto delle cose». Fino a qualche tempo fa conoscevamo ancora il significato delle parole, almeno in parte. Poi, lentamente, esso è come evaporato, si è fatto via via più ambiguo, fino a inglobare il suo stesso contrario, equiparando per esempio «responsabilità» e «irresponsabilità», o per lo meno oscurando i loro confini agli occhi dei più.
Naturalmente la corruzione del linguaggio è soltanto la spia della corruzione generale. Accade anche fuori d’Italia? Forse. Non però in maniera così incisiva, così spudorata. Chi altri sa mentire come noi? Chi altri sa negare l’evidenza con altrettanto trasporto? Prendiamo Berlusconi. È un autentico maestro in questo campo. Alla maniera di un famoso personaggio femminile di Stendhal che, scoperta dall’amante attraverso il buco della serratura tra le braccia di un altro uomo, smentisce l’adulterio con delirante fatuità (ma come, voi credete più ai vostri occhi che alle mie parole?) egli pretende un credito assoluto, anzi cieco, quale che sia la balla che propina.
Si dirà: ma da dove saltano fuori simili personaggi? Possibile che siano soltanto frutti di stagione senza progeniture culturali? Senza precedenti storici? Forse è arrivato il momento che tutti noi italiani cominciamo a interrogarci più seriamente sul nostro passato e sulle nostre perverse eredità, scoprendo che cosa significa veramente la parola «responsabilità». E scoprendo anche che la propria coscienza - perfino quella di un politico corrotto - vale forse qualcosa di più di centocinquantamila euro che, a ben pensarci, è cifra alquanto modesta, soprattutto per chi, in quanto parlamentare, gode di un reddito più che rispettabile. Dio, che paese di straccioni perfino nella corruzione! Ma siamo caduti veramente così in basso?
IL FATTO
Pd: "Berlusconi se ne deve andare"
A Palazzo Chigi i 10 milioni di firme
"Firme che si tramuteranno in voti" annuncia Rosy Bindi dal palco in piazza di Pietra a Roma, prima di guidare una delegazione di donne del partito con il primo scatolone per la consegna. Bersani: "Mai stato facile raccoglierle con tanto entusiasmo". Ricevute da Gianni Letta, che ha replicato: "Non credo che il premier seguirà il consiglio" *
ROMA - "Promessa mantenuta". Sull’onda del rinvio a giudizio del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi per il caso Ruby, il Partito democratico aveva annunciato la raccolta di 10 milioni di firme per chiedere le dimissioni del capo del governo. Coincidenza o colpo di teatro, le firme vengono recapitate a Palazzo Chigi proprio l’8 marzo, giorno della donna, la vera "parte lesa" nella vicenda Ruby.
Senza soffermarsi su qualche polemica - vedi la campagna dei giornali berlusconiani sulle sigle false via internet - il Pd accompagna la consegna a Palazzo Chigi degli scatoloni contente i registri autografati con una manifestazione a piazza di Pietra, a Roma, sul palco la grande scritta "Oltre Arcore c’è la dignità dell’Italia". E con un’altra promessa: "Silvio Berlusconi deve andare a casa". Oggi con le firme, domani con il voto.
Così riassume il nuovo impegno Rosy Bindi, presidente dell’assemblea nazionale del Pd: "Oggi ci sono 10 milioni di firme, domani saranno voti. Alle amministrative ne avremo molti di più che 10 milioni. Del resto Berlusconi dovrebbe essere già andato a casa. E se ancora non c’è andato ce lo manderemo, perché oltre a non saper guidare il Paese ha anche violato la dignità della donna". Per la vicepresidente della Camera "non è possibile che in Germania un ministro si dimetta perché ha copiato la tesi di laurea, mentre Berlusconi stia ancora al governo nonostante sia accusato di prostituzione minorile".
Gli scatoloni sono 120, stipati due furgoni e tre Apecar, colorati di rosso, bianco e verde. Si tratta del primo carico, 5 milioni di firme. La consegna al governo viene fatta simbolicamente con un solo scatolone, portato da una delegazione di donne del partito guidata dalla stessa Bindi. Che è stata ricevuta per l’occasione a Palazzo Chigi da Gianni Letta. Al sottosegretario la presidente del Pd ha consegnato anche un biglietto del segretario del suo partito Bersani.
Letta: "Non so se il premier seguirà l’invito". Rosi Bindi racconta il colloquio con il sottosegretario alla presidenza del Consiglio: "Gianni Letta ci ha detto che non sa se Berlusconi ascolterà il nostro invito ma noi gli abbiamo detto che sappiamo che non è tipo disponibile alle dimissioni. Noi vogliamo che si convincano tutti gli italiani". Oltre alle firme - ha detto Bindi - abbiamo consegnato il libro nero delle cose fatte dal governo per le donne e il nostro libro bianco di proposte. E un biglietto di auguri perchè noi vogliamo una sana battaglia politica e quindi lo vogliamo in forma".
Bindi ha spiegato di "aver portato le firme" a Palazzo Chigi per consegnarle "nella sede istituzionale", quindi ha replicato alle obiezioni dei giornalisti: "Lo so che credete che non serva a nulla, ma anche se non si ottengono risultati immediati, le forze politiche non si possono rassegnare". Conclude Bindi: "Alle amministrative le firme per si trasformeranno in voti e saranno molte di più di 10 milioni"."
Bersani in piazza. "Oggi con queste milionate di firme che abbiamo presentato, siamo certi di avere raggiunto l’obiettivo dei dieci milioni - ha detto Pier Luigi Bersani, durante la manifestazione -. Queste firme per le dimissioni sono il più bel regalo da fare all’Italia. Questa raccolta è stata una campagna straordinaria, mai è stato così facile ed entusiasmante raccogliere tante firme, con una straordinaria partecipazione della gente". Silvio Berlusconi "ci ha portato a pensare che la mercificazione della donna sia lo spazio della sua libertà - ha scandito Bersani - No, no, no. Bisogna reagire a questo veleno che rischia di distruggere gli anticorpi morali di questo Paese. Questo non è giustizialismo, ma civismo. E’ serietà nella conduzione della cosa pubblica, dignità della cosa pubblica". E infine: "Il premier dice di avere tenuta e resistenza. Ma noi ne abbiamo sempre un minuto di più. Arriva il momento che se ne andrà e noi da ogni circolo del Pd diremo, come fa Vasco Rossi: ’io sono ancora qua’".
Manifestazione nei pressi di palazzo Chigi. Bandiere del Pd, e cartelloni che inneggiano a una futura era "oltre Berlusconi". Così si presenta piazza Colonna nel giorno della consegna delle firme. Un fitto cordone di polizia e carabinieri ha bloccato i manifestanti, che fino a poco prima erano radunati in piazza di Pietra, oltre le transenne che sbarrano l’accesso a palazzo Chigi. Ma dalla folla si sentono cantare l’inno nazionale, e cori tipo "chi non salta Berlusconi é".
* la Repubblica, 08 marzo 2011
Davvero è tutta colpa di Rodari e don Milani?
di Giorgio Pecorini (il manifesto, 6 marzo 2011)
«Don Milani, che mascalzone!» proclamava su Repubblica del 30 giugno 1992 Sebastiano Vassalli. L’ottimo scrittore (51 anni allora) ricordava d’esser stato insegnante da giovane ma soprattutto fondava la propria sentenza sul giudizio che un professore e preside e ispettore ministeriale in pensione, Roberto Berardi, aveva espresso nel libriccino «Lettera a una professoressa: un mito degli anni Sessanta», edito da Shakespeare and Company.
Mascalzone il Milani, spiegava Vassalli, perché «maestro improvvisato e sbagliato manesco e autoritario». E autore con quella "Lettera" di «un libro bandiera più adatto a essere impugnato e mostrato nei cortei che a essere letto e meditato un atto di calcolata falsificazione della realtà e di violenta demagogia». Un libro, gli garantiva Berardi, inteso «con altre forze disgregatrici ad abbassare il livello della scuola dell’obbligo a danno dei ceti più indifesi, e a creare disordine anche nelle scuole superiori» mirando a obiettivi «ben più ideologici (in senso contestativo) che scolastici».
Passano 19 anni ed ecco Cesare Segre proclamare il 24 febbraio sul Corriere della Sera che lo sfascio della cultura e della scuola italiane «è conseguenza anche della pedagogia di don Milani e Gianni Rodari», responsabile di una «didattica facile che ha cancellato la capacità di studiare».
L’illustre accademico fonda la propria sentenza nell’ultimo libro di Paola Mastrocola, appena pubblicato da Guanda: «Saggio sulla libertà di non studiare». E tanto gli piace che recensendolo vi si identifica fino a condividerne, addirittura radicalizzandola, la diagnosi sul come e perché in Italia lo studio sia «compromesso e svuotato»: «Il suo bersaglio polemico è la didattica di don Milani e di Rodari, che comunque diedero un appoggio, autorevolissimo, a tendenze già in atto. Don Milani predicò contro il babau del nozionismo svalutando il concetto di nozione come conoscenza» sino a frenare l’aspirazione dei propri allievi alla liberazione dai «lavori contadini» per tenerli vincolati al territorio e bloccare in loro «qualunque aspirazione al miglioramento mentale ma anche economico».
Quanto a Gianni Rodari, Mastrocola scopre e Segre conferma, «promuoveva la trasformazione dell’insegnamento in gioco, la vittoria della fiaba sulla razionalità e sulla storia. L’aula scolastica si trasformava in palcoscenico o in laboratorio, e gli scolari, distolti dallo studio, mettevano allegramente in gara la loro pretesa inventività». È così che entrambi spingono i nostri poveri ragazzi «ad aderire all’internazionale dell’ignoranza».
E qui chi abbia anche soltanto un minimo di conoscenza diretta e onesta di quel che Milani e Rodari hanno fatto detto e scritto nelle loro vite non sa se più indignarsi o dolersi. Ma è davvero possibile che persone acculturate, investite di così alta responsabilità sociale quale l’insegnamento, non possano leggere senza pregiudizi e paraocchi? Non riescano a vedere le diverse, anche contradditorie realtà dell’esistenza fuori dall’aula in cui lavorano?
Verrebbe voglia di domandare che cosa sanno davvero e che cosa pensano delle ricerche e delle sperimentazioni del Movimento di cooperazione educativa e del lavoro di insegnanti tipo Mario Lodi, Bruno Ciari, Margherita Zoebeli in cui s’incarnano quelle «tendenze già in atto» che Segre denuncia oggi come rovina del nostro sistema educativo e che nel ’92 Berardi chiamava «forze disgregatrici».
Mi contento di trascrivere, a nostro personale conforto, due frasi brevi: «La scuola - spiega Milani nella "Lettera ai giudici" - siede fra il passato e il futuro e deve averli presenti entrambi. È l’arte delicata di condurre i ragazzi su un filo di rasoio: da un lato formare il loro senso della legalità, dall’altro la volontà di leggi migliori cioè il loro senso politico».
E Rodari, recensendo "Lettera a una professoressa" quasi con le stesse parole di Pasolini in una famosa intervista: «Un libro urtante, senza peli sulla lingua, spara a zero in tutte le direzioni, non risparmia nessuno. Di una sincerità a volte brutale, di una ingenerosità scostante. Con tutto ciò il più bel libro che sia mai stato scritto sulla scuola italiana. Da quel libro abbiamo tutti da imparare: maestri, genitori, professori, giornalisti, uomini politici».
Mi torna alla mente, a questo punto, l’immagine suggeritami 19 anni fa dell’accoppiata Berardi-Vassallo: quella dei ciechi del famoso quadro di Bruegel che tenendosi permano finiscono insieme nel precipizio. A loro si attaccano ora Mastrocola e Segre: il trenino s’allunga in un bunga-bunga pedagogico!
Il popolo del tiranno
di Moni Ovadia (l’Unità, 5 marzo 2011)
I tiranni da sempre, per autolegittimarsi, fanno riferimento al popolo. L’idea di popolo di cui parlano è il parto di un apparato concettuale demagogico e primitivo menzognero, privo di una visione articolata e contraddittoria della realtà che permetta di cogliere le complesse e molteplici verità di un corpo sociale. Non poteva fare eccezione il rais Gheddafi, che nel momento in cui il suo Paese è in rivolta, arringa i suoi sostenitori proclamando la falsa verità che il popolo è con lui.
Mutatis mutandis, anche il rais di Arcore, l’aspirante sultano Berlusconi Primo, si muove nel quadro di questa pseudo logica facendo costante e ossessivo riferimento al popolo. Non fa che ripetere di essere stato eletto dal popolo. Falso! Falso sia sul piano della legge costituzionale, sia sul piano della verità concreta. La coalizione di partiti che vince le elezioni e che solitamente indica il suo leader come presidente del consiglio è stata scelta al massimo dalla maggioranza degli elettori e talora neppure da quella esigua maggioranza, ma in base alle virtù di leggi elettorali ad personam o ad “coalitionem”.
E la risicata maggioranza elettorale che si forma nelle democrazie occidentali non corrisponde per niente alla maggioranza del popolo, se si considerano anche i cittadini elettori che scelgono di non votare. Proprio per questo l’articolo primo della nostra magnifica Costituzione recita: «L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione».
Dunque la sovranità del popolo è sottoposta alla sovranità del dettato costituzionale proprio perché il popolo è composto da maggioranza elettorale, da minoranza elettorale e da corpo dei non votanti e dei non aventi diritto al voto. Il popolo come lo intende Berlusconi esiste solo nella testa dei tiranni e dei demagoghi come lui.
di Filippo Di Giacomo (l’Unità, 3 marzo 2011=
Stanno per iniziare le celebrazioni del centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia. Partiranno il 16 sera con una “notte tricolore” e, giovedì 17 marzo, con una messa nella “parrocchia nazionale”, la basilica di S. Maria degli Angeli a Roma. Per la prima iniziativa, Alberto Melloni sta chiedendo agli amici che fanno comunicazione di informare i sindaci che sul sito www.fscire.it/150 c’è un racconto video storico, (intitolato «L’unità degli italiani») con immagini (dagli archivi Luce e Rai) e musiche eseguite appositamente per tingere con i colori nazionali la notte d’inizio feste.
Invece è stato Giorgio Napolitano, anche lui invitato insieme alle più alte cariche dello Stato alla cerimonia religiosa, ad annunciare che alle celebrazioni nazionali si sarebbe unito, «in un certo qual modo», anche Benedetto XVI. Salvo errori, è la prima vota che un Presidente della Repubblica annuncia un intervento pontificio. E anche questo, probabilmente è un messaggio indirizzato ai cattolici italiani. La Conferenza Episcopale Italiana, d’altronde, era stata la prima istituzione nazionale ad esprimere una «convinta e responsabile partecipazione della Comunità ecclesiale a tale evento, in spirito di leale collaborazione per la promozione dell’uomo e il bene del Paese».
I cattolici, anche a distanza di centocinquant’anni, hanno buone ragioni per ringraziare l’Unità d’Italia. Come ricordano gli storici più avvertiti, il Risorgimento ha restituito alla Chiesa il pieno diritto, e la piena libertà, di scegliere i propri vescovi. Un diritto che il giurisdizionalismo seisettecentesco aveva (specie nei Paesi cattolici) posto nelle mani dei governanti statali. L’acuirsi poi della “questione romana”, dal 1850 al 1900, ha fatto nascere in Italia ben 127 nuove congregazioni religiose. E ha arricchito il “movimento cattolico“ post-unitario del nostro Paese di strumenti utili per partecipare da protagonista alla modernizzazione dell’Italia. Don Murialdo e don Bosco a Torino, don Pavoni a Brescia e i tanti altri attivi nell’intera Penisola e nelle isole maggiori, fino a don Guanella (che sarà canonizzato proprio in quest’anno, durante il centocinquantesimo nazionale), monsignor Scalabrini, don Vanto, don Orione sono stati anche le risposte che la Chiesa italiana ha dato alle trasformazioni via via più profonde della società derivate dallo sviluppo economico, dal processo di industrializzazione, dai nuovi rapporti di classe, dalle trasformazioni nel mondo del lavoro, dal mutare dei rapporti fra mondo rurale e città, dall’urbanesimo....
Che tutto ciò venga ricordato dal Presidente della Repubblica, va notato e apprezzato. Perché in un Paese dove la storia - e le storie personali - vengono gettate come fardello su ogni presunto nemico, Giorgio Napolitano cerca di riportarci verso l’astrazione, cioè verso ambiti in cui non esiste alcuna dipendenza né dal contingente né dalla cronaca. Tra i cattolici, Napolitano è percepito come espressione di una possibile coerenza tra le regole e i comportamenti quotidiani (dai rom all’incontro con la famiglia Calabresi, alle morti bianche...). E questa percezione è tanto più forte quanto ostinata e tenace appare la volontà - tra i cattolici della politica - di teorizzare e praticare una netta differenza tra quanto si dice di credere e quanto, in privato, si sceglie di vivere.
Alla luce del pensiero di Papa Benedetto XVI, Giorgio Napolitano risulta per i cattolici, molto “attrattivo” perché testimonia la volontà di ricominciare dai principi. Anche dai cattolici, non è vissuto né come vecchio né come giovane, ma come un giusto, identificabile con l’incarnazione di quelle regole che rappresentano un “bene comune” sempre attuale, da difendere e da valorizzare. Perciò, a differenza forse di Sandro Pertini, non è visto come il “nonno d’Italia” ma è identificato con il simbolo dell’istituzione-Repubblica, del principio fondativo che vuole ogni “res publica” basata sul rispetto delle regole comuni, sugli “assoluti dello Stato”, cioè sulla cartina di tornasole della laicità delle intenzioni e dei fini repubblicani.
Così Giorgio Napolitano, di fronte ai tanti che si dicono cattolici nelle intenzioni e latitanti nelle applicazioni, viene percepito dai cattolici come garanzia perché i cristiani presenti trasversalmente in tutti i partiti, qualora lo volessero, possano operare concordemente a partire dalla propria responsabilità politica, e persino al di là degli stessi confini partitici, nelle questioni essenziali della politica. In un momento in cui rischiamo di allontanare ogniconsenso politico sulle grandi questioni etiche, che ci sia un presidente che ricordi che le leggi si fanno proponendo cose concrete e sincere, e non vantando frequentazioni altolocate, è una garanzia.
Dalla cattedra al cortile
di Piero Stefani (Il pensiero della settimana, 26 febbraio 2011)
Una delle intuizioni più profonde del card. Martini fu di istituire la «cattedra dei non credenti». L’esempio di Milano fu imitato da molti, in modi non sempre felici. Invero, nel succedersi delle edizioni, anche nella diocesi ambrosiana l’iniziativa perse progressivamente di smalto. Assunse, infatti, più l’aspetto di «liturgia culturale» che di vero e proprio confronto. Ciò non toglie la geniale originalità dell’iniziativa.
Il suo fulcro era ben espresso dal titolo scelto. Un vescovo, a cui spetta, per definizione, la cattedra, dava voce a insegnamenti che provengono dall’esterno e giungono fino all’interno. Per comprenderlo occorre aver a mente che l’impostazione degli incontri non si concentrava sul confronto tra persone dotate o sprovviste di fede. Questo aspetto non era escluso, ma non era il più significativo.
La qualifica di «non credente» è spesso riduttiva o addirittura impropria, dominata com’è da una pura negazione. Nella «cattedra» era invece propria; e lo era perché il senso più autentico della proposta stava nell’affermare che le ragioni più serie della non credenza venivano considerate una forma di interlocuzione, esterna e interna, indispensabile perché ci fosse una fede matura. Analogamente la testimonianza di un credente pensoso non era avvertita priva di significato da parte di chi, in virtù della sua riflessione e della sua coscienza, era indotto a negare l’esistenza di una realtà trascendente o, quanto meno, nutriva dubbi al suo riguardo.
Si comprende, allora, sia perché Martini parlasse del dialogo con il non credente che è in noi, sia perché dichiarasse che la vera distinzione non era quella che sussiste tra credenti e non credenti, ma quella che divide le persone pensanti dai non pensanti. Si potrebbe tentare una sintesi: le persone pensanti sono coloro che danno spazio dentro di sé alle ragioni dell’«altro»; lo fanno non per consegnarsi all’incertezza, ma per render più mature le proprie convinzioni. Ciò avviene solo nel caso in cui il confronto sia sincero e alieno tanto da interessi di parte quanto da convenienze reciproche; condizioni queste ultime ormai estremamente rare.
In luogo della «cattedra dei non credenti», la Chiesa universale ora lancia un’iniziativa chiamata «cortile dei gentili». Affidata al Pontificio Consiglio della Cultura (prefetto card. Ravasi), il «cortile» è stato preinaugurato un paio di settimane fa a Bologna; mentre l’avvio ufficiale avverrà a Parigi verso fine marzo.
La scelta dell’espressione è stata spiegata da Benedetto XVI nel suo discorso tenuto alla Curia romana a fine 2009. Si prendono le mosse dal fatto che, sentendo parlare di «nuova evangelizzazione», persone agnostiche o atee (le quali «devono stare a cuore a noi come credenti») forse si spaventano. Tuttavia in loro rimane presente la questione Dio. Come primo passo dell’evangelizzazione bisogna perciò tener desta la loro ricerca di Dio. A tal proposito, aggiunge Ratzinger, vengono in mente le parole di Gesù che, sulla scorta di Isaia, presentano il tempio di Gerusalemme come casa di preghiera per tutti i popoli (Mc 11,17; Is 56,7).
Gesù pensava «al cosiddetto cortile dei gentili, che sgomberò da affari esteriori perché ci fosse lo spazio per i gentili che lì volevano pregare l’unico Dio, anche se non potevano prender parte al mistero, al cui servizio era riservato l’interno del tempio». Si pensava cioè a persone che conoscono Dio solo da lontano: «che desiderano il Puro e il Grande anche se Dio rimane per loro il “Dio ignoto” (cfr. At 17,23)». «Io penso che la Chiesa dovrebbe anche oggi aprire una sorte di “cortile dei gentili” dove gli uomini possano in una qualche maniera agganciarsi a Dio, senza conoscerlo e prima che abbiano trovato l’accesso al suo mistero, al cui servizio sta la vita interna della Chiesa. Al dialogo con le religioni deve oggi aggiungersi il dialogo con coloro per i quali la religione è una cosa estranea, ai quali Dio è sconosciuto e che, tuttavia, non vorrebbero rimanere semplicemente senza Dio, ma avvicinarlo almeno come Sconosciuto».
È noto che l’esegesi biblica non ha alcun peso nei documenti ufficiali della «Chiesa docente», perciò non val
la pena di impegnarsi a mostrare quanto sia inesatta l’interpretazione del passo evangelico qui proposta. Il
punto serio è altrove; esso sta nel fatto che, in questa immagine, la Chiesa prende il posto del tempio (e di
Israele). La sua cura e generosità sono però tali da aprire una dependance in cui è concessa ospitalità ad
alcuni incerti ricercatori di Dio. Nel suo interno, la Chiesa celebra il mistero e nessuna crepa solca il suo
levigato seno. In questa prospettiva sarebbe un vero e proprio ossimoro parlare della parte non credente che è
in noi e sarebbe addirittura inconcepibile che le ragioni serie del dubbio e della negazione siano meritevoli di
ascolto al fine di liberare la propria fede da sovrastrutture improprie.
In realtà, però, a dover essere purificato
non è solo il cortile, è anche e soprattutto l’interno del tempio.
In definitiva, il «cortile» che si sta inaugurando presuppone un dialogo senza ascolto. A quanto si può immaginare (e l’impressione è confermata dalla prime avvisaglie), nessuno accederà a essa per mettersi in discussione; dichiaratamente non lo faranno mai i credenti (si può, dunque, già ipotizzare quale sarà la lista degli invitati). Se i fatti confuteranno queste previsioni, saremo ben lieti di ricrederci.
Del resto mettersi in discussione è difficile per tutti. Le drammatiche vicende libiche di queste ore dovrebbero indurre l’Italia a mobilitarsi (ma non ne vediamo tracce consistenti) e ad aprire un profondo ripensamento a proposito della sua storia (in Cirenaica Badoglio e Graziani non si comportarono meglio di quanto faccia Gheddafi nei suoi ultimi giorni di potere), del suo passato prossimo e dei suoi affari presenti. Sono considerazioni che non valgono per la Grecia, Cipro e Malta.
Questi ultimi giorni dimostrano, ancora una volta, che anche ottanta o settanta anni fa i governi e le società erano fatti di uomini esattamente come siamo noi che peraltro siamo, volenti o nolenti, molti più informati di allora. In Libia si compiono stragi e qui ci si preoccupa del prezzo del petrolio e della possibile invasione degli immigrati; mentre, quando si passa ad altro compartimento stagno, si riesce, per esempio, persino a scandalizzarci che alla fine degli anni trenta l’Inghilterra mandataria contingentasse l’immigrazione ebraica in Palestina.