Ex Benedetto XVI e quel gesto che secolarizza la Chiesa
di Paolo Flores d’Arcais (il Fatto Quotidiano, 16 febbraio 2013)
“Non c’è posto per un Papa emerito” dichiarò seccamente Karol Wojtyla nel non lontano 1994, e invece un Papa emerito ci sarà, a partire dalle ore 20 del 28 febbraio 2013, con effetti a catena per la Chiesa cattolica di cui è impossibile sopravvalutare la portata. Il gesto compiuto da Joseph Ratzinger, tra due settimane semplicemente ex-Benedetto XVI, è di un coraggio che a moltissime porpore e potenti monsignori di curia sembra soprattutto temerarietà, e ad alcuni anzi segno di debolezza fino alla viltà.
È infatti un gesto che avrà l’effetto storico-epocale di desacralizzare la figura del Pontefice, allineandola, nell’immaginario futuro prossimo dei fedeli, a quella di un grande capo religioso ma nulla più.
Esito paradossale dell’azione di un Papa che può invece vantare come massimo successo (dal suo punto di vista, ovviamente) quello di aver portato a compimento la normalizzazione in senso tradizionalista della Chiesa post-conciliare, già intrapresa da Wojtyla.
Il papa non è infatti solamente, come spesso si dice, l’ultimo sovrano assoluto, perché sovrani assoluti che abdichino ce ne sono stati. Il Papa è, o meglio era fino a ieri, un sovrano assoluto dotato di un carisma agli occhi dei suoi credenti assolutamente incomparabile, quello di vicario di Cristo in terra, di sostituto nell’al di qua della Seconda Persona della Santissima Trinità, di vice Dio, insomma. Ma un ex vice Dio è un non senso, e il Papa di Roma diventerà ormai solo il “Primate” di una Chiesa, proprio come “primus inter pares” è l’arcivescovo di Canterbury, anche se con infiniti fedeli in più.
Doppio paradosso, perché così finisce per dar ragione al suo antagonista storico, Hans Küng, e ai più progressisti tra i Padri del Concilio Vaticano II, la cui influenza e il cui ricordo Ratzinger è riuscito a cancellare, ma soprattutto perché con le sue dimissioni ha investito il Soglio di Pietro di quel “disincantamento del mondo” che caratterizza la modernità secolarizzata e che il suo pontificato ha invece forsennatamente combattuto, e anche con significativi successi oscurantisti (i riconoscimenti di un Habermas, ad esempio).
Insomma, d’ora in avanti nella Chiesa cattolica potranno convivere un Papa emerito e un Papa- Papa, quest’ultimo nella pienezza delle sue funzioni, certamente (nella ipotesi che l’ex-Papa davvero faccia vita di clausura), ma non più di un carisma dalla caratura sacrale, perduta per sempre.
Perché Benedetto XVI si è dunque risolto a un gesto così estremo e dalle conseguenze che certamente non possono sfuggirgli?
Perché ha voluto rovesciare il senso tradizionale e che sembrava incrollabile di un “affidarsi a Dio” anche nella più estrema debolezza del fisico, con la certezza che lo Spirito Santo avrebbe sopperito alle inadeguatezze umane del Pastore?
La lunghissima agonia di Wojtyla è stato l’esempio estremo e recentissimo, e decisivo per la procedura eccezionale che lo ha voluto “Santo subito!”, di tale fiducia standard nell’ausilio della divina provvidenza, che sembrava irrevocabile.
Sottolineando invece la sua inadeguatezza, Ratzinger ha introdotto nella valutazione di cosa sia “il bene della Chiesa” un umanissimo calcolo razionale che di fatto ridimensiona la sovrabbondanza dei doni dello Spirito Santo, la cui assistenza specialissima al Sommo Pontefice ne garantisce addirittura la sovrannaturale infallibilità quando parli ex cathedra. Con l’ulteriore paradosso che questa ragionevolezza mondana viene tacciata a mezza bocca di codarda fuga dalla responsabilità proprio dalle più mondane e “trafficanti” delle Loro Eminenze.
Per non trascurare, en passant, che se il gesto di Ratzinger manifesta modestia, dovremmo giudicare arroganza il comportamento ostentatamente opposto di Wojtyla, dilemma a cui si sfugge solo con l’ipocrisia del pensiero unico, che quando si tratta di un qualsivoglia Papa tira fuori il fiato solo per il servo encomio e come surrogato del bacio della pantofola, ma che non si potrà schivare a lungo. Perché, allora, questo gesto di indicibile azzardo e pericolosità?
Benedetto XVI lo ha detto con una chiarezza che si preferisce rimuovere: per fare il Papa “è necessario anche il vigore sia del corpo, sia dell’animo, vigore che, negli ultimi mesi, in me è diminuito in modo tale da dover riconoscere la mia incapacità di amministrare bene il ministero a me affidato”.
Ho sottolineato “animo”, perché è la chiave della rinuncia di Ratzinger, che si dichiara “ben consapevole della gravità di questo atto”. In che cosa può Benedetto XVI essersi sentito a tal punto “incapace di amministrare” il ministero petrino?
Sotto la sua guida la Chiesa gerarchica è diventata più unita che mai, non conosce più lacerazioni tra “progressisti” e “conservatori”, l’ultima voce fuori del coro è stata quella del cardinal Martini, l’omogeneità dottrinale degli episcopati non era mai stata così inossidabile. E anche verso il “mondo” il Papa teologo può vantare successi non trascurabili.
Abbiamo citato gli elogi di Habermas (oggi il filosofo laico per eccellenza), potremmo aggiungere la fascinazione di intellettuali à la page della laicissima Parigi, Julia Kristeva in primis (ma la lista è lunga e deprimente), e dunque l’inatteso successo che ha avuto la critica anti-illuminista di Ratzinger quando ha proposto ai non credenti di accogliere il principio “sicuti Deus daretur” - comportarsi tutti come se Dio ci fosse - perché senza Dio, e il fondamento etico connesso, è l’intera società occidentale che si sta avvitando nel tracollo.
Resta perciò una sola “incapacità” per la quale Benedetto XVI può aver recitato il “mea culpa, mea culpa , mea maxima culpa”: l’amministrazione della Chiesa nel senso più strettamente curiale del termine. Le faide tra cardinali che hanno trasformato le segrete del Vaticano in un nido di vipere, la guerra per bande che vede tra gli affreschi di Michelangelo e Raffaello luccicare i pugnali e operare i veleni, nella forma micidiale dei dossier e di eminentissime macchine del fango.
Due, soprattutto, le “sporcizie” della Chiesa (per usare il termine di Ratzinger nella via crucis del 2005) che danno materia alla rissa fra berrette rosse: lo scandalo dei preti pedofili e quello della banca vaticana (Ior). Sesso e denaro, “auri sacra fames” e “hominum divomque voluptas” , le sempiterne seduzioni di Mammona, nei cui confronti la porpora, simbolo di disponibilità al martirio, dovrebbe perfettamente immunizzare.
Ma proprio la scelta di Ratzinger, per quanto circospetta e graduale, di scoperchiare il vaso di iniquità della pedofilia, e quella perfino più cauta e abbozzata di sottrarre lo Ior al circuito della “finanza canaglia” (usbergo di corruzione e riciclaggio mafioso) ha scatenato mostruose resistenze che hanno dato la stura alla girandola delle macchinazioni.
Del resto, l’unico contrasto che Ratzinger abbia avuto con Wojtyla ha riguardato proprio la pedofilia (e il caso, non identico ma connesso, dei potentissimi “Legionari di Cristo” e del loro capo, il famigerato Marcial Maciel Degollado, che non a caso Ratzinger “distrusse” non appena elevato al Soglio) su cui il cardinale dell’ex sant’Uffizio insistette presso il Papa polacco per una svolta di severità e di iniziale trasparenza.
Senza successo, sconfitto da una curia che aveva ormai in sua balìa un Papa negli ultimi anni incapace di governare per la gravità della malattia. Spettro che sicuramente ha giocato nella decisione attuale di Benedetto XVI.
Vatileaks è stata solo la punta dell’iceberg, quella nota anche a noi, comuni mortali, ma Benedetto XVI l’iceberg l’ha potuto abbracciare tutto intero nella sua vastità devastante, e la relazione dei cardinali Herranz, Tomko e De Giorgi deve averlo letteralmente sconvolto. Tanto più che in tutti i nauseabondi intrighi che “deturpano il volto della Chiesa” c’è sempre dentro fino al collo il suo più stretto collaboratore, fin dai tempi della Congregazione per la Dottrina della Fede, Tarcisio Bertone, potentissimo Segretario di Stato, che quanto a “individualismi e rivalità” e vano orgoglio “di chi cerca l’applauso”, altre “sporcizie” stigmatizzate da Benedetto XVI durante l’omelia delle Ceneri, nei palazzi apostolici ha pochi rivali.
AL PUNTO che prima della fine del mese assumerà il pieno dominio delle finanze vaticane, nominando un suo presidente Ior ed estromettendo dalla commissione che lo controlla il cardinale Attilio Nicora, l’uomo dell’apertura (benché timidissima) alla trasparenza, mettendo con inaudita arroganza il prossimo Papa di fronte al fatto compiuto. Nel distruttivo scontro in corso tra le bande prelatizie Benedetto XVI non se l’è sentita di scegliere.
Anche perché non è che le “cordate” rivali a Bertone brillino per santità (il suo predecessore e arcinemico, cardinal Sodano è stato uno dei protettori storici di Degollado, ad esempio).
Benedetto XVI, di fronte a questo tracimare sotterraneo della “sporcizia” della Chiesa si è arreso, ha confessato la propria incapacità, ha scelto l’unica via che gli appare ancora efficace, la preghiera
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
IL MESSAGGIO EVANGELICO, IL PARADOSSO ISTITUZIONALE DEL MENTITORE, E LA CATASTROFE DELL’EUROPA. “Come fu possibile la hitlerizzazione dell’Imperativo Categorico di Kant? E perché è ancora attuale oggi?” (Emil L. Fackenheim, Tiqqun. Riparare il mondo).
DISTRUGGERE IL CRISTIANESIMO: IL PROGRAMMA "ANTICRISTO" DEL CATTOLICESIMO-ROMANO. LA LEZIONE CRITICA DI KANT.
Filosofia
I nodi della secolarizzazione
La cultura disinnesca l’ordigno della religione
Kelsen e Habermas denunciano il rischio di relegarla al foro interiore: così, paradossalmente, la si abbandona a laicismo e fondamentalismo
di Federico Vercellone
Insegna estetica all’Università di Torino *
La modernità nascente era sorta nel segno di una meravigliosa ubriacatura messianica, quella primo-romantica, la quale faceva derivare lo spirito del tempo «nuovo» dal carattere inaugurale del cristianesimo. Il mondo secolare moderno sarebbe, da questo punto di vista, l’esito di una sorta di parto messianico, e questo ne fa un universo votato a un progresso indefinito, orientato a un’infinita approssimazione alla meta ultima. A partire dallo storicismo tedesco e dalla teologia liberale protestante le cose vanno modificandosi, e sempre di più il mondo moderno si palesa come un mondo secolare sorto in forza del cristianesimo e liberatosi dall’ipoteca di Dio grazie allo stesso Gesù Cristo, il quale, morendo, ha emancipato questa terra dall’incombente presenza del divino per affidarla alla sola responsabilità umana.
Il problema è che il mondo secolare moderno soffre della propria sobrietà priva di certezze ed è tentato di creare nuove fedi, secolari e non, e comunque di far rientrare nella sfera pubblica quella fede religiosa che si era ritratta nei più intimi recessi dell’animo umano. Il mondo secolarizzato non regge dinanzi agli effetti che esso stesso ha prodotto, e sempre più si rinnova la necessità di ritrovare nuove divinità ideologiche o mass-mediatiche.
Su questi temi ci invitano a riflettere Hans Kelsen in Religione secolare, il suo ultimo libro uscito postumo nel 2012, comparso ora in italiano da Cortina e, ben più di recente, Jürgen Habermas in Verbalizzare il sacro pubblicato da Laterza. Il libro di Kelsen ha dietro di sé una lunga e sofferta vicenda. Kelsen giunse persino a sottrarlo alla stampa, nel 1964, dopo averne corretto le bozze, preferendo pagare una salata penale all’editore piuttosto che vedere pubblicate quelle pagine delle quali non era pienamente convinto.
La questione posta da Kelsen è quanto mai attuale. La sua formulazione è tuttavia fortemente condizionata dall’epoca nella quale il libro fu scritto, un’epoca variegatamente dominata da grandi ideologie che assumevano il volto di prospettive totalizzanti, di vere e proprie visioni del mondo. Si va in questo quadro dal mito della tecno-scienza al marxismo.
La domanda di Kelsen è quanto mai esigente e precisa: si può parlare di religione nel caso di visioni del mondo onnilaterali le quali tuttavia non si organizzano intorno a un’ipostasi divina trascendente? Si può, in breve, avere religioni senza Dio?
La risposta di Kelsen è decisamente negativa. Kelsen polemizza contro coloro, da Ernst Cassirer a Karl Löwith, ma tra questi va annoverato principalmente il suo allievo Erich Voegelin, i quali tendono a interpretare gli esiti delle filosofia illuministica e della secolarizzazione come delle vere e proprie proposte di fedi immanentistiche le quali hanno, per parte loro, una remota radice nella tarda antichità e nel Medioevo.
La modernità sarebbe percorsa in quest’ottica da un sotterraneo stream neo-gnostico che costituirebbe una sorta di unico comune denominatore delle spinte secolarizzanti e addirittura di quelle rivoluzionarie del tempo presente. Dalla gnosi antica ad Agostino a Gioacchino da Fiore, vero e proprio padre delle rivoluzioni moderne, avremmo così a che fare con un unico filo rosso che conduce sino a Marx e a Nietzsche, i due grandi pensatori che minano le fondamenta del mondo cristiano-borghese.
La posizione di Kelsen è di estremo significato. Essa è potentemente anticipatoria e, per così dire, ci fa gettare lo sguardo sul nostro tempo, spesso definito come «post-secolare», intriso di sincretismi e di fedi eteroclite. Kelsen ci guida infatti oltre un’idea di secolarizzazione intesa come rinchiudersi della religione nell’ambito dell’intimità individuale a grande distanza dalla sfera pubblica.
La questione è del massimo rilievo. Non a caso a riprenderla è il massimo filosofo vivente. E’ infatti Jürgen Habermas, in Verbalizzare il sacro, a metterci in guardia, con eccellenti ragioni, dall’idea che la religione possa essere separata dalla sfera pubblica e dalla cultura e consegnata esclusivamente al foro interiore. Un’ipotesi di questa natura, che recide i legami tra religione e cultura, finisce, tra l’altro, per abbandonare la sfera religiosa, paradossalmente, al laicismo e al fondamentalismo insieme. Abbiamo cioè a che fare con contenuti di fede troppo dogmatici per essere interpretabili i quali, pertanto, possono soltanto o essere esclusi dalla sfera pubblica oppure, volendo far valere nella sfera pubblica il proprio presunto contenuto di verità, entrare in conflitto violento gli uni con gli altri. Questo induce a sottolineare, suggerisce Habermas, il significato della presenza della religione nella cultura: le argomentazioni che derivano dalla sfera della fede possono e debbono essere ammesse nello spazio pubblico e nel dialogo politico, trovando qui un’adeguata collocazione, purché la loro formulazione si sorregga su argomentazioni razionali che si sostengono indipendentemente dai presupposti dogmatici sui quali i diversi mondi religiosi si fondano.
* La Stampa TuttoLibri, 27.06.2015
UNA SCELTA "DEBOLE" TUTTA INTERNA AL SISTEMA
di Marcello Vigli (Adista Notizie, n. 7 del 23/02/2013)
La “rinuncia” di Benedetto XVI costituisce indubbiamente un evento eccezionale. Ne sono testimoni l’attenzione dei media di tutto il mondo e la diversità delle valutazioni che ne sono state date nelle diverse sedi religiose e politiche. Valga per tutte quanto scrive Paolo Naso (Nev, n. 7/13): questo gesto «ha una evidente ricaduta sull’ecclesiologia e forse sulla stessa teologia cattolica: come pochi altri umanizza e vorrei dire “secolarizza” l’istituzione papale».
Nulla sarà più come prima. Una simile scelta, per la prima volta del tutto libera, desacralizza per forza di cose l’istituzione. Ridimensiona la stessa immagine che il papato ha di se stesso attraverso la potenza e la debolezza di un atto solitario espresse nelle parole dello stesso papa che attribuisce la sua rinuncia alla sua «incapacità di amministrare bene il ministero» a lui affidato derivante dal venir meno del «necessario vigore sia del corpo, sia dell’animo».
Si può aggiungere, sono in molti a pensarlo, che al di là della sua debolezza fisica, tale incapacità sia stata determinata dal riconoscimento della sua impotenza a governare una Santa Sede afflitta da scandali, intrighi e lotte di potere aggravati da una struttura accentrata della Curia e mal gestita da quella Segreteria di Stato che Wojtyla aveva voluto ne fosse il perno per garantirne l’efficienza. Non ha avuto l’energia e gli strumenti necessari per attuarla come pure aveva lasciato intendere di voler fare nella sua dura denuncia contro il carrierismo, alla vigilia della sua elezione, confermata nell’omelia alla messa delle ceneri, il 13 febbraio scorso.
I suoi tentativi di ammodernamento e di moralizzazione sono falliti di fronte a meccanismi che non è riuscito a modificare perché, in verità, non intendeva radicalmente ridimensionarli. Ne è testimone la sua scelta di assumere il Concistoro come primo destinatario della sua comunicazione, implicitamente riconoscendogli una preminente funzione istituzionale. Solo dopo due giorni l’ha estesa al Popolo di Dio raccolto per l’udienza settimanale. Ben altro sarebbe stato l’impatto con la pubblica opinione. Soprattutto ben altra forza avrebbe avuto il messaggio destinato al prossimo Conclave sulla necessità di assumere come primo problema da affrontare la riforma della Curia.
Se può sembrare fuori della realtà l’auspicio di un papa che, nell’esercizio della sua funzione di governo, si rapporta direttamente al Popolo di Dio, non lo è un appello alla collegialità sinodale.
La ri-convocazione del Sinodo dei vescovi (la cui ultima assemblea si è svolta nell’autunno scorso), per annunciare la sua volontà di rinunciare, avrebbe avuto quel carattere epocale e rivoluzionario da molti attribuito al suo gesto: indubbiamente innovatore, ma non eversivo dell’attuale assetto centralistico del governo della Chiesa. Tale fu quello compiuto da Giovanni XXIII con la convocazione del Concilio che, proprio con la creazione del Sinodo dei vescovi, aveva avviato una radicale riforma, subito bloccata prima dalla pavidità di Paolo VI, poi dall’autoritarismo pre-conciliare di Giovanni Paolo II.
Il sistema curiale può avere avuto una funzione in passato: quando prima l’imperatore e/o le famiglie nobili romane e poi i sovrani degli stati cattolici interferivano pesantemente nella designazione del successore di Pietro.
In tempo di secolarizzazione - accettata dal Concilio come salutare strumento di purificazione per la Chiesa, pari alla fine del potere temporale riconosciuta come liberatrice da Paolo VI - una piena collegialità è l’antidoto efficace alla solitudine del papa attorniato da collaboratori da lui stesso scelti, portatori magari delle diverse sensibilità ecclesiali diffuse sul territorio, ma non certo delle sempre nuove esperienze di Chiesa sollecitate dall’accelerazione dei processi storici e vissute nella dimensione comunitaria.
PS: Se i cattolici conciliari si autoconvocassero per formulare proposte al Conclave da inserire nell’agenda del futuro papa?
* della Comunità di Base di San Paolo, Roma
Ior, il siluro tedesco del papa
Il nuovo presidente Von Freyberg costruisce navi da guerra in Germania
di Carlo Tecce (il Fatto, 16.02.2013)
La fretta non produce buone azioni, ma soltanto pasticci: comincia con un’imbarazzante ammissione - che supera una smentita - il nuovo corso per lo Ior, la cassa vaticana, che nomina al vertice il barone Ernst von Freyberg. Un avvocato e banchiere che presiede Blohm e Voss, un’industria navale che partecipa a un consorzio per la costruzione di quattro fregate da guerra per la marina tedesca.
Von Freyberg ha sconfitto la concorrenza di un anonimo finanziere belga, Bernard de Corte, anche per l’avallo, formale e sostanziale, di Benedetto XVI che ha suffragato la proposta dei cardinali guidati da Tarcisio Bertone.
IL SEGRETARIO di Stato ha fischiato la fine di una partita logorante e infinita prima che i porporati si riuniscano in Conclave per eleggere il prossimo pontefice.
Il 55enne Von Freyberg è un perfetto incrocio tra religione e affari: gestisce una fondazione cattolica che organizza pellegrinaggi a Lourdes e una scuola elementare a Franco-forte, ma riveste cariche in numerose società, tra cui una cassa di risparmio di Colonia con un patrimonio di 8 miliardi di euro e una multiservizi con 22 mila dipendenti.
Il Supremo cavaliere di Malta, l’Ordine che ora riprende il dialogo con il Vaticano dopo un ventennio di contrasti, rinuncia ai suoi plurimi lavori, non ai cantieri di Amburgo, al gruppo Blohm e Voss, che sfornava mezzi militari ancora prima del regime nazista e non ha più smesso. Per diversificare il prodotto, come obbligano le regole di mercato, la B&V produce anche imbarcazioni civili: memorabile lo yacht Eclipse di Roman Abramovich, il controverso magnate russo proprietario del Chelsea calcio.
Il portavoce vaticano, padre Federico Lombardi, prova a soffocare le cattive suggestioni: “Non è un guerrafondaio”, però confessa che proprio quella poltrona, l’unica contestata, non sarà mollata. Anzi, elogia Von Freyberg e cita il pontefice: “Benedetto XVI non lo conosce personalmente, ma sa che la famiglia di provenienza è conosciuta in Germania”. Vuol dire che il pontefice, seppur dimissionario, non si è disinteressato di questa fondamentale investitura che condizionerà il successore.
I passaggi di consegne non si fermano: il Segretario di Stato dovrà fare un rimpasto nella commissione cardinalizia con vari cambi che prevedono l’uscita di Attilio Nicora (che tanto si era speso invano per le norme contro il riciclaggio) e l’ingresso del fedelissimo Domenico Calcagno. Anche il francese Jean Louise Tauran potrebbe lasciare.
Il consiglio di sorveglianza non subisce variazioni: Hermann Schmitz, che aveva assunto l’interim dopo la cacciata di Ettore Gotti Tedeschi, torna vicepresidente, restano Carl Anderson, Manuel Soto Serrano e Antonio Maria Ma-rocco. Ma Bertone può ritenersi soddisfatto perché il direttore generale, Paolo Cipriano, è ormai intoccabile. Tra un mese ci sarà un nuovo pontefice, c’è da occuparsi di questioni spirituali. Per il momento il Vaticano ha sistemato quelle materiali. E forse più delicate.
Identikit del futuro papa: l’appello di 2.000 teologi (Adista)
Sono arrivate a quasi 2mila le adesioni ad un documento di teologi cattolici di tutto il mondo, lanciato nell’ottobre scorso in occasione dei 50 anni dell’apertura del Concilio Vaticano II, che traccia l’identikit del futuro papa e le priorità del prossimo pontificato.
Da Hans Küng a Leonardo Boff, da Paul Knitter a mons. Calsaldáliga, da Peter Phan a Paul Collins, tutti i più grandi nomi della teologia cattolica compaiono in calce a un documento che torna prepotentemente di attualità in questi giorni precedenti al conclave. Di seguito il testo integrale.
Molti insegnamenti del Vaticano II non sono stati affatto, o solo parzialmente, tradotti in pratica. Questo è dovuto alla resistenza di certi ambienti, ma anche, in una certa misura, alla irrisolta ambiguità di alcuni documenti del Concilio. Una delle principali cause della stagnazione odierna dipende dal fraintendimento e abuso nell’esercizio dell’autorità nella nostra Chiesa. In concreto le seguenti tematiche richiedono una urgente riformulazione:
Il ruolo del papato necessita di una chiara ri-definizione in linea con le intenzioni di Cristo. Come supremo pastore, elemento unificante e principale testimone di fede, il papa contribuisce in modo essenziale al bene della chiesa universale. Ma la sua autorità non dovrebbe mai oscurare, diminuire o sopprimere l’autentica autorità che Cristo ha dato direttamente a tutti i membri del popolo di Dio.
I vescovi sono vicari di Cristo e non vicari del papa. Essi hanno la diretta responsabilità del popolo delle loro diocesi, e una condivisa responsabilità con gli altri vescovi e con il papa, nell’ambito dell’universale comunità di fede. Il sinodo centrale dei vescovi dovrebbe assumere un più decisivo ruolo nel pianificare e guidare il mantenimento e la crescita di fede nel nostro mondo così complesso.
Il Concilio Vaticano II ha prescritto collegialità e co-responsabilità a tutti i livelli. Questo non è stato messo in atto. I vari organismi presbiterali e consigli pastorali, previsti dal Concilio, dovrebbero coinvolgere i fedeli in modo più diretto nelle decisioni riguardanti la formulazione della dottrina, l’esercizio del ministero pastorale e l’evangelizzazione nell’ambito della società secolare.
L’abuso di coprire posti di guida nella chiesa con soli candidati di una determinata mentalità è una scelta che dovrebbe essere sradicata. Al suo posto dovrebbero essere formulate e monitorate nuove norme che assicurino che le elezioni a queste cariche siano condotte in modo corretto, trasparente e il più possibile democratico.
La curia romana ha bisogno di una riforma più radicale in linea con le istruzioni e la visione del Vaticano II. La curia si dovrebbe limitare ai suoi utili ruoli amministrativi ed esecutivi. La congregazione per la dottrina della fede dovrebbe essere coadiuvata da commissioni internazionali di esperti, scelti indipendentemente, per la loro competenza professionale.
Questi non sono tutti i cambiamenti necessari. Ci rendiamo anche conto che l’attuazione di queste revisioni strutturali necessitano una elaborazione dettagliata in linea con le possibilità e le limitazioni delle circostanze presenti e future. Sottolineiamo, però, che le riforme, sintetizzate qui sopra, sono urgenti e la loro attuazione dovrebbe partire immediatamente.
L’esercizio dell’autorità nella nostra chiesa dovrebbe emulare gli standards di apertura, responsabilità e democrazia raggiunti nella società moderna. La leadership dovrebbe essere corretta e credibile; ispirata dall’umiltà e dal servizio; con una trasparente sollecitudine per il popolo invece di preoccuparsi delle regole e della disciplina; irradiare Cristo che ci rende liberi; prestare ascolto allo Spirito di Cristo che parla e agisce attraverso tutti e ciascuno.