Il Principe è un europeista
Machiavelli voleva un’Italia al passo con i grandi regni
di Sergio Romano (Corriere della Sera-La Lettura, 4.11.12)
Il mio incontro con Il Principe di Niccolò Machiavelli è legato a due libri. Il primo è una edizione in italiano e in inglese di grande formato, legata in pelle con fregi impressi a fuoco e lettere dorate. È stata stampata dalla Libreria del Littorio nel 1930 e contiene alcune interpretazioni del Principe, fra cui quella di Mussolini scritta per la sua rivista, «Gerarchia», nel 1924. La copertina ha sofferto, la pelle si sbriciola, l’oro delle lettere è sbiadito, ma il libro è sempre nella mia biblioteca con altre edizioni del Principe, fra cui una distribuita insieme alla rivista «Epoca» con la prefazione di Bettino Craxi e l’altra (Il Principe di Niccolò Machiavelli annotato da Napoleone) pubblicata, con una breve nota introduttiva di Silvio Berlusconi, da una casa editrice che porta il suo nome. (Incidentalmente le note di Napoleone sono un falso storico, uno dei molti apparsi in Francia dopo la morte dell’imperatore).
Il secondo libro invece si è perduto. Era un’edizione per i licei di un editore scolastico a cura di Daniele Mattalia, mio professore di storia e letteratura al Liceo Beccaria di Milano, la vecchia scuola dei Barnabiti dove aveva studiato e insegnato Carlo Cattaneo.
Furono le lezioni di Mattalia che crearono i miei primi dubbi. A chi dovevo credere?
Dovevo credere a coloro che acclamavano in Machiavelli l’inventore della politica moderna, l’uomo che aveva spiegato ai suoi contemporanei perché il governo dell’anima, nella prospettiva della salvezza eterna, e quello dello Stato siano categorie diverse? Dovevo essere orgoglioso di appartenere a un Paese dove vi erano contemporaneamente il vicario di Cristo e il teorico dello Stato moderno?
Oppure dovevo credere che Machiavelli avesse con grande scaltrezza smascherato il cinismo e la brutalità dei prìncipi per meglio suscitare i sentimenti repubblicani dei suoi connazionali?
Quando studiammo Foscolo, Mattalia attirò la nostra attenzione su un passaggio dei Sepolcri in cui Machiavelli è descritto come «quel grande/ che temprando lo scettro à regnatori/ gli allor ne sfronda, ed alle genti svela/ di che lagrime grondi e di che sangue»? Il cinico Machiavelli era dunque un fervente patriota?
Mi facevo altre domande. Dovevo credere al Machiavelli risorgimentale, profeta dell’unità d’Italia, quello che nelle ultime righe del Principe esorta il casato dei Medici a prendere la guida del Paese per liberarlo dal puzzo del barbaro dominio? O dovevo credere a quegli inglesi, studiati da Mario Praz, per cui Machiavelli era un diavolo incarnato, suggeritore di complotti, avvelenamenti e altre malefatte?
Nella sua incarnazione diabolica, prediletta dai britannici, Machiavelli appare agli inizi di un dramma di Christopher Marlowe intitolato L’ebreo di Malta, rappresentato sulle scene londinesi pochi anni prima del Giulio Cesare di Shakespeare, una tragedia in cui i temi machiavellici sono numerosi: come si conquista uno Stato, come lo si conserva, se sia meglio essere amati che temuti.
Secondo Praz, il personaggio del Giulio Cesare che il pubblico inglese avrebbe certamente considerato machiavellico è quello di Cassio, regista della congiura, l’uomo che Cesare, parlando con Marco Antonio, descrive così: «Ha lo sguardo di un uomo sparuto e affamato. Sorride raramente, e quando sorride lo fa come schernisse se stesso e disprezzasse il proprio spirito per avere ceduto alla tentazione di sorridere».
Credo che la chiave di cui il lettore ha bisogno per orientarsi fra tante interpretazioni di Machiavelli sia nascosta nella sua vita. Il Principe è il risultato delle esperienze che l’autore aveva fatto negli anni fra il 1498 e il 1512 quando era stato cancelliere e segretario dei Dieci di Libertà, l’organo che nella Repubblica fiorentina era contemporaneamente ministero degli Interni, degli Esteri e della Guerra. Aveva viaggiato in Italia e in Europa, aveva frequentato le corti italiane, quella del Pontefice romano, del re di Francia e dell’imperatore Massimiliano.
Aveva visto la politica nelle sue manifestazioni più crudeli e aveva constatato che mentre altrove, in Europa, questa politica stava creando lo Stato moderno, l’Italia si consumava negli intrighi, nella corruzione, nei tradimenti e nelle meschine strategie di signori che non vedevano oltre le mura delle loro città e di pontefici che non avevano altro obiettivo fuor che quello di evitare l’unione degli Stati della penisola.
Comprese prima di altri che l’Italia, in queste condizioni, sarebbe stata spinta ai margini dell’Europa e sarebbe diventata, come avvenne nel 1494, la terra su cui altri avrebbero soddisfatto le loro ambizioni. Gli sembrò intollerabile che un Paese così ricco di ingegni, di storia e di bellezza si condannasse a una tale umiliante condizione.
L’appello ai Medici, nell’ultimo capitolo, non è l’artifizio retorico con cui Machiavelli cercava di tornare nelle grazie del potere. È la speranza di un uomo che amava l’Italia.
Lascio al lettore decidere se fra l’epoca di Machiavelli e la nostra corra qualche analogia. Mi limito a osservare che questo Stato apparentemente unitario è un mosaico di lobby, corporazioni, patriottismi municipali, irresponsabilità regionali e sodalizi più o meno criminali: tutti decisi a difendere il loro particulare con comportamenti meno sanguinosi di quelli dell’epoca di Machiavelli, ma non meno corrotti.
E osservo che in questo momento, come allora, il dilemma è fondamentalmente lo stesso: tenere il passo con i maggiori Paesi europei o precipitare nelle periferia del continente. Esiste oggi un Machiavelli lucidamente consapevole del pericolo? Esiste, fra Palazzo Chigi e il Quirinale, qualcuno pronto a raccogliere la sfida? Nei momenti di minore pessimismo ho l’impressione che gli inquilini dei due palazzi non abbiano dimenticato la loro lettura del Principe.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
FILOSOFIA E POLITICA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO
SENZA UNA TEORIA DELLO STATO, LA "NOSTRA" FILOSOFIA DEL CONFLITTO CONTINUA IL SUO VIAGGIO: "DALL’OPERAISMO ALLA BIOPOLITICA". Sul lavoro di Dario Gentili ("Italian Theory"), una riflessione di Roberto Esposito - con alcune note
MICHELANGELO E LA SISTINA (1512-2012). I PROFETI INSIEME ALLE SIBILLE PER LA CHIESA UN GROSSO PROBLEMA ....
DOPO 500 ANNI, PER IL CARDINALE RAVASI LA PRESENZA DELLE SIBILLE NELLA SISTINA E’ ANCORA L’ELEMENTO PIU’ CURIOSO.
MACHIAVELLISMO VATICANO - PAROLA TRUCCATA, MENTE ASTUTA E "COMANDAMENTO NUOVO".
LA FEDE ITALIANA E LA "COMPAGNIA DELLA CHARITA’ dei cortigiani"! Sul tema, cfr. Adriano Prosperi, "Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari", Einaudi, Torino, 1996, tutto il "Capitolo primo. La fede italiana", pp. 16-34.
FLS
STORIA FILOSOFIA E LETTERATURA E STORIOGRAFIA: UNA IPOTESI DI RILETTURA DELLA "DIVINA COMMEDIA" (2007)
DANTE. ALLE ORIGINI DEL MODERNO *
Dante corsaro
Modernità di Dante di Giacomo Marramao
di Chiara Scarlato (FataMorgana Web, - 16 Dicembre 2024)
Sono ormai ampiamente percorse le ragioni che portano la teoresi filosofica a ricorrere, quasi di necessità, al confronto con una serie di campi altri di applicazione grazie ai quali la filosofia stessa può trarre un vantaggio nell’esemplificazione concreta di concetti e idee che resterebbero altrimenti ancorati a un piano distaccato dalla realtà materiale e concreta. Alla luce di questa necessità o bisogno, spesso, il pensiero filosofico si è rivolto a un linguaggio differente dal suo (si pensi al ricorso al linguaggio letterario o, più genericamente, artistico) allo scopo altresì di favorire il passaggio da uno scenario teorico unico alla costruzione di un immaginario di stampo plurale. Una simile attitudine è riscontrabile nel volume Modernità di Dante (Bollati Boringhieri, 2024), che Giacomo Marramao ha dedicato al “sommo poeta”, elaborando al suo interno alcune fondamentali idee teoriche utili per riflettere sull’articolazione tra linguaggio e politica, pur mantenendo aperto lo sfondo di problematizzazione all’interno del quale vengono affrontati alcuni temi dirimenti per la contemporaneità quali il ruolo e la funzione dell’essere umano nel mondo a partire dalla sua dimensione di azione quale singolo individuo.
L’operazione compiuta in Modernità di Dante - che, per molti aspetti, è analoga anche a quanto da Marramao proposto in Pasolini inattuale. Corpo, potere, tempo (2022) - assume uno specifico valore teoretico poiché, ponendo al centro l’esperienza di un particolare essere umano (in questo caso Dante ma, come si è appena ricordato, lo stesso vale anche per Pasolini), intende mettere a tema i modi in cui, sia con la scrittura sia con il corpo, si ha l’opportunità di esercitare una forma di resistenza nei confronti del mondo. Questa forma di resistenza riguarda tanto un piano formale quanto un livello concreto di applicazione, dacché non si può sperare di intervenire sul presente senza unire le parole alle azioni rendendo, in certo senso, tali parole effettive grazie a una serie di gesti concreti che, per mutuare un termine del lessico pasoliniano, sono gesti corsari. Gesti corsari capaci di convogliare l’attenzione su questioni che, pur essendo originate da una riflessione sul presente, aprono squarci su un tempo a venire che risulta, pertanto, inatteso nella sua esposizione. Da qui deriva il carattere di modernità di autori come Dante e come Pasolini, tra gli altri.
L’accostamento tra Dante e Pasolini è stato in certo modo abilitato dallo stesso Pasolini che instaura un dialogo a distanza con Dante componendo la sua divina mimesis (progetto avviato nel 1963, mai completato e pubblicato, per volere dello stesso Pasolini, nel 1975) in cui l’Inferno del neocapitalismo si impone con le sue storture di fronte al presentarsi di due domande: «Chi può segnare il momento in cui la ragione comincia a dormire o, meglio, a desiderare la propria fine? Chi può determinare le circostanze in cui essa comincia a uscire, o a tornare là dove non era ragione, abbandonando la strada che per tanti anni aveva creduto giusta, per passione, per ingenuità, per conformismo?» (Pasolini 2011, p. 17). Le questioni chiariscono in modo limpido le due istanze che si trovano alla base di ogni tentativo di comprensione del reale a partire dalla mediazione di un pensiero altro, riproducendo un meccanismo analogo a quello in atto nella congiunzione della filosofia alla letteratura, che rimanda inevitabilmente all’oscillazione della loro disgiunzione. Dal presente attuale al presente possibile, dalla ragione alla disragione per poi tornare, ancora una volta, al presente ma con uno sguardo differente. Ecco allora che Pasolini sembra tradurre quel sentimento corsaro che lo accomuna allo spirito dantesco: l’essere naufrago per aggrapparsi di nuovo e ancora al mondo ma con l’innocenza sporcata dalla consapevolezza di essere parte di quel mondo e non di un altro.
Nella rotta tracciata da un corpo approdato dal mare a una terra sconosciuta si può collocare anche l’operazione che Marramao compie su Dante, articolando il suo percorso in due momenti: il primo rivolto a un’esplorazione del concetto di “Politico” a partire da un attraversamento di opere come il De monarchia, il Convivio e la Commedia; il secondo consistente in un lavoro di accostamento critico tra le visioni di Dante e Machiavelli intorno alla questione politica. La posizione centrale che la politica (o il Politico) - come questione, problema e tema - occupa all’interno del testo è sintomatica del progetto di osservare non solo la modernità di un autore, bensì il valore che tale pensiero assume per la nostra stessa contemporaneità. Anche per questa ragione alla base del primo studio sta la proposta di osservare Dante come antesignano dell’autonomia del Politico a partire dall’ipotesi che il De Monarchia sia una prolessi della Commedia, tracciando l’una e l’altra un virtuoso rapporto di complementarità che per Marramao lascia «emergere la dimensione poetica come un viaggio attraverso i molteplici “corpi” dell’esperienza: corpo linguistico, corpo umano, corpo politico, corpo celeste» (ivi, pos. 20).
I quattro corpi - che rimandano rispettivamente al linguaggio, all’esistenza, alla dimensione del mondo e alla dimensione ultraterrena - sono anche indicatori dei diversi piani in cui tale autonomia trova la sua realizzazione. In particolare, stando alla prospettiva delineata dal testo, la modernità di Dante sta nella «netta distinzione tra la finalità teologica della salvezza e l’obiettivo politico della felicità» delle quali la prima si aggancia «ai percorsi di vita individuali, l’altra alla dimensione collettiva e alla vita della comunità» (ivi, pos. 18). L’autonomia politica dell’individuo getta, di conseguenza, nuova luce anche sulle nozioni di umano e umanità fino a condurre di fronte alla scelta radicale di pensare che «i principi etici e filosofici degli antichi» fossero «sufficienti alla realizzazione del fine politico della pace e della felicità terrena» (ivi, pos. 25), scelta rivendicata, per Marramao, anche dalla decisione dantesca di collocare Catone l’Uticense a custodia del Purgatorio.
In quest’ottica vi è una distinzione tra politica e fede che si mantiene inalterata con l’eccezione unica dell’idea di plenitudo temporum in cui le due si congiungono per la realizzazione dell’eschaton, il momento dell’avvento di Cristo che rimanda a «una pienezza dei tempi che non ha nulla a che fare con una promessa messianica, bensì piuttosto con un evento già accaduto nella storia, ma di tale portata da determinare un punto di non ritorno nel viaggio dell’umanità» (ivi, pos. 37). Ciò significa che l’autonomia del Politico non esclude una visione teologica del mondo, bensì individua due diversi piani di realizzazione in base alle dimensioni di riferimento: da un lato la felicità terrena, dall’altro la beatitudine celeste; da un lato i principi della filosofia, dall’altro i precetti della religione; da un lato il «destino del Comune», dall’altro «quello del Singolare, che rappresentava, per Dante, la sola via per affermare, nell’autunno del Medioevo, la radicale autonomia del Politico» (ivi, pos. 39). La modernità del gesto di Dante sta allora, in questo caso, nello sforzo di pensare una distinzione tra ciò che era canonicamente riunito in un unico e solo sfondo di riferimento. In senso analogo è operato il confronto tra Dante e Machiavelli che occupa la seconda parte del testo.
Obiettivo principale di tale lettura comparativa è superare la dicotomia tra «un Dante immerso nella spiritualità medievale a fronte di un Machiavelli cinico realista» (ivi, pos. 42). A tal fine, Marramao evoca il concetto di dignitas che si trova alla base dell’umanesimo dantesco e dell’“umanesimo tragico” machiavelliano che, a partire dall’autonomia del Politico del primo, opera una ridefinizione ampia e radicale della nozione di politica concepita «concepita come un’anomalia tassonomica: come il diagramma di un plesso dinamico capace di tenere insieme due opposti» (ivi, pos. 48). Entro tale prospettiva, si delinea anche un’apertura rispetto a quanto si diceva in merito alla congiunzione/disgiunzione tra un pensiero filosofico e un pensiero altro o, meglio, sulla tensione che conduce il pensiero necessariamente di fronte a una pratica. In questo caso, è dirimente quanto Marramao scrive in merito al fatto che la «politica non innova mai, se non a partire da un rivolgimento culturale dei linguaggi: del linguaggio della scrittura come del linguaggio del teatro e della musica, del linguaggio dell’arte come del linguaggio della scienza, del linguaggio della poesia come del linguaggio dei corpi» (ivi, pos. 55).
Ed è questo l’aspetto sul quale occorre concentrarsi per capire appieno il senso di una modernità capace ancora oggi di offrire strumenti per rinnovare un sistema di pensiero. Se, riprendendo quanto scrive Gilbert in merito a Machiavelli, sono poche le persone che, «dopo aver guardato dritto in faccia che cosa sia l’uomo nella realtà, siano state capaci di attenersi a quanto hanno visto e non si siano rifugiate nel sogno di quello che l’uomo dovrebbe essere» (1977, p. 245), allora il punto è riuscire a risalire la china seguendo la rotta tracciata da quel pensiero corsaro che - di volta in volta - occorre convocare per rendere effettiva ogni pratica di rivoluzione.
* Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
FLS
CON #AMLETO (ED EDIPO), A SCUOLA DA MACHIAVELLI: TEATRO (FILOSOFIA) E METATEATRO (METAFILOSOFIA).
QUANDO IL "TOPO" DIVENTA UN "#GATTO" (UNA "GATTA") E SVELA IL "GOLPE" (DEL "LIONE"). Una traccia per una ri-lettura dell’opera di Shakespeare ...
SHAKESPEARE E COLLODI. Se è vero, come è stato detto da qualcuno, che "L’ Amleto è antiamletico come Pinocchio è antipinocchiesco; totalmente e quindi ambiguamente", c’è da chiarire e precisare che Amleto non diventa un "ragazzino per bene" (un "Pinocchio"), ma vince la sua battaglia (personale e politica), resta fedele a se stesso, alla Legge, e al ricordo del Padre-Re, e restituisce onorevolmente a "Fortebraccio" la #corona della "Danimarca".
UNA QUESTIONE DI #STATO: "IL PRINCIPE". Se la "sconfitta" di Pinocchio passa per la morte e l’impiccagione (cap. XV) prima e poi per la falsa "rinascita" finale (Geppetto: "quando i ragazzi cattivi diventano buoni", cap. XXXVI), al contrario, la "storia" di Amleto passa per il ribaltamento della posizione e la vittoria: "Stasera si recita in presenza del re:/ una scena del dramma s’avvicina ai fatti/che t’ho detto sulla morte di mio padre. /Ti prego, quando vedi cominciare quell’episodio /con tutto l’acume della tua anima osserva mio zio." (III. 2.85-90).
LA VOLPE E IL LEONE. "Sendo, dunque, uno principe necessitato sapere bene usare la bestia, debbe di quelle pigliare la golpe e il lione; perché il lione non si defende da’ lacci, la golpe non si defende da’ lupi. Bisogna, adunque, essere golpe a conoscere e’ lacci, e lione a sbigottire e’ lupi." (N. Machiavelli, "Il Principe", cap. XVIII).
EDUCAZIONE CIVICA E CITTADINANZA ATTIVA E CRITICA: UN GATTO ("THE MOUSETRAP") E UN ("SERPENTE" CAMUFFATO DA) "TOPO". Amleto, ben consapevole (come chiarisce a Orazio) del fatto che, «se la sua [del Re Claudio] colpa occulta non si stana a un certo discorso, è uno spettro dannato quello che noi abbiam visto» (III.2. 90-92), per chiarire a sé stesso e a tutti e a tutte i dubbi, da "cacciato" si fa "#cacciatore" e aziona la "trappola per topi" ("The Mousetrap"), per mostrare come chiarire gli "amletici" dubbi: "Questo dramma è la rappresentazione di un assassinio compiuto a Vienna. Gonzago è il nome del Duca, quello di sua moglie Battista. [...] l’assassino è un certo Luciano, #nipote del Re [...]. Lo avvelena nel #giardino per prendergli il #regno. Il suo nome è Gonzago. La storia è dei nostri giorni, e scritta in italiano scelto. Ora vedrete come l’assassino ottiene l’#amore della moglie di Gonzago" (III.2.247).
NOTE:
STORIA, ANTROPOLOGIA, E STORIOGRAFIA:
LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO DELLA FAMIGLIA E IL NEPOTISMO DEL CATTOLICESIMO DELL’ETA’ MODERNA.
IL CATTOLICESIMO "COSTANTINIANO" (NICEA, 325-2025) E L’INDICAZIONE "ERETICA" DI #DANTEALIGHIERI: PARTENDO DALLA RICERCA SU "Le donne dei papi in età moderna. Un altro sguardo sul nepotismo (1492-1655)" di Maria Antonietta Visceglia (Viella Editrice, Roma 2023), FORSE, SI PUO’ OSSERVARE MEGLIO LA RADICALE SVOLTA "COSTANTINIANA" DELLA VITA DELLO "STATO" DELLA CHIESA CATTOLICA, GIA’ E SUBITO PRIMA DELLA #CADUTA DI #COSTANTINOPOLI (1453) IN MANO TURCA, CON IL SINTOMATICO PASSAGGIO DI NICCOLO’ #CUSANO ( L’AUTORE DIVENTATO CARDINALE, PER I MERITI DELLA POCO EVANGELICA "DOTTA IGNORANZA" DEL 1440 E DELLA "PACE DELLA #FEDE" DEL 1453) DA SOSTENITORE DEL "PARTITO" DELLA SOVRANITA’ DEL #CONCILIO A SOSTENITORE DEL POTERE SUPREMO DEL #PAPA, E, NELLO STESSO TEMPO, CON IL SILENZIAMENTO E LA NEUTRALIZZAZIONE DEL LAVORO CRITICO DI LORENZO VALLA SULLA FALSA "DONAZIONE DI COSTANTINO" (1440).
ALL’INTERNO DI QUESTO ORIZZONTE, MIO PARERE, SI COMPRENDE MEGLIO LA SPECULARE LOTTA DELLO STATO DELLA CHIESA CON LO STATO DELLA SPAGNA (DOPO LA RICONQUISTA DI #GRANADA, 1492) PER L’EGEMONIA TEOLOGICO-POLITICA EUROPEA; E, UNITARIAMENTE, L’INCAPACITA’ AD ACCOGLIERE LA "INAUDITA" ED "ERETICA" INDICAZIONE DELLA "#MONARCHIA" DEI "#DUESOLI" DI DANTE ALIGHIERI E, INFINE, LE SUCCESSIVE SOLLECITAZIONI TEOLOGICHE E ANTROPOLOGICHE DELLA #RIFORMA PROTESTANTE (1517) PRIMA E DELLA RIFORMA ANGLICANA (1534) POI, ECC.
DANTE ALIGHIERI E MERCURINO ARBORIO DI GATTINARA. Sul tema, è bene ricordare, mi sia lecito, la lezione magistrale di #KarlBrandi che, a conclusione della sua "lettura" della biografia di "Carlo V" (1935), rievoca (con le seguenti testuali parole) la figura del "gran cancelliere Mercurino di Gattinara, il cui ideale imperiale non era stato diverso dal sogno imperiale di Dante; e aveva espresso la fede in un ordinamento del mondo retto dall’Impero e dal Papato, ciascuno nella sua sfera, l’uno e l’altro pienamente e sovranamente responsabili verso l’intera umanità" (Einaudi, Torino 2001); e, ancora, che Ernst H. #Kantorowicz, nel suo lavoro su "I due corpi del re" (1957), intitola e dedica l’intero ultimo capitolo a "La regalità antropocentrica: Dante" (Einaudi, Torino 2012).
P. S. - #MACHIAVELLI CON DANTE ALIGHIERI CONTRO IL #FAMILISMO TEOLOGICO-POLITICO. NICCOLO’ MACHIAVELLI, “DISCORSI SOPRA LA PRIMA DECA DI TITO LIVIO”:
"Della religione de’ Romani. (...) gli regni i quali dipendono solo dalla virtù d’uno uomo, sono poco durabili, perché quella virtù manca con la vita di quello e rade volte accade che la sia rinfrescata con la successione, come prudentemente Dante dice:
Non è, adunque, la salute di una republica o d’uno regno avere uno principe che prudentemente governi mentre vive; ma uno che l’ordini in modo, che, morendo ancora, la si mantenga. (...)" (“DISCORSI”, Libro I, cap. XI).
BENE COMUNE (COSTITUZIONE) E "VERA COGNIZIONE DELLE STORIE".
COSMOLOGIA E CIVILTÀ: PER MEGLIO RI-COMPRENDERE LA LEZIONE DI NICCOLO’ MACHIAVELLI, FORSE, E’ MEGLIO RIFLETTERE SU ALCUNE "INDICAZIONI" DI ERACLITO DI EFESO.
Alcuni appunti per segnavia, in ricordo di Mario Tronti *
A) - Niccolò Machiavelli, "Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio" (ca. 1516-1517):
B) - Eraclito, "Frammenti" ("I Presocrativci. Testimonianze e frammenti", Laterza):
* C - A MARIO TRONTI IN MEMORIA, UNA NOTA A MARGINE DELL’INTRODUZIONE A "IL POLITICO. Da Machiavelli a Cromwell".
PAOLINISMO, MARXISMO E LENINISMO: STORIA E STORIOGRAFIA.
UNA NOTA A MARGINE DELL’INTRODUZIONE A "IL POLITICO. Da Machiavelli a Cromwell" (Mario Tronti, 1979).
In memoria di Mario Tronti... credo che non sia proprio il caso di lasciar cadere l’importanza dei suoi studi sul tema del "politico" :
MARX- LENIN, CRISTO - SAN PAOLO: A. GRAMSCI, "POSIZIONE DEL PROBLEMA: [...] Marx inizia intellettualmente un’età storica che durerà probabilmente dei secoli, cioè fino alla sparizione della Società politica e all’avvento della Società regolata. Solo allora la sua concezione del mondo sarà superata (concezione della necessità, 〈superata〉 da concezione della libertà). Fare un parallelo tra Marx e Ilici per giungere a una gerarchia è stolto e ozioso: esprimono due fasi: scienza-azione, che 〈sono〉 omogenee ed eterogenee nello stesso tempo. Così, storicamente, sarebbe assurdo un parallelo tra Cristo e S. Paolo: Cristo-Weltanschauung, S. Paolo organizzazione, azione, espansione della Weltanschauung: essi sono ambedue necessarii nella stessa misura e però sono della stessa statura storica. Il Cristianesimo potrebbe chiamarsi, storicamente, cristianesimo-paolinismo e sarebbe l’espressione più esatta (solo la credenza nella divinità di Cristo ha impedito un caso di questo genere, ma questa credenza è anch’essa solo un elemento storico, non teorico)." (A. Gramsci, "Quaderno 7 (VII) § (33)").
PENSARE L’AL DI LA’ DELLA TRADIZIONE TEOLOGICO-POLITICA DI SAN PAOLO. Riaprire l’orizzonte storiografico stretto nei limiti "da Machiavelli a Cromwell" e ripartire, recuperando il filo della lezione di Dante Alighieri ("Monarchia") presente nel lavoro di Mercurino da Gattinara (con Carlo V) e la critica tensione teologico-politica alla base dell elisabettiano "Amleto" di Shakespeare.
Sbagliando si impara
Lo storytelling è morto, viva le storie che fanno immedesimare chi le ascolta
Le aziende che non comprendono che il modo per recuperare un’identità valida ed efficace è svestire i panni dell’eroe e indossare quelli del mentore.
di Daniele Ciacci *
Analizzando il sistema capitalistico contemporaneo, il sociologo Richard Sennett lamentava una mancanza di narrativa. È sempre più difficile recuperare la nostra origine storica. Se ci pensate, costruirsi una narrativa era una cosa semplice nelle generazioni passate: si aveva una tradizione, un sostrato di elementi culturali che afferivano, a loro volta, a generazioni precedenti, rituali condivisi, spesso comunitari, una socialità antica basata sulla condivisione di artefatti unici e indispensabili.
Oggi invece storytelling è una parola abusata e, come tutti i grandi concetti che passano di bocca in bocca tra veri esperti, presunti guru e genuini appassionati, si ritrova ad ogni passaggio assottigliata di valore, come un messaggio trasportato nel gioco del telefono senza fili. Se le regole della narrazione, la morfologia della fiaba di Vladimir Propp e il Viaggio dell’eroe di Christopher Vogler sono entrati nell’orecchio del primo giocatore della catena come promotori di un sapere quasi scientifico, portavoce di un’analisi dai risultati comprovati, ciò che invece è uscito dalla bocca dell’ultimo partecipante della catena è un’accozzaglia di spunti senza senso, spesso meri trasporti emotivi, del tutto incapaci di una visione strategica e di lunga durata per uno scrittore, figurarsi per un’azienda.
Spesso, il primo errore nell’implementazione di uno storytelling aziendale coeso ed organico sta nella definizione del brand all’interno della narrazione. La faccio semplice: se il brand è l’eroe della storia, il protagonista principale, il centro di gravità della trama, la storia non piacerà. O meglio, potrà anche piacere, ma finirà con mancare di un ingrediente chiave: la potenza dell’immedesimazione. Questo è, per esempio, l’errore più grossolano nell’implementazione di una vera e propria struttura di Corporate Social Responsibility che si metta al centro della comunicazione interna e del marketing.
A nessuno piace vedere qualcuno che, come si suole dire, si “imbroda”, e volendo ci sono già moniti neotestamentari molto chiari («Non sappia la tua mano sinistra ciò che fa la destra», Matteo 6, 3). Eppure, questa semplice regola aurea sembra che non risuoni nelle orecchie di chi intonaca la facciata dell’azienda di bianco candido senza però prima stuccarne le crepe vistose. Come un attore che, non scendendo a patti con l’età che avanza, ricorre a trattamenti estetici talmente vistosi da rendere ancora più palese la sua condizione, così sono le aziende che non comprendono, al fondo, che l’unico modo per recuperare un’identità valida ed efficace è svestendo i panni dell’eroe per indossare quelli del mentore.
Questo termine deriva da un personaggio dell’Odissea, Mentore appunto, che accompagnava Telemaco, figlio d’Ulisse, alla ricerca del padre perduto. Sotto le spoglie dell’anziano precettore tuttavia c’era Atena, figlia prediletta di Zeus, dea della saggezza. La divinità si fa piccola, maschera la sua grandezza per accompagnare e sostenere colui che pare orfano di padre, di una guida, di un’identità storica pregressa. Avendo noi perso i padri - a detta almeno di tutta una grande corrente psicologica contemporanea (e voglio citare il testo di un giornalista illustre - ma non psicologo - Contro i Papà di Antonio Polito) - le aziende hanno avuto la grande opportunità di poter compensare una mancanza.
La fiducia verso le aziende tuttavia, e in special modo dopo il 2008, anno infausto della crisi economica, è venuta a calare, almeno a detta dell’Edelman Trust Barometer, il report annuale che analizza dove si muove la fiducia dei popoli nel mondo. Il tempo per recuperare la fiducia non può che essere questo, quando si annusa l’aria di una pressante e incombente crisi economica che, come nel 2008, avrà strascichi ad oggi ancora difficili da decifrare.
Se lo storytelling fosse morto, non ci sarebbe speranza di una nuova narrazione condivisa. Tuttavia, nel ritorno alla forma del mentore, anche le aziende possono cercare di recuperare una propria narrazione autorevole, meno eroica e più supportiva. A patto che prima di imbiancare la facciata, riparino le crepe all’intonaco, sempre che le stesse non siano conseguenza di fratture ben più profonde. In tal caso, prima ancora dello storytelling, può essere utile un esame di coscienza.
* Consulente di Newton S.p.A.
Libri
Machiavelli senza machiavellismi
di Michele Ciliberto (Il Sole-24 Ore, 30 settembre 2019)
Da molti anni ormai è in corso un lavoro di ampio respiro sulla figura e l’opera di Niccolò Machiavelli: basta pensare ai contributi, negli ultimi decenni del secolo scorso, di Dionisotti o di Martelli, o, venendo ad anni più vicini a noi, di Sasso, Skinner, Althusser, Pocock, per citare solo alcuni degli studi che hanno concorso a mutarne in profondità l’immagine tradizionale. Un lavoro che è stato continuato e approfondito da importanti testi usciti da poco; e anche qui mi limito a citare gli autori dei libri più importanti: Ferroni, Vivanti, Esposito, Cutinelli Rendina, Asor Rosa, Lettieri, Bausi, Cacciari, Ginzburg, Sofri. Né si tratta di un interesse solo italiano: Machiavelli, insieme a Dante, è lo scrittore italiano più studiato all’estero, specie in area anglosassone; proprio di recente è uscito, per la Princeton University, il libro di John P. McCormick, Reading Machiavelli.
Quali siano le ragioni di questo interesse non è facile dire; certo hanno a che fare, oltre che col mondo storiografico, con il mondo storico - cioè con le trasformazioni che stanno investendo l’Occidente, comprese la concezione della politica e la funzione dello Stato moderno, arrivate entrambe a un punto di svolta e per molti aspetti di tramonto e di declino. Dell’una e dell’altra Machiavelli è stato uno dei massimi interpreti, ed è naturale che quando un mondo inizia a scomparire la riflessione si rivolga al suo inizio, mettendo a fuoco gli autori che ne hanno, con maggiore lucidità, delineato i caratteri originari e le forme di sviluppo. Quando si parla di Machiavelli si è sempre mossi, in varia misura, da problemi che affondano le loro radici nella contemporaneità.
C’è però un altro tratto, evidente soprattutto negli studi più recenti, da sottolineare: le interpretazioni di Machiavelli si stanno intrecciando a una nuova visione di quell’epoca che si è soliti chiamare Umanesimo e Rinascimento.
Rispetto alle immagini tradizionali che hanno insistito sul carattere armonico, sereno, dell’età umanistica, valorizzando gli autori che affermano il primato dell’uomo - la dignitas hominis -, negli studi più recenti si è posto l’accento sul carattere drammatico, per molti aspetti tragico, della meditazione svolta in quei secoli sulla condizione umana, sulla ciclicità della storia, sul destino delle civiltà, con un ampio spazio dato a tematiche prima trascurate o poco considerate: dalla centralità del concetto di “crisi” e di “rovesciamento” degli ordini del mondo alla simulazione e dissimulazione come chiavi per comprendere un aspetto essenziale della genesi della “modernità” nel nostro paese; dalla dimensione simbolica quale struttura decisiva del vivere sociale alla funzione civile e politica della religione, alla centralità del teatro come strumento di comprensione, e di rovesciamento, della realtà. Tutti temi nodali di quello che si è chiamato, con una formula che ha avuto una singolare fortuna, «nuovo umanesimo».
E questo ha inciso anche nelle nuove interpretazioni di Machiavelli che, da un lato, hanno complicato il suo rapporto con i “moderni”, sganciandolo dalle genealogie tradizionali e staccandolo in maniera netta dal machiavellismo; dall’altro, l’hanno situato nell’epoca che fu sua, mettendo in luce convergenze con autori di prima grandezza come, per fare un solo nome, Leon Battista Alberti.
Questo lavoro si è accompagnato a una ricerca di tipo filologico che, oltre a mettere capo alla nuova fondamentale edizione nazionale delle opere di Machiavelli, si è proposta anche di attribuire alla sua penna opere assegnate, fino ad ora, ad altri autori. Ricerca assai importante, nella quale si è impegnato con cura particolare Pasquale Stoppelli.
Dopo aver affermato che la Commedia in versi attribuita a Lorenzo Strozzi sia invece da restituire a Machiavelli, ora Stoppelli sostiene che anche l’Epistola della peste sia di Machiavelli - tesi che in verità era stata accettata nella seconda metà dell’Ottocento da uno studioso come De Sanctis, che ne aveva però ridotto l’importanza, per essere poi abbandonata.
Lorenzo Strozzi, di cui ci resta la vita scritta da un suo cliente, Francesco Zeffi - autore di una traduzione parziale del libro VI di Polibio, assai probabile chiave di accesso di Machiavelli al testo dello storico greco (come sostenne in un saggio memorabile Eugenio Garin) -, ebbe legami importanti con Machiavelli, che gli dedicò l’Arte della guerra. A Strozzi però, per motivi che Stoppelli spiega con chiarezza, si sarebbe finito per assegnare opere del Segretario, tra le quali questa Epistola della peste, che va perciò restituita al suo autore. Stoppelli sostiene la sua tesi con argomenti esterni e, rifacendosi al metodo del critico d’arte Giovanni Morelli, di carattere interno, sottolineando che Machiavelli è uno scrittore «ricorsivo»: utilizza cioè lo stesso lessico, pur suonando tasti diversi - politici, storici, teatrali -; e ne dà un’ampia dimostrazione nel commento che accompagna il testo.
Da questo punto di vista è difficile non condividere la tesi di Oreste Tommasini, secondo cui nel testo c’è «qualche impronta della unghia leonina del Machiavelli». Basta pensare alla spettacolare rappresentazione dell’«otioso frate a testa ritta, atto più al remo che al sagrificio», che «con fratesca [...] carità» cerca di insidiare, con i soliti trucchi, la bella donna che l’autore della lettera aveva già adocchiato, e con cui aveva cominciato a mettere le basi di una relazione.
Sia pure a una temperatura più bassa, in questo come in altri luoghi, si ritrovano lemmi caratteristici di Machiavelli. Ma nel testo sono presenti anche motivi addirittura di carattere autobiografico che possono ricondurre a lui: mi limito a citare le insistite battute sul sesso e la vecchiaia, nelle quali sembrano riflettersi i tormenti che gli procurava l’amore per Barbara Raffacani Salutati e che sono espliciti nei versi dedicati Alla Barbera, incentrati sullo scarto fra potere e volere, nella vita come in amore.
È su una ultima affermazione di Stoppelli che vorrei tuttavia richiamare l’attenzione: sul carattere di «rappresentazione parodica» dell’Epistola - cioè sulla sua dimensione teatrale - in cui si intrecciano comico, lirico, grottesco e tragico. È una conferma di due punti importanti: la teatralità è una struttura costitutiva dell’opera di Machiavelli; le lettere, in generale, sono uno dei luoghi in cui si esercita con maggiore libertà e originalità l’officina teatrale del Segretario fiorentino. È la strada che, con la mediazione dell’anticlassicismo rinascimentale, arriverà fino a Bruno.
Non ci resta che Machiavelli
L’interesse che si manifesta da più parti per l’autore del Principe nasce dalla crisi dell’attuale pensiero liberale e di quello socialista rivoluzionario o riformatore
di Carlo Galli (Corriere della Sera, La Lettura, 09.06.2019)
Che sia stato il consigliere del Male (Old Nick, il vecchio Niccolò, era il diavolo), oppure l’eroico suscitatore di energie politiche nazionali o sociali (da De Sanctis a Gramsci), Machiavelli ha scoperto il campo della politica moderna come un magma ribollente di energie e di sfide, di crisi e di catastrofi. Dopo la sua morte, nel 1527, che coincide con il tracollo del sistema politico italiano, il conflitto per l’egemonia europea tra Francia, Spagna e Impero diviene un susseguirsi di guerre di religione da cui l’Europa inizierà a uscire solo alla metà del Seicento. La via dell’ordine sarà allora il razionalismo individualistico, la teoria del contratto, la politica dei diritti e della rappresentanza, la sovranità dello Stato nazionale. Sarà il liberalismo, la democrazia, il socialismo. E il pensiero adeguato a questo sforzo di ordine sarà, oltre alla filosofia costruttiva dell’Illuminismo, quella progressiva e rivoluzionaria del marxismo, e, più vicino a noi, la scienza politica, capace di misurare e catalogare le istituzioni, i partiti, i sindacati, la partecipazione; di decifrare il funzionamento dei rapporti tra pubblico, sociale, privato; di studiare i nessi fra economia, psicologia di massa, politica.
È questo ordine liberale del mondo a essere oggi in crisi, con le sue certezze, le sue ideologie, le sue previsioni. Tramontata la filosofia dialettica della rivoluzione e del progresso, anche il pensiero liberale e democratico ha sempre meno presa sugli sviluppi reali della contemporaneità. La scienza politica, poi, è più a suo agio davanti ai normali processi delle istituzioni democratiche che non nella fase della loro crisi.
Sta qui il vero significato dell’attenzione a Machiavelli, oggi. Con lui e attraverso di lui si retrocede al momento magmatico in cui la politica moderna si è presentata in tutta la sua potenza, prima che prendessero forma le soluzioni ordinative che hanno costituito l’ossatura della storia degli ultimi trecento anni, e che oggi vacillano. Nelle recenti interpretazioni di Machiavelli - a titolo esemplificativo, quelle di Ciliberto, Asor Rosa, Ginzburg, Marchesi - è evidente l’interesse a confrontarsi con un pensiero che si genera dalla crisi, che non la inserisce in una rassicurante narrazione. L’interesse, cioè, non a misurare lo Stato e il suo funzionamento a regime, ma di fondare un ordine ex novo; non a maneggiare norme e regole, ma di fronteggiare l’eccezione, di constatare come la libertà umana, l’umana capacità di dare forma ordinata al mondo (la «virtù»), sia insidiata e smentita dalla contingenza, dal caos imprevedibile degli avvenimenti (la «fortuna»); come il «riscontro» fra ragione e realtà - il successo dell’agire umano - non sia garantito da alcun algoritmo, né da alcuna provvidenza, da alcuna tattica (sia questa l’«impeto» o al contrario il «rispetto»).
Ciò che è al centro degli studi machiavelliani, oggi, al di là del loro valore storiografico, è il recupero dell’insegnamento più radicale di Machiavelli: che la politica è l’espressione più alta e più tragica dell’instabilità del reale, e che se ne devono fronteggiare animosamente e accortamente gli aspetti inquietanti, le dinamiche sfuggenti, con un pensiero non astratto, non precostituito, non semplificatorio: non una teoria generale da applicare alla realtà, ma un pensiero nervoso, acuto, in chiaroscuro, aperto al confronto continuo con le pieghe e le insidie del reale.
Davanti all’evidenza che il reale non è né razionale né interamente razionalizzabile, Machiavelli è il pensatore non della forma, ma della metamorfosi; non della netta separazione fra ordine e disordine, fra «lupo» (l’uomo in natura) e «cittadino» (l’uomo dentro lo Stato), ma della loro commistione. Per lui, ogni circostanza politica reale si presenta spaccata in due, come un dilemma che va minuziosamente analizzato per coglierne le contrapposte potenzialità; per lui, ogni regola esiste solo nel momento in cui è attraversata da eccezioni; e la ragione, la valutazione delle forze in campo e dei loro rapporti, il calcolo lungimirante delle conseguenze, coesiste con la consapevolezza che le situazioni possono essere forzate da un’azione spiazzante, «pazza», nella disperata speranza di controllare, almeno per un po’, il corso della fortuna.
Machiavelli pensa la irrazionalità della politica, la sua drammatica contraddittorietà, ma senza essere un irrazionalista; pensa il destino delle umane costruzioni di «ruinare», ma senza rassegnarsi alla sconfitta e all’inerzia; pensa non per teorie, ma dall’interno delle situazioni di crisi, per capirle e per risolverle. Non è un filosofo politico, ma un politico filosofo, un uomo d’azione che riflette sull’azione e che modifica la propria riflessione dentro le contingenze in cui si imbatte.
Eppure non è un opportunista: ha combattuto per un’idea repubblicana contro il potere mediceo, e sempre ha avuto in mente la salvezza dello Stato, di quello fiorentino e di quello italiano che non si è formato, come sarebbe stato necessario, con la conseguente rovina del nostro Paese. E non è neppure un decisionista nel senso di Carl Schmitt, che infatti non lo ebbe tra i suoi autori preferiti: il decisionismo è il rovescio irrazionale del razionalismo della macchina statale moderna, mentre in Machiavelli vibra sempre la concretezza umana della politica.
Enigmatico come la politica in cui è immerso, a questa ha dedicato la vita, nello sforzo di pensarla fino in fondo e di darle un ordine: uno sforzo che egli sapeva destinato a non avere successo e che tuttavia era l’unica cosa per la quale valesse la pena vivere. Umanista - la sua scrittura audace e immaginosa è uno dei più alti godimenti che offra la lingua italiana -, non fu un «letterato» che si rifugia nelle frivolezze e nelle fiabe: fu umanista perché esperto delle cose umane, quindi pessimista ed energico al contempo. Concreto, intelligente, appassionato, scettico, potente e ironico, il suo ingegno è analogo per certi versi a quello di Leonardo, impaziente e minuzioso, geniale e artigianale al contempo.
Non è quindi necessario che di Machiavelli si faccia un totem; che si ripeta, in forme nuove, la sua storica lezione - che l’Italia ha bisogno di un capo e di un popolo che si sostengano a vicenda per rifondare uno Stato corrotto e snervato dalla religione cristiana. Non sta nell’invocarlo a ogni crisi della nostra Italia il significato più profondo del ritorno di Machiavelli. Quel significato sta piuttosto nell’esigenza, che attraverso di lui si manifesta, di ripensare radicalmente la politica, di prenderla sul serio, di non lasciarne il senso al diritto, all’economia, alla morale. L’esigenza - che anch’egli provò, ma che è da calibrare sulle crisi dei nostri giorni, che non coincidono con quella che egli conobbe - di farsi coinvolgere nella politica, come in un destino che si riaffaccia perentorio ed elusivo, non più trattenuto da schemi e istituzioni ormai scricchiolanti. Ritorna la politica, insomma, e quindi ritorna Machiavelli, come possibile alternativa agli esiti di quella modernità che egli ha grandiosamente aperto.
LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"! .... *
La scoperta della libertà
di Maurizio Viroli Il Fatto, 18 aprile 2017
Per molti della mia generazione la lettura degli scritti di Antonio Gramsci ha avuto l’effetto di una liberazione dal marxismo-leninismo banale e dogmatico che teneva banco, alla fine degli anni Sessanta, fra i movimenti della sinistra extraparlamentare. Non ho prove storiche da offrire, ma credo che molti giovani si siano avvicinati al Pci anche perché quel partito si proclamava erede di Gramsci e si impegnava attivamente a farne conoscere gli scritti.
Nel 1975 esce infatti per Einaudi, sotto l’egida dell’Istituto Gramsci, la prima edizione critica dei Quaderni del carcere, a cura di Valentino Gerratana. Su quei quattro volumi furono promosse molte iniziative e si aprì un importante dibattito culturale e politico sul concetto di egemonia, sul rapporto fra democrazia e socialismo, sul ruolo e la natura del partito, sulla Rivoluzione d’Ottobre, sugli intellettuali, sulla storia d’Italia, sulla questione meridionale.
A Gramsci va riconosciuto il merito storico di aver avviato nel mondo comunista la consapevolezza che non era possibile in Italia seguire la via della Rivoluzione d’Ottobre. Lo ha fatto con l’unico argomento che poteva essere efficace, vale a dire la considerazione realistica delle condizioni storiche.
Sarebbe sbagliato sostenere che Gramsci aveva capito che la trasformazione socialista della società deve avvenire soltanto nel pieno rispetto delle libertà civili e delle regole democratiche. Ma una volta dichiarato che la via sovietica non poteva essere percorsa, che il proletariato “può e deve essere dirigente [vale a dire ottenere il consenso degli altri gruppi sociali] già prima di conquistare il potere governativo”, e che deve continuare a essere dirigente anche dopo la conquista del potere, restava aperta, di fatto, soltanto la via democratica.
L’intuizione più felice di Gramsci è, a mio giudizio, l’idea della “riforma intellettuale e morale”. In un passo delle Noterelle sul Machiavelli, la descrive come “elevamento civile degli strati depressi della società”, simile, per la sua capacità di coinvolgere ampi strati delle classi subalterne, alla Riforma protestante e all’Illuminismo, ma capace di conservare e rielaborare “i caratteri di classicità della cultura greca e del Rinascimento italiano”.
E giustamente sottolinea che la riforma intellettuale e morale “non può non essere legata a un programma di riforma economica, anzi, il programma di riforma economica è appunto il modo concreto con cui si presenta ogni riforma intellettuale e morale”.
“Banditore” della riforma intellettuale morale doveva essere per Gramsci, il “moderno Principe”, il partito comunista, che diventa, nella sua visione, non più un’avanguardia volta esclusivamente al lavoro di agitazione e organizzazione in vista della conquista del potere politico, ma un partito educatore e formatore di coscienze, una vera e propria scuola dove gli elementi migliori delle classi subalterne imparano a dirigere il complesso della vita sociale alla luce di ideali di emancipazione.
Il limite dell’idea gramsciana della riforma intellettuale e morale non risiede nella sua concezione del partito politico come educatore e formatore di coscienze, ma nella sua convinzione che il partito della classe operaia debba essere il punto di riferimento del giudizio morale e politico: “Il moderno Principe sviluppandosi sconvolge tutto il sistema dei rapporti intellettuali e morali in quanto il suo svilupparsi significa appunto che ogni atto viene concepito come utile o dannoso, come virtuoso e scellerato, solo in quanto ha come punto di riferimento il moderno principe stesso e serve a incrementare il suo potere o a contrastarlo”.
Il Principe , conclude Gramsci, “prende il posto, nelle coscienze, della divinità o dell’imperativo categorico” (Quaderni del carcere, vol. III, p. 1561). Ma la coscienza personale è e deve rimanere rigorosamente individuale: può accogliere l’imperativo morale o la divinità, ma mai lasciare entrare come sua guida suprema un soggetto collettivo, non importa se è lo Stato, o il partito o una chiesa. Se la coscienza personale accetta la guida o l’autorità di un soggetto collettivo non è più pienamente libera e non può costruire né uno Stato né una società liberi.
In quegli stessi anni, nel confino di Lipari, Carlo Rosselli scriveva su Socialismo liberale: “Non esistono fini della società che non siano, al tempo stesso, fini dell’individuo, in quanto personalità morale; anzi questi fini non hanno vita se non quando siano profondamente vissuti nell’intimo delle coscienze. [...] Uno Stato libero vuole prima e soprattutto uomini liberi. E uno Stato socialista spiriti socialisti. Io non esito a dichiarare che la rivoluzione socialista sarà tale, in ultima analisi, solo in quanto la trasformazione della organizzazione sociale si accompagnerà a una rivoluzione morale, cioè alla conquista, perpetuamente rinnovantesi, di una umanità qualitativamente migliore, più buona, più giusta, più spirituale”. Carlo Rosselli partiva da Giuseppe Mazzini; Gramsci da Karl Marx e da Lenin.
Per arrivare all’idea del socialismo come trasformazione sociale sorretta da una riforma intellettuale e morale capace di realizzare l’elevamento civile delle classi subalterne, aveva percorso una lunga strada grazie alla libertà morale e intellettuale che gli diede la forza di andare contro le idee prevalenti nel suo stesso partito, senza paura di affrontare, anche nelle terribili condizioni del carcere, l’ostilità degli stessi compagni comunisti che lo giudicavano un traditore della causa. La sua è una testimonianza di libertà, per tutti i tempi.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
C’E’ CAPO E "CAPO" E STATO E "STATO": MUSSOLINI E LENIN A CONFRONTO. L’analisi di Gramsci (già contro derive staliniste!), una bussola per non naufragare e una lezione di vita e di libertà
ANTONIO GRAMSCI, SULLA "ZATTERA DELLA MEDUSA". Una lettera dal carcere
KANT E GRAMSCI. PER LA CRITICA DELL’IDEOLOGIA DELL’UOMO SUPREMO E DEL SUPERUOMO D’APPENDICE.
Federico La Sala
Il «Principe» scandaloso. Il celebre trattato ebbe enorme successo europeo, ma provocò orrore per la separazione di politica e morale
Machiavelli mezzo Satana
di Luigi Sampietro (Il Sole-24 Ore, Domenica, 24.06.2018)
Uno, nessuno e centomila. Un articolo su di una lettera apocrifa acclusa alla prima edizione inglese in-folio del volume Works of the Famous Nicolas Machiavel (1675), pubblicato dalla studiosa tedesca Gaby Mahlberg sulla «Intellectual History Review» induce a una ennesima riflessione sulla fortuna del nostro Segretario Fiorentino.
Non si trattasse di una leggenda nera, con possibili accuse di alto tradimento, tratti di corda o anche peggio, si potrebbe pensare che le calunnie fossero solo un venticello. Ma nel caso del Principe, s’è trattato d’una tempesta, per non dire un fortunale, che si è in parte placata solamente quando è prevalsa la convinzione che sull’arte del governo Machiavelli avesse lasciato un segno simile a quello di Galileo nel campo dell’astronomia.
Prima di lui i trattati sulla politica erano stati sempre uno speculum di raccomandazioni e buoni precetti in cui dovevano riflettersi le azioni di chi deteneva il potere. Machiavelli insegnò, per usare le parole di Francesco Bacone, a tener conto di ciò che gli uomini fanno e non di ciò che dovrebbero fare, e aprì la via per una nuova scienza, la quale, in quanto tale, si sarebbe fondata sull’osservazione empirica.
Il Principe, pubblicato postumo a Roma nel 1532, ebbe un successo immenso. Ma fu un successo di scandalo. Per avere separato la politica dalla morale, divenne oggetto di obbrobrio. Vere o false che fossero le accuse, mezza Europa si strappò le vesti coprendosi gli occhi: specialmente al Nord dove, si sa, sono tutti un po’ più virtuosi.
In Francia fu attribuita alla sua nefasta influenza la strage di San Bartolomeo (1572), peraltro istigata da Caterina de’ Medici, la quale con Machiavelli non aveva niente a che vedere, ma che italiana come lui era di certo. Innocent Gentillet, un ugonotto avverso a tutti quei cortigiani venuti dalla Toscana che circolavano a Parigi, prese la palla al balzo e scrisse un libro, Contre Machiavel, che è la summa di tutto ciò che si diceva e si sarebbe ripetuto nei secoli contro di lui. Definiva il Principe come un manuale pratico per i tiranni e lo paragonava, quanto a immoralità, al Corano di Maometto.
In Italia era stato messo all’Indice nel 1558 e per tutto il periodo della Controriforma fu il bersaglio preferito nella polemica antimachiavellica condotta dai gesuiti. Ma, tra un insulto e una accusa di ateismo, la controversia si fece confusa. Il cacciatore finì nella rete e a essere accusati di machiavellismo furono spesso gli stessi gesuiti, a partire da Ignazio di Loyola.
Nell’Inghilterra di Elisabetta le cose andarono anche peggio. Una tragedia grottesca e sanguinaria che aveva come protagonista un ebreo di nome Barabba fu presentata sulla scena da un Machiavelli redivivo che recitava il prologo. E in genere il teatro e le compagnie di giro, che erano i media dell’epoca e che si rivolgevano a un pubblico che perlopiù non sapeva leggere, fecero da cassa di risonanza alla leggenda nera. Machiavelli entrò in tutte le salse e il suo nome divenne il comune denominatore per ogni sorta di delitti politici. Nei libri, sulla scena e nelle taverne.
Sulla bocca di chi nemmeno sapeva dove fosse l’Italia, le parole «Machiavellic» e «Machiavell», dopo un paio di boccali di birra tiepida, finivano per confondersi con make evil; o, anche, come ha osservato Alessandra Petrina nel suo Machiavelli in the British Isles (Ashgate) con Mitchell Wylie: figura «simile a quella del Vizio nei drammi medievali inglesi». Ma basterebbe un’occhiata alla storia d’Inghilterra e a qualche dramma di Shakespeare, magari il Riccardo III, per rendersi conto che tutto il mondo è paese; e che trabocchetti, delitti, inganni e violenza non sono una esclusiva del nostro passato.
Un paio di cose vanno però precisate. La prima è che ciò che Machiavelli mise per iscritto, gli uomini di potere lo avevano sempre saputo e messo in pratica. E la seconda è che la sua orrenda fama altro non era, specie in Inghilterra, che una scusa patriottica e una valvola di sfogo. Il Principe, Machiavelli, gli ebrei, Barabba, l’Italia, Roma e l’Anticristo sono sempre stati un astratto capro espiatorio - l’Altro - su cui riversare di tutto.
La bufera vera e propria aveva avuto inizio nell’inverno del 1538, quando il cardinal Reginald Pole, un inglese fedele alla Chiesa cattolica, era andato a Firenze da Roma, dove viveva in volontario esilio dopo il divorzio di Enrico VIII da Caterina d’Aragona. Machiavelli era morto da dieci anni, ma Pole - scrive Erica Benner nel suo Esser volpe. Vita di Niccolò Machiavelli (Bompiani) - non vedeva l’ora di poter leggere il libro su cui Thomas Cromwell, il consigliere del re di cui lui sospettava, aveva profuso le proprie lodi durante il loro ultimo incontro. Il Principe lo avrebbe aiutato a capire quello che stava succedendo nel suo Paese, dove lo stesso Cromwell «aveva ordito l’assassinio di preti e di nobili» e aveva sempre trovato pretesti ipocriti per giustificare i propri misfatti.
«Quando cominciai a leggere quel libro» ebbe a scrivere più tardi Pole nella sua Apologia ad Carolum Quintum (1539) «vi riconobbi subito la mano di Satana». Personaggio che, guarda caso, in Inghilterra veniva a quei tempi chiamato con il nomignolo di Old Nick. Un tipaccio che era sempre riuscito a far credere alle menti più illuminate di non esistere nemmeno, e che finì per rovinare la reputazione di un onest’uomo che aveva scritto il Principe nel 1513, in esilio, dopo il ritorno dei Medici a Firenze, e che per occupare il tempo e per raccogliere le idee, aveva messo a frutto le conoscenze acquisite in tanti anni di attività - dal 1498 al 1512 - come segretario della Repubblica fiorentina e come diplomatico.
Dopo l’elezione a pontefice di Giovanni de’ Medici, Machiavelli ebbe l’agio di pensare in grande, guardando oltre i colli della Toscana, e in lui individuò l’uomo giusto per la redenzione di un’Italia che vedeva «spogliata, lacera, corsa» (cap. XXVI). Le cose non andarono come aveva sperato e il libro che ne venne fuori è resistito nei secoli come lettura proibita e quasi scurrile per chi volesse documentarsi sui vizi di cui gli uomini sono capaci.
Il Principe, dice infatti Machiavelli, è come «la golpe» e come «il lione». Astuto e coraggioso, rapido e temerario, e risoluto. Aggredisce e uccide, simula e blandisce, per garantire una vita operosa e tranquilla alla propria città. Spietato quando conviene e alieno da qualsiasi cedimento o passione che non sia l’amore per ciò che lui stesso rappresenta - la res publica, il bene di tutti - il Principe è il severo custode dell’interesse comune, e incarna una furibonda e raggelata volontà di rimanere a galla con la propria gente.
Libro pragmatico e patriottico, è improponibile come manuale per un futuro capo di Stato, ma perfetto per chi voglia tenere a mente - seppur sottobanco - una massima aurea del suo biografo e allievo Giuseppe Prezzolini; e, cioè, che «le nazioni che hanno dimenticato il conquistare, impareranno l’esser conquistate». Altro non v’è nella valle di lacrime in cui vige da sempre la legge del più forte. E per questo gli uomini di buona volontà, a partire dal Foscolo e, ancor prima, da Giuseppe Baretti, hanno letto nel Principe non un’apologia della tirannide ma il disvelamento dei suoi orrori per indurre i sudditi a ribellarsi.
E forse sopra ogni altra cosa è un capolavoro per la qualità della scrittura e uno di quei monumenti, come l’Amleto e il Chisciotte, il Malato immaginario e l’Avaro, Eugenia Grandet e i Fratelli Karamazov, nonché - perché no? - come i Promessi sposi, che raccontano la nostra avventura e sfidano il tempo.
INDIVIDUO, SOCIETA’, E COSTITUZIONE. IERI COME OGGI: USCIRE DALLO STATO DI MINORITA’, APRIRE GLI OCCHI!!! C’E’ DIO E "DIO", PATRIA E "PATRIA", E FAMIGLIA E "FAMIGLIA" ...
Scienze psicosociali
Democrazie personalizzate
Per Platone, politica e morale sono due facce della stessa medaglia e il governo giusto è solo quello dei filosofi, che sanno cosa è la giustizia.
Aristotele, invece, preferisce discutere la politica come dimensione dell’esperienza sociale indipendente dall’etica
di Gilberto Corbellini (Il Sole-24 Ore, Domenica, 27.8.2017)
Per Platone, politica e morale sono due facce della stessa medaglia e il governo giusto è solo quello dei filosofi, che sanno cosa è la giustizia. Aristotele, invece, preferisce discutere la politica come dimensione dell’esperienza sociale indipendente dall’etica. Non tanto perché le forme della virtù siano irrilevanti, ma in quanto, se si ha di mira il bene generale, è disfunzionale decidere una forma di governo partendo da doti etiche personali. Meglio chiedersi sotto quale tipo di legge (costituzione) sarebbe preferibile vivere.
Sono dovuti trascorrere quasi due millenni, ed è occorsa la provocazione di Macchiavelli (ma quale etica, è tutto lecito in politica!), per rendersi conto che i valori della convivenza civile si possono stabilire concordemente, per vie democratiche, attraverso leggi nelle quali tutti si riconoscono e che sono uguali per tutti; piuttosto che lasciarli decidere, i valori, dai politici che di volta in volta per le loro personalità/capacità intercettano i favori popolari. La selezione naturale non poteva prevedere che per la convivenza civile nelle innaturali società moderne si dovessero inventare lo stato di diritto, il libero mercato, l’epistemologia scientifica, il rispetto degli estranei, i diritti umani, etc. Le sensibilità per questi valori non sono innate, come provano le scienze cognitive. Scaturiscono da processi storico-sociali che hanno manipolato, provvisoriamente, predisposizioni psicologiche individuali polimorfiche, dando luogo a repertori e combinazioni di profili comportamentali, quindi preferenze valoriali e infine orientamenti politico-ideologici, che si combinano e ricombinano nei gruppi umani per rispondere a continue e diverse sfide o instabilità dettate da dinamiche ecologiche in senso lato.
La psicologia della personalità è un terreno fertile per studiare e ragionare delle basi comportamentali della politica e per capire quali forme di organizzazione della convivenza umana sono più congeniali alle disposizioni individuali e sociali umane.
In un denso e lucido libro, Gian Vittorio Caprara e Michele Vecchione argomentano che la democrazia è un’«impresa morale che si fonda ampiamente sulla moralità pubblica dei suoi cittadini», e che la divaricazione ideologica tra destra e sinistra o tra liberali e conservatori intercetta tratti fondamentali della personalità, che nell’evoluzione della cultura politica occidentale si strutturano preferibilmente attraverso questa tipologia di identificazione politica, in ragione dei valori morali e politici associati a questi piani.
Non è di personalizzazione della politica nel senso tradizionale che parla il libro, cioè delle caratteristiche psicologiche dei leader votati dagli elettori e che sembrano contare sempre più, ma di come i tratti e i valori delle personalità dei cittadini concorrono al funzionamento di un sistema politico. Nondimeno si parla anche del fatto, corroborato da studi empirici, che le somiglianze di personalità tra politici ed elettori giocano un ruolo nelle scelte di voto.
Il libro espone dati, analisi e proposte fondate su due influenti paradigmi della psicologia della personalità e della psicologia sociale umana: il modello dei Big Five e la tassonomia dei valori umani fondamentali di Shalom H. Schwartz.
I cinque “grandi” tratti selezionati nei primi decenni del secondo dopoguerra sulla base di studi lessicali e analisi fattoriali, come noto, sono: apertura mentale (quanto una persona è inventiva e curiosa piuttosto che cauta e conservatrice), amicalità (quanto una persona è fiduciosa, altruista e cordiale, piuttosto che egoista e sospettosa) coscienziosità (quanto è efficiente e scrupolosa, piuttosto che superficiale e disattenta), estroversione (quanto è energica e socievole, piuttosto che solitaria e chiusa) e, infine, stabilità emotiva (quanto è vulnerabile alle emozioni negative come l’ansia o l’angoscia, o tende alla depressione, piuttosto che sicura di sé e fiduciosa).
Numerosi studi dicono che le personalità caratterizzate da apertura e socievolezza tendono a essere progressiste, mentre quelle coscienziose, sono conservatrici. Qualche ricerca trova che le persone che spiccano come amicali tendono a essere di sinistra in economia e di destra nelle politiche sociali, mentre vale il contrario per gli emotivamente instabili. L’estroversione non produce effetti preferenziali. Esiste anche una letteratura che usa i Big Five per mappare geograficamente i tratti di personalità prevalenti in diverse aree degli Stati Uniti, spiegando in questo modo, cioè come concentrazione di persone con tratti simili, gli orientamenti ideologici e i comportamenti di voto costanti, per i repubblicani o per i democratici, in diversi stati.
Non è questa la sede per discutere i limiti del fortunatissimo modello dei Big Five, che non ha una base teorica e trova però alcune conferme a livello neurobiologico, ma non genetico. Ora, i tratti non danno informazioni a livello motivazionale: sono differenze individuali dimensionabili per quanto riguarda delle tendenze a mostrare schemi di azioni, affetti e pensiero coerenti.
L’israeliano Schwartz ha quindi costruito, partendo dalle ricerche dell’olandese Geert Hofstede sulle dimensioni delle differenze culturali e valoriali transnazionali, una tassonomia di dieci valori riscontrabili nelle principali culture, i quali funzionano come credenze, desideri o scopi che hanno effetti motivazionali per la persona: autodirettività, stimolazione, edonismo, realizzazione, potere, sicurezza, conformità, tradizione, benevolenza, universalismo.
Questi valori strutturano in quattro gruppi che definiscono l’apertura al cambiamento (primi due), l’autoaffermazione (successivi tre), la conservazione (successivi tre) e l’auto-trascendenza (ultimi due), e sono tra loro interconnessi e sovrapposti. In che misura le dinamiche relazioni tra i valori correlano con o predicono orientamenti ideologici e scelte elettorali?
Schwartz, Caprara e Vecchioni hanno suggerito otto “nuclei valoriali politici” che definiscono preferenze socio-economiche e culturali che contano per le persone in quanto espressione sul piano ideologico della loro visione morale: equità, libera concorrenza, morale tradizionale, legge e ordine, patriottismo fanatico, libertà civili, accettazione degli immigrati, interventismo militare.
Esaminando prima due elezioni politiche italiane, 2006 e 2008, e quindi testando le preferenze valoriali e politiche in altri paesi europei, anche post-comunisti, gli autori hanno trovato che le ideologie tradizionali sono ancora i migliori predittori di voto, anche se i dati consigliano di guardare oltre la divisione destra-sinistra e progressisti-conservatori, per cogliere complessivamente i determinanti valoriali delle scelte politiche. Infatti, al di là di chiare differenze si notano comunanze tra i votanti. Per esempio, autodirettività e universalismo sono apprezzati più che potere e realizzazione nella maggior parte dei Paesi studiati, non solo come prevedibile da chi è di sinistra/progressista, ma anche per chi è di destra/conservatore.
Per quanto riguarda gli atteggiamenti politici, gli elettori di sinistra/progressisti sono per politiche di equa distribuzione delle risorse e delle opportunità e per le libertà civili (di agire e pensare), mentre quelli di destra/conservatori preferiscono politiche attente ai valori familiari e religiosi tradizionali, all’applicazione della legge e liberiste in economia. Ma questi ultimi danno un’importanza a eguaglianza e libertà civili non molto distante da chi è dell’ideologia opposta.
Per gli autori «i dati suggeriscono che gli atteggiamenti e le scelte politiche degli elettori dipendono meno che in passato dal menu offerto loro dai partiti e dai politici. Oggi i cittadini sono agenti proattivi, le cui priorità largamente dettano il tipo di menu che i partiti politici e i politici dovrebbero servire. Di fatto, più i cittadini sono consapevoli dei loro diritti, specialmente della libertà di esprimere le loro opinioni, più le rappresentazioni mentali di sé e le visioni del mondo personali dettano le loro scelte individuali». Il che dovrebbe suscitare ottimismo per il futuro della democrazia nella misura in cui un buon sviluppo della personalità si trasferisce nel buon funzionamento della democrazia. Ma nonostante le messe di dati e modelli utili che offre alla riflessione, il libro non spiega perché si dovrebbe essere ottimisti.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
CRISI POLITICA E "SACRA FAMIGLIA" [UNITA]!!! NON SOLO LA TEOLOGIA (E LA FILOSOFIA), MA NEMMENO LA SOCIOLOGIA SA DISTINGUERE TRA FAMIGLIA DEMOCRATICA E FAMIGLIA DI "MAMMASANTISSIMA" E DI "MAMMONA"...
"FAMILISMO AMORALE" E SOCIETA’. LA FAMIGLIA CHE UCCIDE: IL LATO OSCURO DELLA FAMIGLIA.
ITALIA: STORIA E POLITICA (1513-2013). MACHIAVELLI CONTRO OGNI TIRANNIA E CONTRO OGNI POPULISMO: C’E’ CAPO E "CAPO" E STATO E "STATO"!!!
LA QUESTIONE DELLO STATO: "IL PRINCIPE" O MEGLIO "DE PRINCIPATIBUS" (1513).
INDIVIDUO E SOCIETA’ E COSTITUZIONE, IERI COME OGGI. USCIRE DALLO STATO DI MINORITA’, APRIRE GLI OCCHI: C’E’ DIO E "DIO", PATRIA E "PATRIA", E FAMIGLIA E "FAMIGLIA" ...
C’E’ CAPO E "CAPO" E STATO E "STATO"
7-8 giugno 2017: Ripensare Machiavelli: Libertà e conflitto
Ripensare Machiavelli: Libertà e conflitto
7 e 8 giugno 2017
Sala del Rettorato, Via Festa del Perdono 7
In occasione della pubblicazione del volume Machiavelli on Liberty & Conflict, ed. by D. Johnston, N. Urbinati, and C. Vergara, The University of Chicago Press, Chicago, 2017.
PROGRAMMA
Sandro Landi (Université BordeauxMontaigne, Bordeaux): "Nella mente degli uomini". Note sulla questione della persuasione in Machiavelli
Stefano Visentin (Università di Urbino): "Il giogo che da se medesima si metteva in sul collo". Machiavelli e la servitù volontaria della moltitudine
Discussione
h. 11.15-11.30 Pausa Caffé
Camila Vergara (Columbia University, New York): Corruption and Renewal in Machiavelli’s Republic
John P. McCormick (Chicago University): Republics, Virtuous and Corrupt: Social Conflict, Political Leadership and Constitutional Reform in Machiavelli’s Istorie Fiorentine
Discussione
Fabio Raimondi (Università di Salerno): Why are religions effectual?
Marco Geuna (Università di Milano): Machiavelli e la violenza delle sette religiose
Giovanni Giorgini (Università di Bologna): The question of Machiavelli’s intention: Discourses, II. 5
Discussione
Alessia Loiacono (Université de Strasbourg): “Restaci solamente al presente a ragionare...” Il Principe, XI
Marcelo Barbuto (Universitat de Barcelona): Ripensando Il Principe, XI 18
Discussione
h. 11.00-11.15: Pausa Caffé
Jérémie Barthas (CNRS, UMR 8529 - Lille): Machiavelli dal Principe ai Discorsi
Gabriele Pedullà (Università di Roma Tre): Machiavelli e il pacificatore
Discussione conclusiva
Partecipano alle discussioni:
Alessandro Arienzo (Università di Napoli Federico II);
Luca Baccelli (Università di Camerino);
Annalisa Ceron (Università degli Studi di Milano);
Giorgio Scichilone (Università di Palermo);
Vittorio Morfino (Università di Milano Bicocca);
Nadia Urbinati (Columbia University, New York);
Douglas Fedel Zorzo (Unioeste - Brasil)
Tutti gli interessati sono invitati a partecipare.
Per informazioni: marco.geuna@unimi.it, mauro simonazzi@unimi.it
Roma, declino senza illusioni
di Gabriele Pedullà (Il Sole-24 Ore, 28 aprile 2017)
Che cosa accomuna Angelo Poliziano e un maestro del cinema western come Anthony Mann, il patriarca di Costantinopoli (e bibliofilo) Fozio e Niccolò Machiavelli, il libertino francese François de La Mothe Le Vayer e il grande storico settecentesco di Roma Edward Gibbon, l’illuminista radicale Mably e Tommaso Moro? Tutti, in forme diverse, furono estimatori della Storia dell’impero romano dopo Marco Aurelio, redatta in greco da Erodiano, che della “crisi del terzo secolo” si era trovato testimone diretto.
Erodiano, a essere generosi, non è tra i classici che si incontrano sui banchi del liceo e si rileggono (o ci si ripromette di leggere) per il resto della vita. L’ultima edizione italiana risale al 1967, quando Filippo Cassola lo pubblicò presso La Nuova Italia. A distanza di mezzo secolo esatto, fa dunque bene Einaudi a riproporlo nella NUE senza originale greco a fronte e con una leggera revisione del testo (nonostante nel frattempo sia uscita da Teubner una nuova edizione critica a cura di Carlo M. Lucarini), ma arricchito da una premessa di Luciano Canfora.
Poco presente nei canoni scolastici, Erodiano è però di quegli autori che possono suscitare l’entusiasmo dei lettori più esigenti: uno storico di impianto “tucidideo”, sobrio e vigilante, impegnato come il suo modello a raccontare gli avvenimenti a lui contemporanei senza farsi troppe illusioni sugli uomini e sulle passioni che li guidano, sempre pronto ad andare oltre le apparenze, persino spregiudicato nella valutazione spassionata dei rapporti di forza. Insomma un gigante della storiografia antica, da mettere tra gli otto o dieci maestri indiscussi della disciplina.
A dire il vero, Cassola e Canfora sembrano meno persuasi della grandezza di Erodiano. Il saggio introduttivo del primo è tutto sulla difensiva, nel tentativo di riscattare il greco dai giudizi severi della filologia tedesca dell’Ottocento, che come nel caso di tanti altri storici antichi (esemplare il caso di Dionigi di Alicarnasso) aveva ingiustamente sdegnato la sua prosa e messo in dubbio la sua attendibilità. Canfora aggira invece il problema deviando sul tema affascinante (ma anche laterale) del dibattito sulla crisi della civiltà al principio del XX secolo.
Il non specialista che, presa in mano la Storia dell’impero romano dopo Marco Aurelio, rimane folgorato dall’intelligenza politica del racconto e si convince a poco a poco di essersi imbattuto in un capolavoro inatteso può comunque stare tranquillo: prima del sostanziale oblio otto-novecentesco, per circa tre secoli, a partire dalla fine del Quattrocento, Erodiano era stato unanimemente considerato un autore di prima grandezza in tutta Europa (tanto per fare un esempio, assieme a Erodoto e Tucidide, è uno dei tre storici che Moro asserisce di aver portato in dono agli abitanti dell’isola di Utopia). Se il giudizio assai favorevole di Fozio (IX secolo) contò sicuramente, i nuovi lettori trovarono ben presto nuovi motivi per apprezzarlo, depositando le ragioni del loro trasporto negli apparati e nelle lettere dedicatorie delle edizioni e delle versioni che, dopo quella di Poliziano in latino (1493) si succedettero rapidamente in tutte le principali lingue europee.
Per Poliziano, che lo tradusse (infedelmente ma con straordinaria eleganza) su richiesta di papa Innocenzo VIII, Erodiano aveva parlato della corte di Roma «non solo con eloquenza, ma con franchezza e in maniera attendibile», arricchendo il racconto di «saggi precetti in uno stile pieno di maestà e dolcezza», così che le sue pagine potevano essere lette come «un deposito di moralità» e «uno specchio della umana sorte». Secondo La Mothe Le Vayer, che nel Jugement sur les anciens et principaux historiens grecs et latins (1646) gli tributa i massimi onori, «Erodiano riceve la principale raccomandazione dal suo proprio merito». -Analogamente, in De la manière d’ècrire l’histoire (1783), Mably lo pone tra «gli storici più giudiziosi dell’antichità», additandolo a esempio per il modo in cui aveva evitato le digressioni inutili e per il suo realismo («Tutto diventa una lezione per me. Vedo come la politica delle passioni non ha altra arte che quella di conformarsi alle circostanze»), mentre il suo traduttore ottocentesco Pietro Manzi si sofferma in particolare sul suo stile, dove «la brevità non adombra la chiarezza», sino a concludere che Erodiano, come storico e come prosatore, «è tutto verità, è tutto natura».
La migliore garanzia che questa Storia costituisce davvero un testo fuori dal comune ce la fornisce però Machiavelli: che la lesse, ne rimase affascinato e se ne servì abbondantemente soprattutto nel Principe. -Sino a oggi gli studiosi hanno riconosciuto il debito di Erodiano nel solo capitolo XIX, dove Machiavelli ripercorre le vicende degli imperatori succedutisi dopo Marco Aurelio.
Tuttavia, a guardare bene, tracce di Erodiano emergono lungo tutto il Principe, offrendo a Machiavelli più di uno spunto. Considerazioni spregiudicate sulla incapacità degli uomini di perdonare veramente le offese (Princ. VII; Storia III.2), sulla opportunità di compiere tutte assieme le azioni violente contro i propri avversari (Princ. VIII; Storia III.8), sulla inutilità delle concessioni fatte in ritardo (Princ. VIII; Storia II.11), sulla superiorità dei vincoli della paura su quelli dell’amore (Princ. XVII; Storia I.4), sulla impossibilità di dimenticare un bene strappato con la forza (Princ. XVII; Storia III.2) e sulla diversità degli interessi dei soldati mercenari e del popolo (Princ. XIX; Storia II.4; VII.3; VIII.8) si trovano infatti in tutte e due le opere. Ed è molto probabile che, anche in assenza di un rimando esplicito, non si tratti di una semplice coincidenza.
Per quanto importante, Machiavelli rappresenta comunque solo un esempio tra i tanti possibili. Come tutti i veri classici (poco importa se letti nelle scuole) Erodiano ha conquistato l’immaginario politico europeo grazie alla sua capacità di tornare attuale nei contesti più diversi. Dove Poliziano, da umanista, è colpito dai «molti esempi del potere della Fortuna» presenti nelle sue pagine, la prima edizione in greco di Francesco Torresano (1524) evoca prontamente le analogie tra le guerre intestine dei Romani e la divisione che da qualche anno, con Lutero, stava lacerando la Cristianità. Allo stesso modo, mentre il grande filologo riformato Henri Estienne, nel dedicare la propria traduzione latina a Philip Sidney (il celebrato autore dell’Arcadia e della Defense of Poetry), descrive l’opera di Erodiano come una guida contro «le Sirene delle corti» (1581), il filologo tedesco Daniel Pareus può costruire uno speculum principis con esempi esclusivamente tratti dalla Storia dell’impero romano dopo Marco Aurelio (1630). Ma lo stesso si può ripetere per la traduzione in versi di C.B. Stapylton (1652) e per l’anonima edizione londinese del 1698: le quali, sulla scia degli avvenimenti che avevano da poco sconvolto l’Inghilterra, rileggono entrambi le guerre civili narrate da Erodiano attraverso la categoria di rivoluzione.
Col sussidio di una buona biblioteca, si potrebbe continuare a lungo. Quello che conta, però, è il principio generale: la capacità di Erodiano di rispondere alle esigenze più diverse suscitando nel contempo domande inedite. Ora che la sua Storia è di nuovo tra noi, si tratta dunque di capire come sarà il nuovo Erodiano, inevitabilmente nutrito delle ansie di questi primi anni del XXI secolo. Canfora, giustamente, mette in guardia dalla formula, troppo scontata, della crisi. Si potrebbe scommettere allora, un’altra volta, sul potere di seduzione del realismo politico: e sarebbe, questo, un Erodiano “per capire”, sulla scia di Machiavelli e Mably.
Ma non è nemmeno escluso che - tra congiure, battaglie su tre continenti e continui colpi di scena - a prevalere sia piuttosto la straordinaria forza del racconto: che, non a caso, ha ispirato (via Gibbon) l’unico peplum americano che ancora oggi si lascia guardare senza imbarazzo La caduta dell’impero romano di Anthony Mann (1964). Perché no, anche considerato che il diletto, assieme all’istruzione, è sempre stato l’obiettivo della storiografia classica? L’importante, intanto, è che adesso la Storia sia di nuovo in libreria, disponibile per un ennesimo, imprevedibile incontro con i lettori.
Ci sono gli dèi dietro i segreti dell’erotismo
L’antico testo indiano non è solo una guida ai comportamenti sessuali
Per alcuni versi è un trattato politico per altri un repertorio romanzesco
Ma il vero gusto dell’opera si coglie risalendo alla cornice divina di schermaglie amorose
di Roberto Calasso (la Repubblica, 02.12.2016)
Universalmente noto come repertorio di posizioni erotiche, talvolta passabilmente acrobatiche e tali da mettere in soggezione un certo numero di amanti occidentali, timorosi di essere poco inventivi, il “Kamasutra” di Vatsyayana è anche, e forse soprattutto, un eccellente canovaccio romanzesco, sotto specie di trattato ossessivamente classificatorio. Ma per scoprirlo occorre una guida adatta - e nessuna potrebbe essere migliore di Wendy Doniger, unica - per quanto so - fra i grandi indologi viventi che sia anche un’autorità sui B-movies di Hollywood, nonché sui vertiginosi intrecci di storie che possono svolgersi intorno e dentro un letto, come ha dimostrato in un sostanzioso volume - “The Bedtrick” - di qualche anno fa. Così la sua edizione annotata del Kamasutra, pubblicata in collaborazione con Sudhir Kakar nel 2002, è diventata subito - e rimarrà - il testo di riferimento per questo classico che è stato a lungo troppo famigerato per essere letto con la dovuta attenzione.
Le reazioni sono state subito vivaci e, nel corso dei quattordici anni successivi, Wendy Doniger ha avuto più volte occasione di tornare sul tema, inserendo il Kamasutra nella trattatistica indiana, che costituisce un immane corpus di testi. E soprattutto su uno di questi trattati si è appuntata la sua indagine: l’Arthashastra, che è il supremo compendio politico dell’India, considerato da molti di gran lunga più spietato e spregiudicato del Principe di Machiavelli. E Doniger infierisce ancora, scrivendo che «Kautilya fa sembrare Machiavelli come Madre Teresa». Anche se un parallelo trattato cinese, il Libro del Signore di Shang, che conosciamo grazie alla sapiente edizione di J.J.L. Duyvendak, può far apparire in paragone miti - anche se non proprio da Kindergarten - sia Kautilya sia Machiavelli.
L’arte erotica esposta nel Kamasutra sarebbe dunque un ramo specifico di quell’arte degli stratagemmi e degli inganni che Kautilya tratta magistralmente. Dopotutto, spie, infiltrati e mezzani possono rivelarsi indispensabili per conquistare una città come per sedurre una donna. E il Kamasutra lo dimostra con dovizia di esempi. Il rapporto è indiscutibile e Doniger lo illumina puntualmente, anche se - come sempre in India - è disperante stabilire una sequenza temporale rigorosa in cui situare i testi.
Ma una volta accertata la matrice trattatistica entro cui il Kamasutra è nato e va considerato, per il lettore di oggi il fascino - e anche il sottile divertimento - dell’opera è tutto nella straripante materia romanzesca di cui è intriso. Il libro può essere letto, da cima a fondo, come un repertorio delle situazioni erotiche in cui può venirsi a trovare un certo personaggio - e delle reazioni che può provocare nelle sue controparti femminili.
Ma chi è questo personaggio? È il nagaraka, il man-about-town, come la lingua inglese concede di tradurre la parola, con perfetta corrispondenza idiomatica (nagara vuol dire “città” in sanscrito). Questo uomo di mondo innanzitutto è ricco e non ha obblighi di alcun genere. La sua unica mira è espandere e acutizzare i suoi piaceri, in numerose direzioni, anche se l’eros spicca fra tutte. È devoto soltanto al kama, al “desiderio”. Non intende accrescere il suo “potere” e i suoi “interessi” (sfera dell’artha).
Quanto al dharma, “ordine” o “legge”, lo rispetta e lo ignora. Come il giovane Ovidio a Roma due secoli prima, frequenta i riti e le feste religiose perché sono ottime occasioni per individuare donne belle, passibili di diventare un giorno oggetto di conquista. La sua vita è al tempo stesso variegata e altamente ripetitiva. Ma tale non è forse anche quella di un uomo d’affari, di un cortigiano o di un religioso? Se il culmine e coronamento di ogni sua attività è l’atto sessuale - così come lo era il concubitus per il giovane Ovidio dell’Ars amatoria -, l’uomo di mondo sarà tenuto ad addestrarsi anche nelle «sessantaquattro arti che deve imparare chiunque (maschio o femmina) tratti in modo veramente serio il piacere ». E qui è solo una delizia scorrerne l’elenco, che include la capacità di ritagliare sagome dalle foglie, fare musica sugli orli di bicchieri d’acqua (come il Mozart dei pezzi per Glasharmonika), preparare letti, mescolare profumi, insegnare a parlare a pappagalli e gracule, praticare la stregoneria, conoscere lessici e dizionari di sinonimi, essere esperti di presagi e delle scienze strategiche. Infine, al sessantaduesimo posto, appaiono “le buone maniere”.
Entrambi gli amanti devono gareggiare in tutte queste arti - e la loro pratica, secondo il “Kamasutra”, non fa che accrescere l’esaltazione erotica. Le stesse conoscenze appartengono all’educazione di una cortigiana di lusso. La quale, se ne è esperta, «ottiene un posto nel consesso pubblico». Nulla è arbitrario o accidentale: alle sessantaquattro arti corrispondono le sessantaquattro varianti dell’amplesso. Che non differiscono molto, per pure ragioni anatomiche, da quelle suggerite dalle massime autorità occidentali in materia, che rimangono l’Aretino e l’autore dei dialoghi di Aloisia Sigea.
E qui si impone una glossa: l’Occidente ha prevalentemente affidato la dottrina delle posizioni erotiche a voci femminili: i Ragionamenti dell’Aretino e i dialoghi di Aloisia Sigea sono conversazioni fra donne che sanno molto della vita sessuale o sono avide di saperne di più. Mentre l’unico trattato dell’antichità classica paragonabile al Kamasutra (e ahimè perduto) era attribuito a una certa Elephantis, il cui nome - secondo la Pauly-Wissowa - «può essere situato nel folto gruppo di nomi di etère che sono derivati da animali». Nulla rimane di tale testo, tuttavia sappiamo da Suetonio che le sue tabellae - ovvero illustrazioni - vennero fatte copiare dall’imperatore Tiberio sulle pareti della sua villa a Capri, come manuale di istruzioni per i suoi ospiti e per se stesso.
Ma, più che nell’elenco delle veneris figurae o modi coeundi - come si usava dire a Roma -, la peculiarità del Kamasutra sta nella sistematicità e nella implacabile precisione del dettaglio. Come anche nel fatto che questa puntigliosa cronaca fisiologica e psicologica include in sé sia una descrizione dell’orgasmo femminile quale nessun autore occidentale avrebbe azzardato sia un elenco degli accorgimenti con cui una cortigiana può liquidare un amante molesto. Lettura incantevolmente profana, che al tempo stesso non può comunque fare a meno di richiamarsi all’antichità vedica e, di là da essa, alla vita degli dèi. Perché di fatto già nel Rigveda si diceva che «il desiderio, kama, è il primo seme della mente».
Così veniamo a sapere che Vatsyayana è solo il tardo redattore di un trattato di materia erotica che nel corso del tempo si era sempre più ridotto e semplificato. Suo primo autore era stato il mite toro Nandin, che vegliava sulla porta della camera da letto dove Shiva e Uma erano congiunti in un interminabile coito, durato mille anni degli dèi. Insieme guardiano, voyeur e scriba, Nandin aveva annotato il sapere erotico che un giorno anche gli uomini avrebbero dovuto apprendere, sebbene parzialmente, essendo incapaci di applicarlo nella sua interezza. Procedimento usuale nell’India classica, presupponente all’inizio una conoscenza sterminata, che si contrae e inaridisce nel tempo, fino alle bassure del Kali Yuga, in cui viviamo. Concezione specularmente opposta a quella evoluzionistica occidentale, che presuppone all’inizio una successione di bruti inarticolati, che poi si innalzano fino alle sommità della Ragione.
Il vero gusto del Kamasutra non si coglie se dalle sue minuziose descrizioni di schermaglie e trappole erotiche, dove graffi e morsi ricordano sempre che l’eros è comunque un duello - e talvolta mortale -, non si risale a quella remota cornice divina. Perché in India, fin dall’origine e fin dai riti esposti nei Brahmana, l’eros è ubiquo e onnipresente. Non meno illuminante di Nandin è il secondo autore leggendario del Kamasutra: Shvetaketu, colui che ridusse i mille capitoli scritti da Nandin a quei cinquecento destinati a essere poi, nel corso del tempo, ulteriormente ridotti, fino a diventare i centocinquanta di Babhravya del Panchala e i trentasei di Vatsyayana.
Chi era Shvetaketu? Lo vediamo apparire, a ventiquattro anni, nella Chandogya Upanishad. Dopo dodici anni di studi, si presenta al padre come «contento di sé, fiero delle sue conoscenze, orgoglioso ». Il padre gli dice che ancora nulla sa, anche se aveva studiato tutti i Veda. Ora gli sarebbe toccato andare oltre. E a questo punto il padre di Shvetaketu avviava una sequenza rapinosa di pensieri, che culminava con l’atman, il Sé, e si condensava in tre parole: Tat tvam asi, “Ciò tu sei”. Quelle tre parole sono il grano di senape che schiude l’immensità vedica. E a noi sono giunte in quanto parole dette a questo giovane brahmano, il quale - in un momento successivo della sua vita - avrebbe redatto una versione abbreviata della dottrina erotica di Nandin. Così Shvetaketu era stato un anello fra gli anelli da cui è nato il Kamasutra. A dimostrazione del fatto che, se c’è stato un luogo dove tout se tient, tale era l’India vedica. In Occidente sarebbe difficile immaginare una leggenda che facesse risalire a Parmenide il trattato erotico dell’etèra Elephantis.
Wendy Doniger ha finalmente reso giustizia al Kamasutra, innanzitutto traducendolo in modo adeguato, senza i malintesi e le superfetazioni stilistiche di Burton, e ricollocandolo in una posizione eminente nella trattatistica indiana. Utile contravveleno a quelle «pratiche pervasive e spesso violente di polizia morale » che hanno attanagliato una parte dell’India e della diaspora indiana in questi ultimi anni, soprattutto dopo il ritorno al governo del Bharatiya Janata Party, con le sue squadre di fondamentalisti indù del Bajrang Dal, che intervengono brutalmente per impedire i festeggiamenti per San Valentino, considerati un esempio di “capitalismo pornografico”.
Giustamente, come considerazione finale, Doniger ha ricordato che il dio Kama, ovvero Desiderio, dopo esser stato incenerito da Shiva, venne a trovarsi infuso, con le sue particelle, «in un certo numero di altre sostanze, che facevano agire la magia di Kama in modo ancora più efficace - la luce lunare, le sopracciglia arcuate delle donne belle e così avanti». E Shiva stesso è contraddistinto dalla più vasta oscillazione fra estremi che conosciamo. Lo dice anche il titolo di un libro prezioso che Doniger pubblicò nel 1973: Shiva. L’asceta erotico. Ma quell’oscillazione vale anche per l’India in genere. Di Kama nessuno sarà in grado, per fortuna, di sbarazzarci.
From The New York Review of Books © 2016 by Roberto Calasso
L’epopea di Roma inizia a Canne
Dopo la sconfitta inflitta da Annibale la Repubblica si compatta. Fino alla distruzione di Cartagine
di Luciano Canfora (Corriere della Sera, 23.06.2016)
Secondo una intuizione che Platone nelle Leggi attribuisce a Clinia, l’interlocutore cretese del dialogo, «ciò che la maggior parte degli uomini chiamano pace è solo un’apparenza; in realtà tutte le città sono per natura in uno stato permanente di guerra non dichiarata contro tutte le altre città» (626A). Si potrebbe aggiungere a questa penetrante osservazione dell’ultimo Platone che, nel mondo greco, anche il lessico denota la coscienza della precarietà della pace e del carattere invece permanente - anche se talvolta latente - della guerra. In greco infatti è la stessa parola ( spondai ) che indica la «tregua» e la «pace» stipulata attraverso trattati interstatali. Trattati che indicano anche per quanti anni sarà valido l’impegno.
Quanto al mondo dominato da Roma, prima della pax Augusta il tempio di Giano, la cui apertura denotava lo stato di guerra, era stato chiuso una sola volta! Né va dimenticata la voce di un fiero avversario di Roma, il capo britannico Calgaco, il quale - secondo un celebre passo dell’ Agricola di Tacito - affermò che i Romani definiscono pace la «terra bruciata»( solitudinem ) che si lasciano alle spalle.
Una ben aspra idea di «pace», che prende atto della brutalità e insanabilità del conflitto di potenza. È noto del resto che anche le religioni - fino a che non si sublimano in credi filosofici, come è da qualche decennio il caso del cristianesimo - hanno praticato la guerra come prosecuzione della politica per dirla col celebre motto di von Clausewitz, rinverdito ora dalla brillante antologia del Vom Kriege edita in questi giorni da Mondadori a cura di un appassionato polemologo come Gastone Breccia.
Ma il locus classicus del conflitto di potenza è, nel mondo antico - al pari della guerra peloponnesiaca (431-404 a.C.), - il conflitto interminabile e mortale tra Roma e Cartagine. Conflitto che non si limitò ai primi due atti del dramma, tra il 264 e il 202 a.C., ma proseguì - dopo stasi e conflitti in altri teatri - fino alla distruzione di Cartagine (146 a.C.).
Di quella vicenda, e delle ragioni dell’impossibilità di una risoluzione non catastrofica di quel conflitto, Giovanni Brizzi è il maggior conoscitore e più agguerrito interprete: sia sul piano dell’interpretazione politica che degli avvenimenti militari. Dal suo Annibale, come un’autobiografia (Rusconi 1994) all’ Annibale per la Eri (1999, che trascrive le sue conversazioni radiofoniche nel ciclo Alle otto della sera ), al monumentale Scipione e Annibale, la guerra per salvare Roma (Laterza 2007), al recentissimo Canne, la sconfitta che fece vincere Roma (il Mulino).
Pur abbracciando l’intera vicenda della guerra annibalica, dai prodromi all’epilogo, il saggio si concentra sulla memorabile battaglia (2 agosto 216 a.C.) non solo per il suo rilievo ma soprattutto per i suoi mancati effetti: nessun’altra città Stato del mondo antico avrebbe retto a una sconfitta di tali proporzioni.
Non a caso è proprio sul dopo Canne che Brizzi si sofferma, in tre paragrafi ben concatenati: Sembrava la fine; Che cosa sconfigge Anni bale?; Roma dopo Canne: il «metus». La spiegazione proposta da Brizzi al quesito che già galvanizzò l’attenzione di Polibio è che decisivi furono «la dedizione e lo spirito di sacrificio dei contadini-soldati della Repubblica». «Ad animare i combattenti - egli prosegue - sarà d’ora in avanti soprattutto una pulsione profondamente morale». «Questo animus collettivo permetterà alla res publica di sostenere fino in fondo la prova titanica (...) Roma infatti giungerà, negli anni successivi alla sconfitta, a tenere costantemente sotto le armi da 20 a 25 legioni (ne avrà 30 quattro secoli dopo quando i suoi confini andranno dalla Britannia all’Eufrate!)» (p. 152).
E, soggiunge Brizzi, contribuì, come elemento non secondario, la compattezza degli alleati, i fedelissimi socii Latini nominis, cioè dotati della cittadinanza di diritto latino. Tale inaudita capacità di colmare i vuoti dell’esercito e di lanciare sempre nuove legioni «nell’inestinguibile fornace di una guerra infinita» logorerà Annibale, stretto sempre più nell’area di Crotone, e alla fine richiamato in patria per effetto dell’imprevisto Blitzkrieg di Scipione in Africa. Mossa strategica vincente quella del poco più che trentenne rampollo dell’aristocrazia romana: mossa degna dell’audacia cesariana nel corso della guerra civile che dilanierà l’impero un secolo e mezzo più tardi.
Ma forse, se è ben vero che i contadini-soldati restarono in piedi a difendere la Repubblica, è giusto porsi la questione: perché lo fecero? La risposta è quella implicita, ma chiara, nel racconto polibiano. Non è per caso infatti che Polibio, dopo aver narrato di Canne (libro III), prima di riprendere il filo della storia di Roma (libro VII), faccia pausa nel racconto e inserisca un intero libro (il VI) sugli ordinamenti politici e militari romani. Perché egli ravvisa in quegli ordinamenti, capaci di compenetrare in modo originale ed equilibrato le tre forme di governo nel cui implacabile scontro s’erano invece logorate le città greche per secoli, la ragione vera della compattezza della Repubblica: anche nel momento estremo della sconfitta.
Non è un caso che Machiavelli, giovandosi di versioni latine, abbia posto proprio quei capitoli polibiani sulla «costituzione mista» a fondamento della sua opera più pensata e più «repubblicana», i Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio.
Così un Cesare democratico cambierebbe davvero il Paese
di Ernesto Galli della Loggia (Corriere della Sera, 07.06.2016)
«Un Cesare democratico che non c’è» s’intitolava un articolo pubblicato sul Corriere di qualche giorno fa. Dove indicavo come un fatto negativo l’assenza negli attuali sistemi politici dell’Europa occidentale di una leadership populista democratica, molto probabilmente l’unica in grado di opporsi all’ascesa del populismo reazionario e/o antisistema.
Le elezioni italiane di domenica sono una clamorosa conferma di questa assenza: esse hanno indicato infatti che Matteo Renzi, a dispetto di ciò che inizialmente aveva fatto credere, non è quel Cesare.
Per cominciare, proprio domenica è mancata al presidente del Consiglio la capacità di realizzare quello che è l’obiettivo più tipico che distingue una leadership tendenzialmente populista (di qualsiasi segno essa sia) da una leadership democratica tradizionale: cioè ottenere un consenso trasversale a destra e a sinistra - così come, per l’appunto, gli era capitato nelle ultime elezioni europee. Domenica, invece, sotto la guida di Renzi il Pd non è riuscito a pescare voti in alcun serbatoio diverso dal suo, di cui anzi ha sicuramente perduto una parte. Esattamente l’opposto, tra l’altro, di ciò che avrebbe dovuto fare un eventuale «Partito della Nazione».
Il deludente risultato elettorale non nasce domenica. L’iniziativa di Renzi in questo ultimo anno si è mostrata singolarmente inadeguata su due temi a cui l’opinione pubblica è sensibilissima, e che per giunta sono tra quelli la cui essenzialità un Cesare democratico avrebbe dovuto immediatamente cogliere, agendo di conseguenza.
Il primo è quello dell’immigrazione e del connesso ruolo dell’Europa. In un anno e più, al di là di molte belle parole, di promesse non mantenute e di qualche gesto poco significativo (una manciata di navi dei Paesi dell’Unione nel Mediterraneo), da Bruxelles il presidente del Consiglio non ha in pratica ottenuto nulla. E non ha potuto fare nulla per regolare il flusso dei nuovi arrivi.
Alla ricerca anche lui del benevolo accreditamento a Berlino o a Parigi, al quale come al solito i politici di casa nostra aspirano quando si parla di Europa, e timoroso di non ottenere il necessario assenso della signora Merkel sulla «flessibilità» dei conti pubblici, Matteo Renzi ha finito per apparire a rimorchio dei fatti. La proposta del cosiddetto Migration compact (tra parentesi: ma perché mai un governo italiano, presieduto per giunta da un fiorentino, deve esprimersi sempre in inglese? Il Jobs act, poi il Migration compact, adesso si annuncia un Social act: ci si rende conto della ridicolaggine da poveri provinciali di tutto ciò?), il Migration compact, dicevo, ha ricevuto un educato consenso di maniera da tutti, ma da settimane è fermo e non fa un passo avanti.
Un pessimo presagio. Renzi, in particolar modo, non è apparso in grado più di tanto di tenere un profilo realmente deciso e combattivo nei confronti dei nostri partner europei. Realmente deciso significa pronto a usare quel linguaggio realistico, e perciò capace di prospettare eventuali ritorsioni concrete, che è il solo che gli Stati capiscono.
Il secondo fronte che la leadership populista di un vero Cesare democratico avrebbe dovuto subito percepire come peculiarmente proprio, e del quale Renzi invece si è sostanzialmente disinteressato, è stato quello della crisi degli istituti bancari. Una crisi che ha destato un allarme vastissimo in un popolo di risparmiatori quali sono gli italiani, e che per la sua ampiezza (cinque o sei istituti molto radicati nei rispettivi territori) ha mostrato in misura chiarissima i legami ambigui e spesso truffaldini che nella provincia italiana legano le oligarchie locali e le élite economiche, spesso accumunate da una sostanza moralmente opaca dietro l’apparenza di un’operosa rispettabilità.
Renzi non ha colto affatto l’occasione offertagli da una questione così simbolicamente significativa per prendere le difese dei «molti» e «piccoli» contro l’avidità bancarottiera dei «grossi». Ha rinunciato a far pesare in tutta la questione l’autorità del comando politico e delle sua prerogative. Per esempio ha preferito chiudere gli occhi sulla condotta della dirigenza della Consob, una delle «Autorità» di controllo più invischiata da sempre in mille complicità con i suoi controllati, e affidata alla guida di un tipico esponente di quel ceto di alti burocrati convertiti alla politica e poi tornati all’amministrazione, che è interessato sempre e solo a rimanere a galla. Non ha colto il valore generale della questione (specie in un periodo in cui molti sono costretti a stringere la cinghia), lasciando tutto a una gestione inevitabilmente «burocratica».
La verità è che in generale Renzi avverte realmente, io credo, la necessità di cambiare il Paese; ma al di là della «rottamazione» - peraltro finora attuata perlopiù a danno dei suoi avversari interni del Pd - gli riesce difficile individuare altre linee direttrici lungo le quali operare effettivamente. Gli riesce difficile individuare nemici importanti da combattere, amministrazioni cruciali da riformare, interessi economici e sociali da colpire, istituzioni da rifondare. Lo si direbbe voglioso piuttosto di piacere, di elargire, di ottenere in tal modo consenso a destra e a manca: un consenso che così, però, non gli arriva o dura lo spazio di un mattino. Così, il solo consenso vero che è sembrato essergli venuto, infatti, è quello di spezzoni di classe politico-parlamentare in disarmo, alla ricerca di una lista in cui farsi rieleggere.
Per cambiare il Paese - come tre anni fa aveva detto di voler fare, accendendo molte speranze, quello che allora si presentò come un giovane Cesare democratico in potenza - non bastano spurie alleanze parlamentari. Se si vuole davvero farlo, allora bisogna riuscire a mettere insieme molteplici forze sociali da impegnare in un programma comune all’insegna di un reciproco scambio di interessi di lungo periodo; e serve assicurarsi la collaborazione non di ministri perlopiù insignificanti, ma delle migliori energie intellettuali del Paese. E serve, infine, essere capaci di cogliere il sentire della gente (sì della famigerata «gente»), mettersi in sintonia con l’uomo della strada, calarsi nelle sue esigenze quotidiane e nelle sue rabbie, ma anche far conto sui suoi sogni e sul suo desiderio frequente di essere migliore di quello che è.
PIAZZA ENZO PACI.
Discorso per l’inaugurazione e altri materiali
Golpe, l’ultima tentazione del potere
La democrazia ha vinto. Ma lo Stato di diritto resta un nemico per le destre
di EZIO MAURO (la Repubblica, 10 maggio 2016)
IN PRINCIPIO, naturalmente, c’era il Regno dei Cieli. Ma subito sotto, il primo re nel mondo degli uomini fu Nemrod figlio di Cus che era figlio di Cam, uno dei tre figli di Noè. Lui, gran cacciatore al cospetto del Signore, "fu il primo a esercitare il potere sopra la terra" e il suo regno cominciò a Babel e proseguì in Assiria, dove costruì Ninive e la città grande di Resen. Nelle stesse pagine sacre della Bibbia insieme con il nome del primo sovrano è iscritto il primo colpo di Stato che fu di un figlio contro un padre, quando Assalonne si ribellò al re Davide, lo costrinse a fuggire da Gerusalemme piangendo a piedi nudi con il capo velato, seguito dai familiari con tutti i leviti che portavano l’Arca di Dio: finché in battaglia nella foresta di Efrain l’esercito ribelle fu sconfitto e tre giavellotti colpirono nel cuore Assalonne, uccidendo il primo golpista della storia.
Più che con un "putsch" nel senso classico del termine, dopo il diluvio il mondo della politica cominciò così con un’"intentona", come in Sudamerica chiamano i golpe falliti. La storia politica dell’umanità è dunque segnata fin dal suo inizio dal sangue versato per rovesciare il sovrano o per difenderlo perché il comando - dalle tribù agli Stati - porta da sempre con sé il volto demoniaco.
Ovvero il lato oscuro di quel trono che si mostra in pubblico ai sudditi illuminato dai bracieri e profumato dagli incensi. In quell’oscurità degli "arcana imperii" si muovono trame, congiure, tradimenti, complotti, giuramenti e presagi, insieme con le ambizioni, le paure, le ribellioni che nei millenni hanno agitato i Principi e il popolo portandoli a temere e concepire il colpo di Stato, strumento comune di lotta politica in ogni era e a ogni latitudine, ben prima che nascesse il concetto stesso di Stato nel senso moderno del termine.
Esattamente, infatti, il colpo di Stato è "un’azione ardita e straordinaria che i principi sono costretti a mettere in pratica per affari senza via d’uscita, contro il diritto comune e senza tener conto di alcun ordine né forma di giustizia". La diagnosi è del bibliotecario di Richelieu e Mazarino, Gabriel Naudé, che nel 1639 pubblica in dodici esemplari le Considerazioni politiche sui colpi di Stato, un’analisi erudita e libertina degli strumenti eccezionali usati in circostanze particolari per difendere nel sangue il trono o per abbatterlo.
Naudé scrive un secolo dopo il Principe e alla fenomenologia delle congiure di Machiavelli oppone una vera e propria teoria del golpismo, in particolare di quello che si chiamerà poi l’"autogolpe", cioè l’atto di forza compiuto dal potere sovrano per salvaguardare se stesso. Una teoria completa e sorprendente, che si apre col consiglio di San Tommaso ai tiranni (uccidere i ricchi, i potenti e i sapienti, non permettere scuole e conoscenza, creare scompiglio nel popolo, rendere poveri i sudditi, diffidare degli amici) e finisce con un vero e proprio manuale per l’uso del colpo di mano, dall’individuazione dei congiurati alla tempistica, all’inganno: "La più grande virtù che regna nelle corti è diffidare di tutti e dissimulare con ciascuno".
Le Considerazioni abbondano di esempi storici che raccontano come il "colpo" sia stato per secoli una risorsa politica comune, che non occorreva né spiegare né giustificare: quando Periandro, tiranno di Corinto, chiede come rendere sicuro il suo regno a Trasibulo, tiranno di Milito, quest’ultimo senza parlare va nel campo e tronca le spighe più alte: Poliandro capisce e fa uccidere i cittadini più illustri di Corinto. Ma spesso il potere e il contropotere insieme con la spada si servono del sacro, fingendo di essersi assicurati il favore del Cielo con inganni, visioni e superstizioni, con Silla che illustra il sostegno di Apollo alle sue azioni, Sertorio che riceve dalla sua cerva il racconto di ciò che si decide nel cenacolo degli dei, Carlomagno che entra in Spagna con la grande chiave caduta dalle mani di un vecchio idolo, come voleva la profezia. Tutte le monarchie, dice Naudé, hanno preso avvio da qualche espediente o soperchieria, "facendo marciare la religione e il miracolo in testa a un lungo seguito di barbarie e di crudeltà ".
D’altra parte, nei "coups d’Etat" è bene che tutto si faccia "di notte, all’oscuro, tra le nebbie e le tenebre " pregando la dea Laverna di coprire col buio i peccati dei congiurati, occultando le loro frodi. Si deve sentir "cadere il fulmine prima di udire il brontolio del tuono", scegliendo i mezzi più facili, svelando il piano ai congiurati solo all’ultimo, manipolando intanto il popolo con predicatori o libelli clandestini, in modo "da condurlo per il naso" dove si vuole, diffidando sempre perché il popolo è incostante è variabile, continuamente pronto a approvare e disapprovare insieme, a mormorare, a credere con leggerezza e lamentarsi all’improvviso. Ai congiurati servono "fortezza, giustizia, prudenza", per sfruttare le minime occasioni propizie, come Druso che riuscì a soffocare una rivolta delle legioni in Pannonia usando lo sconcerto provocato da un’eclissi di luna.
Inganno, sangue, frode. E qui le Considerazioni sfiorano e citano la teorizzazione di Giovanni Botero, che nel 1589, mentre lavora da ex gesuita alla Congregazione dell’Indice nella Curia romana si domanda per primo cosa sia la ragion di Stato e risponde che "è notizia di mezzi atti a fondare, conservare e ampliare un dominio fermo sopra popoli". Siamo alle soglie della moderna realpolitik, esasperata dalla violenza tipica dei colpi di Stato: la strada di chi detiene il potere - dice infatti il bibliotecario di Richelieu - "è più larga e più libera" di quella dei sudditi a causa della responsabilità che pesa sulle sue spalle. Per questo il sovrano può marciare con passo sbilenco e irregolare, perché "talvolta occorre che nasconda e deformi". È la teorizzazione della possibilità di trasgredire il diritto comune per il cosiddetto bene comune, valutato spesso a posteriori, da chi ha vinto. È quasi la teorizzazione dello "stato d’eccezione" di Carl Schmitt (il sovrano non è il garante dell’ordinamento ma colui che lo crea a partire dall’eccezione), con Naudé che ammette interventi straordinari fuori dal "diritto delle genti" e dalle leggi ordinarie per un interesse pubblico supremo. D’altra parte, spiega con lo scetticismo dei libertini, bisogna spesso servirsi "di una giustizia artificiale, politica, rapportata al bisogno dei governi, perché essa è abbastanza cedevole e molle da sapersi adattare".
Ci vuole teoria, sembra dire Naudé, dunque studio e scienza per un buon golpe. Ci vuole soprattutto metodo, risponderà nel 1931 Curzio Malaparte, nel suo insuperato Tecnica del colpo di Stato (Adelphi), proibito all’uscita da Mussolini e da tutte le dittature europee. Il problema della conquista e della difesa dello Stato moderno non è un problema politico ma squisitamente tecnico, dice Malaparte, un’arte specifica che non dipende dalle condizioni generali del Paese come credeva Lenin ma dalla capacità di organizzare l’insurrezione, come capì Trotsky, che infatti mentre Kerenskij difendeva i palazzi di Stato infiltrò con le sue "esercitazioni invisibili" le guardie rosse nei gangli dei servizi tecnici di Pietrogrado, dalle stazioni alle centrali dei telefoni, ai gasometri, ai telegrafi, collassando la città prima del governo. Il puro contrasto militare, come anche l’attacco di massa, non funzionano più: gli Stati si rovesciano e si difendono con una tecnica specifica che ogni dittatore aggiorna a se stesso, con Napoleone che pretende di compiere con la forza delle armi una rivoluzione parlamentare, Mussolini che si impadronisce dello Stato "molto prima dell’entrata delle camicie nere nella capitale" con una tecnica rivoluzionaria violenta che in tre anni porta il fascismo a fare il vuoto intorno a sé cancellando ogni forza organizzata politica o sindacale, proletaria o borghese.
Gli Stati dunque non si salvano e non si perdono con la tattica fondata sui sistemi di polizia, con i quali Cicerone sventò la congiura di Catilina. E in ogni caso conviene tener presente l’ammonimento di Machiavelli, per cui la congiura è "difficile e pericolosissima in ogni sua parte, donde ne nasce che molte se ne tentano e pochissime hanno il fine desiderato ". Si capisce il vincolo quasi sacro che unisce per la vita e per la morte i congiurati, con Catilina che nel racconto di Sallustio "fece girare delle tazze con dentro sangue umano misto a vino" e solo quando tutti ebbero bevuto svelò il suo piano, dopo l’"exsecrationem" rituale con cui si maledicevano i traditori. Il segreto resta il fondamento della congiura, a differenza del mistero e dell’occulto in cui affonda invece il complotto, secondo la distinzione di Alessandro Campi e Leonardo Varasano in Congiure e complotti. Da Machiavelli a Beppe Grillo (Rubbettino) per cui i colpi di Stato avvengono nella storia, con soggetti definiti e individuabili, mentre le cospirazioni complottistiche sono teorie e costruzioni astratte con soggetti indefiniti e entità misteriose. Una distinzione intellettualmente convincente, se non fosse che lo specifico del nostro Paese presenta una storia in cui abbondano negli snodi criminali proprio quei "soggetti indefiniti" e quelle "entità misteriose", di cui spesso conosciamo solo le sigle e la ragione sociale eversiva, in debito come siamo di verità.
Verrebbe da concludere che nella parte di mondo in cui viviamo la democrazia ha vinto e nessuno pensa più ai colpi di Stato. Ma se guardiamo oggi all’Europa di mezzo, vediamo che la nuova destra considera proprio i valori liberali dello Stato di diritto i principali avversari, non i valori giacobini. E ovunque, in Occidente, la democrazia esausta rischia di ricordare quelle conchiglie di spiaggia perfette nella loro forma esterna, mentre all’interno l’organismo sta morendo. D’altra parte proprio l’uomo di Richelieu ci ricorda che "le leggi ci perdonano i delitti che la forza ci obbliga a commettere". E non consola nemmeno pensare che c’è poca forza oggi nella politica occidentale, manca una leadership capace di concepire l’inconcepibile in democrazia. Perché vale sempre il monito di Malaparte: le risorse della mediocrità sono inesauribili.
Il saggio di Michele Ciliberto (edizioni della Normale)
Niccolò Machiavelli, il repubblicano
Esce per la collana «Codice europeo» il volume Rinascimento di Michele Ciliberto, in cui emerge la figura del filosofo fiorentino, descritto come nemico del potere assoluto
di LUCIANO CANFORA (Corriere della Sera, 24.04,2016)
È nata, per le Edizioni della Scuola Normale di Pisa, una nuova collana intitolata «Codice europeo». Sono monografie essenziali: perché riguardano temi e personaggi di primaria importanza, e perché la trattazione è asciutta, appunto essenziale. Il primo volumetto Rinascimento (pagine 112, euro 10), è di Michele Ciliberto, che quelle edizioni dirige e, per esse, aveva già dato vita l’anno passato a una monumentale enciclopedia bruniana: Giordano Bruno. Parole concetti immagini (tre volumi, il terzo dei quali è interamente riservato agli apparati, anche iconografici). Il lemmario dà un’idea della vastità di orizzonti di questa enciclopedia: sia sul versante delle fonti (non solo antiche), sia sul versante degli interpreti moderni di Bruno; speciale cura è stata dedicata alla enucleazione delle realtà fisiche e concettuali che costituiscono la materia prima della riflessione bruniana. Giordano Bruno ritorna, in un breve capitolo conclusivo, anche all’interno di questo volumetto inaugurale della nuova collana. Esso si apre con un capitolo introduttivo che ruota intorno al concetto secondo cui l’idea illuministica di Rinascimento come rottura col passato è una generosa costruzione storiografica da archiviare.
Non faremo torto all’autore se diciamo che però è la rilettura di Machiavelli (pp. 39-84) il «cuore» del libro. Contro la consuetudine di porre al centro Il Principe, l’attenzione è rivolta quasi esclusivamente ai Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, e in particolare al libro III. Dunque un Machiavelli soprattutto «repubblicano» e nemico del potere assoluto o monarchico in qualunque forma esso si manifesti. Il Principe appare una sola volta (p. 74), per la celebre, detestabile, immagine del XXV capitolo, sulla Fortuna che va picchiata come si farebbe con una donna («la fortuna è donna, ed è necessario, volendola tenere sotto, batterla e urtarla»).
Per il resto il saggio elabora una chiave di interpretazione che investe l’intera concezione machiavelliana. Ciliberto la definisce «paradigma della vita». Ed è alla luce di tale «paradigma» - cioè della visione degli Stati come organismi viventi - che interpreta la molto discussa espressione che si trova subito al principio del libro III (cap. 1,1): ricondurre le repubbliche «inverso i principî loro».
Una densa nota di Corrado Vivanti (edizione Einaudi, 1983) dà conto delle molte interpretazioni di questo cruciale concetto: ritorno «ai principî», restaurazione del vecchio ordine, ritorno ad uno stato primitivo, ripigliare nuova vita e nuova virtù secondo una suggestione che Garin volle riconoscere nel Politico di Platone, forse noto a Machiavelli nella traduzione di Ficino.
Credo che abbia ragione Ciliberto nell’ancorare quel concetto al «paradigma della vita» ed a tentarne un inveramento proprio nella vicenda storica di Roma dalle origini alla deriva autocratica culminata nella vittoria di Cesare. È possibile che la suggestione sia di matrice ermetica, il Lamento di Asclepio da cui Machiavelli trarrebbe la nozione del ritorno a una condizione biologicamente originaria (ciclo che peraltro non può ripetersi indefinitamente).
Ma proprio perché l’inveramento del «paradigma della vita» è tutto calato nella storia e nella parabola di Roma antica, non andrebbe esclusa la fonte storica latina più apertamente - sin dal proemio - incentrata sul paradigma della vita umana come chiave per interpretare la storia di Roma, e cioè la Epitoma de Tito Livio di Anneo Floro.
Il migrante «mobile» che mette in crisi la staticità dello Stato
di Franco Farinelli (Corriere della Sera, La Lettura, 17.01.2016)
Che fine hanno fatto gli abitanti di Parigi? Se lo chiedeva Walter Benjamin a proposito delle foto scattate da Eugène Atget nell’Ottocento, del tutto prive di persone quasi che la città fosse deserta, una scena vuota. E metteva in guardia, nella sua Piccola storia della fotografia, contro il «nascosto carattere politico» di tali immagini, di cui non riusciva però a decifrare la natura, la ragione. Per rispondere sarebbe bastata un’occhiata al frontespizio del Leviatano di Hobbes, il testo cui più di ogni altro lo Stato moderno deve la propria fondazione teorica, apparso a metà Seicento: un’epoca in cui la prima pagina di un libro valeva come sintesi illustrata di tutto il contenuto, al punto che Cartesio poteva vantarsi di non aver bisogno di aprire un volume per venire a capo del problema posto dal titolo.
A prima vista il corpo del Leviatano, emblema dello Stato territoriale centralizzato come lo chiamava Carl Schmitt, sembra soltanto villoso, oppure formato da molteplici scaglie. In realtà la gigantesca forma del mostruoso principe, che brandisce sul mondo le insegne del potere sia religioso che civile, risulta costituita dalla massa dei singoli corpi dei sudditi, tutti privi di volto perché ritratti di spalle, a segno dell’assenza di ogni loro reciproca differenza al cospetto del nuovo «Dio mortale». Soltanto il capo e le mani (gli organi del pensiero e dell’azione) della potentissima creatura sono fatti di una sostanza non umana, del tutto estranea rispetto all’ingombro materiale della somma degli individui: i cui apparati fisici, parti coerenti e solidali dello stesso unico insieme, già anticipano, nella loro reciproca equivalenza e nella intercambiabilità della loro disposizione, la logica della produzione di serie, il cui primo annuncio i filosofi di Francoforte scorgeranno invece nelle macchine erotiche descritte da de Sade.
Diversamente però da quel che accade in quest’ultime, nel corpo del Leviatano i soggetti debbono restare immobili o almeno in tal modo vengono concepiti, pena la crisi della staticità dello Stato stesso, che si chiama così proprio perché non si muove.
Fu Machiavelli, all’inizio del Cinquecento, il primo ad adoperare tale termine nel significato di una formazione politica che coincide con un’estensione territoriale: ancora nel Quattrocento «stato» era soltanto sinonimo di condizione, quella privilegiata di un essere umano dotato di particolari e superiori prerogative dal punto di vista dell’esercizio del potere, a partire da quello di dire giustizia.
Come un soggetto si sia oggettivato trasformandosi in una cosa, come la parola che designa un potente sia passata invece a distinguere l’ambito d’esercizio del suo potere (di ciò infatti si tratta) è un processo che ancora attende puntuale ricostruzione. Ma intanto è proprio da tale sparizione del soggetto che deriva l’assenza di persone nelle fotografie che a Benjamin facevano problema, e di cui intuisce la funzione politica: come nelle foto Alinari su cui abbiamo studiato al liceo Storia dell’arte, gli uomini e le donne sono assenti perché stanno altrove, a comporre il corpo dello Stato, di cui le immagini stesse sono più o meno consapevole e mediata espressione. E oltre che invisibili gli atomi di cui il Leviatano si compone sono immobili perché se è vero che lo Stato moderno non ha territorio ma è il territorio, come insegnano i giuristi, quest’ultimo è una costruzione geometrica, uno spazio propriamente detto, al cui interno ogni cittadino corrisponde a un punto, dalla cui supposta stabilità la stabilità (la staticità) dell’intero sistema dipende. Da dove altrimenti deriverebbe l’uguaglianza (l’egalité) dei cittadini? Accadde l’11 settembre, del 1789: per la prima volta, a Parigi, il voto dell’Assemblea venne espresso singolarmente, non più per «ceto» ma per «testa», appunto in omaggio al principio dell’equivalenza generale dei punti geometrici sul piano.
Ecco perché le figure del migrante e del rifugiato mettono davvero in crisi l’ordinamento politico esistente: perché la loro visibilità e mobilità, ripristinando le più immediate funzioni antropologiche, minano prima d’altro la fondamentale finzione (la funzionale idealizzazione, il «congelamento metonimico» direbbe Arjun Appadurai) sulla cui base l’intero sistema statale moderno è stato costruito.
I ciompi
di Niccolò Machiavelli (Istorie fiorentine, Libro III, capitolo 13)
Gli uomini plebei adunque, cosí quegli sottoposti all’Arte della lana come alle altre, per le cagioni dette erano pieni di sdegno: al quale aggiugnendosi la paura per le arsioni e ruberie fatte da loro, convennono di notte piú volte insieme discorrendo i casi seguíti e mostrando l’uno all’altro ne’ pericoli si trovavano. Dove alcuno de’ piú arditi e di maggiore esperienza, per inanimire gli altri, parlò in questa sentenza:
«Se noi avessimo a deliberare ora se si avessero a pigliare l’armi, ardere e rubare le case de’ cittadini, spogliare le chiese, io sarei uno di quegli che lo giudicherei partito da pensarlo, e forse approverei che fusse da preporre una quieta povertà a uno pericoloso guadagno; ma perché l’armi sono prese e molti mali sono fatti, e’ mi pare che si abbia a ragionare come quelle non si abbiano a lasciare e come de’ mali commessi ci possiamo assicurare. Io credo certamente, che quando altri non ci insegnasse, che la necessità ci insegni.
Voi vedete tutta questa città piena di rammarichii e di odio contro a di noi: i cittadini si ristringono, la Signoria è sempre con i magistrati; crediate che si ordiscono lacci per noi, e nuove forze contro alle teste nostre si apparecchiono. Noi dobbiamo per tanto cercare due cose e avere nelle nostre deliberazioni duoi fini: l’uno di non potere essere delle cose fatte da noi ne’ prossimi giorni gastigati, l’altro, di potere con piú libertà e piú sodisfazione nostra che per il passato vivere.
Convienci per tanto, secondo che a me pare, a volere che ci sieno perdonati gli errori vecchi, farne de’ nuovi, raddoppiando i mali, e le arsioni e ruberie multiplicando, e ingegnarsi a questo avere di molti compagni: perché dove molti errano niuno si gastiga, e i falli piccoli si puniscono, i grandi e gravi si premiano; e quando molti patiscono, pochi cercono di vendicarsi, perché le ingiurie universali con piú pazienza che le particulari si sopportono. Il multiplicare adunque ne’ mali ci farà piú facilmente trovare perdono, e ci darà la via ad avere quelle cose che per la libertà nostra di avere desideriamo.
E parmi che noi andiamo a uno certo acquisto, perché quelli che ci potrebbono impedire sono disuniti e ricchi: la disunione loro per tanto ci darà la vittoria, e le loro ricchezze quando fieno diventate nostre ce la manterranno. Né vi sbigottisca quella antichità del sangue che ei ci rimproverano; perché tutti gli uomini avendo avuto uno medesimo principio sono ugualmente antichi, e dalla natura sono stati fatti a uno modo.
Spogliateci tutti ignudi, voi ci vederete simili: rivestite noi delle vesti loro ed eglino delle nostre, noi sanza dubbio nobili ed eglino ignobili parranno; perché solo la povertà e le ricchezze ci disagguagliano. Duolmi bene che io sento come molti di voi delle cose fatte, per conscienza si pentono, e delle nuove si vogliono astenere; e certamente, se gli è vero, voi non siete quelli uomini che io credeva che voi fusse: perché né conscienza né infamia vi debba sbigottire; perché coloro che vincono, in qualunque modo vincono, mai non ne riportono vergogna.
E della conscienza noi non dobbiamo tenere conto, perché dove è come è in noi la paura della fame e delle carcere, non può né debbe quella dello inferno capere. Ma se voi noterete il modo del procedere degli uomini, vedrete tutti quelli che a ricchezze grandi e a grande potenza pervengano, o con frode o con forza esservi pervenuti: e quelle cose, di poi, ch’eglino hanno o con inganno o con violenza usurpate, per celare la bruttezza dello acquisto, quello sotto falso titolo di guadagno adonestono. E quegli i quali o per poca prudenza o per troppa sciocchezza fuggono questi modi, nella servitú sempre e nella povertà affogono; perché i fedeli servi sempre sono servi, e gli uomini buoni sempre sono poveri; né mai escono di servitú se non gli infedeli e audaci, e di povertà se non i rapaci e frodolenti.
Perché Iddio e la natura ha posto tutte le fortune degli uomini loro in mezzo, le quali piú alle rapine che alla industria e alle cattive che alle buone arti sono esposte: di qui nasce che gli uomini mangiono l’uno l’altro, e vanne sempre col peggio chi può meno. Debbesi adunque usare la forza quando ce ne è data occasione: la quale non può essere a noi offerta dalla fortuna maggiore, sendo ancora i cittadini disuniti, la Signoria dubia, i magistrati sbigottiti; talmente che si possono, avanti che si unischino e fermino l’animo, facilmente opprimere: donde o noi rimarreno al tutto principi della città, o ne areno tanta parte che non solamente gli errori passati ci fieno perdonati ma areno autorità di potergli di nuove ingiurie minacciare. Io confesso questo partito essere audace e pericoloso; ma dove la necessità strigne è l’audacia giudicata prudenza, e del pericolo nelle cose grandi gli uomini animosi non tennono mai conto; perché sempre quelle imprese che con pericolo si cominciono, si finiscono con premio, e di uno pericolo mai si uscí sanza pericolo: ancora che io creda, dove si vegga apparecchiare le carcere, i tormenti e le morti, che sia da temere piú lo starsi che cercare di assicurarsene; perché nel primo i mali sono certi, e nell’altro dubii.
Quante volte ho io udito dolervi della avarizia de’ vostri superiori e della ingiustizia de’ vostri magistrati! Ora è tempo non solamente da liberarsi da loro ma da diventare in tanto loro superiore, ch’eglino abbiano piú a dolersi e temere di voi che voi di loro. La opportunità che dalla occasione ci è porta vola; e invano quando la è fuggita si cerca poi di ripigliarla. Voi vedete le preparazioni de’ vostri avversari: preoccupiamo i pensieri loro; e quale di noi prima ripiglierà l’armi, sanza dubio sarà vincitore con rovina del nemico ed esaltazione sua: onde a molti di noi ne resulterà onore, e securità a tutti». Queste persuasioni accesono forte i già per loro medesimi riscaldati animi al male: tanto che deliberorono prendere le armi, poiché eglino avessero piú compagni tirati alla voglia loro; e con giuramento si obligorono di soccorrersi quando accadessi che alcuno di loro fusse dai magistrati oppresso.
Il tempo nuovo dei tumulti
di Sandro Mezzadra (il manifesto, 24 Dicembre 2015)
È giugno a Parigi, corre l’anno 1848. La famiglia Tocqueville è a tavola, in una casa signorile della rive gauche. Tuona il cannone sull’altra riva della Senna, la canaglia operaia sarà infine sconfitta e massacrata. Ma il terrore serpeggia in casa Tocqueville, tanto forte è l’impressione destata dall’insurrezione armata proletaria. A una giovane cameriera, che arriva proprio dal Faubourg Saint-Antoine, uno degli epicentri della rivolta, sfugge un sorriso. Sarà licenziata immediatamente, ma quel sorriso - lo ha ricordato anni fa Toni Negri, discutendo Spettri di Marx di Jacques Derrida - rimane una splendida incarnazione dello spettro del comunismo che avrebbe a lungo turbato i sonni della borghesia.
È bello immaginare che ci sia stato un antefatto di questa scena, molti secoli prima. È ancora estate, sta finendo il mese di agosto. Siamo a Firenze, e l’anno è il 1378. La casa, altrettanto signorile, è quella di Vieri di Cambio de’ Medici, il banchiere e finanziere con cui cominciò realmente «l’inversione di tendenza della fortuna della famiglia Medici», da qualche tempo declinante. Vieri di Cambio parla con il suo giovane e lontano cugino, Giovanni di Bicci de’ Medici, che ha individuato come suo erede e continuatore. Gli spiega che «grazie alla nostra invenzione dei contratti di cambio, il denaro ora circola invisibilmente». Ha di fronte una mappa del mondo conosciuto allora, la fissa regolarmente: di lì a non molto i Medici e i banchieri fiorentini domineranno quel mondo, con il potere «invisibile» del loro denaro.
Il sorriso dell’oppressa
Ma la città è in subbuglio, da mesi i Ciompi, cardatori, pettinatori e tessitori della lana, reclamano potere, lo affermano e lo praticano nelle strade di Firenze. Giovanni capisce in fretta le ambizioni del cugino, ma gli fa presente la minaccia immediata dell’insurrezione (che esploderà il giorno dopo, e sarà repressa nel sangue). Vieri appare preoccupato, i Ciompi, dice, «rappresentano una severa minaccia e dobbiamo prendere quella minaccia molto, molto seriamente». L’espressione del volto di Vieri esprime paura «al prospetto di una vittoria dei Ciompi». Nella stanza c’è anche Stanka, una giovane serva/schiava slava comprata recentemente («una pratica che risale al 1320»). Se l’avesse guardata, Vieri «avrebbe notato la vaga ombra di un sorriso sulla sua faccia, alla vista del padrone così spaventato dai lavoratori oppressi».
La scena è tratta da un libro, davvero bello e prezioso, di Jeremy Lester, storico inglese che vive tra Bologna e Parigi, autore di molti studi in particolare su Russia e America Latina. Si intitola Spogliateci tutti ignudi. I quaranta giorni che sconvolsero Firenze, e perciò il mondo, nel 1378 (Pendragon, pp. 171, 14 euro).
È una pièce teatrale, e dunque diciamo subito che il sorriso di Stanka è frutto della fantasia di Lester: ma non è meno potente l’immagine, esemplare della fitta tela di rimandi alla storia successiva che l’autore intesse con maestria. Arrivando fino al nostro presente, se è vero che la repressione della rivolta dei Ciompi è un momento chiave nell’avvio di un potente processo di finanziarizzazione alle origini del capitalismo moderno. Che può essere fatto risuonare con quanto avviene oggi, soprattutto in un’opera di finzione, in un «dramma storico» («il capitale finanziario ha la capacità di essere avventuroso. Vuole incessantemente esplorare nuove opportunità, nuove imprese», dice Vieri: «in verità si può perfino coniare un nuovo termine - capitale avventuroso o magari venturoso»).
Le storie di Machiavelli
Spogliateci tutti ignudi: non vi sbigottisca «quell’antichità del sangue» che i nobili ci rimproverano, perché «tutti gli uomini avendo avuto un medesimo principio sono ugualmente antichi, e dalla natura sono stati fatti a un modo». Spogliateci tutti ignudi, dunque: e «voi ci vedrete simili, ... perché solo la povertà e le ricchezze ci disagguagliano». E ancora: «e della coscienza noi non dobbiamo tenere conto, perché dove è, come è in noi, la paura della fame e del carcere, non può né debbe quella dello inferno capere». A dare il titolo al libro è il famoso discorso del Ciompo tratto dalle Istorie fiorentine di Machiavelli, formidabile manifesto della lotta di classe proletaria agli albori del capitalismo, pur inserito all’interno di una ricostruzione della rivolta che celebra piuttosto colui che infine la represse, Michele di Lando.
Il libro di Lester non è solo bello e godibilissimo alla lettura. È anche davvero prezioso. Alla pièce teatrale, su cui subito tornerò, seguono scrupolosi e utilissimi apparati critici: una cronologia degli eventi (dall’inizio dei tumulti il 18 giugno alle condanne a morte, all’ergastolo e all’esilio comminate il 20 settembre: ma molti dei condannati a morte, ci informa Lester, «riusciranno a scappare nelle settimane successive»), una mappa dell’insurrezione di luglio, cenni biografici sui capi più importanti dei Ciompi, un albero genealogico della famiglia De’ Medici sapientemente commentato e un’antologia che documenta le diverse prospettive storiografiche sul «tumulto». Colpisce l’estratto di un breve articolo della giovane Simone Weil: nell’istituzione di un organo di autogoverno dei Ciompi, a Santa Maria Novella, Weil vede nel 1934 la realizzazione archetipica della forma del «soviet», l’istituzione da parte di un «proletariato appena formato» del dualismo di potere, «il fenomeno essenziale delle grandi insurrezioni operaie».
È il monologo di un giullare, prestato a Lester da Dario Fo, ad aprire l’azione teatrale. È festa nelle strade di Firenze, la rivolta, il potere finalmente esercitato dai Ciompi ha cambiato la città, ha cambiato la vita. Lasciamo al loro destino i vincitori, Vieri di Cambio e il cugino Giovanni. Questi sono i giorni di Lapo e Fiammetta, il Ciompo e la Ciompa. Nella loro casa, nel quartiere Camaldoli, si svolge la prima scena. L’ambiente domestico è umile, ma la vita è cambiata. Lapo ha ascoltato il giullare raccontare delle disgrazie che sono capitate a lui e alla moglie e di come «intendesse combattere l’ingiustizia sociale». E pensa agli ultimi anni a Firenze, «ancora carestie e fame, ancora pestilenze ed epidemie, insieme a povertà, sfruttamento, tagli ai salari e tasse più alte per pagare le guerre» dei Signori. Ma poi venne giugno, l’inizio dei tumulti, palazzi dei magnati della Repubblica in fiamme, l’odiato sceriffo ser Nuto («un torturatore e un macellaio», ma anche «un codardo») finalmente giustiziato, l’assalto alla prigione delle Stinche e la liberazione dei prigionieri. E benedetto sia giugno: «questi sono stati i due mesi più felici della mia vita», dice dolcemente Fiammetta a Lapo.
Il divenire della mutazione
L’azione si snoda tra luglio e agosto, fino all’ultima resistenza del 31, sulle barricate in via Magalotti, dove cadono insieme Lapo e Fiammetta. Lo aveva detto, Fiammetta: «non avremo futuro, se perdiamo questa lotta». E aveva aggiunto: «sì, la paura c’è. Ma nello stesso tempo si raggiunge un punto oltre la paura». Lapo aveva chiosato: la rivolta, la stessa violenza finalmente esercitata dai poveri, la festa «ha cambiato me, ha cambiato noi. Semplicemente non c’è ritorno a ciò che eravamo prima che la rivolta incominciasse. Penso che preferirei morire piuttosto che tornare indietro».
«Come sarebbe bello se potessimo abolire il tempo»: e vivere nel «tempo dei tumulti», nel formidabile presente in cui si svolgono le scene nella casa di Lapo e Fiammetta. Tempo dei tumulti, tempo della potenza, tempo di una mutazione antropologica che Lester mette in scena con sapienza, combinando echi dolciniani e anticipazioni comunarde, eresie religiose e frammenti di un comunismo a venire. Accettando il rischio dell’anacronismo (a partire dallo stesso personaggio di Fiammetta, come dice esplicitamente), ma giocando sullo scarto tra quanto è «storicamente accurato» e quanto è «puramente e solamente ‘simbolico’» (T. Griffiths), su quello scarto che apre in fondo il campo del «dramma storico».
I Ciompi, quel 31 agosto del 1378, «possono essere stati sconfitti ma non certamente vinti», come scrive José Saramago in un poscritto incluso da Lester nel libro. A notte, misteriosamente, suonano ancora a martello le campane della periferia fiorentina, che avevano chiamato all’insurrezione nelle settimane precedenti. Ed è di nuovo il panico tra i Signori. Non succederà nulla. Ma, dice ancora Saramago, «come tutti i suoni che riecheggiano, gli echi si estendevano in lungo e in largo». È bello pensare, con Saramago e con Lester, che quegli echi non abbiano smesso di risuonare. Lasciamo dunque un’ultima volta la parola a Fiammetta, la Ciompa: «forse falliremo, sono sicura che le cose per cui stiamo lottando accadranno a dispetto della nostra sconfitta. Altri porteranno avanti la lotta».
Machiavelli
Da Borgia a Gramsci ecco perché sono tutti figli del “Principe”
La Treccani pubblica un’enciclopedia in tre volumi per raccontare il pensiero del grande “Segretario”
di Alberto Asor Rosa (la Repubblica, 23.04.2015)
NEL 2013 Il Principe di Niccolò Machiavelli ha compiuto cinquecento anni. Le vicende relative all’ideazione e composizione di questa colossale operetta sono sostanzialmente note. Machiavelli, fedele servitore della Repubblica fiorentina quale Segretario della seconda cancelleria, nel 1512, al ritorno dei Medici in Firenze, viene allontanato dai suoi incarichi e, anzi, per un sospetto di congiura, imprigionato e sottoposto a tortura. Liberato, si ritira in un suo possedimento presso San Casciano, detto l’Albergaccio.
E lì, secondo le congetture più attendibili, compone Il Principe, quasi certamente fra il luglio e il dicembre del 1513 (ne dà notizia lui stesso in una famosa, splendida lettera a uno dei pochi amici superstiti, il diplomatico Francesco Vettori, ambasciatore di Firenze presso il Pontefice). Quasi a segnalare con un atto di operoso risarcimento il cinquecentenario dell’operetta, è apparsa, un anno appena dopo la scadenza, un’imponente Enciclopedia machiavelliana , presso il benemerito Istituto dell’Enciclopedia italiana, a cura di due dei massimi machiavellisti contemporanei, Gennaro Sasso e Giorgio Inglese.
L’opera è in tre volumi, di cui il terzo raccoglie i principali testi di Niccolò, introdotto da una Breve storia di Machiavelli e delle sue opere di Gennaro Sasso.
La vera e propria «enciclopedia » occupa dunque i primi due volumi dell’opera. Confesso in esordio che è sempre molto difficile giudicare uno strumento scientifico come quello di natura enciclopedica. In primo luogo, perché non se ne può pretendere su due piedi dal modesto recensore una lettura e conoscenza completa; in secondo, perché per sua natura una enciclopedia fortemente «autoriale» come questa (dove, cioè, ogni singola voce ha un autore diverso, e ognuno con una sua propria, e assai consistente, caratterizzazione scientifica) è sottoposta agli inevitabili sbalzi di dottrina e di scrittura, che tale procedura comporta.
Una lettura il più possibile attenta mi porta però a concludere che con questa Enciclopedia machiavelliana siamo di fronte ad un’opera di grande completezza e di enorme perizia: sicché, oltre a essere uno strumento indispensabile per chiunque voglia accostarsi per la prima o seconda volta allo studio del Segretario, può diventare (e forse ancora di più) un ausilio di grande momento anche per chi ne pratichi lo studio da anni, in Italia e fuori d’Italia.
Io penso che le virtù, maggiori o minori, di una «enciclopedia» si misurino soprattutto dall’ampiezza e ricchezza dei lemmi presentati. E in quest’opera c’è da sbizzarrirsi, e talvolta da entusiasmarsi. Cerco di dare un’idea di tale «vocabolario». Oltre a tutti i titoli delle opere di Machiavelli (alla sommità delle quali si collocano due splendidi saggi: Il Principe di Gian Mario Anselmi e i Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio di Gennaro Sasso), noi troviamo: i grandi fatti storici relativi (es., la battaglia di Agnadello); i grandi personaggi storici relativi (Massimiliano d’Asburgo, Cesare Borgia, Leone X, Carlo V, Carlo VIII, Giampaolo Baglioni, ecc. ecc.); i temi ricorrenti («antichi e moderni», «grandi e popolo»); gli aspetti fondamentali del lessico («apparire», «imitazione», «ruina », «virtù», «fortuna», ecc. ecc.); i prosecutori, in qualche modo (Bodin, Bacon, Spinoza); i grandi studiosi e interpreti (Harrington, Hegel, De Sanctis, Mosca, Pareto, ovviamente Gramsci, ecc. ecc.); i grandi personaggi del passato e del presente con cui Machiavelli abbia avuto a che fare oppure che abbiano avuto a che fare con lui (Aristotele, Agostino, Alighieri, Boccaccio, ecc. ecc.); le città che in un qualsiasi modo abbiano attraversato la sua vita (Atene, Bologna, Arezzo, Imola, ovviamente Firenze, ecc. ecc.); le zone di diffusione del machiavellismo nel mondo (Inghilterra, Francia, America latina, ecc. ecc.).
Se poi si aggiunge che in coda al secondo volume troviamo quattro saggi di sintesi di gran valore: Vita e opere ( Giorgio Inglese), Lingua ( Giovanna Frosini), Stile ( Giuseppe Patota), Iconografia (Alessandro Campi), si avrà un’idea più precisa della ricchezza di suggestioni e motivi, che l’opera presenta. Siccome sono ben consapevole di quanto sia fastidioso, e per giunta inane, puntare il dito sulle eventuali assenze, potrei, e forse dovrei, rinunciare a parlarne. Una, tuttavia, vorrei esprimerla. E in seguito aggiungerei non una lacuna, ma una mia curiosità non soddisfatta.
Confesso di non capire perché fra i molti pensatori politici qui richiamati e convenientemente illustrati non figuri Hobbes. Ammesso che richiami diretti non vi siano (e io questo non sono in grado di dirlo), ho sempre pensato che fra Il Principe e il Leviatano corra una segreta corrispondenza, forse una implicita a profonda vocazione analogica: quella che consiste nell’affermare l’esigenza imprescindibile del potere assoluto quando ogn’altro potere si è dimostrato impotente e vano. Forse su questo si poteva fare un ragionamento.
La curiosità è questa. Anche in questo caso ho sempre pensato che nel comunismo terzinternazionalista, ovvero nel leninstalinismo, ad onda delle negazioni e scomuniche ufficiali, scorresse una potente suggestione machiavelliana (meglio: machiavellica): la «ragion di Stato», il primato indiscutibile del Partito, la supremazia inattaccabile e indiscussa del Segretario-Principe, ecc. ecc.. Questa curiosità non è colmata dalla voce Russia (Mark Youssin), che vi accenna, ma in maniera troppo sintetica. D’altra parte, se la bella voce Gramsci (Guido Liguori), soddisfa, per quanto riguarda il versante teoretico della questione, il versante più specificamente italiano, (resta da chiedersi se una componente machiavelliana (machiavellica) non entri decisamente anche nella delineazione della togliattiana «via italiana al socialismo». Questo, bene o male, è il «moderno Principe», che noi abbiamo conosciuto (con i suoi limiti e i suoi difetti, lo sappiamo fin troppo bene, ma anche con una sua sapiente commistione di forza e di consenso). Ma è del tutto evidente che con questo entriamo senza riserva in un altro ambito.
Grandi opere / Treccani
Niccolò voce per voce
L’Enciclopedia italiana dedica tre volumi a Machiavelli: all’informazione sulle tendenze della critica si affianca lo studio sul lessico politico, intellettuale, religioso e filosofico
di Gennaro Sasso (Il Sole-24 Ore, Domenica, 08.02.2015)
Nelle sue varie forme, la fortuna di Machiavelli è stata indagata, in dotti volumi, da illustri studiosi che, da Oreste Tommasini a Giuseppe Toffanin a Raab, hanno recato, in questo campo di studi, un contributo rilevante; che può essere riassunto, in primo luogo, nell’invito a distinguere quel che è dell’autore del Principe e dei Discorsi e quel che ne è derivato, non solo nella varia corrente del cosiddetto machiavellismo, ma nella media communis opinio, ricca di libri e di altrettanti fraintendimenti. In effetti, la fortuna di Machiavelli invita a una prima considerazione, semplice ma fondamentale, e che non dovrebbe perciò essere dimenticata. A pochi decenni dalla morte, mentre la sua fortuna editoriale non conosceva flessioni, della sua biografia si cominciò a perdere l’esatta notizia; e Machiavelli divenne perciò un autore, nello stesso tempo, tanto noto quant’era privo di precisi connotati storici, un autore sul quale sembrò lecito esercitare lo ius utendi, e, soprattutto, direi, abutendi, senza alcun riguardo e senza che di averlo si avvertisse il dovere.
Non è un paradosso, ma la semplice verità, che la vita di Machiavelli fu ricostruita nella sua verità storica non prima della seconda metà del secolo decimonono e degli inizi del ventesimo, a opera di Pasquale Villari, di Francesco Nitti e soprattutto di Oreste Tommasini, anche se soltanto in anni relativamente recenti fu definita, per merito soprattutto di Nicolai Rubinstein, la natura del grado che egli ebbe nella Cancelleria fiorentina.
Gli studi su Machiavelli hanno conosciuto nel secolo ventesimo una fortuna considerevole. Ma soltanto nella sua seconda metà si sono fissate le linee delle interpretazioni che ancora caratterizzano l’inizio del ventunesimo. La prima metà del secolo fu dominata, per un verso, dalle interpretazioni «filosofiche» di Benedetto Croce e di Friedrich Meinecke, per un altro, da quelle di letterati, come Luigi Russo, o di storici del pensiero politico e del diritto, interessati soprattutto a dissertare sulla natura dello Stato e sulla relazione dell’etica e della politica.
Sullo sfondo rimase, per allora, quella di Federico Chabod, che, di gran lunga la più dotta e storicamente consapevole, esercitò la sua influenza nella seconda metà del secolo e soprattutto sull’opera dello scrivente che, alla lezione appresa da quel maestro e all’esigenza di integrale storicizzazione che le era connessa, aggiunse l’attenzione prestata, non alla «filosofia» di Machiavelli, ma a quanto di importante per la filosofia vi fosse nel suo pensiero.
In connessione di questo modo di vedere le cose, rinacque allora sia l’interesse, che aveva avuto qualche sporadica espressione nel secolo decimonono, per la definizione della cultura di Machiavelli, soprattutto di quella antica, sia l’esigenza di edizioni filologicamente riconsiderate (basti, al riguardo, ricordare l’edizione del Principe allestita da Giorgio Inglese). Nacque di qui uno dei contrasti che hanno caratterizzato gli studi italiani degli ultimi decenni, perché a chi era convinto che, senza essere un filosofo, Machiavelli fosse tuttavia un grande pensatore politico e un acuto interprete della storia italiana, altri opposero una visione di tutt’altro carattere, e lo presentarono come l’autore di opere mai sul serio concluse e nate sul fondamento di una cultura diseguale, e assai meno classica che «volgare».
Fuori d’Italia, fu soprattutto nella seconda metà del secolo che si produssero, in Francia, in Inghilterra, e quindi negli Stati Uniti, le opere più ragguardevoli; che qui, certo, non possono essere ricordate con i nomi degli autori che le firmarono e nemmeno per le idee che vi sostennero. L’eccezione, che in questa sede può essere consentita, riguarda, da una parte, gli interpreti, di lingua inglese (Pocock, Skinner) che delinearono l’interpretazione di Machiavelli come appartenente alla tradizione del repubblicanesimo e come autore e teorico della «religione civile», da un’altra Leo Strauss che, al contrario, indicò in lui l’eversore della filosofia politica antica con il suo culto della virtù e un maestro del nichilismo moderno. Due interpretazioni di segno opposto, volta la prima a recuperare Machiavelli dall’accusa sempre ricorrente di immoralità, diretta la seconda a riconfermarla attraverso l’uso di un’ermeneutica tanto raffinata quanto tendenziosa.
La ricchezza dei motivi presenti nell’odierna letteratura machiavelliana non può essere esaurita in breve spazio. Ma deve dirsi, invece, che è stata la considerazione di questa ricchezza e della connessa varietà tematica che ha suggerito l’idea di affiancare, nell’ambito dell’Istituto della Enciclopedia italiana, una Enciclopedia machiavelliana (in tre volumi) a quelle che da tempo sono state dedicate a Dante, a Virgilio e a Orazio. Di queste l’Enciclopedia machiavelliana ha ripreso, nelle grandi linee, il carattere fondamentale, e cioè, da una parte, l’informazione, la più larga possibile, relativa alle tendenze principali della critica, da un’altra la «lemmatizzazione» dei termini più caratteristici del lessico politico/intellettuale dell’autore del Principe e dei Discorsi (virtù, fortuna, occasione, armi, proprie e mercenarie), di quello politico/istituzionale (principato - nuovo, misto, civile, assoluto - repubblica, costituzione mista), di quello religioso e filosofico (Dio, religione, eternità del mondo).
A differenza di quello seguito dai curatori delle suddette Enciclopedie, dantesca, virgiliana, oraziana, la machiavelliana ha adottato, per le «voci» di maggiore impegno interpretativo un taglio che definirei saggistico, in modo che agli autori fosse concesso di assumere la piena responsabilità scientifica delle tesi da essi sostenute, e al lettore di trovare subito, accanto all’informazione, l’interpretazione. Non c’è, credo, bisogno di dire che nella scelta dei collaboratori si è seguito, con rigore e senza alcuna faziosità, il criterio della competenza, in modo che, nella serietà dell’informazione ricevuta, il lettore colto trovasse compenso alla delusione eventualmente provocatagli nell’interpretazione.
Ampia è stata l’attenzione dedicata all’ambiente culturale. Non solo ai grandi autori della cultura antica, latina e greca, e di quella fiorentina e italiana (Poliziano, Ficino, Giovanni Pico, Leonardo) a contatto della quale Machiavelli si formò, ma anche ai personaggi con cui egli divise la vita e il lavoro nella Cancelleria fiorentina (Marcello Virgilio Adriani, Biagio Buonaccorsi, Agostino Vespucci). Non solo alle riflessioni dei grandi pensatori del passato (da Spinoza a Vico, da Montesquieu a Rousseau, da Fichte a Hegel), ma anche alle opere degli studiosi che più e meglio contribuirono, nel tempo, all’interpretazione del suo pensiero. Voci di particolare impegno sono state dedicate ai grandi personaggi dell’età machiavelliana (da Giulio II ai re di Francia e di Spagna), mentre un impegnativo censimento è stato eseguito per i personaggi minori, la cui trattazione ha costituito per chi se ne assunse la responsabilità un particolare impegno.
Nell’Introduzione che premisi al primo volume dell’Enciclopedia (che ne conta tre) fra le altre cose dissi che la liberalità con cui erano stati scelti gli studiosi che dovevano redigerla aveva avuto un limite: da essa erano stati esclusi coloro che ritenevano che Machiavelli fosse stato un gangster che aveva scritto per gangsters.
Debbo dire che la scelta del termine non era dovuta alla mia fantasia, perché così, anche se non necessariamente con quel termine, Machiavelli era stato definito da non pochi. Confermo che a quanti avessero condiviso quel giudizio avrei avuto difficoltà a rivolgere l’invito a collaborare all’Enciclopedia. Per la stessa ragione, non ne avrei invece alcuna a invitarli a consultarla e, qua e là, a leggerla.
Machiavelli è, senza dubbio, uno scrittore duro che nella politica ha guardato senza illudersi che fosse, e potesse essere diversa da come gli appariva. Dell’interpretazione che debba darsi del suo modo di intenderla, non si può parlare qui. Ma nell’Enciclopedia molti ne hanno parlato con onestà e competenza.
Chi sul gangster avesse qualche dubbio, e cominciasse a pensare che la questione machiavelliana non è trattabile con termini come quelli, forse vi troverà qualcosa che rafforzerà i suoi dubbi nello stesso tempo avviandolo verso una più responsabile considerazione della sua complessità. Se poi dalla lettura dell’Enciclopedia fosse spinto a leggere, con più pura mente, le opere di Machiavelli (che trovano spazio nel terzo volume), potrebbe non esserne deluso. Vi troverà, se italiano, le ragioni, o alcune delle ragioni che all’Italia hanno tenacemente impedito di realizzare il compito che una volta Machiavelli le indicò: quello di far rinascere le cose morte.
Machiavelli al confine tra gli antichi e i moderni
De Sanctis, Mussolini, Gramsci: a ciascuno il suo «Principe»
di Luciano Canfora (Corriere della Sera, 11.12.2014)
Un dotto francese di fede protestante, prudentemente trapiantatosi a Londra proprio a ridosso della Rivoluzione, Louis Dutens (1730-1812), scrisse un ponderoso trattato apparso per la prima volta nel 1766, poi più volte ristampato, per dimostrare che Le scoperte attribuite ai moderni, anche nel campo delle scienze matematiche e fisiche, erano già state pensate dagli antichi. Reagì polemicamente D’Alembert. Ma Dutens sfoderava, nel suo trattato, anche talune dichiarazioni dei grandi moderni pronti a dirsi debitori verso gli antichi.
Fu quasi un secondo tempo della Querelle. In particolare colpivano le parole attribuite a Leibniz e riportate da Dutens (che di Leibniz fu benemerito editore): «Signore - avrebbe detto Leibniz ad un devoto visitatore -, Lei mi ha usato spesso la gentilezza di dirmi che io so qualcosa; ebbene io voglio mostrarvi le fonti da cui ho attinto tutto quello che so»; e, prendendo per mano il dotto amico, lo portò nel suo studio e gli mostrò le edizioni, che aveva sempre sottomano, di Platone, Aristotele, Plutarco, Sesto Empirico, Euclide, Archimede, Plinio il Vecchio, Seneca e Cicerone.
L’impostazione di Dutens era ingenua, ma poneva un problema vero: l’uso creativo degli antichi da parte dei moderni. Niccolò Machiavelli e Thomas Hobbes, l’uno a cavallo tra Quattro e Cinquecento, l’altro in pieno Seicento, e già maturo pensatore mentre Leibniz nasceva, offrono la migliore materia per cimentarsi con la questione.
Non è certo casuale che, nell’Introduzione alla recentissima Enciclopedia Machiavelliana prodotta - nel cinquecentesimo anniversario del Principe - dall’Istituto dell’Enciclopedia Italiana (direttori dell’opera Gennaro Sasso e Giorgio Inglese), Sasso dedichi un denso paragrafo al tema L’imitazione dell’antico (vol. III, pp. XLVIII-XLIX).
Sasso si concentra, ovviamente, sui Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio , dove l’operazione è resa trasparente dal fatto stesso di porre il racconto liviano della storia romana alla base della riflessione. Sasso mette in luce l’aporia intrinseca in quel modo di procedere: se «gli uomini» - osserva - erano, naturalisticamente intesi, «gli stessi», come mai si erano fatti in realtà tanto diversi da far sorgere il problema dell’estrema difficoltà di tornare ad essere come quegli antichi?
Nel proemio al primo libro dei Discorsi Machiavelli addirittura sembra quasi anticipare quell’assunto cui Dutens - per parte sua convinto che Machiavelli fosse solo un ripetitore degli antichi - dedicherà tante energie: che cioè le conquiste scientifiche (in particolare la medicina) erano già state attuate dagli antichi. E deplora che proprio nella politica il modello antico venga ignorato e disatteso. Hobbes, invece, nelle pagine introduttive al De Cive, dirà con tutta l’asprezza necessaria, che Aristotele si è sbagliato nell’assunto fondamentale della Politica (la naturale «socievolezza» degli uomini): «Questo assioma - dirà -, sebbene accolto da molti, è falso».
L’apparente dilemma si risolve in realtà constatando che proprio quei fondatori della modernità - Machiavelli, Hobbes, Leibniz - hanno pensato il nuovo dialogando con gli antichi. È questo che Leibniz intendeva quando additava al suo visitatore i libri che avevano sustanziato il suo pensiero.
Se Machiavelli, Hobbes, Leibniz non poterono non dialogare con gli antichi, noi non possiamo non dialogare con Machiavelli, Hobbes e con tutti coloro che, lottando per dischiudere la modernità, incominciarono proprio da quel remoto, e pur sempre fresco, punto di partenza.
Questo genere di dialogo si risolve, per lo più, in una feconda forzatura: si fa dire, ai libri fondativi che ci precedettero, ciò che noi vi leggiamo o vogliamo leggervi proprio perché, con l’aiuto di una tale «pietra focaia», pensiamo, o cerchiamo di pensare, i nostri pensieri: quelli del presente e del tempo che sentiamo imminente. Lo facciamo con i classici antichi e con i classici moderni: per esempio proprio con Machiavelli. E l’ Enciclopedia che qui segnaliamo assolve egregiamente a tale compito, a tale funzione chiarificatrice. Essa ci mostra, voce dopo voce, articolo dopo articolo, non solo quale originalissimo «Ierone siracusano» sia il tiranno visto da Machiavelli, ma anche quale originalissimo Machiavelli sia il Machiavelli di Ugo Foscolo o di Francesco De Sanctis o, ai limiti del totale stravolgimento dell’originale, il Machiavelli di Antonio Gramsci.
E ancora: quello demonizzato dalla Controriforma - il «cattivo maestro» - che ritorna curiosamente nello scontro tra fazioni bolsceviche in pieno XX secolo (si veda la voce «Russia» in questa Enciclopedia); e poi il Machiavelli arruolato senza tanti complimenti dal pessimismo antropologico del «tacitismo»: fino alla sua manifestazione postrema nel Preludio al Machiavelli di Mussolini, ispirato - in ciò Gramsci vide giusto - all’insopportabile e oligarchico pessimismo di Giuseppe Rensi.
Ovviamente il compito degli storici e dei filologi non è solo quello di rimirare la creativa fecondità di un pensiero (e la sua possibile vitalità ben oltre gli intendimenti dell’autore), ma anche, e non meno, di recuperare l’esatta nozione di ciò che quel determinato autore disse, scrisse e pensò: di scrostare dunque, di sull’originale, le rigogliose e «necessarie» incrostazioni dei posteri. L’ Enciclopedia Machiavelliana rende molto bene anche questo prezioso servigio, e dobbiamo perciò essere grati alla squadra che l’ha saputa realizzare.
Vale più la virtù o la fortuna?
Machiavelli non disse mai che il fine giustifica i mezzi.
Il «Principe» è un classico da rileggere a partire da un’idea più sofisticata, quella di «sorte morale»
di Armando Massarenti (il Sole-24ore domenica, 01.06.2014)
È quantomeno peculiare che, al cuore di un trattato che si pone l’obiettivo di una costruzione razionale della virtù, o meglio delle virtù della politica, Machiavelli abbia collocato la vicenda di Cesare Borgia, il Valentino, figlio esemplare della fortuna. Come è noto, il rapporto tra virtù e fortuna nel Principe è uno nei nodi teorici più delicati e filosoficamente stimolanti dell’intera opera. Nella convinzione che il dialogo tra pensatori di secoli diversi possa essere enormemente fruttifero, proprio come lo stesso Machiavelli auspicava nella famosa lettera del 10 dicembre 1513 a Vettori, proveremo a far dialogare Machiavelli con un importante filosofo novecentesco, Bernard Williams, autore tra gli altri della raccolta di saggi Sorte morale. La “sorte morale” (Moral Luck) di cui parla Williams è un’idea profonda e originale, che ha a che vedere con un’altra felice espressione filosofica: la “fragilità del bene”, cui Martha Nussbaum ha dedicato un altro famoso libro.
Molte delle ambiguità di Machiavelli nell’affrontare la tensione fondamentale tra virtù e fortuna si stemperano e si chiariscono proprio se prendiamo le mosse dal ragionamento di Williams. Il grande filosofo morale propone un esempio ricco di sfumature, una sorta di «esperimento mentale»: parla di un pittore di nome Gauguin - un Gauguin, certo, più immaginario che reale - che da giovane scommette di essere un grande artista. Ma per verificarlo è costretto a compiere una scelta assai riprovevole: deve abbandonare la famiglia. Ha fatto bene o ha fatto male? Dipende dal successo che avrà come artista. Se non avrà successo, il biasimo del prossimo sarà totale. Se invece avrà successo quella scelta moralmente dubbia apparirà del tutto giustificata.
Nel Principe, l’impostazione teorica di fondo è molto simile. Anche la virtù di Machiavelli non è facile da separare dalla questione del successo dell’azione, anzi ne è intrisa. Si potrebbe addirittura dire che le virtù del principe, che riguardano la conquista, la creazione e il mantenimento degli Stati, e che ben poco hanno a che vedere con le virtù morali dell’uomo comune, riguardano tutte il fine cui esse tendono: la gestione e il mantenimento del potere e la capacità di far durare la conquista.
Ma senza che le virtù stesse risultino in ultima analisi depotenziate dall’azione apparentemente ingovernabile della “fortuna”: «Affinché il nostro libero arbitrio non sia completamente annullato, penso possa essere vero che la fortuna sia arbitra della metà delle nostre azioni, ma penso anche che essa ne lasci governare l’altra metà, o quasi, a noi». Cioè alle nostre virtù.
Ma che tipo di virtù sono queste di cui si parla? Non sono né virtù civiche - queste semmai riguardano le repubbliche e non i principati - né virtù morali in senso stretto. Sono piuttosto, in massima parte, virtù epistemiche: hanno a che vedere con la reale capacità di sapere, e di conseguenza prevedere, di che pasta sono fatti gli uomini e come si comportano nelle mutevoli e imprevedibili vicende che li vedono coinvolti. «E quindi bisogna che egli abbia un animo disposto a voltarsi dalla parte che i venti della fortuna e il variare delle cose gli comandano» afferma Machiavelli nel cap. XVIII poco dopo aver proposto ai lettori la notissima similitudine della volpe e del leone, dove per “animo” dobbiamo senz’altro intendere in questo caso la mente, l’intelletto del principe, insieme allo spettro di quelle doti di carattere che rientrano nell’attitudine personale del soggetto. Per dirla con un altro termine chiave, anch’esso presente nel testo, si tratta di contrastare i rovesci della fortuna con l’utilizzo saggio del buon senso, della “prudenza”, dove «la prudenza consiste in sapere conoscere le qualità delli inconvenienti e pigliare el men tristo per buono».
Per questo la tensione tra virtù e fortuna trova nel personaggio di Cesare Borgia il suo apice. Borgia, «chiamato dal volgo duca Valentino», è “figlio della fortuna” perché «acquisì lo stato con la fortuna del padre e insieme con quella lo perdette» (Cap. VII). Ma dopo aver ripercorso e valutato in lungo e in largo la catena delle azioni compiute dal Valentino nell’esercizio del potere... ecco annidato il sorprendente scacco della ragione (politica) tanto perseguita da Machiavelli e della connessa virtù: «Avendo dunque riassunte tutte le azioni del duca, nulla saprei rimproverargli: anzi mi sembra di poterlo proporre - come io ho fatto - a modello da imitare per tutti coloro che sono ascesi al comando per fortuna e con le armi altrui; giacché egli, avendo l’animo grande e alto l’intento, non avrebbe potuto comportarsi meglio, e ai suoi disegni si opposero solo la brevità della vita di Alessandro e la sua malattia».
Eppure la stella del virtuoso Borgia declinò, eccome. Di qui tutta l’ambiguità di Machiavelli: in bilico tra fiducia profonda nella virtù politica, la capacità di analizzare e prevedere gli eventi, anche per preservare il libero arbitrio degli uomini e, dall’altra parte, la fortuna che a volte è fortuito aiuto o, più potentemente e forse anche più spesso, vero tranello per le ambizioni umane. Per la ragione ordinatrice (politica) dell’uomo. Insomma per il principe.
Torniamo dunque all’esperimento mentale di Williams. La scelta di Gauguin è amorale? Per Williams non è questo il modo giusto per inquadrarla. E il Principe è amorale? Anche questo è un modo sbagliato di porre una domanda. La "sorte costitutiva" di cui parla Williams, nel quadro concettuale del Principe è più vicina alla fortuna, al carattere o alla virtù? In realtà partecipa di tutti gli elementi, probabilmente perché tocca il nervo teorico scoperto, la zona grigia, di Machiavelli.
Virtù e fortuna sono fortemente intrecciate tra loro, così come lo sono i mezzi e i fini. Per questo è sbagliato dire che il fine giustifica i mezzi, espressione che infatti Machiavelli non ha mai usato. È tutto più sofisticato e complesso: il principe ragiona continuamente su mezzi e fini e se è un buon principe lo fa avendo in mente le virtù proprie della politica.
Anche la contrapposizione etica e politica finisce per diventare assai sfumata. Tutto dipende molto dalle circostanze. In Machiavelli troviamo due elementi potentissimi che convivono: il primo è la consapevolezza dell’importanza della fortuna e dell’occasione propizia o nefasta per rovesciare le sorti in positivo o in negativo; il secondo è la tenacia con cui costruisce gli elementi fondamentali che disegnano le virtù del principe. La prudenza e la saggezza sono legate alla capacità predittiva.
Machiavelli in questo disegna una vera scienza della politica, basata su una visione realistica e disincantata della natura umana. Neppure questa è sufficiente. Ma ciò non le toglie un briciolo della sua importanza. Essere realisti, sapere come stanno le cose, è fondamentale sia per quanto riguarda la natura umana sia per quel che riguarda la conoscenza in generale. E, allora come oggi, è solo da questo che può derivare l’efficacia delle nostre azioni e delle nostre decisioni politiche.
Rivogliamo Machiavelli
Nuova edizione del Principe e intervista a Gennaro Sasso
Realtà e leggenda. La visione del segretario fiorentino era popolare e democratica, e non furbesca, benché immersa in un’Italia lacerata
di Bruno Gravagnuolo (l’Unità, 09.03.2014)
UN CINQUECENTENARIO E LE PIROETTE DELLA POLITICA IN ITALIA RILANCIANO LA FIGURA DI MCHIAVELLI. Il cinquecentenario è quello del Principe, la cui stesura lambisce il 1514. Le piroette, non prive di brutalità, sono quelle che hanno portato alla defenestrazione di Letta, con plateale sfiducia dentro il Pd, dopo che il suo rivale aveva a lungo garantito «enricostaisereno ». Ben per questo, molti hanno parlato del fiorentino Renzi, erede dell’altro «segretario». Sicché ci si chiede, la politica è, e resta, esercizio di inganno commisto a forza cieca? Con buona pace dell’«accountability» e dell’opinione pubblica?
E allora cominciamo da due libri che vanno al cuore dell’enigma Machiavelli. Che politica aveva in mente quel fiorentino geniale, per secoli vituperato e frainteso, da suggerire accostamenti come quello di cui sopra?
I libri: una serrata intervista di Antonio Gnoli a Gennaro Sasso, tra i massimi machiavellisti mondiali oltre che filosofo teoretico: I corrotti e gli inetti. Conversazioni su Machiavelli (Bompiani, pp. 196, Euro 11). E una dotta edizione del Principe per la cura di Gabriele Pedullà e traduzione italiana attuale di Carmine Donzelli, editore del volume ( pp. 347, Euro 30).
Testi diversi, ma entrambi con l’ambizione di sfatare luoghi comuni su Machiavelli. Il primo luogo comune, accreditato a lungo dai gesuiti e da machiavellici che predicavano bene e razzolavano male (Federico di Prussia e il suo Anti-Machiavelli...), è quello del demonismo amorale e degli Arcana Imperi: Natura bieca e anti- etica della politica e dello stato. Salvo esorcismi chiesastici o nobilitazione della Ragion di Stato (come con lo storico Friederich Meinecke).
Per Sasso, quella di Machiavelli è una concezione sobria e disincantata, antitetica a provvidenzialismi e filosofie della storia. Che delinea un Principato civile originato da «virtù» e «gloria»: preveggenza e coraggio, unite ad ambizione costruttiva a valer da exemplum. Nel solco di una sfida continua, rinascimentale, contro la «fortuna» che è contingenza assoluta e occasione da cogliere e consolidare con argini politici.
In Sasso la politica è sfida concreta e non superomistica, romantica o nietzscheana, contro il divenire senza senso, per dare ad esso forma, ragionando sulla realtà effettuale e non già sulla Veritas dell’Essere, inattingibile al sapere politico. E rilevanti per inciso sono gli intermezzi sassiani sulla infondabilità logica dell’esperienza in termini razionali, visto che l’esperienza non si fonda né è oggetto di esperienza: a differenza del filosofare che si muove su tutt’altro piano ed è perciò indifferente al mondo. A differenza del punto di vista tutto politico di Machavelli, scevro (ma non a digiuno) di filosofia. Dunque per Sasso: Principato popolare, con alleanza tra Principe, popolo, borghesia e contado.
Contro i Grandi, come tenta di fare Cesare Borgia, con spietata ragionevolezza in vista di un regno italico del centro-nord. E ovviamente il contesto è quello del paese disunito e calpestato dai sorgenti stati assoluti, la Francia in primo luogo a partire da Carlo VIII e l’impero tedesco.
Sasso non crede all’idea di Italia «tout court» in Machiavelli, persuaso da una certa idea disincantata del potere in ciclica decadenza ed espansione (Polibio). E tuttavia l’Ialia, come concetto non immediato e «metapolitico», esiste eccome nel segretario, dalle Alpi alla Sicilia. Come nella tradizione romana tardo repubblicana quando l’Italia amministrativamente varca il Rubicone all’inverso e include i Municipia galli e celtici. E poi Machiavelli esalta il genio italico nelle armi e quant’altro e celebra persino la disfda di Barletta. Per non dire dei famosi versi di Petrarca con cui si chiude il Principe: Virtù contra furor/ prenderà l’arme/ e fia il combater corto/ che l’antiquo valor/ ne l’talici cor non è ancora morto.
Né a ben guardare la lettura di Sasso - che la svaluta frettolosamente - si discosta da quella di Gramsci nelle Note sul Machiavelli: il Borgia come Cesare democratico e popolare di un regno del centro-nord, con epicentro nelle Romagne. Nel quadro della frantumazione italiana schiacciata da stati assoluti, municipalismi e Papato.
Sul presente Sasso rilutta a fare paralleli, salvo il cenno alla nazione senza stato, infestata da corrotti e inetti e che un decisore democratico, capace di usare la forza, potrebbe prima o poi riscattare. Pie illusioni tardo giacobine e azioniste, che in tempi di populismo diventano circo mediatico e anti-politica contro-partiti.
Quanto al volume a cura di Pedullà, segnaliamo un paio di cose. Primo, il nesso mezzi-fini. Pedullà spiega che sono i mezzi in Machiavelli ad illustrare il fine e non viceversa. E il Principe deve motivare certi passaggi crudi, mostrandoli necessari e condivisibili per il Bene comune. Infine, ci vogliono tre cose per governare: buoni esempi, buone leggi e buone armi. Armi proprie e non mercenarie, appartenenza. Era la politica di massa, egemonica e autonoma di allora. Passioni, interessi, valori. Né intrattenimento, né circo, né vanità; res severa. Anche il Principe moderno dovrebbe essere questo. E invece...
MACHIAVELLI E MICHELANGELO.
Una nota dal lavoro di Romeo De Maio:
"(...) Michelangelo e Machiavelli, che pure avevano avuto rapporti amichevoli, erano in antitesi. La diversitù dei loro pensieri si può confrontare nella loro meditazione sull’insignificante Lorenzo de’ Medici, divenuto duca d’Urbino con lo sperpero del denaro della Chiesa fatto da suo zio Leone X. Machiavelli gli dedica il Principe e gl’insegna come si rende duraturo uno stato usurpato e come si crea una dinastia. Michelangelo, che dirà "bestia in forma di huomo" ogni tiranno, spogliò Lorenzo, fra la meraviglia dei contemporanei, delle sue sembianze e lo ritrasse scalzo sotto la corazza: non c’è un richiamo alla statua di Nabucodonosor dai piedi di argilla? Meditò anche sulla qualità del governante, e perciò circondò il monumento di profonde allegorie e lo fece "pensieroso", come non era stato" (Michelangelo e la Controriforma, Laterza, Roma-Bari 1978, pp. 418-419)
SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’ E SULLO SPIRITO CRITICO, OGGI. A scuola di Dante, Bruno, Galilei, Kant ... e Kurt H. Wolff
DAL "CHE COSA" AL "CHI": TRACCE PER UNA NUOVA ERMENEUTICA. Materiali (federico la sala)
Per Gennaro Sasso nell’opera del grande fiorentino la lotta del principe con la fortuna esprime un senso acuto della precarietà che caratterizza il potere politico. E la stessa condizione umana
Machiavelli come Sartre: un esistenzialista
di Antonio Carioti (Corriere/La Lettura, 22.12.2013)
L’interesse di Gennaro Sasso per Niccolò Machiavelli risale ai tempi del liceo. Il primo libro sul grande autore fiorentino lo pubblicò trentenne, nel 1958. Mentre termina un 2013 di celebrazioni un po’ retoriche per i cinque secoli del Principe , la sua lettura spicca per il richiamo alla radicalità di un pensiero che, da giovane, ha approfondito in parallelo a filosofi di tutt’altro genere, gli esistenzialisti.
«All’università - racconta Sasso - leggevo con passione Karl Jaspers e Jean-Paul Sartre, autori che insistono sulla precarietà di una condizione umana esposta alla contingenza. Suggestioni che mi sono servite per intendere meglio un motivo centrale in Machiavelli: la contestualizzazione estrema dell’azione politica in quella che lui chiama la fortuna, cioè gli accadimenti che non si controllano. Il dramma del principe è appunto la lotta con la fortuna, l’esigenza di sfruttare opportunità che non dipendono da lui».
Fronteggiare l’imponderabile, continua Sasso, diventa così la priorità assoluta: «Il destino dello Stato è sempre incerto. E bisogna difenderlo, perché ne va della vita di chi ne fa parte. Sono i venti della fortuna che spingono a usare i mezzi più utili nella situazione concreta, anche se malvagi. Perciò per Machiavelli bontà e cattiveria non contano. Lui stesso se ne duole, ma osserva che rimanere sempre fedeli ai valori etici nell’agire politico non produrrebbe alcun bene, perché causerebbe la rovina dello Stato».
Ma come si concilia tale crudo realismo con la chiusa del Principe , l’appello a liberare l’Italia dagli stranieri? «Il capitolo finale si riallaccia al sesto, dove si parla dell’azione salvifica svolta da individui eccezionali, come Mosè o Teseo, in situazioni che richiedevano una particolare virtù politica. In fondo proprio il realismo induce a ritenere che tempi terribili esigano personalità provvidenziali. Qui Machiavelli unisce acutezza di analisi e capacità d’immaginazione».
Tuttavia è ben lontano dall’affidarsi solo ai capi carismatici: «Machiavelli - osserva Sasso - esalta la virtù individuale del principe, ma la sua preferenza va a una repubblica in cui la solidità dello Stato risieda negli ordini, cioè nel quadro istituzionale. Nei principati c’è il problema spinoso della successione personale al potere, mentre nelle repubbliche la continuità è assicurata da un intreccio di forze diverse che, garantendo se stesse, tutelano anche il complesso dello Stato, in modo che non dipenda dall’autorità di un solo individuo. Machiavelli considera un modello ideale la tripartizione della repubblica romana: consoli, senato, plebe. E vede il perno della garanzia istituzionale nel coinvolgimento del popolo».
Eppure Machiavelli descrive un volgo infido e credulone. «Ma si riferisce al popolo dell’Italia di allora, abbandonato alla sua vena deteriore. Invece il popolo romano, con i tribuni della plebe, era un soggetto politicamente attivo. Le buone istituzioni servono appunto a fare in modo che le cattive inclinazioni umane non provochino troppi danni. Del resto Machiavelli è uno scrittore pagano, estraneo al senso cristiano del peccato. Per lui l’uomo non è malvagio in sé, ma perché è un essere a rischio, sempre in lotta per la sopravvivenza: un altro punto di consonanza con l’esistenzialismo ateo».
La religione gli importa solo come fattore politico: «Nell’Arte della guerra Machiavelli narra che, quando aveva cercato di arruolare contadini nella milizia fiorentina, si era trovato di fronte individui “venuti su per li bordelli”, ben poco affidabili. E si era chiesto su quale Dio farli giurare per trasformarli in soldati. Insomma, per lui la religione serve a creare un legame sacrale tra i cittadini e lo Stato. A tal fine si può usare anche il Dio cristiano, ma così lo si paganizza.
Per Machiavelli il messaggio caritatevole del Vangelo ha “effeminato il mondo”: quando evoca il fallimento dei profeti disarmati, non si riferisce solo a Girolamo Savonarola, ma allo stesso Gesù. A suo avviso la venuta di Cristo non ha migliorato i costumi degli uomini, semmai li ha rammolliti».
Un altro tema centrale in Machiavelli è appunto la decadenza: «Pensa che la caduta dell’impero romano abbia aperto una lunga fase di declino. L’Italia dei suoi tempi sta rinnovando i fasti dell’antichità quanto a splendore artistico e letterario, ma sul piano politico è in ginocchio, percorsa dagli eserciti di popoli barbari e rozzi. Machiavelli disprezza francesi e spagnoli: lo tormenta il fatto che la forza militare consenta a quelle genti incivili di straziare la sua terra».
Nel motivo della decadenza Sasso coglie aspetti attuali: «Nei Discorsi Machiavelli si chiede che fare quando un sistema politico va in crisi e nulla funziona più. Se le istituzioni sono a pezzi, non possono risanarsi da sole. Servirebbero uomini adatti a restaurare i princìpi originari dello Stato, ma è difficile che nascano in un’era di corruzione. L’Italia di oggi mi pare in condizioni del genere: necessita di governanti seri, con le idee chiare, e non sa dove trovarli».
Qualcuno vede il presidente Giorgio Napolitano come un aspirante principe. «Non capisco perché da tante parti si spari sul capo dello Stato. Non credo che, alla sua età, nutra ambizioni monarchiche: se può aver ecceduto i limiti costituzionali, è perché siamo nel caos e i vuoti vanno riempiti. Chiede solo che si faccia una legge elettorale, per mandare il Paese alle urne con qualche speranza che ne esca un governo stabile».
Forse il principe del XXI secolo dovrebbe avere una dimensione europea: «Invocherei piuttosto un legislatore capace di dare all’Europa consistenza politica. Oggi, con la crisi dell’euro, l’Unione è al tempo stesso una casa da cui sarebbe folle uscire, ma anche una gabbia soffocante. Del resto l’Ue è un’entità indefinibile dal punto di vista giuridico. Ci vorrebbe un punto di riferimento forte per andare oltre la visione angusta, monetarista e burocratica dell’Europa, per trasformarla in un vero Stato federale».
«Il Principe» in esilio
Cinquecento anni fa Machiavelli scrive la più famosa delle sue lettere
Il filosofo inaugura una stagione in cui la politica ha saputo interpretare, indirizzare e governare processi e conflitti economici e sociali
Quanto siamo lontani da lui oggi?
di Luca Baccelli (l’Unità, 10.12.2013)
CINQUECENTO ANNI FA, IL 10 DICEMBRE 1513, NICCOLÒ MACHIAVELLI SCRIVE LA PIÙ FAMOSA DELLE SUE LETTERE. Racconta a Francesco Vettori la sua condizione di esiliato che passa le giornate a seguire il suo podere e a «ingaglioffarsi» all’osteria e le serate a leggere i classici e parlare con loro». E soprattutto annuncia di aver completato Il principe e la sua intenzione di donarlo a Giuliano de’ Medici, nella speranza che i nuovi signori di Firenze gli affidino un qualche incarico, «dovessino cominciare a farmi voltolare un sasso».
Machiavelli ha passato gli anni dal 1498 al 1512 al servizio della repubblica di Firenze, ha svolto incarichi diplomatici di grande responsabilità e organizzato la milizia popolare. Caduto in disgrazia, si rivolge ai signori che lo hanno fatto incarcerare, torturare e poi esiliare rivendicando la sua competenza nell’«arte dello stato». Secondo molti si presenterebbe così come un puro tecnico della politica, disponibile a mettere la sua professionalità al servizio dei governanti di turno. È per questo scopo che avrebbe scritto un libretto che rientra nel genere letterario rinascimentale dei «consigli ai principi», avendo cura di introdurre strabilianti novità per attirare su di sé l’attenzione. Questa sorta di abiura, oltre che inutile per i destini personali di Machiavelli, si rivelerà temporanea: di lì a qualche anno Machiavelli tornerà a frequentare gli ambienti repubblicani, in particolare il circolo degli Orti Oricellari ai cui esponenti dedicherà i Discorsi.
Ma se Il principe è un esercizio letterario per ingraziarsi i Medici e ottenere un incarico, come spiegare l’impatto che questo libretto e poi le grandi opere teoriche e storiche hanno avuto sul pensiero politico occidentale? Lo stesso Machiavelli ci offre un indizio. Non voglio, scrive nella lettera dedicatoria, venire considerato presuntuoso perché, essendo «di basso ed infimo stato» mi metto a «discorrere e regolare e’ governi de’ principi». Per disegnare le pianure bisogna salire sui rilievi, e per disegnare le montagne guardarle dalla pianura; «similmente, a conoscere bene la natura de’ populi, bisogna essere principe, e a conoscere bene quella de’ principi, bisogna essere populare». È una dichiarazione di appartenenza, e sul bisogno che il principe, in particolare il «principe nuovo», il fondatore di un nuovo Stato, ha del popolo il testo ritornerà più volte.
NICCOLÒ E ANTONIO
Machiavelli, come è noto, dichiara «più conveniente andare drieto alla verità effettuale della cosa, che alla immaginazione di essa». Fonda il realismo politico, e questo, secondo molti, significherebbe che la teoria politica deve essere «avalutativa», limitarsi a descrivere oggettivamente la realtà. Eppure Il principe si conclude con un’esortazione ai Medici a impegnarsi per la liberazione dell’Italia dal dominio straniero. Machiavelli adotta toni epici, evoca Ciro e Teseo e i miracoli che accompagnano la liberazione degli Ebrei guidata dal «principe nuovo» Mosè. Gli interpreti hanno discusso a lungo sull’effettivo significato dell’esortazione finale e molti hanno sostenuto che è un’aggiunta estrinseca.
Antonio Gramsci, recluso nel carcere di Turi, non aveva molti strumenti filologici a disposizione e viveva un isolamento assai più drammatico di quello sofferto da Machiavelli. In comune c’era la percezione di una triplice crisi: dell’Italia, di Firenze, personale per Machiavelli. Personale, dell’Italia, del movimento operaio, nel caso di Gramsci. Egli scrive che mentre «la trattazione è condotta con rigore logico, con distacco scientifico», nell’invocazione finale di un principe nuovo che nella realtà storica non esisteva Machiavelli «si fa popolo, si confonde con il popolo».
Machiavelli prende le distanze dalla tradizione giusnaturalistica, per non dire dall’idea di un fondamento divino del potere, e introduce nuove categorie per una situazione nuova. Il suo realismo non è l’esclusione di principi e valori dalla politica; è la capacità creativa di individuare gli spazi di possibilità offerti dalla fortuna nel corso delle cose governato dalla necessità. Gramsci lo interpreta come una forma di educazione politica dei subalterni, perché chi appartiene ai gruppi dirigenti tradizionali il realismo politico lo acquisisce automaticamente.
Machiavelli critica l’immaginazione astratta degli stati che «non si sono mai visti né conosciuti essere in vero» ma risponde alla crisi con un sovrappiù di innovazione creativa. Inaugura così la politica moderna, la lunga stagione in cui la politica è stata capace di interpretare, indirizzare e governare i processi e i conflitti economici e sociali. Quanto siamo lontani da Machiavelli? È possibile oggi una tale immaginazione o la decadenza della politica è senza alternative, le decisioni vere si prendono altrove, sullo sfondo di una universale corruzione? Gramsci, da parte sua, insisteva sulla necessità dell’intervento politico consapevole per dare forma e indirizzo ai movimenti della società, per definire la volontà collettiva. E, come è noto, affidava questo compito al partito politico, incarnazione moderna del principe machiavelliano, «intellettuale collettivo». Ma qui, davvero, viviamo in un’altra epoca.
Il Principe di Machiavelli compie cinquecento anni *
FIRENZE - Il 10 dicembre 1513 Niccolò Machiavelli scriveva a Francesco Vettori di avere «composto uno opuscolo De principatibus», l’opera poi passata alla storia con il titolo Il Principe.
A cinquecento anni di distanza Firenze ricorda quell’avvenimento. Il Comitato fiorentino per le celebrazioni, presieduto da Valdo Spini, ha organizzato infatti per domani, 10 dicembre, una serie di manifestazioni. La giornata celebrativa de “Il Principe” inizia alla 9,30 nel Salone dei Cinquecento in Palazzo Vecchio con il sindaco Matteo Renzi e il presidente del Comitato fiorentino per le celebrazioni, Valdo Spini. Adriano Prosperi terrà la prolusione ufficiale sul tema “Rileggere Machiavelli oggi”.
Alle 12 nella Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze verrà inaugurata la Mostra “La via al Principe. Niccolò Machiavelli da Firenze a San Casciano” organizzata con la stessa Biblioteca Nazionale Centrale, il Polo Museale Fiorentino e l’Archivio di Stato di Firenze. Alle 16,15 comincerà nel Salone dei Duecento di Palazzo Vecchio il convegno “Il significato delle celebrazioni de Il Principe di Niccolò Machiavelli”. Tra i relatori: Michele Ciliberto, Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento; Francesco Bruni, Accademia della Crusca.
* la Repubblica, 09.12.2013
Machiavelli contro il machiavellismo
All’inizio del XVI secolo il filosofo fiorentino Nicolò Machiavelli ha aperto la strada al pensiero politico moderno. Sovente si collega il suo nome all’azione di governanti cinici e manipolatori. Inventata dai suoi detrattori, questa «cattiva reputazione» cela in realtà un autentico teorico della libertà e del potere popolare.
di Olivier Pironet (traduzione dal francese di José F. Padova) *
Non si contano più gli studi, le biografie e i convegni che quest’anno hanno celebrato il cinquecentesimo anniversario de Il Principe (1). In questo libretto dedicato all’arte del governare Nicolò Machiavelli (1469 - 1527) spiega concisamente «che cos’è la sovranità, quante specie ve ne sono, come la si ottiene, come la si perde (2)». Egli svela così i meccanismi del potere e i fondamenti dell’autorità, ciò che gli è valsa una reputazione sulfurea, interpretazioni contraddittorie e ha fatto della sua opera «il libro di riflessioni politiche più letto e commentato (3)» da mezzo millennio a oggi.
Scritto nel 1513, Il Principe è pubblicato postumo nel 1532 - fatto raro, è la sua stesura che è commemorata - e messo all’Index dalla Chiesa Cattolica, come tutti gli altri libri del Fiorentino, dal 1559 alla fine del XIX secolo. Nel 1576 lo studioso ugonotto Innocent Gentillet contribuisce a formare la sua cattiva reputazione inventando il termine di «machiavellismo», destinato a un luminoso avvenire. Dal pensatore Jean Bodin (1529 - 1596), che l’accusa di avere «profanato i sacri misteri della filosofia politica», all’erudito Bertrand Russell (1872 - 1970), per il quale Il Principe è un «manuale per gangster», Machiavelli passa comunemente per essere il cinico teorico del potere e delle tecniche di manipolazione, colui che sussurra alle orecchie dei tiranni.
Eppure il suo pensiero si presta anche a interpretazioni del tutto diverse. Il Principe è il «libro dei repubblicani», secondo Jean-Jacques Rousseau; quello in cui «Machiavelli stesso si fa popolo», per Antonio Gramsci. A dire il vero, dai pensatori della Controriforma, nel XVI secolo, fino ai liberali del XXI secolo, passando per gli autori dell’Illuminismo, i Giacobini, i marxisti, i fascisti o i neorepubblicani, tutti vi hanno letto. Oggi il Fiorentino ispira ugualmente sia romanzi polizieschi o giochi video (5) che breviari di «management imprenditoriale» o perfino di «governance famigliare» - come Machiavelli for Moms («Machiavelli per le mamme»), di Suzanne Evans (Simon & Schuster- Touchstone, 2013)...
Nell’altra sua opera principale, i Discorsi sulla prima decade di Tito Livio, pubblicata nel 1531, Machiavelli, rileggendo la storia romana, esamina i principi del regime repubblicano e dimostra la sua superiorità rispetto ai sistemi dispotici o autoritari (i principati). Il Principe e il Discorso si articolano intorno a una medesima problematica: come instaurare e mantenere un regime di autonomia e di uguaglianza - la repubblica - nel quale siano esclusi i rapporti di dominio? Come costituire uno Stato libero, fondato su leggi comuni, su regole di giustizia e di reciprocità e sulla realizzazione del bene pubblico? Il Principe, teoria della fondazione della repubblica o della sua rifondazione in situazioni di crisi, come pure dei metodi adeguati - talvolta violenti - per costruirne le fondamenta, e il Discorso, riflessione sulla forma che essa deve assumere - la democrazia - come sui mezzi per preservarla, sono inseparabili. Entrambi nascono dal contesto storico in cui Machiavelli li redige e dalla tradizione intellettuale nella quale egli si inserisce per meglio distaccarsene.
Quando s’impegna nella stesura de Il Principe, la Repubblica fiorentina, che egli ha servito per quattordici anni come alto diplomatico, minata dalle divisioni e dalla corruzione, è stata appena rovesciata dai partigiani dei Medici con l’aiuto degli spagnoli (settembre 1512). L’intermezzo repubblicano è durato diciotto anni: una repubblica teocratica, dal 1494 al 1498, posta sotto l’autorità del monaco Gerolamo Savonarola, poi una repubblica laica, dal 1498 al 1512. Da decenni la Penisola è sottoposta agli appetiti delle grandi monarchie, che si alleano secondo i loro interessi a numerose città-Stato del Paese, impedendo l’unificazione territoriale e nazionale che Machiavelli auspica. Questa situazione spiega l’oggetto de Il Principe: per il suo autore si tratta di riflettere sui mezzi atti a ristabilire la repubblica nella città toscana e di edificare uno Stato sufficientemente forte per «prendere» (unificare) l’Italia e «liberarla dalle potenze straniere». Il Pricipe si rivolge a chi sarà capace di realizzare questo doppio obiettivo.
È a un tempo manuale d’azione per rispondere all’urgenza e riflessione sulla natura del potere, nella linea delle opere didattiche in voga presso gli umanisti. Tuttavia esso rompe con gli ideali classici. Divulga i precetti e i metodi che il (ri)fondatore di uno Stato deve seguire, rovesciando il rapporto tradizionale di subordinazione della politica alla morale nel nome della «verità effettiva delle cose»: l’arte del governare obbedisce a regole specifiche legate all’instabilità dei rapporti umani (gli uomini seguono i loro interessi e le loro passioni, fra le quali l’ambizione) come pure l’irrazionalità della storia. Ogni dirigente deve conoscere queste regole se vuole «preservarsi» e «mantenere lo Stato».
Definendo la politica come un campo d’azione e di riflessione autonomo, sul quale la morale non ha presa, Machiavelli avvia, per citare Luis Althusser, una «vera e propria rivoluzione nel modo di pensare (6)», che sfocerà più tardi nella formazione della scienza politica moderna. Questa è l’innovazione che gli procurerà un gran numero d’inimicizie. Gli uni gli rimproverano di aver messo in luce i meccanismi del dominio e di aver insegnato ai governati come i governanti procedono per rafforzare il loro potere; gli altri di aver distrutto, nel nome dell’efficienza e dell’azione, il legame intrinseco che secondo loro esiste fra politica, morale e religione.
Tuttavia Machavelli sviluppa un’altra problematica essenziale. Secondo lui, ogni regime si fonda sull’opposizione fondamentale fra due grandi classi, o «umori», sociali, che ne determinano la forma: il popolo, vale a dire la comunità dei cittadini, e i Grandi, coloro che costituiscono l’élite sociale, economica e politica. Questi ultimi, in minoranza, vogliono il dominio; i primi, in maggioranza, lo contestano. «E da questi due appetiti opposti nasce nelle città uno di questi tre effetti: o monarchia, o libertà, o licenza».
Nessuno Stato può fare a meno di questa divisione sociale: il conflitto fra le due classi, che raccoglie diversità di rango, di ricchezza e di aspirazioni, è universale e privo di possibile risoluzione definitiva. Per dirigere è necessario scegliere un campo. Per Machiavelli non può essere che quello del popolo, «perché i suoi obiettivi (...) sono più onesti di quelli dei Grandi, poiché gli uni vogliono opprimere, l’altro non vuole essere oppresso». La monarchia, questo principato autoritario che Machiavelli vede ugualmente esistere nell’oligarchia, è incapace di risolvere la questione sociale. Quindi è necessario preferirgli un regime repubblicano, il solo sistema in grado di garantire l’uguaglianza dei cittadini, la realizzazione del bene pubblico e l’indipendenza del Paese.
Ma questa repubblica, come precisa il Discorso, non può appoggiarsi che sull’istituzione della discordia civile fra le élite e la plebe, in altre parole sul riconoscimento politico del conflitto inerente alla città. L’idea di una società pacificata è un mito, perfino un’aberrazione. Machiavelli ritiene così che la Repubblica romana «non arrivò alla [sua] perfezione se non mediante il dissenso fra il Senato e il popolo».
Con ciò egli si scosta radicalmente dal modello classico, secondo il quale lo Stato deve fondarsi su rapporti di concordia. Per lui, al contrario, l’istituzione di questa discordia civile è il fondamento stesso della libertà: «In ogni repubblica vi sono due umori (...) e tutte le leggi favorevoli alla libertà non nascono che dalla loro opposizione». Per questo è essenziale mettere in opera un dispositivo legale mediante il quale il polo possa fare intendere le sue rivendicazioni e i suoi diritti».
Una volta ammessa la partecipazione comune del popolo e dei Grandi al potere tramite la loro opposizione, si pone la questione sociale di sapere a chi affidare la «sorveglianza della libertà» e la cura di vegliare al buon funzionamento delle istituzioni. Questo problema è di capitale importanza, perché dal controllo dell’interesse pubblico da parte dell’una o dell’altra di queste due categorie dipende la solidità e l’unità dello Stato.
Che forma deve quindi prendere la repubblica: aristocratica o democratica? Mentre la grande maggioranza dei pensatori repubblicani del suo tempo raccomandano un’oligarchia, il Fiorentino preconizza l’instaurazione di una repubblica popolare (stato popolare) fondata sull’autorità suprema di un’assemblea alla quale il popolo può partecipare, allo stesso titolo dei Grandi, alla direzione degli affari della città. Egli qualifica così, nel Sommario delle cose di Lucca, come «buona disposizione» il fatto che un «consiglio generale abbia autorità sui cittadini, perché è un freno efficace contro le ambizioni di alcuni (...). Il grande numero [dei cittadini] serve per imperversare contro i grandi e contro l’ambizione dei ricchi». È meglio in grado di proteggere la libertà e l’uguaglianza colui che ha interesse a vederle mantenersi: «Occorre sempre affidare [il deposito della libertà] a coloro a coloro che hanno minor desiderio di violarle».
Al contrario, quando non «coloro che [hanno] più merito, ma quelli che [hanno] più potenza» occupano le funzioni superiori dello Stato, appare un altro conflitto: la divisione fra gruppi d’interesse legati il più delle volte a clan famigliari, a sistemi clientelari o a monopoli finanziari - ciò che Machiavelli classifica sotto il nome di sette (fazioni, lobby). Dal momento in cui «i ricchi soltanto e i potenti propongono le leggi, molto meno a favore della libertà che per accrescere il loro potere», lo Stato è scalzato alla sua stessa radice, corrotto. In questo modo si perse la Repubblica romana, come anche la Repubblica fiorentina. Allora che fare? I cittadini «devono esaminare la forza del male e, se si sentono capaci di vincerlo, attaccarlo senza esitazione».
(1) Signalons l’étude d’Emmanuel Roux, Machiavel, la vie libre, Raisons d’agir, Paris, 2013, 267 pages, 20 euros. Filippo Del Lucchese, auteur de Tumultes et indignation. Conflit, droit et multitude chez Machiavel et Spinoza (éd. Amsterdam, Paris, 2010), a coordonné un site Internet autour du Prince, « Machiavelli : A multimedia project » (www.brunel.ac.uk). Cf. également John P. McCormick, Machiavellian Democracy, Cambridge University Press, 2011.
(2) Lettre à Francesco Vettori, 10 décembre 1513. (3) Emmanuel Roux, op. cit. (4) Sur les différentes interprétations de la pensée du Florentin, cf. Claude Lefort, Le Travail de l’œuvre Machiavel, Gallimard, Paris, 1986 (1re éd. : 1972).
(5) Cf. Ranieri Polese, « Machiavel mène l’enquête », Books, no 46, Paris, septembre 2013.
(6) Louis Althusser, L’avenir dure longtemps, Flammarion, coll. « Champs essais », Paris, 2013 (1re éd. : 1992).
* Le Monde Diplomatique, novembre 2013, pag. 27
Il pensiero politico di Machiavelli
Le conseguenze etiche e l’attualità de «Il Principe» a 500 anni di distanza
di Michele Ciliberto (l’Unità, 27.06.2013)
MACHIAVELLI ELABORA UN SISTEMA TEORICO COMPATTO INCENTRATO SUL RAPPORTO ORGANICO TRA ANTROPOLOGIA E POLITICA; sul conflitto come principio dinamico, in questo contesto dell’agire politico; sulla funzione della legge; su una visione tragica, in ogni caso, dell’uomo, della natura e anche della politica.
Ho dunque voluto insistere sulla questione dei «limiti» attraverso cui si sviluppa la riflessione di Machiavelli per abbozzarne una interpretazione differente da quella consegnata in genere alle genealogie moderne; ma questo non toglie, ovviamente, che Machiavelli abbia una considerazione massima per la politica come forza e che se essa non si configura come tale è destinata all’insuccesso radicale.
Per il Segretario fiorentino si può essere un politico di grande qualità ma essere travolti dagli avversari e dalla storia se non si dispone di una forza, cioè di armi adatte ai propri obiettivi. In questo senso è veramente esemplare la valutazione che Machiavelli da su Girolamo Savonarola, un grande personaggio ai suoi occhi, autore oltre che delle grandi prediche in San Marco anche di un testo fondamentale, ispirato a una polemica violentissima contro il tiranno, come il Trattato sul governo di Firenze.
I giudizi di Machiavelli su Savonarola sono una sorta di radiografia della sua concezione della politica, oltre che del rapporto tra politica e religione. I documenti su cui intendo concentrarmi sono essenzialmente tre: la lettera, famosa, a Ricciardo Becchi, del 1498; il giudizio su Savonarola nel I libro dei Discorsi; la valutazione sulla ragione della sconfitta del frate espressa nel III libro dello stesso testo.
Tutte queste posizioni hanno in comune un punto: sono di carattere strettamente politico e riguardano il modo con cui il frate utilizza la sua forza in un momento a lui favorevole e la maniera con cui viene sconfitto in una situazione che invece gli è avversa secondo quella relazione tra virtù e fortuna alla quale si è sopra fatto riferimento.
Nel primo caso Machiavelli dimostra come Savonarola utilizzando in modo spregiudicato il testo biblico, e paragonandosi implicitamente a Mosé, cerchi di guadagnarsi il popolo fiorentino quello colto e quello rozzo aizzandoli contro un nemico che sarebbe pronto, nelle sue parole, a farsi loro tiranno, ma mirando solamente a salvaguardare il proprio potere, e facendolo con successo «colorando» le proprie bugie come meglio gli conveniva.
Nel secondo caso si serve di Savonarola per mostrare la potenza della religione come forza - e sottolineo il termine: forza - genuinamente politica. Sarebbe interessante insistere su questo punto ma la stessa insistenza di Machiavelli poche pagine prima sulla figura di Numa come fondatore della potenza di Roma più dello stesso Romolo e proprio per il modo in cui aveva saputo usare la religione, è probabile che fosse stata generata proprio dal’aver visto all’opera Savonarola, concepito qui e sempre, anzitutto come grande politico.
LE QUALITÀ DI SAVONAROLA
Nel terzo caso invece Machiavelli si interroga sulle ragioni della fine di Savonarola pur continuando a riconoscergli, ed è questo l’importante, qualità di grande politico, privo però della forza necessaria per farsi valere. È spietato, ma paradigmatico e perfino didattico il paragone che in queste pagine Machiavelli stabilisce fra Savonarola e Pier Soderini: il primo grande politico privo di forza; il secondo pieno di forza ma incapace di usarla.
Paragone che ci consente di scavare ulteriormente nell’argomento perché dimostra, anzi conferma, come per Machiavelli la forza a sé presa, cioè infondata, non sia in grado di conseguire successi se non è animata da una vigorosa azione politica la quale può essere tale solo quando sgorghi da una radice più profonda nella quale si intrecciano elementi civili, culturali ed anche religiosi.
Come è noto queste posizioni di Machiavelli hanno rappresentato nella cultura italiana, variamente articolate, un vero e proprio paradigma: sono state riprese, per fare qualche nome, da Giordano Bruno o da Pietro Giannone mentre sono state invece radicalmente rifiutate da Fra’ Paolo Sarpi che sostiene una concezione della politica, della religione e dei loro rapporto polarmente estranea a quella di Machiavelli.
C’è però un dato, che emerge invece in modo particolare dal rapporto con Bruno e che conferma la estraneità di Machiavelli alle tematiche ermetiche e magiche. Giordano Bruno nello Spaccio della bestia trionfante riprende molti temi di Machiavelli, come ormai è diventato ordinario sottolineare, ma li situa in un contesto in cui la magia ha un valore decisivo. Per Bruno il politico è un cacciatore d’anima, un vincolatore, un sapiente: appunto un mago; e così del resto Bruno interpretava sé stesso. Machiavelli invece espunge ogni considerazione di questo tipo dalla sua analisi della politica, della potenza, che invece è sviluppata secondo criteri rigorosamente naturalistici, di ascendenza sostanzialmente lucreziana.
A differenza di Bruno che pure riprende a larghe mani Lucrezio ma lo complica alla luce di problematiche neoplatoniche e neopitagoriche aprendosi la strada a una concezione della natura in cui la dimensione magica, sia pure concepita in termini naturali, assume valore centrale. Questa differenza non toglie, però anzi conferma la centralità del paradigma machiavelliano nella storia italiana che lo stesso Bruno svolga una concezione della religione in cui gli elementi civili di matrice machiavelliana hanno un valore essenziale.
Alla luce di quanto si è cercato finora di dire si vede come sia complessa la concezione machiavelliana della politica e come essa abbia connotati caratteristici della cultura rinascimentale, come del resto dimostra ampiamente il paradigma biologico-qualitativo che caratterizza la sua concezione del sorgere, dello svolgersi e del finire delle civiltà.
Tanto più colpisce come lungo secoli moderni Machiavelli sia stato progressivamente espropriato dei suoi aspetti fondamentali e sia stato decifrato secondo criteri che appartengono al pensiero politico moderno di Bodin, di Hobbes, ma non a quello propriamente rinascimentale.
Per quanto possa apparire paradossale è stato proprio Antonio Gramsci a sottolineare con energia che l’effettivo fondatore della concezione moderna dello stato va individuato in Bodin e nei libri della repubblica, e non in Machiavelli. Osservazione ineccepibile; eppure lungo i secoli moderni la lezione di Machiavelli, confondendosi con l’esperienza della ragione di stato, è venuta diluendosi progressivamente nel machiavellismo con una perdita radicale della sua originalità e novità.
Fenomeni che si sono particolarmente accentuati soprattutto nei momenti di crisi politica e statuale quando la sua lezione è sembrata imporsi con imprevedibile forza ed attualità. Machiavelli non ha però niente in comune con il machiavellismo e neppure con l’ideologia della ragion di Stato.
Quello che a noi tocca oggi fare è confrontarsi con la sua opera per quello che essa è stata ed ha voluto essere senza deformare i suoi lineamenti alla luce di vicende che con la sua esperienza umana e intellettuale hanno poco da spartire.
Ma per fare questo, ed è la mia ultima notazione, va riconsiderata la generale interpretazione del Rinascimento che è arrivata fino al Novecento e che ora va rimessa in discussione fin dalle fondamenta. Simul stabunt, simul cadent.
Il ritorno di Machiavelli
Una nuova biografia del pensatore per scoprire l’attualità della sua opera
di Giulio Ferroni (l’Unità, 18.04.2013)
VIVIAMO NEL PARADOSSO DI UNA LOTTA POLITICA CHE SI SVOLGE SOTTO IL SEGNO DEL DISCREDITO DELLA POLITICA, di una generale e stupida liquidazione dell’esperienza e della competenza, alla ricerca perpetua di un «nuovo» che spesso si appoggia ai più frusti modelli pubblicitari e mediatici, agli effetti dell’apparire, o a recitazioni di moralismo del tutto prive di spessore intellettuale. Avrebbe molte cose da dire in proposito il vecchio Niccolò Machiavelli, del cui Principe (o meglio della sua prima stesura) ricorre quest’anno il quinto centenario: e avrebbe da dirle non tanto per il suo acume teorico, ma per la sua stessa esperienza personale, per la competenza acquisita ed esercitata nei quindici anni (dal 1498 al 1512) del suo lavoro di segretario della seconda cancelleria della repubblica fiorentina e per l’insistenza con cui, una volta perso il posto per il ritorno al potere della famiglia dei Medici, continuò a rivendicare quella sua competenza, la sua dedizione alle istituzioni, la sua passione per l’«arte dello stato», aspirando ancora a «voltolare un sasso» nel campo della politica.
La riflessione di Machiavelli sulla politica, non solo nel Principe, ma nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio e in tanti altri scritti, scaturisce sempre direttamente dal suo impegno a guardarla dall’interno, dall’averla esercitata direttamente e dal volerci tornare dentro.
Per questo è essenziale prestare attenzione alla sua biografia, al nesso strettissimo tra la sua vicenda personale e le sue grandi opere, in un’esistenza tutta calata dentro la difficile e convulsa situazione dell’Italia e di Firenze di fine Quattrocento e dei primi decenni del Cinquecento, tra le molteplici difficoltà a cui in quegli anni erano esposti gli stati italiani, sotto la pressione delle invasioni straniere.
Particolarmente utile e tempestiva appare allora la biografia di Gennaro Maria Barbuto, Machiavelli, Salerno editrice (2013, pp.380, €.23,00), che inaugura una fitta serie di iniziative editoriali previste per questo quinto centenario del Principe, tra cui per la Treccani un’Enciclopedia machiavelliana diretta da Gennaro Sasso.
Intanto procede verso la conclusione quello che può essere considerato il più importante risultato degli studi machiavelliani degli ultimi decenni, e cioè l’Edizione nazionale delle Opere presieduta da Enrico Malato, pubblicata dalla stessa Salerno editrice: dei 20 tomi previsti ne sono già usciti 14, tra cui proprio in questi giorni quello degli Scritti in poesia e in prosa, a cura di A.Corsano, P.Cosentino, E.Cutinelli-Rèndina, F.Grazzini, N.Marcelli, coordinati da Francesco Bausi (pp.648, €.).
Raccogliendo il frutto di tante ricerche egli ultimi anni, il percorso biografico di Barbuto mostra molto bene come alcune delle concezioni politiche machiavelliane (anche di quelle più rivoluzionarie e sconvolgenti) siano maturate direttamente tra i problemi, i rapporti, le difficoltà che il segretario affrontava nel concreto impegno quotidiano negli anni del lavoro di segretario (che comportava molteplici missioni sia entro lo stato fiorentino che presso stati e corti italiane e straniere, portandolo tra l’altro più volte fino in Francia).
SPREGIUDICATA VIVACITÀ
Assumono rilievo non trascurabile anche le notizie sulla vita privata (spesso troppo trascurate da filosofi e politologi), in cui spicca la spregiudicata vivacità di comportamenti che alimentano in profondità quella prospettiva antropologica, quell’attenzione alla psicologia sociale che è essenziale nell’orizzonte politico machiavelliano (e a me pare che, nel nostro tempo di studi «di genere», sarebbe interessante approfondire il tema dei rapporti con le donne, insistendo sia sul rilievo che nel Principe assume l’immagine della Fortuna come «donna», sia sui caratteri delle figure femminili nelle commedie e negli stessi scritti poetici raccolti nel volume appena uscito dell’edizione nazionale).
Dal radicamento degli scritti nella biografia ricevono qui più viva luce alcuni nodi centrali del pensiero di Machiavelli: così l’interesse che egli ebbe per la figura di Savonarola (valutato però in una chiave essenzialmente «politica», non senza ironica diffidenza); la nozione della religione come «fondamento infondato»; il distacco dai vicini modelli umanistici (pur entro una passione per la cultura classica e il mondo antico); la convergenza tra l’orizzonte teorico del Principe e quello dei Discorsi («Non esistono un Machiavelli repubblicano e un Machiavelli monarchico», dato che le due opere convergono nell’identificare la necessità di un controllo individuale del potere statale, indipendentemente dalla sua struttura istituzionale), ecc.
Oltre il percorso biografico, il libro di Barbuto è concluso da due interessanti capitoli di Confronti; con il pensiero di Guicciardini, che del resto ebbe una stretta amicizia con Machiavelli (tra convergenze e divergenze, che delineano modi diversi di rapportarsi alla concretezza del fare politico), e con l’Utopia di Thomas More (di cui forse Machiavelli conobbe l’edizione fiorentina del 1519).
Nel caso dell’Utopia, la verifica della distanza tra il modello di città ideale tracciato dall’umanista inglese e il realismo machiavelliano conduce a toccare alcune essenziali contraddizioni da cui scaturisce l’interesse attuale dello stesso pensiero del segretario, al di là delle tante correnti immagini convenzionali che ancora ne fanno cinico maestro di spregiudicatezza politica.
Si vede così come, di contro ad ogni immagine utopica di ritorno ad una natura originaria e incontaminata o di trionfo assoluto del «bene», Machiavelli rivolga lo sguardo ad «una realtà ossimorica, non pacificata né pacificabile, senza la illusione di riscoprire verità pure e di costruire una città senza conflitti».
LA TERRIBILE TEMPESTA
Così lo studioso mette a suggello di questa biografia la citazione di una eccezionale pagina delle Istorie fiorentine su di una terribile tempesta avvenuta nel 1456: in definitiva la nozione stessa di politica appare inscritta nella necessità naturale, dentro cui deve agire anche come controllo e conduzione a bene (un bene relativo, insufficiente, parziale, come ogni bene umano) dei conflitti umani; rimedio e non azzeramento, salvataggio del bene possibile e non distruzione. È questa la politica di cui abbiamo bisogno: che, insieme alle vite e ai bisogni umani, oggi dovrebbe chiamare in causa anche i «beni» naturali e ambientali.
Machiavelli avrebbe dato ragione a Ratzinger
di Alessandro Campi (Il Messaggero, 18 febbraio 2013)
Può esistere una forma di potere “buono”, che sia cioè orientato al perseguimento del bene comune, che non conduca alla perdizione chi lo possiede, che non basi il suo esercizio unicamente sulla forza e sull’inganno, che non si limiti a perpetuare se stesso? Oppure il potere è intrinsecamente corrotto e malvagio, interessato solo alla propria autoconservazione, sordo agli insegnamenti della morale, finalizzato a soddisfare unicamente i bisogni e i desideri di chi lo detiene e dipendente dai capricci di quest’ultimo?
La discussione su cosa sia il potere (che non è solo quello politico), su come possa essere utilizzato, attraverso quali strumenti e in vista di quali obiettivi, sulle qualità (dalla virtù alla scaltrezza, dalla prudenza alla crudeltà) richieste a chi lo possiede e sui diversi modi per conseguirlo e mantenerlo è vecchia di secoli e non ha mai smesso di appassionare pensatori e filosofi d’ogni tendenza. Ma è tornata d’attualità dopo che Benedetto XVI - lasciando il mondo di sasso, facendo partecipi i suoi contemporanei di un evento storico - ha volontariamente rinunciato al trono papale.
Una decisione che è stata spiegata in molti modi (ivi comprese le solite teorie di stampo complottista), ma che pare avere la sua ragion d’essere essenziale - stando alle parole dello stesso Papa, più volte reiterate negli ultimi giorni - nella volontà di salvare la Chiesa dal rischio di una sua deriva secolare e profana. Dal pericolo che essa perda di vista la sua missione spirituale universale per colpa delle fazioni che, scontrandosi all’ombra delle mura vaticane, cercano di assicurarsene il controllo con ogni mezzo.
Quando il buon cristiano - allorché si trova a ricoprire un ruolo di responsabilità al vertice della piramide sociale - teme di non riuscire a sottrarsi alle lusinghe e alle tentazioni di un potere divenuto peraltro debordante e fine a se stesso, che da strumento di governo della collettività si è trasformato in posta in gioco di lotte condotte nel nome dell’ambizione personale, non ha altra strada che rinunziarvi, denunciando il male che esso può generare. Che è esattamente quanto ha fatto Benedetto XVI, sopraffatto più che dalla stanchezza e dalla vecchiaia, come banalmente si è sostenuto, dalla preoccupazione per gli intrighi e le camarille - dettati da interessi volgari - che si stavano svolgendo sotto i suoi occhi ormai da anni.
Nell’Angelus di ieri mattina il Papa dimissionario ha espresso questo suo timore per le divisioni che rischiano di minare il futuro della Chiesa con parole molto forti. Ha messo in guardia contro il rischio di “strumentalizzare Dio per i propri fini, dando più importanza al successo o ai beni materiali” e, ricordando le tentazioni di Gesù nel deserto, ha spiegato che la suprema astuzia del Maligno consiste nello spingere gli uomini non “direttamente verso il male, ma verso un falso bene, facendo credere che le vere realtà sono il potere e ciò che soddisfa i bisogni primari”.
Benedetto
XVI, avvilito dallo spettacolo di lotte sorde e manovre dietro le quinte del governo vaticano al quale
si è infine arreso, sembrerebbe aver fatto propria, sino a denunciarla con forza, un’idea del potere
come tentazione diabolica per l’uomo che detiene il comando (poco importa che si tratti della
Chiesa o di uno Stato) e come strumento che, essendo per sua natura indifferente a Dio e alla
morale, spinge gli uomini - ricorrendo, se necessario, a qualunque mezzo: dalla bugia al tradimento
a preoccuparsi solo del successo mondano e del proprio tornaconto.
Nell’anno in cui si ricorda in tutto il mondo il cinquecentenario del Principe machiavelliano, la cui stesura iniziale risale appunto all’estate-autunno del 1513, questi ammonimenti parrebbero delineare una sorta di nuovo anti-Machiavelli cattolico, visto che è stato proprio il Segretario fiorentino, un pagano miscredente, a radicare nella cultura moderna un’interpretazione strumentale e cinica del potere, a suo giudizio basato di necessità sull’uso combinato della forza e dell’inganno, sulla manipolazione del sentimento religioso, e finalizzato unicamente al dominio sulle persone e sulle cose. Un modo di intendere il potere che sembrerebbe quello oggi dominante.
Ma questa lettura diabolica e sinistra del potere secondo Machiavelli - che i gesuiti, non a caso, consideravano “il compagno del diavolo nel delitto” - oggi sappiamo che è il frutto di un equivoco politico-intellettuale durato almeno quattro secoli.
L’autore del Principe non era certamente un cristiano, ma aveva una visione morale molto solida: considerava gli uomini come tendenzialmente ingrati e volubili, ma questo non lo portava a considerare il male una loro caratteristica immutabile, semmai una realtà con la quale essi da sempre debbono fare i conti, ma per cercare di rifuggirla.
Se ne deduce che il potere - per Machiavelli - non è intrinsecamente cattivo e malvagio, anche se magari è stato conquistato ricorrendo a stratagemmi e scelleratezze. Può anche essere orientato ad uno scopo nobile ed esercitato nell’interesse di tutti. Ad esempio per cementare una comunità politica. Oppure, con riferimento all’epoca in cui Machiavelli scrisse, per dare agli italiani una patria comune e per liberarli dal giogo straniero, secondo quanto si legge nella celebre esortazione che chiude il Principe.
Ma lo stesso orientamento - sul potere come strumento per realizzare una causa “buona” e non come possesso privato o mezzo per soddisfare le proprie brame e dominare sul prossimo, o come arma del diavolo - sembra curiosamente ricavarsi anche dai discorsi e ragionamenti con i quali il Papa ha scelto di accomiatarsi dal suo incarico.
Al Vaticano spetta il governo politicoamministrativo, non solo spirituale, della Chiesa universale. Ma il grande potere, anche finanziario, di cui esso dispone non è necessariamente un pericolo per l’integrità morale di coloro che ne dispongono, purché questi ultimi siano animati da un autentico amore per Dio e le sue creature, purché sappiano scegliere, come ha detto ieri all’Angelus, tra l’interesse personale e il bene collettivo, purché siano dotati di virtù e abbiano forza di carattere.
Gli uomini, in altre parole, possono fare un pessimo uso del potere che hanno, sino a farsene abbagliare. E possono altresì condannarsi alla perdizione nel desiderio spasmodico di conquistarlo.
Ma ciò dipende dalle loro scelte e dal loro modo di comportarsi, non dal potere in quanto tale. È quanto sembra sostenere il Papa, che si è spogliato di ogni potere proprio per mostrare quanto sia sbagliato abusarne o desiderarlo come un bene in sé, ma Machiavelli sarebbe stato d’accordo
Machiavelli, cinquecento anni dopo ritrovato il bando della cattura *
FIRENZE - Ritrovato, all’Archivio di Stato di Firenze dai ricercatori di Harvard, il documento originario del bando della cattura di Nicolò Machiavelli, datato 19 febbraio 1513 e allora letto da un araldo in 52 punti della città. Il momento storico sarà rievocato (con tanto di araldo) il prossimo 19 febbraio, esattamente cinquecento anni dopo la stesura del Principe, opera alla quale Machiavelli cominciò a dedicarsi nel periodo del suo esilio a Sant’Andrea in Percussina. Si darà così inizio alle celebrazioni dello scrittore, ricordato con mostre e convegni durante tutto l’anno
* la Repubblica, 31.01.2013
I consigli di Machiavelli al cittadino elettore
a cura di Maurizio Viroli. Da oggi online
di Editori LATERZA *
Non sai cosa fare alle prossime elezioni? Non c’è nessun candidato che ti convince del tutto o almeno in buona misura? Sul nostro sito ogni giorno troverai le osservazioni di un consigliere d’eccezione: Niccolò Machiavelli.
Scegliere il principe
A partire da lunedì 21 gennaio, su questo sito, troverai un consiglio elettorale al giorno dell’autore de Il Principe, tratto dal libro Scegliere il principe. I consigli di Machiavelli al cittadino elettore di Maurizio Viroli.
Viroli, tra i più autorevoli analisti del suo pensiero, studioso di filosofia della politica e di storia del pensiero politico, professore di Teoria politica all’Università di Princeton e all’Università della Svizzera Italiana a Lugano, riflette sulle parole di Machiavelli facendoci scoprire quanto possa essere utile e attuale il suo pensiero per focalizzare le questioni centrali del dibattito politico.
Con tanti opinionisti - spiega Maurizio Viroli nella Premessa del volume - commentatori ed esperti può apparire idea bizzarra rivolgerci a Niccolò Machiavelli perché ci aiuti a scegliere bene il nostro principe, quando dobbiamo votare, e ci insegni ad essere cittadini saggi. Machiavelli è vissuto a Firenze fra il Quattrocento e il Cinquecento (1469-1527), non hai mai visto una repubblica democratica, ed è pure diventato famoso nel mondo per un’opera, Il Principe, nella quale non ha dato consigli ai cittadini, ma al principe.
In realtà, Machiavelli è l’uomo giusto. Conosceva e capiva la politica come pochi altri, anche se alcuni suoi contemporanei, come il grande Francesco Guicciardini (1483-1540) ritenevano che talune sue idee fossero troppo audaci per i tempi e le circostanze... Era poi uomo d’impeccabile onestà, virtù essenziale per un buon consigliere su questioni tanto importanti come quelle politiche. Prova della sua onestà era la sua povertà. Dopo aver servito il governo popolare di Firenze guidato da Pier Soderini per quattordici anni, e aver maneggiato enormi somme di denaro, si ritrovò, quando perse il suo incarico, più povero di prima... Aveva poi la virtù, considerata dai più un vizio, di esprimere schiettamente i suoi giudizi politici, anche se le circostanze della vita gli imposero a volte di simulare e mentire.
Non è usuale avere un consigliere competente, certamente del tutto disinteressato e che ha a cuore il bene dell’Italia. Trovarne un altro con le stesse qualità è assai difficile. Del resto a lui è sempre piaciuto dare consigli, e per noi italiani ha un occhio di riguardo. Va da sé che per avere suoi suggerimenti dobbiamo rivolgergli le domande giuste e riflettere bene sulle sue parole. Dobbiamo insomma avere un po’ di pazienza, ma ne vale la pena. La saggezza che ci può regalare il buon Niccolò aiuta ad essere migliori cittadini e a vivere meglio.
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Ecco dunque il piano di pubblicazione dei consigli tratti da Scegliere il principe. I consigli di Machiavelli al cittadino elettore di Maurizio Viroli, che ci accompagneranno da oggi al 14 febbraio (...) --- Per proseguire nella lettura, clicca QUI.
Dopo cinque secoli c’è ancora bisogno di lui
di Maurizio Viroli (il Fatto Quotidiano, 26 gennaio 2013)
Con tanti opinionisti, commentatori ed esperti può apparire idea bizzarra rivolgerci a Niccolò Machiavelli perché ci aiuti a scegliere bene il nostro principe, quando dobbiamo votare, e ci insegni a essere cittadini saggi. Machiavelli è vissuto a Firenze fra il 400 e il 500 (1469-1527), non ha mai visto una Repubblica democratica, ed è pure diventato famoso nel mondo per un’opera, Il Principe, nella quale non ha dato consigli ai cittadini, ma al principe. In realtà, Machiavelli è l’uomo giusto.
Conosceva e capiva la politica come pochi altri, anche se alcuni suoi contemporanei, come il grande Francesco Guicciardini (1483-1540) ritenevano che talune sue idee fossero troppo audaci per i tempi e le circostanze. Quando era Segretario della Repubblica, un suo amico, Filippo Casavecchia, gli scrisse: “Voi siete il più grande profeta che sia venuto dai tempi degli ebrei”. Anche dopo che i Medici lo cacciarono da Palazzo Vecchio, nel 1512, gli amici ricorrevano a lui per capire le vicende politiche e per prevedere il comportamento dei politici del tempo.
Francesco Vettori (1474-1539), ambasciatore di Firenze presso la corte pontificia a Roma, gli scriveva nel 1514 che anche se erano passati due anni da quando stava in Palazzo Vecchio, “vi riconosco di tanto ingegno” che saprete aiutarmi (...) Sulla politica non aveva rivali. Era poi uomo d’impeccabile onestà, virtù essenziale per un buon consigliere su questioni tanto importanti come quelle politiche. Prova della sua onestà era la sua povertà. Dopo aver servito il governo popolare di Firenze guidato da Pier Soderini per 14 anni, e aver maneggiato enormi somme di denaro, si ritrovò, quando perse il suo incarico, più povero di prima.
Aveva poi la virtù, considerata dai più un vizio, di esprimere schiettamente i suoi giudizi politici, anche se le circostanze della vita gli imposero a volte di simulare e mentire. Mentre era dai frati minori di Carpi, nel 1521, ad esempio, scrisse a Francesco Guicciardini che aveva imparato l’arte di non dire mai la verità o, se la diceva, di nasconderla fra tante bugie che era impossibile ritrovarla. Quando trattava di politica esprimeva il suo pensiero apertamente, anche ai potenti.
Della Chiesa affermò che se gli italiani erano diventati “sanza religione e cattivi” la colpa era dei papi e dei preti (frati compresi); dei Medici signori di Firenze scrisse che il grande Cosimo I fondò il suo regime con una politica di favori indegna del vivere repubblicano e che il tanto celebrato Lorenzo il Magnifico fece guerra contro Volterra per ambizione.
Sappiamo poi per certo che amava la patria con tutto se stesso, e che per tutta la vita dedicò le sue migliori energie a difendere la libertà della sua Firenze e dell’Italia. Aveva anche lui, com’era giusto che avesse, interessi personali e ambizioni, che però non erano in contrasto con il bene comune.
Questa è la garanzia migliore che da lui avremo ottimi suggerimenti. E non dobbiamo dimenticare che pochi, nella nostra lunga storia, hanno capito l’Italia come Machiavelli. Riteneva che i suoi compatrioti avessero grandi energie intellettuali, artistiche e imprenditoriali; ma era anche consapevole che mancavano della tempra morale necessaria a vivere liberi. Da quando Cesare e gli altri imperatori avevano soffocato la vita repubblicana della Roma antica, fino ai suoi giorni, gli italiani avevano conosciuto soltanto una libertà fragile e avevano subito sia l’oppressione straniera sia varie forme di tirannide, più o meno velate.
Eppure, anche nei momenti più difficili della vita, mantenne viva la speranza che l’Italia fosse in grado di rinascere e di diventare una patria libera e ammirata.
Rispetto ai tempi di Machiavelli, nella sostanza, la politica non è cambiata di molto. I politici dei nostri giorni hanno le medesime passioni di quelli che vivevano nella sua epoca: alcuni sono dominati dall’ambizione, altri dal desiderio di guadagno, o dalla paura, o dall’invidia o da varie combinazioni di queste passioni. Ma ci sono anche uomini e donne che hanno sentimenti generosi, quali l’amore della libertà e della giustizia, l’amore della patria, il desiderio di vera gloria.
Machiavelli ci appare dunque un consigliere competente, certamente del tutto disinteressato e che ha a cuore il bene dell’Italia. Trovarne un altro con le stesse qualità è assai difficile. Del resto a lui è sempre piaciuto dare consigli, e per noi italiani ha un occhio di riguardo. Va da sé che per avere suoi suggerimenti dobbiamo rivolgergli le domande giuste e riflettere bene sulle sue parole.
Dobbiamo insomma avere un po’ di pazienza, ma ne vale la pena. La saggezza che ci può regalare il buon Niccolò aiuta a essere migliori cittadini, e a vivere meglio
Questo Principe non invecchia mai
Compie cinquecento anni il capolavoro di Machiavelli
di Silvia Truzzi (il Fatto, 26.01.2013)
Un vademecum di princìpi per i prìncipi ha attraversato la storia ed è arrivato, per nulla impolverato, fin qui: il Principe, l’opera più importante di Niccolò Machiavelli, ancora oggi è uno dei testi più famosi (e tradotti) della storia della letteratura italiana, potentissima (e affascinantissima) riflessione sul potere.
Nei giorni frenetici di alleanze, coalizioni, liste e listini, gli interrogativi del filosofo, segretario della Repubblica fiorentina, sono più che mai attuali. Come quello, fondante, su cosa sia necessario per “ascendere al principato” (salire in politica!): “Il favore del popolo o quello de’ grandi”? I suoi consigli serviranno ai nostri aspiranti, malridotti o sedicenti, prìncipi?
Il pamphlet - il titolo originale in latino è De Principatibus ma è scritto in volgare - fu composto dopo la prigionia (Niccolò venne sospettato di aver congiurato contro i Medici), in un podere della campagna toscana. L’anniversario non passerà in secondo piano. Da due settimane Radio Tre dedica un appuntamento - ogni sabato alle 18, per sei mesi - al saggio: in ogni puntata un interprete del presente prende le mosse dalle letture di un grande del passato, “proprio come faceva Machiavelli quando, al calar della sera, si ritirava a dialogare con i filosofi greci e romani, per capire l’oggi e immaginare una nuova politica”. Della dimensione politica laica, della gestione del governo e sul concetto di potere discuteranno Gennaro Sasso, Massimo Cacciari, Umberto Galimberti, Pier Carniti, Roberta De Monticelli e molti altri ospiti. Ieri intanto si è chiuso alla Casa delle Letterature di Roma un convegno di due giorni sull’attualità del pensiero politico, ma non solo, del sempreverde Principe.
NATURALMENTE anche gli scaffali saranno interessati da una rinnovata vague machiavellica: l’Istituto dell’Enciclopedia Italiana ha in programma, oltre a una grande mostra che sarà allestita a Roma in ottobre, un’edizione “critica definitiva” del Principe curata da Giorgio Inglese. La congiura Machiavelli, dell’americano Michael Ennis, è in libreria per Newton Compton: il romanzo è ambientato nel 1502, a Imola, dove il Valentino - Cesare Borgia - ha radunato un esercito. Uno degli scopi del libro, ha spiegato l’autore, è quello di sfatare il mito del cinismo machiavellico: “Scoprirete un uomo che non aveva niente di machiavellico, fu un onestissimo servitore dello Stato, un amico fedele e un inguaribile romantico”.
Anche Maurizio Viroli, politologo dell’Università di Princeton e firma del Fatto Quotidiano, “riabilita” la pessima fama del filosofo in Scegliere il principe. I consigli di Machiavelli al cittadino elettore, di cui riportiamo qui sotto il capitolo introduttivo.
Scrive il professore: “Era uomo d’impeccabile onestà, virtù essenziale per un buon consigliere su questioni tanto importanti come quelle politiche. Prova della sua onestà era la sua povertà”. Già qui il tragitto passato presente è fulminante: nell’età dell’oro degli abusi e delle ruberie, la povertà di un importante consigliere è inimmaginabile. E dire che privilegi e “benefici collaterali” di cui gode una classe dirigente che si distingue quasi solo per l’altissimo tasso di corruttibilità o impresentabilità (per usare un termine in voga in questi affannati giorni) certo non sono giustificati da lungimiranza, profondità del pensiero, efficacia dell’azione politica.
PIÙ GLI ELETTI (in senso letterale) peggiorano, più si arricchiscono: è il paradosso della decadenza. Attorno hanno, più che consulenti, schiere di cortigiani, illuminati da un piccolo pamphlet di qualche secolo dopo, che pure non è per nulla invecchiato: il Saggio sull’arte di strisciare (Melangolo) del barone d’Holbach. I consigli a uso dei servi, suonano più o meno così: “La nobile arte del cortigiano consiste nel tenersi informato sulle passioni e i vizi del padrone. Gli piacciono le donne? Bisogna procurargliene” (ogni commento è superfluo). E poi: “Il cortigiano deve tenere ben presente che il Sovrano e più in generale l’uomo che sta al comando non ha mai torto”.
Di tutt’altro avviso Machiavelli, che al Principe dà consigli assai più assennati, con un capitolo che addirittura s’intitola Quo-modo adulatores sint fugiendi (In che modo sfuggire agli adulatori). È il momento giusto per sfatare qualche leggenda?
La concezione di Machiavelli messa in discussione
Senza metafisica non esiste politica
di Franca D’Agostini (la Repubblica, 13.02.2013)
Perché Machiavelli piace ai filosofi tardo-moderni o postmoderni (se è lecito ancora usare questa espressione, estremamente equivoca)? Semplice: perché è il filosofo che emancipa la politica dalla filosofia, e la lascia viaggiare da sola, sulle ali del potere. L’ha ricordato Giancarlo Bosetti su Repubblica del 22 gennaio, citando Gramsci (la grande “rivoluzione intellettuale” dell’autonomia della politica), e Isaiah Berlin (crollo definitivo della philosophia perennis, e ingresso nell’era del pluralismo postfilosofico).
Ma forse è proprio il duplice mito dell’autonomia della politica, e della fine della philosophia perennis, ciò a cui dobbiamo rinunciare. In fin dei conti Machiavelli (come Carl Schmitt) fu un grande analista del potere come coercizione, ma ciò di cui parlava era il potere oligarchico, o monocratico. Mentre sappiamo che in democrazia (che è “government by discussion”) il potere è anzitutto pensiero (e ragionamento, e discorso).
Due libri appena usciti rovesciano il paradigma machiavelliano, e rilanciano l’idea del legame strettissimo, anzi quasi inestricabile, tra filosofia (proprio quella philosophia perennis che a Berlin non piaceva) e politica democratica. Il primo è Resisting Reality, di Sally Haslanger, epistemologa sociale dell’Mit (Oxford University Press), e il secondo è Disputandum est. La passione per la verità nel discorso pubblico di Antonella Besussi, filosofa della politica alla Statale di Milano (Bollati Boringhieri).
Haslanger applica i risultati della metafisica analitica alle questioni di giustizia. Il punto di partenza è la denuncia del clamoroso e in certo modo ingenuo fraintendimento che ha portato a pensare alle teorie costruttiviste della conoscenza come teorie che annientavano la realtà, sottoponendola a qualche oscura forza modellante (il potere, la soggettività, il linguaggio, gli schemi concettuali).
Questo fraintendimento è stato caratteristico tanto dei critici del costruzionismo quanto di alcuni suoi sostenitori. Si veda per esempio la professione di antirealismo da parte di alcuni settori del femminismo (il concetto di realtà come residuo di una metafisica “logocentrica”), a cui giustamente rispondeva nel 1987 Catharine MacKinnon, ricordando che sbarazzarsi del riferimento alla realtà per i soggetti politici che ne subiscono gli urti è suicida oltre che assurdo.
Dice Haslanger, la nozione di costruzione sociale (o epistemica) ha da Kant in avanti una funzione critica molto precisa: serve a discutere quelle metafisiche perverse che danno per scontato che essere un afroamericano, un omosessuale, una donna, comporti alcune conseguenze date e non negoziabili, e vincoli perciò i portatori di tali determinazioni a subire una serie di condizioni socialmente inique. Ma certo, se ci si sbarazza della metafisica, ovvero della riflessione su che cosa è un omosessuale, una donna, o in generale che cosa è un essere umano, la revisione delle idee condivise su queste “costruzioni” diventa impossibile.
Per esempio, l’aggancio della decisione politica alla discussione sulle “credenze prime e ultime”, come dice Besussi, potrebbe servirci per capire bene che la tesi secondo cui la famiglia richiede l’alleanza uomo-donna non ha più reali fondamenti in quel che sappiamo degli uomini, delle donne, e delle relazioni tra gli uni e le altre. Certo, si può continuare a sostenerla, ma allora deve essere chiaro che lo si fa per pure questioni di potere (per esempio, per favorire una parte politica che figura come espressione di una metafisica dogmatica), e non perché la tesi in questione sia (creduta) vera.
La proposta di Besussi, detto in breve (perché il libro è ricco di argomenti ed esemplificazioni) va in direzione di una “normatività non autosufficiente”. Nota Besussi che la nostra cultura politica si è come inchiodata a ciò che si chiamerebbe la strategia della separazione (estensione del famoso principio di Bökenförde, per cui lo Stato laico non ha fondamenti e non vuole averne).
«Il caso esemplare è rappresentato dalle guerre civili europee tra cattolici e protestanti. Chiuderle è stato possibile a condizione di riconoscere che se ci si uccide per stabilire qual è la religione vera, smettere di farlo richiede che la questione sia privata di rilevanza politica». Questa procedura «sposta credenze metafisiche nel territorio extrapolitico delle convinzioni assolute, apprezzabili purché politicamente mute».
Ma qui è precisamente il punto: che convinzioni false o discutibili non sono affatto apprezzabili, e l’errore per di più è considerarle “assolute”, pertanto non sottoponibili alla discussione circa la loro discutibilissima verità.
2013, l’anno del «Principe»
Un convegno a Roma sull’attualità dell’opera
Machiavelli scrisse nella seconda metà del 1513 questo libretto diventato
un vademecum della politica più spregiudicata e ferina
di Giulio Ferroni (l’Unità, 23.01.2013)
L’ANNO DEL «PRINCIPE» (SCRITTO IN GRAN PARTE NELLA SECONDA METÀ DEL 1513), CHE SI ANNUNCIA FITTO DI INTERVENTI E CELEBRAZIONI, VIENE INAUGURATO DAL CONVEGNO «IL PENSIERO DELLA CRISI: NICCOLÒ MACHIAVELLI E IL “PRINCIPE”», CHE SI TIENE DOMANI E IL 25 GENNAIO ALLA CASA DELLE LETTERATURE DI ROMA. NON È FORSE UN CASO CHE SI COMINCI DA ROMA, DATO CHE QUEL TRATTATO COSÌ FIORENTINO, che l’ex segretario della repubblica scrisse per vedere se i Medici, padroni di Firenze, gli facessero almeno «voltolare un sasso», ha del resto più di un legame con Roma, dato che il legame Firenze-Roma era allora strettissimo (il papa Leone X, Giovanni de’ Medici, era figlio di Lorenzo il Magnifico): sappiamo che l’autore vi lavorò intensamente tra il luglio e il dicembre del 1513 grazie ad una celebre lettera del 10 dicembre diretta proprio a Roma, all’amico Francesco Vettori.
Il convegno romano, per iniziativa di Gabriele Pedullà, dà voce alla critica machiavelliana più giovane (anche qui si fa avanti quella che è stata chiamata generazione Tq): Pedullà ha peraltro pubblicato recentemente un poderoso e sostanzioso volume su Machiavelli in tumulto. Conquista, cittadinanza e conflitto nei «Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio» (Bulzoni, 2011, pagine 633, euro 44,00), che, puntando sul rilievo che nel più ampio trattato dedicato alle repubbliche Machiavelli attribuisce ai conflitti sociali dell’antica Roma, vede tra i nodi essenziali del suo pensiero il radicarsi della «libertà» e potenza di uno stato nello spazio che le sue istituzioni danno al conflitto, a scontri tra le classi non distruttivi, ma rivolti in definitiva alla costruzione del bene comune.
Anche il programma del convegno sembra voler rivolgere una attenzione privilegiata ai Discorsi, seguendo una tendenza della critica machiavelliana degli ultimi decenni: ma comunque il tema della crisi permette di risalire dai Discorsi al Principe, dove pure non mancano richiami ai conflitti di classe, ai diversi «umori» dei «grandi» e del «popolo» (anche lì con una più diretta simpatia dell’autore per l’orizzonte «popolare», anche se la sua nozione di popolo è qualche cosa di diverso da quella moderna popolo, si avvicina di più, semmai, a ciò che intendiamo come classe media).
Il Principe è proprio libro che parte da una crisi, storica e personale: dalla constatazione della debolezza degli stati italiani, di fronte agli invasori francesi e spagnoli, e dall’amarezza per aver perso, con la sconfitta della repubblica e il ritorno dei Medici a Firenze, il proprio posto di segretario. Machiavelli lo scrive per offrirlo ai Medici, per mostrare la propria competenza, nella speranza di recuperare un ruolo nella politica fiorentina: indica linee politiche per la costruzione di un più forte potere principesco mediceo, nonostante la sua preferenza personale per la forma repubblicana.
E questa sua riflessione sul principato, e sulla stessa possibilità di creare un principato «nuovo», è segnata da una specie di ansia critica, dalla continua verifica delle «difficoltà» che ineriscono ad ogni gestione del potere, delle minacce continue che gravano su di esso: del resto nella già ricordata lettera del 10 dicembre 1513 dice proprio che il suo «opuscolo» è rivolto a discutere «che cosa è principato, di quale spezie sono, come e’ si acquistono, come e’ si mantengono, perché e’ si perdono». Tutte le mosse del principe e dei singoli principi di cui in quest’opera si tratta sono minacciate dalla perdita: e un perdente è alla fine quello che viene indicato come il più capace tra i contemporanei, da imitare come modello, Cesare Borgia, crollato alla fine per un imperdonabile errore. Non uno scienziato della politica, Machiavelli (come afferma una lunga tradizione che continua a prolungarsi), ma un radiografo della catastrofe, impegnato ad indagare sulle «difficultà», gli «inconvenienti», gli «errori» che gravano sull’esercizio del potere e sul controllo delle istituzioni sul mondo: che cerca soluzioni per rispondere alla crisi, che a loro volta restano implicate nella crisi, incardinate dentro le condizioni della crisi stessa.
In questo quadro egli offre tutta una serie di rilievi di quella che oggi chiameremmo antropologia o psicologia sociale, individuando gli effetti di una politica dell’immagine, dell’illusionismo, della virtualità, l’efficacia di un puro «mostrare», capace di catturare consenso sulla base di non coscienza, di passività, di pulsioni e desideri eterodiretti dei cittadinisudditi.
Per una serie di imprevedibili intrecci questo libretto è diventato vademecum della politica più spregiudicata, ferina, diabolica; ha finito per dare (o è sembrato farlo) indicazioni per la scalata al potere, per il suo più cinico esercizio. Forse oggi possiamo ripensarlo in una chiave diversa: usarlo non come manuale di comportamento politico (nel Novecento lo si è fatto spesso in maniera disastrosa, anche nella sinistra leninista e nei suoi deliranti prolungamenti), né come modello filosofico, ma come spinta verso una politica capace di farsi carico delle difficoltà, dei molteplici «inconvenienti» critici che gravano sull’equilibrio delle nostre società, capace di reagire alle derive morali, economiche, politiche, antropologiche, ecologiche in cui siamo presi. Una politica che sappia confrontarsi con l’«apparenza», per resistere alla sua risoluzione in pura immagine, negli effetti di comunicazione, in indifferente virtualità.
Il discorso dell’oratore dei Ciompi
di Niccolo’ Machiavelli (Istorie Fiorentine, III, xiii)
Gli uomini plebei adunque, così quelli sottoposti all’Arte della lana come alle altre, per le cagioni dette1, erano pieni di sdegno: al quale aggiugnendosi la paura per le arsioni e ruberie fatte da loro2, convennono di notte più volte insieme, discorrendo i casi seguiti e mostrando l’uno all’altro ne’ pericoli si trovavano. Dove alcuno de’ più arditi e di maggiore esperienza, per inanimire3 gli altri, parlò in questa sentenza:
Se noi avessimo a deliberare ora se si avessero a pigliare le armi,
ardere e rubare le case de’ cittadini, spogliare le chiese, io sarei uno di quelli
che lo giudicherei partito da pensarlo4, e forse approverei che fusse da preporre
una quieta povertà a uno pericoloso guadagno5; ma perché le armi sono prese e
molti mali sono fatti, e’ mi pare che si abbia a ragionare come quelle6 non si abbiano
a lasciare e come de’ mali commessi ci possiamo assicurare7. Io credo certamente
che, quando altri non ci insegnasse, che la necessità ci insegni.
Voi vedete tutta questa città piena di rammarichii8 e di odio contro a di noi: i cittadini si ristringono9, la Signoria è sempre con i magistrati: crediate che si ordiscono lacci per noi, e nuove forze contro alle teste nostre si apparecchiano10.
Noi dobbiamo per tanto cercare due cose e avere, nelle nostre deliberazioni, duoi fini: l’uno di non potere essere delle cose fatte da noi ne’ prossimi giorni11 gastigati, l’altro di potere con più libertà e più sodisfazione nostra che per il passato vivere.
Convienci per tanto, secondo che a me pare, a volere che ci sieno perdonati gli errori vecchi, farne de’ nuovi12, raddoppiando i mali, e le arsioni e le ruberie multiplicando, e ingegnarsi a questo avere di molti compagni, perché dove molti errano niuno si gastiga13, e i falli piccoli si puniscono, i grandi e gravi si premiano; e quando molti patiscono pochi cercano di vendicarsi, perché le ingiurie universali14 con più pazienza che le particulari si sopportono. Il multiplicare adunque ne’ mali ci farà più facilmente trovare perdono, e ci darà la via ad avere quelle cose che per la libertà nostra di avere desideriamo.
E parmi che noi andiamo a uno certo acquisto15, perché quelli che ci potrebbono impedire sono disuniti e ricchi: la disunione loro per tanto ci darà la vittoria, e le loro ricchezze, quando fieno diventate nostre, ce la manterranno. Né vi sbigottisca quella antichità del sangue che ei ci rimproverano16; perché tutti gli uomini, avendo avuto uno medesimo principio, sono ugualmente antichi17, e da la natura sono stati fatti ad uno modo.
Spogliateci tutti ignudi: voi ci vedrete simili, rivestite noi delle veste loro ed eglino delle nostre: noi senza dubio nobili ed eglino ignobili parranno18; perché solo la povertà e le ricchezze ci disagguagliano19. Duolmi bene che io sento come molti di voi delle cose fatte, per conscienzia20, si pentono, e delle nuove si vogliono astenere; e certamente, se gli è vero, voi non siete quelli uomini che io credevo che voi fusse; perché né conscienzia né infamia vi debba sbigottire; perché coloro che vincono, in qualunque modo vincono, mai non ne riportono vergogna21. E della conscienza noi non dobbiamo tenere conto; perché dove è, come è in noi, la paura della fame e delle carcere, non può né debbe quella dello inferno capere22.
Ma se voi noterete il modo del procedere degli uomini, vedrete tutti quelli che a ricchezze grandi e a grande potenza pervengono o con frode o con forza esservi pervenuti23; e quelle cose, di poi, ch’eglino hanno o con inganno o con violenza usurpate, per celare la bruttezza dello acquisto, quello sotto falso titolo di guadagno adonestano24.
E quelli i quali, o per poca prudenza o per troppa sciocchezza, fuggono questi modi, nella servitù sempre e nella povertà affogono; perché i fedeli servi sempre sono servi, e gli uomini buoni sempre sono poveri; né mai escono di servitù se non gli infedeli e audaci, e di povertà se non i rapaci e frodolenti.
Perché Iddio e la natura ha posto tutte le fortune25 degli uomini loro in mezzo; le quali più alle rapine che alla industria, e alle cattive che alle buone arti sono esposte: di qui nasce che gli uomini mangiono l’uno l’altro, e vanne sempre col peggio chi può meno26.
Debbesi adunque usare la forza quando ce ne è data occasione. La quale non può essere a noi offerta dalla fortuna maggiore, sendo ancora i cittadini disuniti, la Signoria dubia27, i magistrati sbigottiti: talmente che si possono, avanti che si unischino e fermino l’animo, facilmente opprimere: donde o noi rimarreno al tutto prìncipi28 della città, o ne areno tanta parte29 che non solamente gli errori passati ci fieno30 perdonati, ma areno31 autorità di potergli di nuove ingiurie minacciare.
Io confesso questo partito essere audace e pericoloso; ma dove la necessità strigne è l’audacia giudicata prudenza32, e del pericolo nelle cose grandi gli uomini animosi33 non tennono mai conto, perché sempre quelle imprese che con pericolo si cominciono si finiscono con premio, e di uno pericolo mai si uscì sanza pericolo: ancora che io creda, dove si vegga apparecchiare34 le carcere, i tormenti e le morti, che sia da temere più lo starsi35 che cercare di assicurarsene36; perché nel primo37 i mali sono certi, e nell’altro dubi.
Quante volte ho io udito dolervi della avarizia de’ vostri superiori e della ingiustizia de’ vostri magistrati! Ora è tempo, non solamente da liberarsi da loro, ma da diventare in tanto loro superiore, ch’eglino abbiano più a dolersi e temere di voi che voi di loro.
La opportunità che dalla occasione ci è porta vola, e invano, quando la è fuggita, si cerca poi di ripigliarla38. Voi vedete le preparazioni de’ vostri avversarii: preoccupiamo i pensieri loro39; e quale di noi prima ripiglierà l’armi, sanza dubio sarà vincitore, con rovina del nimico ed esaltazione sua: donde a molti di noi ne risulterà onore, e securità a tutti -.
Queste persuasioni40 accesono forte i già per loro medesimi riscaldati animi al male, tanto che deliberorono prendere le armi, poi ch’eglino avessero più compagni tirati alla voglia loro; e con giuramento si obligorono di soccorrersi, quando accadessi che alcuno di loro fusse dai magistrati oppresso.
* FONTE: R. Antonelli, M.S. Sapegno, Il senso e le forme, 2011 RCS Libri S.p.A./La Nuova Italia (senza le note)
Sospensione della democrazia grazie alla crisi
Verso un cesarismo europeo *
«Un oggetto di cristallo, se lo gettiamo a terra, si rompe, ma non in un modo qualsiasi: si rompe seguendo le sue direzioni di sfaldatura, in pezzi la cui delimitazione, benché invisibile, era tuttavia predeterminata dalla struttura del cristallo stesso». Questa constatazione, stabilita da Sigmund Freud negli anni ’30 (1) a proposito dei malati mentali, si applica anche ai malati politici, al primo posto dei quali vi è l’Unione Europea, struttura incrinata e fessurata come non mai.
La crisi economica apertasi nel 2007 ha rivelato le contraddizioni inerenti alla costruzione europea. In particolare, ha dimostrato che l’Unione si appoggia a un regime politico autoritario, intrinsecamente in grado di sospendere le procedure democratiche invocando l’urgenza economica o finanziaria. Nel corso degli ultimi quattro anni istituzioni sfuggenti a ogni controllo popolare, quali la Banca centrale europea (BCE) e la Commissione europea, hanno così imposto - con la collaborazione attiva delle classi dominanti di questi Paesi - il loro foglio di via obbligatorio ai popoli irlandese, ungherese, romeno, greco, italiano, spagnolo, portoghese, francese, ecc. Il Patto di Bilancio europeo (Trattato sulla stabilità, il coordinamento e la governance TSCG), il controllo di bilancio degli Stati membri e la sorveglianza delle banche da parte dell’Unione ampliano questo movimento (2). Come definire questa forma di governo dei popoli senza i popoli?
Per comprendere la natura del nuovo regime politico europeo conviene ritornare sulle quattro fasi della crisi. Tutto ha inizio nell’agosto 2007. Quando la più grande banca francese, BNP Paribas, annuncia il blocco degli attivi di tre dei suoi fondi d’investimento, giustificandolo con la propria incapacità di dare loro una valutazione, l’Unione Europea non dispone di alcuna risorsa finanziaria propria che le permetta d’intervenire: anche se la moneta unica ha suscitato l’emergenza in banche che operano a livello del continente, la supervisione della loro attività resta prerogativa degli Stati. La BCE inietta importanti volumi di liquidità, senza che sia ancora progettata un riforma in profondità del sistema finanziario.
Il fallimento della quarta banca d’investimenti del mondo, Lehman Brothers, nel settembre 2008, dà il segnale d’inizio alla seconda fase della crisi. Esso porta il sistema finanziario internazionale sull’orlo del fallimento e provoca una contrazione del credito (credit crunch) di grande ampiezza. Per la prima volta nel dopoguerra l’economia mondiale affonda nella recessione.
La risposta viene dapprima dal G20 e dalle banche centrali delle principali economie del pianeta: tutti riconoscono la necessità di misure anticicliche provvisorie. Al Consiglio europeo del 15 e 16 ottobre 2008 i governi annunciano la ricapitalizzazione degli istituti di credito in difficoltà e promettono di garantire i prestiti bancari. A livello dell’Unione Europea, due istituti aumentano il loro potere: la BCE e la Direzione generale della concorrenza (DGC), che costituiscono i veri e propri centri di pilotaggio nella tempesta. Poiché sono prive di legittimazione elettorale, il loro rafforzamento si intensifica in misura inversamente proporzionale a quello della democrazia dell’Unione.
Terza fase: alla fine del 2009 l’Europa diventa l’epicentro della crisi globale. S’innesca allora una spirale infernale: decollo dei tassi d’interesse del debito pubblico dei Paesi periferici, generalizzazione delle misure d’austerità, crescita a mezz’asta o in caduta libera. Nella tormenta Paesi sovrani incastrati in una moneta unica si trovano alla mercé di attacchi speculativi dal momento in cui la BCE rifiuta di fornire la sua garanzia.
Da Bonaparte a Mario Draghi
Maggio 2010. Il primo piano di salvataggio della Grecia pone Atene sotto la tutela della «troika»: Fondo monetario internazionale (FMI), BCE e Commissione europea. Nella sua scia i tassi d’interesse dell’Irlanda e del Portogallo, seguiti da quelli della Spagna e dell’Italia, impazziscono, annullando l’ipotesi secondo la quale la Grecia sarebbe un caso particolare. Allo stesso tempo viene alla luce un Fondo europeo di stabilità finanziaria (FESF). Malgrado l’opposizione di una parte delle elite continentali, la BCE amplia il campo delle sue prerogative e si mette ad acquistare buoni del Tesoro sul mercato secondario.
Questi cambiamenti si uniformano agli interessi della finanza. Klaus Regling prende il comando del FESF. Ex dirigente del FMI, del ministero delle Finanze tedesco e della Commissione europea, ha realizzato una parte della sua carriera nella finanza privata, lavorato nel corso degli anni ’80 per l’Associazione federale delle banche tedesche, diretto un fondo speculativo (hedge fund) a Londra fra il 1999 e il 2001 e svolto attività di consulente privato a Bruxelles.
Caso simile: Jacques de Larosière. Ex direttore generale del FMI, alto funzionario del Tesoro francese, poi consigliere di Michel Pébereau, presidente-direttore generale di BNP Paribas, nel febbraio 2009 ha diretto un gruppo di esperti che ha fornito alla Commissione europea un rapporto sulla riforma dell’architettura finanziaria europea. Quattro degli otto membri di questo gruppo sono o sono stati legati agli istituti finanziari Goldman Sachs, BNP Paribas, Lehman Brothers e Citigroup.
Nel corso della quarta fase, che inizia in luglio 2011, la crisi dei debiti sovrani della periferia dell’Europa si estende ad alcuni Paesi del cuore storico dell’Unione, come l’Italia, che vede i tassi d’interesse del suo debito balzare in alto rispetto a quelli pagati dalla Germania. L’insieme del continente precipita nuovamente nella recessione, mentre i Paesi del sud affondano nella depressione. Contemporaneamente la crisi si politicizza sempre più. Le tensioni si ravvivano a livello internazionale fra Paesi europei, soprattutto in seno alle società più malmenate dalle turbolenze economiche: Spagna, Italia, Portogallo e Grecia.
Il ruolo svolto dall’Istituto della finanza internazionale (IIF) si rivela cruciale. Sorta di lobby dei grandi istituti finanziari mondiali, questo organismo ha fatto gravare tutto il suo peso sui rappresentanti dei governi nazionali e dell’Unione. È stato direttamente coinvolto nei negoziati sulla riforma dell’architettura finanziaria europea, arrivando per esempio a fare fallire la proposta di una nuova tassa per il settore bancario (3).
Quando in ottobre 2011 il primo ministro greco Georges Papandreu ha annunciato la sua intenzione di indire un referendum sul nuovo piano di aiuti, i governi europei si fanno minacciosi. Nicolas Sarkozy evoca per la prima volta l’eventualità per la Grecia di un’uscita dall’euro. Papandreu dimissiona; è sostituito, alla testa di un «governo di unità nazionale», da Lucas Papademos, ex banchiere centrale ad Atene e a Francoforte.
In Italia Silvio Berlusconi subisce la medesima sorte. Dopo che il commissario agli Affari economici e monetari Olli Rehn aveva indirizzato all’Italia, in novembre 2011, una lettera che esigeva drastiche riforme economiche e fiscali, è costretto a rassegnare le dimissioni. È sostituito da Mario Monti, clone transalpino di Papademos, Larosière e Regling. Ex commissario europeo incaricato della concorrenza, Monti ha presieduto l’European Money and Finance Forum, un think tank che riunisce finanzieri, politici e docenti universitari, ed è stato consulente di Goldman Sachs e Coca-Cola.
L’incapacità dei governi nazionali di affrontare la situazione porta a un’accelerazione dell’integrazione europea. Il nuovo trattato in corso di ratifica inquadra rigidamente le politiche nazionali di bilancio, sottoponendole allo stretto controllo da parte della Commissione e degli altri governi. Il principio che «la sovranità si ferma quando cessa la solvibilità» riduce a quasi-protettorati i Paesi che fruiscono dei programmi d’assistenza. Ad Atene, Lisbona e Dublino gli uomini della «troika», nei loro abiti scuri, dettano i pacchetti delle misure da adottare, facendo uscire allo scoperto i rapporti neocoloniali ai quali vengono sottoposti i Paesi della periferia. Sostenuti dal nuovo assetto di potere in Francia, Spagna e Italia hanno strappato al vertice europeo del giugno 2012 una vaga promessa, secondo la quale la messa sotto tutela potrebbe in avvenire essere meno stringente. Queste illusioni sono volate in frammenti con le recenti dichiarazioni di Mario Draghi, che progetta di offrire la garanzia completa della BCE - della quale è diventato governatore in novembre 2011 - soltanto in cambio di un’obbedienza completa delle autorità nazionali alle ingiunzioni della «troika» (4).
Così, dopo l’inizio della crisi, l’Unione Europea non ha mai smesso di manifestare le caratteristiche di un regime autoritario. Governi eletti costretti alle dimissioni e rimpiazzati da tecnocrati senza legittimità democratica; preminenza d’istituzioni presunte «neutrali», come la BCE; cancellazione del ruolo del Parlamento europeo, il cui presidente socialdemocratico, Martin Schulz, tenta invano di fare riconoscere il peso politico (5); annullamento dei referendum; intrusione del settore privato nel processo decisionale politico... Per comprendere questa dinamica antidemocratica, che soltanto un movimento sociale di ampiezza continentale potrebbe rovesciare, non è inutile rivolgersi a un contemporaneo di Freud, anch’egli perspicace osservatore della crisi di civiltà degli anni ’30: Antonio Gramsci.
Secondo l’intellettuale italiano, nel corso delle grandi crisi del capitalismo, le istituzioni che dipendono dal suffragio universale, come i Parlamenti, passano in secondo piano. Al contrario, le circostanze consolidano «la posizione relativa del potere della burocrazia (civile e militare), dell’alta finanza, della Chiesa, e in generale di tutti gli organismi relativamente indipendenti dalle fluttuazioni dell’opinione pubblica (6)». In tempi normali tutte queste istanze non recalcitrano nel lasciare al comando le istituzioni democratiche. Non è più il caso in situazione di crisi: da una parte, le contraddizioni inerenti alle istituzioni legittimate sul piano elettorale si approfondiscono, indebolendo la loro capacità di prendere le decisioni che l’accelerazione del ritmo della politica esige, dall’altra, l’opinione pubblica fluttua considerevolmente, minacciando di rivolgersi verso le soluzioni più radicali.
Gramsci chiama «cesarismo» questa propensione dei regimi democratici a manifestare inclinazioni autoritarie in tempo di crisi. Nel XIX secolo e nella prima metà del XX spesso è all’interno delle forze armate che emergono gli elementi cesaristi - così è per Napoleone Bonaparte, Otto von Bismarck e Benito Mussolini, tre figure emblematiche del fenomeno. Il cesarismo d’altra parte ispira il suo nome a un carismatico generale romano che, oltrepassando il Rubicone, ha cancellato il confine fra il militare e il politico. Gramsci tuttavia aveva previsto che attori non militari potessero anch’essi esercitare la funzione di cesare: è il caso della Chiesa, della finanza e della burocrazia statale. L’autore dei Quaderni dal carcere constata per esempio la natura frammentata della Nazione nata dal Risorgimento italiano, nel XIX secolo: la sua formazione mediante aggregazione di territori successivamente annessi si opera senza vera implicazione delle masse popolari. Solamente la burocrazia di Stato garantisce l’unità, svolgendo il ruolo di cesare senza il quale le forze centrifughe farebbero esplodere l’insieme.
Le dinamiche attualmente all’opera all’interno dell’Unione Europea evocano una forma di cesarismo non militare, ma finanziario e burocratico. Entità politica dalla sovranità frammentata, l’Europa vede la sua unità garantita soltanto dalla burocrazia di Bruxelles e l’inserimento strutturale della finanza internazionale nel suo funzionamento. E i supposti «progressi» compiuti sulla via dell’integrazione nel corso degli ultimi tre anni accentuano questa caratteristica.
Questo cesarismo non è un’invenzione recente. Dopo la Seconda guerra mondiale, certe istituzioni non democratiche, fra le quali le Corti costituzionali o le banche centrali indipendenti, sono diventate sempre più potenti nell’Europa dell’ovest. L’idea che anima le elite continentali dell’epoca è che i totalitarismi «gemelli» - nazismo e stalinismo - siano il prodotto degli «eccessi» della democrazia, ragione per la quale occorre proteggere quest’ultima contro la sua propria irragionevolezza (7). Fin dalla sua origine il progetto europeo s’inserisce in questa logica mirata a tenere a distanza i popoli. Ma la brutale accelerazione operata dal 2009 in poi ha radicalizzato il processo: l’unione economica e monetaria è diventata uno strumento autoritario di gestione delle contraddizioni economiche e sociali prodotte dalla crisi.
Di conseguenza la scelta che ormai si offre non oppone più la continuazione della costruzione europea al ritorno al livello nazionale, come vorrebbero farci credere i mezzi di comunicazione dominanti e gli intellettuali euro-liberali, bensì due opzioni antagoniste: il cesarismo o la democrazia.
(1) Sigmund Freud, Nouvelles Conférences d’introduction à la psychanalyse, Gallimard, Paris, 1984 (1" éd. : 1933).
(2) Lire Raoul Marc Jennar, «Deux traités pour un coup d’Etat européen» et «Traité flou, conséquences limpides », Le Monde diplomatique, respectivement juin et octobre 2012.
(3) Financial Times, Londres, 20 juillet 2011.
(4) Financial Times, 7 septembre 2012.
(5) Le Monde, 19 janvier 2012.
(6) Antonio Gramsci, Guerre de mouvement et guerre de position, textes des Cahiers de prison choisis et commentés par Razmig Keucheyan, La Fabrique, Paris, 2012. Lire «Gramsci, une pensée devenue monde», Le Monde diplomatique, juillet 2012.
(7) Cf. Jan-Werner Müller, Contesting Democracy. Political Ideas in Twentieth-Century Europe, Yale University Press, New Haven, 2011.
* Le Monde Diplomatique, novembre 2012, pag 3
ITALIA!!! TUTTI. MOLTI. POCHI: E NESSUNA COGNIZIONE DELL’UNO, DELL’UNITA’!!!
L’Italia e le classi dirigenti senza senso nazionale.
«Mafia sopravvissuta grazie alla trattativa fatta con lo Stato»
I pm: 20 anni di amnesie istituzionali
di Giovanni Bianconi (Corriere della Sera, 6.11.2012)
PALERMO - C’entra la caduta del Muro di Berlino, «la "grande madre" di una catena di eventi». C’entrano «l’eccesso di tassazione e l’utilizzazione distorta della spesa pubblica», che provocò la «rivolta della borghesia commerciale e della piccola imprenditoria» al Nord. C’entrano le inchieste di Manipulite e persino Licio Gelli, che con la sua «inusuale collaborazione giudiziaria» contribuì alla «eliminazione politica» del ministro Martelli, «percepito come un ostacolo».
Fu anche a causa di questa concatenazione di fatti che prese forma la «scellerata trattiva» tra lo Stato e la mafia al tempo delle stragi, divisa in tre distinte fasi: cominciata nel ’92 all’indomani della sentenza definitiva del maxiprocesso a Cosa nostra, quando governavano ancora Andreotti e la Dc; proseguita nel 1993 durante il governo «tecnico» presieduto da Carlo Azeglio Ciampi; culminata nel ’94 con l’esecutivo guidato da Silvio Berlusconi, quando si realizzò la «definitiva saldatura del nuovo patto di coesistenza Stato-mafia, senza il quale Cosa Nostra non avrebbe potuto sopravvivere e traghettare dalla Prima alla Seconda Repubblica».
La sintesi dell’indagine della Procura di Palermo è contenuta in una memoria di 22 pagine inviata ieri al giudice dell’udienza preliminare Piergiorgio Morosini, l’ultimo atto d’accusa sottoscritto dal procuratore aggiunto Ingroia prima di partire per il Guatemala. Insieme alla sua firma ci sono quelle dei quattro pubblici ministeri che restano a sostenere l’accusa: Lia Sava, Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia. Il documento riassume il processo e chiarisce i singoli capi d’imputazione per i dodici imputati di cui è stato chiesto il rinvio a giudizio (più qualche indagato nell’inchiesta stralcio). E che conferma che restano vaste zone d’ombra, dovute ai «tanti, troppi, depistaggi e reticenze, spesso di fonte istituzionale».
Scrivono i pm: «Questo ufficio è consapevole che non si è del tutto rimossa quella forma di grave amnesia collettiva della maggior parte dei responsabili politico-istituzionali dell’epoca, durata vent’anni, che avrebbe dovuto arrestarsi, se non di fronte alla drammaticità dei fatti del biennio terribile ’92-93, quanto meno di fronte alle risultanze che confermavano l’esistenza di una trattativa ed il connesso, seppur parziale, cedimento dello Stato».
Dopo il delitto Lima (12 marzo ’92), «prima esecuzione della minaccia rivolta verso il governo e in particolare il presidente del Consiglio Giulio Andreotti», con le stragi il ricatto si estende dai singoli uomini politici alle istituzioni in generale. «È il momento in cui irrompe sulla scena una male intesa, e perciò mai dichiarata, Ragion di Stato che fornisce apparente legittimazione alla trattativa e coinvolge sempre più ampi e superiori livelli istituzionali», accusano i pm. Che rivendicano il lavoro svolto citando una frase dell’attuale presidente del Consiglio Mario Monti, pronunciata nel ventennale dell’eccidio di Capaci: «L’unica vera Ragione di Stato è quella verità che questo Ufficio non ha mai smesso, e mai smetterà, di cercare».
Gli imputati si dividono in due grandi gruppi. Da un lato i mafiosi (Riina, Provenzano, Bagarella, Brusca e il «postino» Nino Cinà), che dopo l’omicidio Lima recapitarono il famoso «papello» con le richieste per interrompere le stragi. I loro «minacciosi messaggi» proseguirono con le bombe del ’93, finché nel ’94 «fecero recapitare al governo presieduto dall’on. Berlusconi l’ultimo messaggio intimidatorio prima della stipula definitiva del patto politico-mafioso». Così «la lunga e travagliata trattativa trovò finalmente il suo approdo nelle garanzie assicurate dal duo Dell’Utri-Berlusconi».
Il fondatore di Forza Italia, così come gli altri capi di governo, non risponde di alcun reato; semmai è considerato parte lesa, in quanto vittima del ricatto. Al contrario, i sospetti intermediari istituzionali (i parlamentari Mannino e Dell’Utri, e i tre ex carabinieri del Ros Subranni, Mori e De Donno) «sono tutti accusati di aver fornito un consapevole contribuito alla realizzazione della minaccia» per aver svolto «il ruolo di consapevoli mediatori fra i mafiosi e la parte sottoposta a minaccia, quasi fossero gli intermediari di un’estorsione. Con l’aggravante che il soggetto "estorto" è lo Stato e l’oggetto dell’estorsione è il condizionamento dell’esercizio dei pubblici poteri». Di qui l’imputazione, per loro come per i boss, di «violenza o minaccia a un Corpo politico».
All’appello mancano almeno due imputati che nel frattempo sono morti: Vincenzo Parisi e Francesco Di Maggio, all’epoca capo della polizia e vice direttore generale delle carceri, «che agendo entrambi in stretto rapporto con l’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, contribuirono al deprecabile cedimento sul tema del 41 bis». Il riferimento è alla mancata proroga del trattamento del «carcere duro» per oltre trecento detenuti, tra i quali alcuni mafiosi. Secondo la Procura l’impulso arrivò proprio da Di Maggio «uomo fidato dei Servizi di sicurezza e da sempre legato al Ros dei carabinieri, con l’avallo che gli derivava anche dai rapporti con il capo dello Stato Scalfaro, a sua volta influenzato da Parisi». L’ex capo della polizia e Mori vengono dipinti come «gli uomini-cerniera che divennero uomini-artefici della trattativa, decisivi nel garantire l’adempimento degli accordi presi».
Sempre nella ricostruzione della Procura Scalfaro è considerato il regista di altri passaggi-chiave: dall’avvicendamento tra Scotti e Mancino al Viminale a quello tra Martelli e Conso alla Giustizia, fino al cambio della guardia al vertice dei penitenziari, tra Nicolò Amato e il duo Capriotti-Di Maggio. Su Conso e Mancino, accusano i pm, «si è acquisita la prova di una grave e consapevole reticenza». Il primo sulla sua nomina a ministro dell’Interno e sulla consapevolezza dei contatti tra i carabinieri e Vito Ciancimino; il secondo sulla decisione di non prorogare alcuni decreti «41 bis» nell’autunno 1993.