Genitori. Missione impossibile
La formazione passa per la via del Fallimento
Anticipiamo qualche pagina del libro che venerdì l’editore Cortina manderà in libreria con il titolo Cosa resta del padre? Lo psicanalista lacaniano che ne è autore si concentra sulle difficoltà di educare i figli in un’epoca nella quale sembrano tramontati sia il potere simbolico dell’interdizione sia l’accesso all’esperienza del desiderio.
di Massimo Recalcati (il manifesto, 9 marzo 2011)
Il problema che contraddistingue il nostro tempo consiste nel come riuscire a preservare la funzione educativa propria del legame familiare di fronte a una crisi sempre più radicale e generalizzata del discorso educativo. Come vi può essere educazione - e dunque formazione - se l’imperativo che orienta il discorso sociale s’intona perversamente come un «Perché no?» che rende insensata ogni esperienza del limite? Come si può introdurre la funzione virtuosa del limite - funzione che assegna un senso possibile alla rinuncia e che rende possibile l’unione di Legge e desiderio - se tutto tende a sospingere verso l’apologia cinica del consumo e dell’appagamento senza differimenti? Come può il legame familiare non cedere sulla sua funzione educativa, sul suo essere il luogo elettivo della trasmissione del desiderio e della soggettivazione, se il discorso sociale dominante esalta l’aggiramento della castrazione come perno della nuova morale iperedonista? Come è possibile sostenere la funzione formatrice della rinuncia e del limite quando l’assenza o il declino dei riferimenti normativi all’Ideale finisce per rendere la rinuncia al godimento pulsionale immediato sempre più insensata?
La difficoltà in cui versa ogni discorso educativo è doppia: per un verso è difficoltà ad assumere con responsabilità la differenza generazionale introducendo il potere simbolico dell’interdizione. Per un altro è difficoltà a trasmettere il desiderio da una generazione all’altra; è difficoltà nel dare testimonianza di cosa significhi desiderare.
I compiti della funzione paterna
L’assenza di conflittualità come fattore imprescindibile della formazione è uno dei sintomi maggiori del legame familiare e del legame sociale ipermoderno. Il nuovo disagio della giovinezza non è più segnato dall’Edipo, non si produce dal conflitto tra le generazioni, dalla tragedia dell’usurpazione, dal carattere trasgressivo del desiderio che infrange la Legge. Il disagio della giovinezza prodotto dal discorso del capitalista è un disagio legato a un effetto di intasamento e di intossicazione generato dall’eccesso di godimento e dal declino della funzione simbolica della castrazione. La clinica dei cosiddetti nuovi sintomi mostra bene come il problema dell’attuale disagio della giovinezza non sia tanto quello del conflitto tra il programma della pulsione e quello della Civiltà, tra l’immaginazione del desiderio e il peso opprimente della realtà, tra le ragioni dei figli e quelle dei padri, ma di come accedere all’esperienza del desiderio.
Questa difficoltà di accesso al desiderio ha certamente a che fare, come abbiamo visto, con l’egemonia incontrastata del discorso del capitalista e con l’evaporazione del padre che da essa scaturisce. Ma ha anche molto a che fare con un’assenza di adulti, con una caduta della differenza generazionale e della responsabilità che essa comporta.
Una mia giovane paziente raccontava tutto il suo disagio (e il suo godimento inconscio) nel dover sostenere il padre che, separatosi dalla madre quando lei aveva solo 2 anni, esige di essere consolato ogni volta che le sue storie d’amore finiscono nel nulla. Un’altra giovane paziente bulimica che rubava nei supermercati mi parlava della difficoltà di trovare un argine simbolico sufficientemente solido in grado di frenare la sua corsa rovinosa del godimento. Il suo problema non era quello di raggiungere il godimento della trasgressione per la via dell’aggiramento clandestino della Legge, ma come poter risvegliare la Legge paterna dal suo sonno sconsiderato, di come poter essere vista rubare da qualcuno che avrebbe assunto finalmente la responsabilità di fermare la sua deriva pulsionale.
La crisi attuale dell’operatività dell’ordine simbolico coincide con la crisi del potere di interdizione, ma anche con la difficoltà della trasmissione del desiderio da una generazione all’altra, coincide con la capacità degli adulti di fornire una testimonianza su come si possa esistere senza voler suicidarsi o impazzire, sulla capacità di rendere questa esistenza degna di essere vissuta. È il doppio compitodella funzione paterna. Essere chiamati a introdurre un «No!» che sia davvero un «No!» (un mio paziente tossicomane si lamentava di non aver mai incontrato un «No!» di questo genere) e, al tempo stesso, saper incarnare un desiderio vitale e capace di realizzazione. Perché questo doppio compito è oggi così difficile da sostenere?
Il dono di una generazione all’altra
Soffermiamoci su almeno due grandi nuove angosce dei genitori di oggi. La prima è relativa all’esigenza di sentirsi amati dai loro figli. Questa esigenza è inedita e ribalta la dialettica del riconoscimento: non sono più i figli che domandano di essere riconosciuti dai loro genitori, ma sono i genitori che domandano di essere riconosciuti dai loro figli. In questo modo la dissimmetria generazionale viene ribaltata. Per risultare amabili è necessario dire sempre «Sì!», eliminare il disagio del conflitto, delegare le proprie responsabilità educative, avallare il carattere pseudodemocratico del dialogo. In questo modo si produce una collusività patogena tra questo «Sì!» perpetuo e il «Perché no?» perverso che ispira il discorso sociale dominante.
La clinica psicoanalitica mostra che senza l’esperienza del limite, l’esperienza stessa del desiderio viene fatalmente aspirata verso un godimento di morte. Lo abbiamo ripetuto più volte. Resta indispensabile che qualcuno - al di là delle differenze di genere e anche al di là del legame di sangue perché, come usava ripetere spesso l’ultimo Lacan, «qualunque cosa» può porre in esercizio la funzione paterna - si assuma il peso dell’atto di introdurre la castrazione simbolica. Considerando però che in questo atto di interdizione è già in gioco un movimento di donazione. Perché la Legge che il padre incarna, senza pensare mai di esaurirla nella sua persona, non si manifesta affatto come una pura negazione repressiva, ma come ciò che sa rendere possibile il desiderio. È il problema della trasmissione: una generazione deve donare all’altra, insieme al senso del limite, la possibilità dell’avvenire, il desiderio come fede nell’avvenire.
La seconda grande angoscia dei genitori di oggi è quella legata al principio di prestazione. Lo scacco, l’insuccesso, il fallimento dei propri figli sono sempre meno tollerati. Di fronte all’ostacolo la famiglia ipermoderna si mobilita, più o meno compattamente, per rimuoverlo senza dare il giusto tempo al figlio di farne esperienza. Le attese narcisistiche dei genitori rifiutano di misurarsi con questo limite attribuendo ai figli progetti di realizzazione obbligatoria. Ma, come ha scritto Sartre, se i genitori hanno dei progetti per i loro figli, i figli avranno immancabilmente dei destini... e quasi mai felici. Avere un figlio senza difetti, capace di prestazione, riflette le angosce narcisistiche dei genitori. Il fallimento della trasmissione può essere legato a un’esigenza di clonazione, di immedesimazione nel proprio discendente, di ripetizione dello stesso destino. Era ciò che accadeva nell’epoca edipica del disagio della giovinezza. Ma può accadere anche che esso si produca come effetto di un’assenza di atti simbolici, come accade nel tempo ipermoderno. In questo caso non avremo l’investitura fallica, la clonazione, il carattere sacro dell’identificazione - «Diventa come me!» - ma un’esigenza superegoica di efficienza. Non conta tanto la clonazione, ma la necessità di occultare ogni imperfezione. I genitori di oggi sono terrorizzati dalla possibilità che l’imperfezione possa perturbare l’apparizione del loro figlio come ideale. È un nuovo mito della nostra civiltà: dare ai figli tutto per poter essere amati; coltivare il loro essere come capace di prestazione per scongiurare l’esperienza del fallimento. Ne consegue che i nostri giovani non sopportano più lo scacco perché a non sopportarlo sono innanzitutto i loro genitori. Il principio di prestazione ipermoderno è un principio di affermazione dell’io. Ma siamo sicuri che il successo dell’io si accompagni alla soddisfazione?
Elogio del fallimento
La psicoanalisi non tesse affatto l’elogio della prestazione. Il lavoro dell’analisi è antagonista al narcisismo dell’apparizione, a quel successo dell’io che abbaglia e cattura i giovani di oggi. L’esperienza dell’analisi punta piuttosto a scorticare l’involucro narcisistico dell’immagine per porre il soggetto di fronte alla verità del proprio desiderio. Tutto nell’esperienza analitica mira a ridurre i falsi prestigi dell’io, come si esprimeva Lacan. La psicoanalisi non sostiene il culto ipermoderno della prestazione, ma tesse l’elogio del fallimento. Essa raccoglie i resti, i residui, le vite di scarto; lavora sulle cause e sulle vite perse. Per fare lo psicoanalista bisogna amare le cause perse... Ma cosa significa tessere un elogio del fallimento? Il fallimento non è solo insuccesso, sconfitta ,sbandamento. O meglio, è tutto questo: insuccesso, sconfitta e sbandamento, ma è anche il suo rovescio. Il fallimento, secondo Lacan, è proprio del funzionamento dell’inconscio. La sua definizione di atto mancato è tutta un programma: un atto mancato è il solo atto riuscito possibile. Perché? Perché è un atto mancato per l’io, ma è riuscito per il soggetto dell’inconscio. Lo stesso accade in una sbadataggine o in un lapsus. Il fallimento è uno zoppicamento salutare dell’efficienza della prestazione. E, in questo senso, la giovinezza è il tempo del fallimento o, meglio, è il tempo dove il fallimento dovrebbe essere consentito. È quel tempo che esige il tempo del fallimento, dell’errore, dell’erranza, della perdita, della sconfitta, del ripensamento, del dubbio, dell’indecisione, delle decisioni sbagliate, degli entusiasmi che si dissolvono e si convertono in delusioni... del tradimento e dell’innamoramento...
Perdersi è necessario
I giovani sono esposti al fallimento perché la via autentica della formazione è la via del fallimento. Lo insegnava Hegel e lo insegnano i testi biblici, prima della psicoanalisi. È il fratello più giovane che, nella celebre parabola evangelica, chiede al padre la sua parte di eredità in anticipo per dissiparla nel godimento più ottuso. La formazione è erranza, discontinuità, incontro, rottura del familismo. C’è sempre nel cammino di una vita una caduta da cavallo, un incontro con la terra, un faccia a faccia con lo spigolo duro del reale. In questo senso i giovani sono più esposti alla malattia dell’inconscio. Perché ci sia incontro con la verità del desiderio è necessario smarrirsi, fallire, perdersi. Chi non si è mai perduto non sa cosa sia ritrovarsi... Ecco perché Lacan diceva di contare solo su di loro, sui giovani, e su di essi poneva la sua speranza per l’avvenire della psicoanalisi. I giovani sanno perdersi come nessun altro... Sanno perdersi e ritrovarsi... Ma è fondamentale la presenza degli adulti perché questo avvenga. Sono necessari una casa, un legame, un’appartenenza perché l’erranza dia i suoi frutti. È necessario che i genitori sappiano tollerare le angosce di questo andirivieni.
Il nostro elogio del fallimento sovverte drasticamente l’illusione del discorso del capitalista: «il fallito è l’oggetto», afferma Lacan. Questo significa che l’oggetto non si presenta come ciò che può colmare la «mancanza a essere» che abita il soggetto, ma che l’incontro con l’oggetto è strutturalmente marcato da una condizione fallimentare. L’oggetto è sempre fallito, è sempre insoddisfacente, è sempre un vuoto, una lacuna. La pulsione non si chiude su di esso, ma deve farne il giro. L’oggetto è fallito perché non è mai raggiunto, perché si raggiunge solo la sua ombra. È questo il fondamento della teoria lacaniana dell’inesistenza del rapporto sessuale. L’essere umano è condannato a fronteggiare il sesso senza possedere la chiave per decifrarne il mistero. Se nel mondo animale questa chiave è inscritta biologicamente, determinata geneticamente, valida universalmente, per l’essere umano non c’è alcuna natura che la regoli.
Una nuova forma di schiavitù
Cosa è il disagio della giovinezza nella civiltà dominata dal discorso del capitalista e dalla sua «libertà immaginaria», dalla libertà del godimento che in realtà è una manifestazione del Super-io, ovvero dell’istanza che nega ogni forma possibile di libertà, che rende schiavi? Questa libertà non è il lievito del desiderio, per usare un’immagine evangelica, ma una nuova forma di schiavitù che rigetta ogni forma di responsabilità.
Il discorso della psicoanalisi è antagonista a quello del capitalista perché la psicoanalisi denuncia l’oggetto come fallito, mentre il discorso del capitalista ne sostiene il potere feticistico, idolatrico, anche se astutamente ne sfrutta l’inconsistenza. Schierarsi dalla parte del fallimento dell’oggetto, del fallimento del rapporto sessuale, del fallimento proprio del soggetto dell’inconscio, è la sola possibilità per provare a far sorgere di nuovo il desiderio e la sua Legge.
I nuovi padri
Lo psicanalista Massimo Recalcati racconta il suo ultimo saggio sulla metamorfosi dei ruoli nella nostra epoca
"Così è cambiata la figura del padre"
“Dall’autorità all’affetto. Così è cambiato un simbolo”
"La verità che può trasmettere è indebolita perché non vanta modelli universali"
"L’importante è che non venga meno la funzione educativa del legame familiare"
"Ogni paternità è adottiva. Lo racconta anche Eastwood in Million Dollar Baby"
a cura di Luciana Sica (la Repubblica, 9 marzo 2011)
"Papi": è così che gli adolescenti di oggi chiamano il proprio genitore, con un nomignolo che suona come un sinonimo dello svuotamento di autorità della figura paterna. Per dirla meglio, con Massimo Recalcati: «La figura del padre ridotta a "papi", invece di sostenere il valore virtuoso del limite, ne autorizza la sua più totale dissoluzione. E riflette la tendenza di fondo della famiglia ipermoderna: entrambi i genitori sono più preoccupati di farsi amare dai loro figli che di educarli. Più ansiosi di proteggerli dai fallimenti che di sopportarne il conflitto, e dunque meno capaci di rappresentare ancora la differenza generazionale».
Recalcati è uno psicoanalista, e lacaniano per giunta, eppure il suo Uomo senza inconscio ha venduto più di diecimila copie. Un successo dovuto alla capacità di raccontare i disagi della nostra civiltà senza un eccesso di tecnicismi scolastici.
Oggi esce il suo nuovo libro sulla paternità nell’epoca ipermoderna, sull’evaporazione del padre,secondo l’espressione coniata da Lacan già alla fine degli anni Sessanta. È un tema che incide sui cambiamenti della cultura occidentale, venendo a mancare il principio fondativo della famiglia e del corpo sociale - oltre a investire profondamente la condizione esistenziale di ciascuno. Già l’interrogativo del titolo allude a un vuoto difficilmente colmabile: Cosa resta del padre? (Cortina, pagg. 190, euro 14).
Cosa resta dell’uomo che assicurava l’ordine del mondo e della vita dei suoi figli?
«Certamente non l’ideale del Padre, il pater familias, il padre come erede in terra della potenza trascendente di Dio, e nemmeno il padre edipico celebrato da Freud come perno della realtà psichica. Non possiamo più ricorrere all’autorità simbolica del padre, che ormai si è dissolta: lo dicono gli psicoanalisti, i sociologi, i filosofi della politica... Si tratta allora di pensare al padre come "resto", non più Ideale normativo ma atto singolare e irripetibile, antagonista all’insegnamento esemplare, all’intenzione pedagogica. Quel che resta del padre ha la dimensione di una testimonianza etica, è l’incarnazione della possibilità di vivere ancora animati da passioni, vocazioni, progetti creativi. Seppure senza il ricorso alla fede nella parola dogmatica o attraverso sermoni morali».
Il padre è un uomo che sa ancora trasmettere il sentimento della speranza?
«È un uomo che dice "sì!" a ciò che esiste, senza sprofondare nell’abisso di un puro godimento distruttivo, senza rendere la vita equivalente alla volontà di morire o impazzire. La verità che può trasmettere è necessariamente indebolita, perché non vanta modelli esemplari o universali: la sua testimonianza infatti buca ogni esemplarità e ogni universalità, risultando eccentrica e anarchica nei confronti di qualunque retorica educativa. Quel che conta - e resta a un figlio - è come, nella buia notte di un mondo senza Dio, un padre mantenga acceso il fuoco della vita, non la manifestazione di una pura negazione repressiva, ma piuttosto la donazione della fiducia nell’avvenire».
In un rapporto che rimane del tutto asimmetrico?
«Assolutamente. Le farò un esempio molto semplice: l’insulto di un padre rivolto a un figlio può avere un effetto indelebile che il contrario non comporta in alcun modo... Quando Freud gli attribuiva il saper "tenere gli occhi chiusi", intendeva sottolineare il carattere "umanizzato" della Legge che rappresenta. Non ascoltare una parola insolente o non vedere un gesto osceno, a volte può essere la condizione per proseguire la partita... È il doppio compito della funzione paterna: introdurre un "no!" che sia davvero un "no!", e al tempo stesso saper incarnare un desiderio vitale e capace di realizzazione».
Famiglie monoparentali, ultracinquantenni che diventano mamme senza un compagno, coppie gay con figli, single con diritto all’adozione... C’era una volta lo schema edipico - sintetizzando: il padre "interdice" il godimento incestuoso e "separa" la madre dal figlio. Ma il mondo non sarà davvero "nuovo" e certi modelli ormai inservibili?
«Lo schema edipico continua ad avere il suo valore, se però si abbandona il teatrino familiare.Intesa come legame "naturale", la famiglia composta da una coppia eterosessuale e dai loro figli non è più il nucleo immobile dei legami sociali. Esistono organizzazioni sociali e culturali sempre più complesse, l’importante è che non venga meno la funzione educativa del legame familiare che vuol dire umanizzare la vita, iscriverla in un’appartenenza, farla partecipare a una cultura di gruppo, darle una casa e cioè una radice, una disponibilità alla cura e alla presenza... Se non si può più trasmettere il vero senso della vita, è però ancora possibile mostrare di dare un senso alla vita».
Oltre a Freud e soprattutto Lacan, lei ricorre alla letteratura con Philip Roth (Patrimonio) e Cormac McCharty (La strada). E poi a quel cinema di Clint Eastwood che rompe appunto "l’ordine del sangue". Prendiamo Million Dollar Baby...
«Intanto ogni paternità, come amava ripetere Françoise Dolto, è sempre adottiva, è sempre un’adozione simbolica che trascende il sangue e la biologia... "Io voglio lei!". "Sarò il tuo allenatore!": Frankie riconosce il desiderio di Maggie di diventare un pugile professionista, di avere lui e non altri come allenatore, risponde alla sua domanda facendo eccezione alla propria etica ("Io non alleno ragazze!") e al funzionamento della sua palestra, frequentata solo da uomini. In questo modo l’atto della paternità si produce come rottura di un ordine universale: l’ordine della morale normativa, del sangue e della genealogia, l’ordine dei dogmi. Frankie accoglie Maggie, non l’abbandona come "una causa persa", alla fine sarà il suo infermiere, la sua luce, il suo padre amato».
Ma a cosa è legata oggi la funzione del padre?
«Se non può più essere legata al sangue, al sesso, alla biologia, alla discendenza genealogica, allora aveva forse ragione papa Luciani a sconvolgere secoli di teologia dicendo che Dio è anche madre».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
RIPARARE IL MONDO. LA CRISI EPOCALE DELLA CHIESA ’CATTOLICA’ E LA LEZIONE DI SIGMUND FREUD.
METTERSI IN GIOCO, CORAGGIOSAMENTE. PIER ALDO ROVATTI INCONTRA ELVIO FACHINELLI.
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
Federico La Sala
Gioie eccessive /
Recalcati lettore di Fachinelli. L’oceano al di là dell’Edipo
di Rocco Ronchi (Doppiozero, 18 novembre 2020)
Elvio Fachinelli ha avuto il grande merito di portare la psicoanalisi dentro il dibattito politico e culturale dell’Italia degli anni ’60 - ‘80, quando il vento del rinnovamento soffiava forte sulla società italiana. Psicoanalista eterodosso, ma non dissidente, sospettoso delle dinamiche autoritarie dei gruppi, anche quando questi erano fondati su buone cause, si era sottratto all’invito formulatogli da Jacques Lacan di rappresentarlo in Italia, preferendo mantenere una posizione da libero battitore. A trent’anni dalla prematura scomparsa, uno dei maggiori “eredi” italiani di Jacques Lacan, Massimo Recalcati, gli ha dedicato un piccolo densissimo volume, articolato in tre saggi e in una Appendice, dal titolo significativo e assai impegnativo: Critica della ragione psicoanalitica.
Di Fachinelli, il suo esegeta condivide non solo una matrice intellettuale lacaniana, che è certamente più sfumata nel caso di Fachinelli, ma anche quella che si potrebbe definire una comune vocazione all’“impegno”. Per entrambi, infatti, la psicoanalisi è una prassi interamente calata nell’attualità, che non teme di sporcarsi le mani con il conflitto. Certamente diversissimi sono gli sfondi nei quali prende rilievo la loro riflessione. La temperie sociale, politica e culturale che caratterizzava gli anni di Fachinelli non ha quasi più rapporto con quella attuale. Le urgenze sono altre, anche se non meno drammatiche. Comune a entrambi è tuttavia la persuasione che la psicoanalisi, che nella sua pratica resta sostanzialmente una faccenda privata, sia, quanto al suo senso, parte integrante del discorso pubblico. Essa deve fungere da criterio di orientamento nel reale e da principio della sua trasformazione.
Ecco allora che la deriva ossessiva che Fachinelli denunciava nella logica gruppale dell’estrema sinistra degli anni ‘70 diventa, nella rilettura che ne offre Recalcati una diagnosi della pulsione securitaria che attraversa la contemporaneità, a riprova del fatto che il fascismo, per la psicoanalisi, non è qualcosa di contingente, ma si inscrive nella logica dell’inconscio. È un fatto degno di nota che quando la psicoanalisi si fa “ontologia del presente”, come avviene in modi diversi in Fachinelli e in Recalcati, il fascismo bussi sempre alle sue porte, presentandosi come il fantasma che assilla la compagine sociale. Lo si può verificare scorrendo a volo d’angelo la storia di questa disciplina: con sistematica puntualità - dal Freud della Psicologia delle masse al Reich della Psicologia di massa del fascismo fino alla schizoanalisi di Deleuze-Guattari - ogni incursione nel sociale della psicoanalisi fa emergere una “ricerca del chiuso” che, come scrive Recalcati, sembra appartenere “alla forma umana della vita” (il corsivo è mio). La “necessità” di questo libro di Recalcati è, dunque, immediatamente politica.
Senza lo spettro del fascismo, che si ritrova nelle nuove forme del populismo sovranista, non si spiegherebbe il ritornare dello psicoanalista di oggi alle pagine del suo collega di ieri. Il primo capitolo ha infatti un titolo “programmatico”, Uscire dal chiuso, ed è tutto costruito sulla fenomenologia schizzata da Fachinelli (in La Freccia ferma del 1979) di quella ossessione che porta il soggetto a trovare riparo presso “un padrone assoluto”, “una istanza superiore esterna (Dio, una Causa, o altro) che possa ribadire il suo affidamento regressivo all’Altro”.
Uscire dal chiuso è allora qualcosa di più di un titolo descrittivo: è la parola d’ordine di una psicoanalisi che accetta la sfida del tempo storico, pagando il prezzo del proprio impegno con i sarcasmi di chi la vorrebbe invece confinata nella penombra di un comodo appartamento borghese, appannaggio di una ristretta cerchia di privilegiati, e ne irride il tentativo di rendersi comunicabile e condivisa.
Accanto all’urgenza politica, ma connessa ad essa, vi è poi un’urgenza schiettamente teorica. Bisogna andare all’Appendice del libro (Il mare della formazione) per trovarla enunciata. La questione che viene sollevata in quelle pagine concerne la formazione dello psicoanalista in un contesto, quello lacaniano, dove l’osservanza della “lettera” del Maestro sembra costituire il solo valore al quale attenersi: formazione come conformazione, dunque. Nel caso poi l’esperienza non si lasciasse ricondurre al Libro, tanto peggio per l’esperienza.
Ciò che conta, infatti, è impratichirsi in una neolingua inaccessibile ai più che funziona come setaccio al cui vaglio passare il reale, trattenendo solo ciò che conferma la premessa del sillogismo lasciando perdere tutto il resto. “Viene alla mente - scrive sconsolato Recalcati - una tesi di Fachinelli: la psicoanalisi si è progressivamente costituita come una difesa fobico-ossessiva nei confronti dell’aperto”. Si ripete, anche nel caso di Lacan, quello che era già avvenuto con l’insegnamento freudiano, non solo presso i post-freudiani, sempre preoccupati di ricucire gli strappi procurati da Freud al dominio dell’Io, ma già in Freud stesso, che Fachinelli amava presentare come spaventato rispetto agli effetti prodotti dalla sua stessa veggenza: la scoperta dell’inconscio come causa.
Vi è, insomma, una naturale tendenza della psicoanalisi a (ri)costituirsi terapeuticamente come un discorso della padronanza, replicando un antico modello, quello del soggetto che è padrone del possibile, che ne dispone sovranamente come di una capacità, e che perciò argina (“ottura”, diceva Fachinelli) tutti quei “buchi” dai quali può passare un reale che si sottrae alla sua misura, un reale che è in eccesso sulla possibilità di accoglierlo, di farlo proprio, di digerirlo, un reale che non si lascia metabolizzare e trasformare in alimento utile alla autoconservazione del soggetto. Vi sono, scriveva Fachinelli, “gioie eccessive”, dalle quali la psicoanalisi, in quanto discorso della padronanza, si guarda come se fossero minacce. Queste gioie, che rinviano al grande tema lacaniano di una jouissance “al di là” del principio di piacere, “aprono”, strappandoci all’“umidiccia intimità gastrica” del nostro Io (l’espressione, potentissima, la mutuo dal giovane Sartre polemico con l’“idealismo” del suo maestro Husserl; ricordo che senza passare da Sartre poco si comprenderebbe del lacanismo di Recalcati).
Esse ci mettono in comunicazione con un Altro che non è l’Altro del Simbolico, della Legge, dell’Edipo. Per Fachinelli è un Altro molto più antico, ben poco “umano”, dal momento che ciò che c’è di “umano, troppo umano” è proprio l’ossessione per la chiusura, vale a dire quella sordida inclinazione al fascismo che accompagna, come uno spettro, ogni processo di soggettivazione.
Per questo Altro deve essere convocato un “sentimento oceanico”, come aveva fatto, in una celebre lettera a Freud, il suo amico Romain Rolland. La sua figura - che, come vedremo, non è affatto una metafora - è il “mare”. L’Altro assume qui il volto della natura, colta però non nel suo aspetto pietrificato di mosaico di fatti retto da leggi meccaniche, bensì in quello che aveva di mira Spinoza quando coniava per l’attività generativa della natura il neologismo latino naturans e che Henri Bergson, un altro spinoziano, aveva chiamato “durata creatrice di imprevedibili novità”.
È impressionante, anzi, la concordanza tematica e, addirittura, lessicale che c’è tra le tesi esposte da Fachinelli in saggi come La mente estatica e La Freccia ferma e la metafisica bergsoniana, soprattutto se si tiene presente l’ultima grande opera del filosofo francese: Le due fonti della morale e della religione. La grammatica concettuale di Fachinelli, fondata sulle coppie antinomiche aperto/chiuso, statico/dinamico, durata /spazio, concetto/ estasi, è infatti la stessa di Bergson. Ne è quasi un calco fatto con il linguaggio psicoanalitico.
Si pensi solo alla critica bergsoniana delle religioni statiche, territoriali, identitarie, al suo rifiuto delle morali chiuse, basate sul dualismo amico-nemico, al suo invito incessante ad aprire ciò che tende naturalmente a cristallizzarsi, a rendere dinamica l’esperienza che l’intelletto astratto invece reifica in una molteplicità disgiunta di stati immobili.
Si consideri, poi, il suo appello alla mistica, differente per natura da ogni religione tramandata anche se è costretta ad esprimersi nella retorica di una religione determinata. La mistica, afferma Bergson, non è contemplazione, ma azione trasformatrice, praxis generatrice di comunità libere. Solo come “grande politica” l’estasi era per il filosofo francese qualcosa di efficace. Altrimenti è solo un nuovo capitolo della storia della ideologia. Difficile trovare una tesi più “fachinelliana” (e sessantottina) di questa...
Ma Bergson, ai tempi in cui Fachinelli scriveva, era da tempo un corpo estraneo nel dibattitto intellettuale italiano e non solo. Ad occupare la scena era piuttosto l’hegelo-marxismo, vale a dire una visione del reale tutta storica, impregnata di un irriducibile umanismo, incrollabilmente fondata sulla tesi dell’eccezione umana rispetto al piano della natura. Lo stesso vale evidentemente per l’insegnamento lacaniano, anch’esso vittima della stessa congiuntura intellettuale, sebbene Lacan fosse filosoficamente assai più attrezzato del suo allievo italiano.
Degno di nota è allora il fatto che proprio oggi, nel tempo in cui la crisi prodotta dall’antropocene è sotto gli occhi di tutti (ne è segno tangibile la mascherina indossata ad ogni latitudine), il maggiore tra gli psicoanalisti italiani senta la necessità di riaprire la pratica Fachinelli. Non solo per areare la casa della psicoanalisi, nella quale da troppo tempo ormai si soffoca per i miasmi prodotti da settarismi, piccole invidie e da una scolastica autoritaria, ma perché forse si fa incalzante la questione della crisi del paradigma antropologico che sottende la psicoanalisi mainstream.
Già un altro psicoanalista, Sergio Benvenuto, ha sottolineato in un recente articolo l’aspetto “dionisiaco” latente nell’esperienza del suo antico amico Fachinelli evidenziando la distanza che lo separava dall’umanismo storicistico della sinistra italiana del tempo. Recalcati procede cautamente perché vuole evitare di gettare il bambino con l’acqua sporca. Diffida della retorica dell’impersonale, delle facili fascinazioni per il neutro.
Chi, come Recalcati, fa della clinica la cartina di tornasole per giudicare la bontà di una ipotesi teorica, non può agire diversamente. Se è vero che l’aspetto restaurativo della psicoanalisi è storicamente rappresentato dal suo essere un esorcismo nei confronti dell’aperto, è altrettanto vero che senza una difesa dal reale non c’è soggettivazione e che la psicoanalisi è una teoria e una prassi del soggetto ed è rivolta al soggetto. Non al suo “bene” - che, ricorda Recalcati, è la pretesa foriera di ogni possibile male - ma sicuramente al suo “essere”. Le vie della desoggettivazione e della desublimazione secca, le vie dionisiache, possono semmai essere percorse dagli artisti, perché a difenderli dal reale è il velo “apollineo” dell’immaginario; sono invece non solo impraticabili, ma, direi, eticamente irresponsabili per lo psicoanalista.
Tuttavia chi abbia seguito lo svolgersi nel tempo del pensiero di Recalcati non può non notare come in alcune sue recenti dichiarazioni teoriche, e in queste pagine in particolare, l’aperto promesso al soggetto da una psicoanalisi non reazionaria prenda sempre di più un aspetto “oceanico” e sempre meno “umano, troppo umano”, fino al punto da riabilitare - in modo apparentemente distratto, ma proprio per questo ancora più significativo - la grande tesi di Ferenczi, secondo la quale non è l’oceano il simbolo della madre, ma la madre uno dei simboli di quell’al di là dell’Edipo che è l’oceano.
In psicoanalisi l’oceano, il mare, l’onda, sono metafore che, come ha scritto una volta Bergson, parlano al senso proprio. Se il rumore delle onde funziona per il soggetto come il canto delle Sirene per Ulisse è, insomma, perché rammenta una provenienza e una destinazione. Siamo fatti di quella stessa stoffa. Certo, per Recalcati è sempre “sulla scala del desiderio” che va ricalcolato questo al di là dell’Edipo. Recalcati non viene mai meno a questo assioma sul quale ha articolato tutta la sua impresa teorica, ma questo non significa che il desiderio ricucia lo strappo del godimento sul modello del discorso della padronanza.
In passato Recalcati è stato spesso vittima di questa interpretazione riduttiva, non senza una qualche sua responsabilità, ma il passaggio attraverso le “gioie eccessive” di Fachinelli serve proprio a dissipare l’equivoco. La psicanalisi, scrive Recalcati esegeta di Fachinelli, è un’avventura e non un programma. Il suo metodo è la navigazione a vista: mappe e cartografia (il Libro) sono funzionali al processo, lo accompagnano ma non lo dirigono. L’essere dell’uomo è certamente la preoccupazione della psicoanalisi, ma Fachinelli ci ha insegnato che preservarlo vuol dire esporlo, cioè riconsegnarlo, “per quanto è possibile”, al suo elemento estraneo: alla potenza non umana del mare.
ANTROPOLOGIA E FILOSOFIA. RATIONABILITAS: SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITÀ, OGGI.... *
La filosofa Annarosa Buttarelli:
“Coronavirus frutto di forme virili di governo, impotenti e inadeguate”
A Milano un ciclo di lezioni di alta formazione che si apre al pensiero della differenza maschile. La filosofa che lo ha ideato: "La crisi che stiamo affrontando ci dice di festeggiare, oggi 8 marzo, la lungimiranza delle donne"
di ALESSIA RIPANI (la Repubblica, 08 marzo 2020)
"In questi giorni si manifesta ancora una volta, in maniera flagrante, l’impotenza dei potenti e l’inadeguatezza della cultura di origine maschile. Non solo a prevedere le conseguenze catastrofiche dei propri comportamenti ma anche a interloquire con la complessità in cui siamo immersi da sempre. Lo stile generale violento e suicidario delle forme virili di governo, oggi è di nuovo nudo". È così che, in piena tempesta coronavirus, festeggia la "lungimiranza delle donne" la docente e ricercatrice Annarosa Buttarelli, filosofa del pensiero della differenza, autrice di "Sovrane" sull’autorità femminile; pensatrice che ha ispirato anche Stefano Rodotà, con cui stava interloquendo poco prima della morte del giurista.
Ha appena lanciato il secondo corso di perfezionamento della Scuola di alta Formazione Donne di Governo che ha fondato insieme a altre. Ma stavolta, a dispetto della formula, protagonisti a Milano, nella Casa museo Boschi di Stefano, sono gli uomini. Massimo Recalcati e altri tre ’docenti’, ad esempio, chiamati ad approfondire la natura del desiderio maschile e l’inviolabilità del corpo femminile. Ci saranno cinque top manager del Comune guidato da Beppe Sala, che oltre a essere partner, come amministrazione pubblica ha deciso di spedire alcune delle sue dirigenti a scuola di femminismo da Buttarelli e le altre, magistrate, avvocate, funzionarie di polizia, ginecologhe, studiose e scrittrici. Il tema principe è ancora la violenza di genere: dove e perché nasce, come si riconosce e combatte, e, soprattutto, chi è che la fa.
Professoressa Buttarelli, 8 marzo, violenza sulle donne, coronavirus. Come si tiene insieme tutto questo?
"Oggi esiste una grande massa di donne consapevoli, liberate dal vittimismo e dalle rivendicazioni di un femminismo ormai superato; forti del #metoo che ha dato loro una spinta nuova. Sono tante, e possono festeggiare la lungimiranza che hanno avuto nel condannare un sistema di governo del mondo impostato su modelli maschili non più sostenibili. Pensiamo a come è stata gestita l’emergenza coronavirus dai governi, o a come sono state utilizzate le informazioni in Cina o in America, oppure ai tagli fatti alla sanità in Italia, frutto di un modello manageriale di stampo privatistico applicato al settore pubblico".
Uno degli insegnamenti si intitola "Crisi globali e risposte maschili: un passaggio di civiltà per sfidare razzismo, sovranismo e neoliberismo". Perché, però, partire dalla violenza sulle donne?
"E’ sempre la violenza il grande tema. Quella sulle donne porta con sé tutte le altre. Intendiamo per inviolabilità del corpo femminile l’inviolabilità di ogni vivente. Pensiamo a quello che subiscono i migranti, gli altri, i diversi, e guardiamo allo stupro ambientale del pianeta. La riflessione su una nuova forma mentis non può prescindere da una forte istanza ecologista, che combatta l’atteggiamento predatorio nei confronti dell’ambiente. Oggi è un 8 marzo di festa per le donne, le uniche capaci di regalare la visione di un altro futuro possibile".
Da qui il bisogno di guardarsi in faccia, donne e uomini.
"Diciamo che, a differenza di quanto avvenuto nella storia del pensiero femminile e femminista, manca completamente quella che possiamo chiamare autocoscienza maschile, con il riconoscimento da parte degli uomini delle loro responsabilità. È per loro un processo appena cominciato. Ho chiamato con me lo psicanalista Recalcati, ma anche Marco Deriu dell’università di Parma, Stefano Ciccone, sociologo, ricercatore a Genova, Lorenzo Bernini, docente a Verona, ’uomini nuovi, trasformati’, li chiamo. Consapevoli di dover fare la loro parte, appunto".
Lei tiene regolarmente corsi di formazione per alti funzionari dello Stato, personale delle prefetture, degli ospedali, dirigenti di grandi aziende. Quanto bisogno c’è di riflettere sul pensiero della differenza nelle istituzioni e nel mondo del lavoro?
"La narrazione sulla violenza ha finito col concentrarsi tutta sull’oggetto del sopruso, rappresentando sempre le donne come vittime e trascurando la centralità del carnefice. Qualcosa però sta cambiando, e c’è una forte consapevolezza della necessità di ripensare la cultura misogina su cui si basa la nostra società. Vedo un interesse nuovo da parte delle amministrazioni pubbliche, ad esempio, chiamate a intervenire con competenza e sensibilità nei casi di violenza, affinché non si verifichino ulteriori mortificazioni e delegittimazioni nelle corsie degli ospedali, in sede di denuncia davanti alle forze dell’ordine, nei processi per stupro. E c’è un nuovo approccio ai differenti comportamenti femminili in campo aziendale, che valorizza la sapienza femminile come risorsa chiave soprattutto nei momenti di crisi. Il Comune di Milano con cui è nata questa collaborazione ha dimostrato di essere pronto ad affrontare questa sfida, molto avanzata".
LO SPECIALE Gender gap, le donne presentano il conto
In un passaggio del suo libro, scrive che "giunti a questo punto della storia del mondo, pensatori e pensatrici dovrebbero quantomeno riuscire ad allearsi amorosamente con le istanze avanzate dalle donne nei secoli". Servirà questo approccio a eliminare violenza, sopraffazione e gender gap?
"La Scuola ha l’ambizione di portare la riflessione oltre l’individuazione degli strumenti utili all’eliminazione delle disuguaglianze in termini di accesso al lavoro, di posizione nella vita pubblica o remunerazione che già esistono. Si tratta di arrivare però alla radice dei problemi, e chiarire cosa non funziona nella relazione tra i sessi. E su questo terreno gli uomini hanno sì tanta strada a fare".
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
Federico La Sala
UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA "EDIPICA": L’ ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO...
di Luisa Muraro e Lucetta Scaraffia *
Su Sette Corriere della sera del 22 novembre 2019 è apparso un articolo di Lucetta Scaraffia, Ida, le molestie e la sconfitta della psicanalisi, chiarissimo in quello che dice. Potete leggerlo qui di seguito. È un testo di notevole interesse perché attira l’attenzione e fa luce sulla parte avuta dalla psicoanalisi nella rivoluzione femminista del ventesimo secolo. L’autrice finisce con un punto di domanda, giustamente, e invita così ad approfondire l’argomento.
Per parte mia ci tengo a dire che la “sconfitta” della psicoanalisi avviene su un antico campo di battaglia, quello dell’autorità della parola, autorità negata alle donne dal regime patriarcale, e campo di battaglia dalle donne tenacemente tenuto aperto attraverso i secoli. Parlo dell’isteria. Dedicandosi alla cura dell’isteria, Freud ha avuto il merito innegabile di essere entrato nel campo di battaglia e di sbagliare, sì, ma in un modo significativo: è il suo inconscio che lo fa sbagliare e lui finisce che se ne accorge. Se possiamo fare festa per la fine del discredito patriarcale e l’affermarsi di autorità femminile nella vita pubblica, qualcosa dobbiamo anche a lui. A sua volta, lui deve qualcosa, o molto, all’umanità femminile. (Luisa Muraro)
Corriere della sera - Sette, 22 novembre 2019
Ida, le molestie e la sconfitta della psicanalisi
di Lucetta Scaraffia *
Quando Ida ha acconsentito alla richiesta del padre, che voleva far curare da Freud i suoi strani disturbi (afonia, svenimenti, tosse continua), la ragazza sperava che il dottore avrebbe creduto alle sue parole, convincendo così anche suo padre che l’amico di famiglia Hanss Zellenka l’aveva molestata con insistenza e pesantemente, per mesi, suscitandole profondo turbamento e paura. Le molestie erano cominciate quando aveva solo tredici anni, e lei si era trovata invischiata in una situazione angosciosa: le vacanze con la famiglia Zellenka sul lago di Garda - dove la madre Pepina l’aveva accolta con un affetto e una simpatia che le mancavano in casa - nascondevano un segreto imbarazzante.
Pepina era in realtà l’amante del padre di Ida, un ricco industriale, che si era portato in vacanza la figlia per mascherare la relazione. E proprio mentre la ragazza cominciava ad accorgersene, diveniva oggetto di corteggiamenti e molestie da parte di Hanss, il marito di Pepina. È questa situazione difficile all’origine dei suoi disturbi di salute ma, come quasi tutte le giovani donne in casi analoghi, Ida ha paura di parlarne e si sente confusamente colpevole, finché un episodio più grave non la induce a raccontare tutto alla madre. Il padre, prontamente informato, convoca Hanss, il quale non solo nega indignato ma ritorce su Ida le accuse, consigliando di mandarla in cura da Freud.
Ferita dall’incomprensione paterna, Ida lo sarà ancor più dolorosamente da Freud che, dopo averla spinta a parlare, comprensivo - finalmente qualcuno la prendeva sul serio! - le aveva spiegato la sua complicata interpretazione dell’episodio. Secondo Freud le parole della ragazza rivelavano un suo amore edipico verso il padre, spostato poi su Hanss, e di conseguenza «lei non aveva affatto paura del signor Zellenka ma piuttosto di se stessa, e più precisamente della tentazione di cedere al signor Zellenka».
Ida reagisce a questa nuova cocente delusione interrompendo la cura con Freud, e proseguendo, sia pure con fatica, nella sua vita di donna che si sarebbe sposata, avrebbe avuto un figlio, avrebbe lavoratoe sarebbe scampata alla persecuzione nazista fuggendo prima a Parigi e poi negli Stati Uniti, dal figlio. Una vita dura e drammatica, che racconta alla nipote, autrice della bella biografia a lei dedicata. La vita di una donna che dal rifiuto dell’interpretazione di Freud ha tratto forza e coraggio. Una posizione totalmente diversa da quella che lo stesso Freud rivela concludendo la narrazione dell’analisi: «Promisi comunque di perdonarla per avermi privato della soddisfazione di guarirla radicalmente». E se invece Ida si fosse guarita da sola rifiutando l’interpretazione di chi non considerava vere le sue parole?
Ida è Dora, la protagonista del primo caso clinico di Freud, che su questo ha costruito la sua ipotesi sulle cause dell’isteria, considerando il caso come prova chiara e convincente della sua teoria del complesso di Edipo.
Agli occhi di una donna di oggi, invece, la vicenda di Ida appare solo come la drammatica storia di una ragazza molestata che non viene creduta dagli uomini ai quali si rivolge per avere aiuto. Il padre, probabilmente anche perché segnato da sensi di colpa nei confronti di Hanss, crede a questi piuttosto che alla figlia, mentre Freud dà credito al padre, e si lascia influenzare dal desiderio di trovare nei desideri edipici rimossi la causa dell’isteria. Le malattie di Ida, invece, rivelano piuttosto la sofferenza di una donna le cui parole non vengono ascoltate né rispettate. Una donna che non viene presa sul serio, proprio come tante altre sue contemporanee - ma anche molte più vicine a noi - che non hanno visto riconosciuto il valore delle loro parole.
La biografia di Ida (scritta dalla pronipote Katharina Adler, Ida, Sellerio 2019) rovescia la storia raccontata da Freud: non si tratta della prima paziente alla quale è stata diagnosticata e curata l’isteria, ma una delle tante - troppe - donne che hanno subito due forme di violenza, quella sessuale e quella contro la loro identità perché le loro parole non vengono credute. È la storia narrata dal punto di vista delle donne, che vedono le cose molto diversamente dagli uomini, ma non sono ascoltate.
C’è voluta una lunga battaglia, combattuta dalle donne, perché le parole delle vittime venissero ascoltate e prese seriamente in considerazione, perché le vittime stesse non fossero sempre considerate possibili complici della violenza - Ida aveva forse provocato, magari anche inconsapevolmente, come insinua Freud, il violento? - e venissero invece aiutate a superare il trauma, e risarcite.
Nell’ordinamento giuridico italiano gli articoli del codice Rocco, vigenti fino al 1996, punivano ogni tipo di violenza o molestia sessuale - sia sulle donne che sui minori - come «delitto contro la morale pubblica e il buoncostume». Tutelavano cioè quello che veniva considerato un bene collettivo e non la vittima. È stato solo nel 1996, grazie alle pressioni del movimento femminista, che viene promulgata la nuova legge per cui lo stupro diventa reato contro la persona, e di conseguenza l’attività sessuale riconosciuta come frutto di una libera scelta perché rientra nel diritto proprio dell’individuo.
Mentre nella fase precedente si collocava al primo posto la condizione di vita della comunità, che per il legislatore costituiva il massimo valore, oggi a essere valorizzata è invece la dimensione individuale di chi subisce il reato, divenuta il bene giuridico protetto dalla legge. Rivendicando la loro posizione di vittime della violenza, le donne capovolgono la situazione di debolezza in cui si trovavano, s’impadroniscono del potere di accusa, le loro parole si caricano di valore, e hanno finalmente diritto di essere ascoltate.
Oggi Ida troverebbe ascolto, Hanss verrebbe punito per molestie su una minore, e Freud non avrebbe più la possibilità di elaborare la sua teoria sull’isteria. Un caso in cui la psicanalisi, elemento fondamentale della nostra modernità, viene forse sconfitta dalla realtà che sta nelle parole delle donne?
(www.libreriadelledonne.it, 29 novembre 2019)
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
DONNE, UOMINI E VIOLENZA: "Parliamo di FEMMINICIDIO". La crisi epocale dell’ordine simbolico di "mammasantissima" ("patriarcato": alleanza Madre-Figlio).
DONNE, UOMINI, E DISORDINE SIMBOLICO
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89).
Federico La Sala
Lessico amoroso.
Recalcati: respirare l’amore in famiglia insegna l’amore nella vita
Lo psicoanalista e scrittore: "Il Vangelo insegna alla psicoanalisi il valore insostituibile della fede. È la fede che salva, nutre la forza del desiderio senza la quale la vita appassisce"
di Massimo Calvi (Avvenire, giovedì 14 febbraio 2019)
«Ho capito in un secondo che tu da me volevi solo soldi» canta Mahmood, il vincitore di Sanremo 2019. «Se solamente Dio inventasse delle nuove parole potrei dirti che...», si ascolta nella canzone di Ultimo, il secondo classificato. Se l’amore in musica è questo, forse c’è un problema di alfabetizzazione. Massimo Recalcati, psicoanalista e scrittore, a febbraio ha iniziato a condurre su Rai 3, il lunedì sera, Lessico amoroso, viaggio in sette puntate nelle tappe fondamentali del rapporto d’amore. La domanda viene da sé.
Perché improvvisamente abbiamo bisogno di ricostruire un lessico sull’amore?
Perché non sappiamo più parlare d’amore. Come se la retorica stile Twitter da una parte e il cinismo materialistico dall’altra avessero spezzato le gambe alla lingua poetica dell’amore. Aggiungiamo la sentenza delle neuroscienze che vorrebbero ridurre l’amore a scosse biochimiche del cervello destinate fatalmente a esaurirsi col passare del tempo. Aggiungiamo anche il neo-libertinismo del nostro tempo che vorrebbe rendere risibile il “per sempre” dell’amore. Abbiamo bisogno di ricostruire un lessico amoroso che ci indichi che le ragioni del cuore hanno un peso senza il quale la vita umana appare mutilata. Il nostro tempo sputa sulla promessa di eternità che si ripete in ogni amore. Preferisce il disincanto che riduce l’amore al sesso o al cosiddetto poliamore. Bisognerebbe rileggere i poeti per ritrovare le parole più profonde dell’amore. Quel «duro desiderio di durare», come diceva Paul Éluard, in cui consiste la promessa coraggiosa degli amanti.
Lei ha indagato a fondo la dissoluzione della figura del padre nell’era ipermoderna e la ridefinizione della funzione materna. C’è un legame tra l’analfabetismo amoroso e la crisi dei ruoli nella famiglia?
La famiglia svolge a mio giudizio un ruolo fondamentale e insostituibile nel processo di umanizzazione della vita. Oggi il suo indebolimento non deriva tanto dal superamento in corso di una concezione solo naturale del legame familiare, ma dalla intrusione traumatica dei miraggi del mercato, del mito del successo individuale, del profitto a ogni costo che sembra distruggano alle fondamenta ogni discorso educativo. La famiglia deve fronteggiare una deriva che sembra destituirne ogni ruolo simbolico. Ma la sua funzione resta fondamentale. Pensiamo per esempio all’importanza della testimonianza che un figlio può ricevere dall’amore che unisce i suoi genitori. È quella la prima versione dell’amore che lascia fatalmente delle tracce. Respirare l’amore nel legame familiare prepara all’amore.
Dunque l’amore non ha sempre bisogno di parole per essere insegnato?
Credo che l’analfabetismo amoroso sia il risultato del venir meno della dimensione del segreto e del mistero che dovrebbe invece accompagnare la vita amorosa. Mettere tutto in trasparenza, abolire il mistero, accorciare le distanze, favorisce disinibizione, ma spesso anche lo spegnimento del desiderio verso l’altro. Una delle illusioni più atroci del nostro tempo è che tutto sia accessibile senza sforzo: il sesso, l’amore, il desiderio... Ma non è così. Solo se si impara l’esistenza dell’inaccessibile si può imparare davvero la lingua singolare dell’amore. Il senso profondo della preghiera prepara all’amore meglio di qualunque educazione sessuale...
In un’epoca in cui i passaggi della vita sono diluiti, i legami fluidi e i rapporti (anche economici) precari, la difficoltà tra genitori e figli oggi non è anche nel saper suscitare un desiderio di autonomia?
Esistono due sintomi egualmente pericolosi. Il primo lo ha appena evocato: tutto è liquido, nulla può durare nel tempo, ogni cosa è destinata a una precarietà irrisolvibile. Il secondo è quello nostalgico: restaurare la solidità della figura genitoriale ereditata dal patriarcato. Il nostro tempo non è più il tempo dove la parola del padre chiudeva ogni discorso. Questa erosione dell’autorevolezza non è solo un motivo deprimente o angosciante ma anche una grande opportunità. Ogni lessico amoroso implica, infatti, un rapporto di amicizia con la fragilità e la mancanza, con l’erosione dell’identità. Per parlare d’amore bisogna non avere paura della mancanza. Quando amiamo siamo scoperti nella nostra vulnerabilità. Per questo a volte è meglio rifugiarsi attraverso la menzogna, oggi condivisa, dell’autonomia e dell’indipendenza, del farsi un nome da sé. Una vita non è pienamente matura quando è indipendente, ma solo quando sa riconoscere che senza la presenza dell’altro dell’amore è nulla.
Desiderio, miracolo, esperienza di assoluto, dono, incontro, promessa, per sempre... Il “lessico amoroso” di Recalcati ripropone molti termini della formazione cristiana. Che cosa insegna il Vangelo alla psicoanalisi?
Il mio lessico si muove in direzione contraria allo spirito del nostro tempo. Non rinuncia alla promessa che ogni incontro d’amore porta con sé: trasformare la casualità dell’incontro in un destino. È lo sforzo (impossibile?) di ogni amore. Ogni amore vuole infatti ripetere la gioia del primo incontro infinitamente. Il Vangelo insegna alla psicoanalisi il valore insostituibile della fede. È la fede che salva. È la fede che nutre la forza del desiderio senza la quale la vita appassisce. La psicoanalisi riprende questa idea di fondo del desiderio animato dalla fede: l’inconscio è infatti, diversamente da quel che comunemente si pensa, il luogo di una luce e non delle tenebre del sottosuolo. Senza questa esperienza della luce che nutre il desiderio la vita si spegne e muore.
Qual è il suo rapporto personale con il cristianesimo? Che ruolo ha il cristianesimo con la storia della psicoanalisi?
La psicoanalisi affonda storicamente le sue radici nell’illuminismo e nel positivismo. Freud era rigorosamente ateo. L’ateismo resta la cultura di fondo della psicoanalisi, nel senso che l’uomo è “solo e senza scuse” e non può essere salvato da Dio in quanto Dio è solo l’immagine idealizzata del padre dell’infanzia. La religione è, infatti, almeno nella prospettiva della psicoanalisi, una illusione infantile. Il cristianesimo rompe però con ogni rappresentazione religiosa di Dio. Il suo passo più sconcertante - quello che più mi convince e mi affascina - è che Dio ha il volto del prossimo; è che il volto del padre si può vedere solo nel volto del figlio. Di qui l’idea - per me decisiva - che il cristianesimo sia una grande etica del desiderio, antisacrificale, fondata sulla Legge dell’amore e sull’immanenza del Regno, che sia un’etica che oppone la Legge dell’amore all’odio e alla morte. In questo passo, paradossalmente, esso si avvicina profondamente al pensiero di Freud che pone in Eros la sola salvezza possibile nei confronti delle terribili devastazioni di Thanatos. È per me abbastanza per ripensare l’insieme dei rapporti tra testo biblico e psicoanalisi. È quello che sto facendo da anni. Uscirà presto un mio grosso volume sui rapporti tra Bibbia e psicoanalisi che spero di finire entro l’anno.
Quale aspetto la interroga di più della riflessione cristiana su corpo e affetti? Quali punti di contatto ci sono tra il messaggio cristiano e la riflessione lacaniana sul desiderio?
Non esiste anima senza incarnazione. Non esiste spirito che non sia corpo. Il cristianesimo rompe la tradizione gnostico-spiritualistica: il corpo non è un involucro dell’anima, ma è carne dell’anima, incarnazione dell’anima. Cristo è un uomo. Ma questa umanità non è solo un grumo di spinte pulsionali, ma porta con sé anche il fuoco del desiderio, la sua trascendenza. È la fede nel desiderio che può spostare le montagne. Una vita non si giudica dalla sua razza, dai suoi attributi ontologici, dalla sua essenza, ma solo da quello che essa fa del proprio desiderio, del proprio talento. È questo il punto di massima convergenza tra psicoanalisi e cristianesimo: un albero si giudica sempre e solo dai suoi frutti.
LA LEZIONE DI DANTE, OGGI. Nonostante le lezioni di Benigni, non abbiamo ancora capito le ragioni dantesche di Ulisse all’inferno. E la cultura italiana continua a navigare in uno "stato" sonnambolico.... *
M5S, Lega e l’assalto alle istituzioni
I nuovi Proci e l’Italia
di Massimo Recalcati (la Repubblica, 30.05.2018)
Anagraficamente Salvini e Di Maio appartengono alla generazione che avevo battezzato Telemaco: figli che hanno avuto il coraggio di farsi avanti, di impugnare le sorti del loro destino, di impegnarsi in prima persona per cambiare l’avvenire del loro Paese. Ma politicamente essi - anche alla luce di questo ultimo tristissimo quanto drammatico episodio della loro lunga marcia verso il potere - sembrano assomigliare di più ai Proci. Sono i cosiddetti “pretendenti”, i giovani principi che nell’Odissea di Omero esigono di possedere la regina Penelope e di insignorirsi del trono decretando Ulisse morto, disperso in chissà quale mare. Nel poema essi rivendicano il loro pieno diritto di governare Itaca nonostante non abbiano mostrato alcun rispetto per le sue istituzioni democratiche. Qui il lettore può spaziare ampiamente nella sua memoria tra le infinite ingiurie leghiste e grilline alle nostre istituzioni: ma non è forse questo il cemento armato della loro più profonda convergenza?
L’atteggiamento dei Proci non è però solo antiparlamentare - interrompono con le armi lo svolgimento di un’assemblea convocata da Telemaco, saccheggiano e deturpano la reggia che li ospita - ma è offensivo verso la Legge stessa della città. Il vuoto di Legge che si è determinato con l’assenza di Ulisse li rende padroni assoluti. Evocare la morte di Ulisse significa infatti evocare la morte della politica che deve lasciare il posto all’arroganza di chi rivendica il proprio diritto inscalfibile alla successione.
L’anti-parlamentarismo si ribalta così in una spinta furiosa ad occupare le istituzioni parlamentari. Una differenza sostanziale differenzia però i nuovi Proci dai vecchi. I nuovi hanno ottenuto democraticamente il consenso del popolo per governare la polis. Hanno un mandato, il popolo è con loro, li sostiene. Tuttavia, la Legge della città ha il compito di ricordare loro che il diritto a governare non implica lo sconvolgimento delle regole democratiche della convivenza, non significa introdurre l’anti- parlamentarismo nelle istituzioni nel nome del popolo. Lo squadrismo fascista violava la vita democratica in nome del popolo. Ed è sempre, come è tristemente noto, in nome del popolo che si sono commesse le più grandi atrocità nella storia. I padri costituenti hanno affidato al presidente della Repubblica un ruolo di garanzia. Bisogna che qualcuno ricordi ai nuovi Proci le regole complesse di una democrazia. Il diritto a governare non può mai coincidere con il diritto a fare quello che si vuole, con il puro arbitrio. Leghismo e grillismo empatizzano facilmente tra loro perché sono le espressioni più radicali del populismo: oppongono la volontà del popolo alla vita della politica.
Di fronte al collasso senza precedenti della sinistra e del Pd, di fronte al vuoto della Legge della città che sembra prolungare all’infinito la lunga notte di Itaca, c’è voluto ancora una volta il volto di un padre simbolico a testimoniare che le istituzioni non sono proprietà di nessuno, che il diritto al governare non coincide con il diritto a cancellare i principi elementari di una democrazia rappresentativa. È stato necessario il gesto coraggioso di un padre per salvare le speranze di Telemaco, per ricordare ai nuovi Proci che Ulisse è ancora vivo.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
Nonostante le lezioni di Benigni, non abbiamo ancora capito le ragioni dantesche di Ulisse all’inferno. E la cultura italiana continua a navigare in uno "stato" sonnambolico....
GLI ESEMPI TAROCCATI DI BARICCO E DI SCALFARI E L’ITALIA STRETTA NELL’ABBRACCIO MORTALE DEL "CAVALEONTICO" ULISSE DI ARCORE.
GENITORI, FIGLI, E FORMAZIONE: AL DI LÀ DEL FALLIMENTO, COSA RESTA DEL PADRE? PER MASSIMO RECALCATI, OBBEDIENTE A LACAN, RESTA ANCORA (E SEMPRE) LA LUNGA MANO DELLA MADRE.
Federico La Sala
Caro Recalcati, Renzi rimane il capo dei Proci
di Daniela Ranieri (Il Fatto, 01.06.2018)
Ammiratori sfegatati quali siamo del professor Recalcati, fresco della sua trasmissione su Rai3 in cui da una sedia al centro della scena, avvolto da un’aura di fascinosa lacanianità, lancia agli adepti perle quali “Il compito primo di ogni maestro non è quello di trasmettere il sapere ma quello di portare il fuoco” e “Per essere un giusto erede bisogna essere sempre eretici”, non potevamo perderci l’ultima sua lezione su Repubblica sulle analogie tra l’Odissea e la situazione politica attuale. Ci eravamo appena ripresi dalla bella lavata di capo che la psico-star col ciuffo ci fece dal palco della Leopolda pre-referendum: Renzi era Telemaco, il “figlio giusto” in cerca del padre, mentre noi antirenziani eravamo masochisti, conservatori e paternalisti.
La storia si è incaricata di contarci: 20 milioni al referendum (soprattutto giovani), poi, alle elezioni, una legione che ha rispedito al mittente la baldanzosa promessa di felicità del giovinotto toscano e della sua corte dei miracol(at)i.
Ora Recalcati, questo Farinetti del lettino, torna sul tema per aggiornarlo, piegando il mito all’evolversi dello storytelling: se “anagraficamente Salvini e Di Maio appartengono alla generazione che avevo battezzato Telemaco”, riflette, politicamente essi “sembrano assomigliare di più ai Proci”, i giovinastri che “esigono di possedere la regina Penelope e di insignorirsi del trono decretando Ulisse morto”.
Va da sé che nello schemino del carismatico guru Renzi è sempre Telemaco; noi siamo il “popolo” che appoggia i Proci - qui Recalcati se la deve un po’ aggiustare: “Una differenza sostanziale differenzia (sic) i nuovi Proci dai vecchi. I nuovi hanno ottenuto democraticamente il consenso del popolo per governare la polis”, mannaggia; mentre il “padre” è Mattarella, al quale farà piacere essere paragonato a Ulisse, un avventuriero fedifrago e bugiardo che fa morire tutti i suoi compagni.
Verrebbe proprio da fare sì con la testa, tant’è l’evidenza cristallina di questa lettura, sennonché già l’anno scorso, sul Fatto, nell’articolo Renzi, un Narciso a capo dei Proci, ci prendemmo la briga di smontare la trovata della “generazione Telemaco” con la quale Recalcati (poi messo a capo di una scuola politica del Pd intitolata al povero Pasolini) cercava di far passare un rampichino come Renzi per il protagonista di un’epica grandiosa, sembrandoci egli semmai più simile al capo dei Proci, che saccheggia per pura brama di potere.
Oggi, alla luce dei fatti, l’analogia (la nostra) ci pare ancora più corretta. Telemaco si reca a Pilo e a Sparta a farsi dare notizie del padre. Il suo è un “pellegrinaggio contrassegnato dalla devozione” (sono parole di Giorgio Manganelli), tra “i grandi di un’altra generazione”. Non risulta che Renzi abbia mai compiuto la sua Telemachia; al massimo è andato in California a parlare della vita su Marte. È partito, con enfasi annichilente, come rottamatore del passato. Nella sua “narrazione” la Legge è sempre stata un freno, così come l’autorità (i “professoroni”), occhieggiante e censoria. Renzi è quello del “ce ne faremo una ragione”, del “costi quel che costi”, del “si discute ma poi si decide”: formule liquidatorie, non eretiche.
Telemaco è solo; Renzi è a capo di una corte. Telemaco è malinconico (Omero dice “afflitto nell’animo”); Renzi è garrulo, gaglioffo, ilare, spesso aggressivo. Telemaco soffre per l’assenza di padri; Renzi voleva rottamarli. Telemaco ascolta e, per quanto goffo e spaccone, impara dai suoi errori; Renzi per i suoi fallimenti dà sempre la colpa a qualcun altro, persino al popolo che non ha compreso il suo genio. I Proci invece sono gli estranei che sfondano le porte, ma non con la violenza, piuttosto con una “strana qualità magica” (sempre Manganelli), “una malattia, che inutilmente gli dèi ammoniscono”. La malattia è il nichilismo di chi pretende il potere e viene ridotto all’impotenza dalla sua inettitudine rapinosa.
Ci riserviamo di capire meglio chi siano Di Maio e Salvini, ma Renzi è inequivocabilmente Antinoo, il capo dei Proci che distrugge la casa della sinistra condannandosi al nulla. O, se proprio deve esser Telemaco come vuole lo psico-guru pop organico, valgano per lui le parole che il Poeta fa dire a Atena: “Pochi figli risultano uguali al padre; i più sono peggiori, e solo pochi migliori”.
«Lessico famigliare»
Messia Massimo e la psicoanalisi prêt-à-porter
Habemus Corpus. Le esternazioni televisive di Recalcati, lo psicoanalista più popolare d’Italia, ogni lunedì sera su Rai 3 dopo «Report», con «Lessico famigliare»
di Mariangela Mianiti ( il manifesto, 29.05.18)
Ne sentivamo davvero il bisogno. Per anni siamo rimasti in attesa di un messia che ci spiegasse con parole calme e chiare che cosa significa essere genitori, figli e studenti, che ci illuminasse la strada giusta da percorrere, che ci fornisse una cassetta di manutenzione delle relazioni, che ci dicesse dove e perché sbagliamo, che, insomma, mettesse ognuno di questi ruoli, e quindi noi, in categorie pronte all’uso, prêt-à-porter.
E adesso il messia è arrivato, incarnato nello psicoanalista più popolare d’Italia, quel Massimo Recalcati che per quattro puntate, trasmesse il lunedì sera su Rai tre dopo Report, ha condotto Lessico famigliare suddiviso in quattro stazioni dedicate a La madre, Il Padre, I figli, La scuola.
La prima puntata, quella sulla madre, l’ho vista per caso, mentre stavo chiudendo il buco a un calzino di mio figlio e perché la televisione era rimasta sintonizzata su Report.
Erano da poco trascorse le 23, e già questo la dice lunga sui mille mestieri e dilatazioni temporali a cui una donna/madre/lavoratrice free lance deve adattarsi.
Stavo litigando con il filo che non voleva entrare nella cruna dell’ago (come sapete con l’età la vista cede), quando con la coda dell’occhio vedo apparire in uno studio con luci soffuse, e davanti a uno schermo, il messia di nero vestito.
Sotto la giacca portava una triste felpina girocollo e troppo remboursée in vita che, anziché dargli slancio, lo ingoffava.
Ora, se vai in televisione, sei da solo sulla scena e ti siedi su un trespolo, curare le pieghe degli abiti e la postura (messia Massimo tende a curvare le spalle) è un must che anche il più principiante dei narcisisti dovrebbe conoscere, sennò l’aura si appanna.
Ho lasciato perdere per un attimo il calzino e ho osservato il pubblico.
Era adorante e in estasi, proprio come davanti a un predicatore da cui sugge il Verbo, e lì il mio innato senso di ribellione ha cominciato ad agitarsi, ma è di sicuro colpa mia che da sempre sono allergica ai guru e ai seguaci.
Messia Massimo andava avanti a spiegare che cos’è una madre e non riuscivo a trovare nulla che già non sapessi, o avessi intuito e sperimentato, da una parte facendo l’ingrato e straordinario mestiere di genitrice, dall’altra conoscendo l’argomento dalla prospettiva di figlia.
Se è vero che ci sono madri buone e cattive, che sbagliano poco o tanto, amorevoli o distratte, soffocanti o indifferenti, se è poi vero che maternità non vuol dire solo partorire ma anche crescere, una certezza l’ho maturata, e cioè che l’essere madre non è categorizzabile in modo schematico, perché ogni storia è unica, ogni esperienza è al centro, e al seguito, di altre esperienze, come in una rete che è anche gioco del domino.
Se ognuno di noi è un continuum e un divenire, applicargli delle categorie vuol dire ingabbiarlo e forse è per questo che, più messia Massimo parlava, più mi veniva da dire Ma parla per te.
Verso la fine della trasmissione sono arrivate le domande del pubblico e relative risposte alla fine delle quali si accendeva un applauso.
Lì mi ha preso un senso di disagio ancora più forte.
Proprio perché ignorante della pratica, vorrei chiedere a coloro che per anni si sono stesi sul lettino di un analista se, alla fine della seduta, lo hanno mai applaudito tipo Bravo, bene, bis.
Neanche in chiesa a nessuno è mai venuto in mente di applaudire il prete dopo la predica. Tutt’al più si china il capo, si riflette o si prega.
Ho finito di chiudere il buco del calzino di mio figlio e sono andata a dormire pensando che la cosa più utile che avevo fatto, dalle 23 in poi, era stata rammendare.
PSICOANALISI E FILOSOFIA. Indicazioni per una seconda rivoluzione copernicana ..... *
Chi dice che è morta? Prima che terapeutica l’invenzione freudiana è una rivoluzione etica. E la scommessa più ardita si chiama “desiderio”. Da assecondare così
di Massimo Recalcati (la Repubblica, Robinson, 25.03.2018)
Che cosa resta della grande lezione di Freud? Cosa resiste della esperienza sovversiva dell’inconscio? Cosa della grande rivoluzione culturale rappresentata dalla psicoanalisi è destinato a non essere cancellato? Il progresso delle neuroscienze, l’affermazione delle psicoterapie cognitivo-comportamentali, la potenza chimica dello psicofarmaco, la promessa di terapie brevi ed efficaci centrate sul cosiddetto “ sintomo bersaglio”, sembra abbiamo messo definitivamente all’angolo la psicoanalisi riducendola a uno spettro condannato a circolare solo nel museo delle cere del Novecento. Lo si grida da più parti e ormai da molto tempo: la psicoanalisi è morta, le sue categorie teoriche irrimediabilmente compromesse da un irrazionalismo di fondo che rifiuta di confrontarsi con la valutazione scientifica, la sua efficacia terapeutica dubbia, la proverbiale lunghezza delle sue cure assolutamente sfasata rispetto al ritmo performativo richiesto dallo spirito del nostro tempo e indice di una fumisteria epistemologica e clinica priva di fondamenti.
Perché allora dovremmo insistere nel difendere tenacemente l’invenzione di Freud? Il nucleo di questa invenzione è etico prima che terapeutico. Se il Novecento è stato il secolo del sacrificio della singolarità schiacciata sotto il peso inumano dell’universale ideologico della Causa, la teoria e la pratica della psicoanalisi, sin dalla sua origine, si è posta al servizio del carattere insacrificabile della singolarità. Non certamente della natura borghese dell’Io o dell’individualismo liberista, ma di quella singolarità assai più ampia che sconfina in zone dell’essere che eccedono la coscienza e la sua illusione (cartesiana) di padronanza. La singolarità irregolare e anarchica dell’inconscio impone infatti di ripensare innanzitutto il concetto stesso di identità. Certamente questo riguarda la sessualità umana che
Freud rivela essere sempre parzialmente contaminata da quella infantile e pregenitale come se non esistesse una sessualità cosiddetta “matura”, “genitale”, perché essa vive e si nutre di fantasmi che provengono dalle esperienze infantili del corpo pulsionale.
Ma la prima vera e grande sovversione etica imposta da Freud è quella che ci costringe a modificare la nostra ordinaria concezione della malattia e della sofferenza psichica. Questo è un contributo ancora attualissimo e nevralgico della psicoanalisi: l’eccessivo compattamento identitario del soggetto non è una virtù da salvaguardare, ma è la vera malattia da curare. La divisione multipla interna al soggetto - tra coscienza, preconscio e inconscio, tra Es, Io e Super- io - ci costringe infatti a ridisegnare la nostra idea della vita umana. L’Io non è mai padrone in casa propria: l’alterità non è innanzitutto esperienza dello straniero che viene dal di fuori, ma del nostro stesso essere, della nostra più propria intimità.
L’inconscio freudiano è infatti “uno stato nello stato” - un “territorio straniero interno” - che obbedisce a una legislazione che eccede radicalmente quella che governa il funzionamento normativo dell’Io. Nei sogni, nelle nostre più quotidiane sbadataggini, nei lapsus, nei sintomi di una singolarità eccedente l’Io parla, manifesta la propria voce dissonante disturbando il funzionamento diurno della coscienza e del pensiero. Ne deriva, appunto, un’inedita concezione della malattia e della sofferenza psichica che scaturirebbe non tanto da una assenza o da una debolezza dell’Io, ma da una sua postura troppo rigida, da una mancanza di democrazia interna che vorrebbe escludere la voce dell’inconscio dal parlamento interno del soggetto. Se queste procedure egoico-narcisistiche di esclusione si rafforzano, se il soggetto persegue una rappresentazione solo ideale di sé stesso finalizzata a scongiurare l’esistenza di quelle parti di sé giudicate “incompatibili” con questo stesso Ideale, la vita si atrofizza e si ammala. È un principio clinico che riguarda tanto la vita individuale quanto quella collettiva: i confini che disegnano la nostra identità devono essere plastici, capaci più di integrare lo straniero interno che di scindere e segregare. La psicoanalisi incoraggia una politica anti-segregativa.
La prima grande lezione etica della psicoanalisi consiste nel favorire una concezione indebolita della soggettività che consenta il transito e l’apertura in alternativa a ogni sua illusione identitaria di padronanza che finisce per irrigidire i propri confini contribuendo alla loro chiusura.
Quale è il volto dello straniero che si tratta di accogliere? Innanzitutto quello del desiderio che esprime la dimensione radicalmente insacrificabile della singolarità. Si tratta di un’altra grande e ardita scommessa della psicoanalisi: non contrapporre la ragione al desiderio - come la luce all’ombra - ma fare della “ voce del desiderio” la voce stessa della ragione. È questo un punto nevralgico presente nel pensiero di Freud, ripreso con forza da Lacan: non solo la vita si ammala per un eccesso di solidificazione dell’identità, ma anche quando essa volta le spalle alla chiamata del desiderio, quando tradisce la sua attitudine, la sua vocazione, il suo talento fondamentale. Questo desiderio - assimilato kantianamente da Freud alla “voce della ragione” - non può essere normalizzato, irreggimentato, assoggettato da nessun principio, compreso quello di realtà. La difesa della singolarità comporta l’opzione per un pensiero laico, anti-dogmatico, anti-fondamentalista, critico nei confronti di ogni tentativo di assimilazione del singolare nelle procedure anonime dell’universale.
È il tratto, se si vuole, irriducibilmente “ femminista” della psicoanalisi: la cura è cura per il particolare, per la sua differenza assoluta, per l’incomparabile, per la vita non nel suo statuto generico e biologico ma nel suo nome proprio, nel suo volto unico e irriproducibile. Questo comporta un attrito fatale nei confronti di tutte le pratiche di normalizzazione autoritaria e di medicalizzazione disciplinare della vita. La vita del desiderio - la vita della singolarità - è sempre vita storta, difforme, deviante, bizzarra, anomala.
La psicoanalisi opta per l’accoglienza di questo “straniero interno” come condizione di possibilità per l’accoglienza della vita in tutte le sue forme più divergenti. Essa contrasta politicamente ogni conformismo del pensiero, ogni attitudine all’adattamento passivo, ogni ideale moralistico di normalità. Non esiste infatti mai un “rapporto giusto col reale”, affermava Lacan. Ciascuno ha il compito di trovare la propria misura della felicità.
La psicoanalisi è una teoria critica della società: il potere che impone una misura unica della felicità diviene necessariamente totalitario. La sua vocazione è antifascista nel senso più radicale e militante del termine: veglia affinché la tentazione autoritaria che spinge l’uomo verso il padrone o verso il suo carnefice che promette la tutela autoritaria da ogni rischio che la libertà della vita fatalmente impone, sia avvistata per tempo.
La psicoanalisi svela che esiste nell’uomo una tendenza pulsionale ad amare più le catene della propria libertà, a disfarsi del proprio desiderio, a consegnarsi nelle mani di una autorità che, in cambio della cessione della propria libertà, assicurerebbe la protezione della vita. È la dimensione “fascista” della psicologia delle masse che costituisce un grande capitolo della ricerca sociale e politica della psicoanalisi oggi più che mai attuale.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Sulla spiaggia. Di fronte al mare...
CON KANT E FREUD, OLTRE. Un nuovo paradigma antropologico: la decisiva indicazione di ELVIO FACHINELLI
PSICOANALISI E FILOSOFIA. Indicazioni per una seconda rivoluzione copernicana .....
DAL LABIRINTO SI PUO’ USCIRE. FACHINELLI, "SU FREUD".
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
Psicoanalisi, Storia e Politica....
Verità nascoste.
Il Telemaco, il messia e la Costituzione
di Sarantis Thanopulos (il manifesto, 19.11.2016)
Massimo Recalcati nell’elogiare, alla Leopolda, Matteo Renzi, ha accusato la sinistra del No di essere masochista, paternalista e di odiare la giovinezza. Accuse fondate su luoghi comuni.
Un discorso aforistico, privo di argomenti, teso a screditare l’avversario piuttosto che ad esprimere una propria opinione sui quesiti referendari.
L’andazzo è proprio questo: la grande maggioranza degli italiani nel referendum prossimo voterà pro o contro Renzi, a prescindere dalla valutazione di una riforma che modificherà in modo sostanziale la costituzione italiana.
La personalizzazione del conflitto politico ha finito per espropriarci della cura nei confronti delle regole fondamentali della nostra convivenza democratica. Si è fatta strada una corrente di «eccezione dalla costituzione», che mentre aspira formalmente a riformarla, di fatto crea il clima di una sua sospensione sul piano emotivo.
Questo tipo di sospensione dell’ordinamento costituzionale è il più pericoloso. La restrizione diretta e apertamente autoritaria delle garanzie costitutive dei nostri diritti, crea opposizione e ribellione.
La loro sostituzione con l’affidamento regressivo all’«uomo della provvidenza», da una parte sposta l’attenzione su un quesito fuorviante - se costui è quello «vero» o quello «falso» - e dall’altra favorisce la deresponsabilizzazione.
La nota identificazione del premier con Telemaco, nella versione ideata da Recalcati come riparazione (impropria) dell’assenza del padre, è espressione di un vissuto di delegittimazione collettiva. Di questa delegittimazione, della cui origine non è responsabile, Renzi si è costituito come l’interprete più importante.
L’ha fatto per negazione, cioè oscurandola: più incerta sente la propria legittimità, più insiste sulla delegittimazione degli altri.
La rottamazione pura e semplice di una classe politica inadeguata non produce di per sé legittimazione. Se resta come unica opzione perpetua il senso di delegittimazione. Infatti, Renzi, il rottamatore, si identifica con Telemaco: un figlio reso illegittimo dall’assenza del padre e dalla solitudine, vedovanza «bianca», della madre (le due condizioni sono inscindibili).
Dimentica che il ritorno della legge nel regno di Itaca, non è opera di Telemaco. Deriva dal ritorno di Ulisse nel letto coniugale, dal suo riconoscimento e legittimazione come uomo e come padre dall’amore di Penelope.
Le regole «costituzionali» che garantiscono la buona gestione delle relazioni familiari, sono fondate sulla capacità dei genitori di essere soggetti paritari nel loro legame di desiderio. I figli che rottamano il padre, cercando di sostituirlo nell’amore della madre, finiscono per assumere un ruolo messianico.
In modo analogo al governo familiare, il governo della Polis non può essere affidato a un Telemaco capovolto nel suo significato, che non sa attendere il suo tempo. Aspettare il momento giusto per sentirsi adulti - l’accesso alla piena comprensione della congiunzione erotica dei genitori e della sua problematicità - è il senso vero dell’attesa del padre in Odissea.
Un leader capace di identificarsi con Penelope e Ulisse, cioè con il senso di corresponsabilità che costituisce le relazioni cittadine in termini di condivisione e di scambio, è molto più affidabile di un figlio che si sostituisce ai genitori. Costui si imprigiona nel destino del redentore e, diversamente da Telemaco di Omero, si considera il frutto di una unione spirituale tra un padre ideale e una madre/figlia vergine. Promuove la deresponsabilizzazione che gli ha assegnato la sua funzione immaginaria e si/ci illude di poter farcela.
Quel che resta della parola “educazione”
Nessun tempo come il nostro ha così esaltato la centralità del bambino nella vita della famiglia. I piccoli non si piegano più alle leggi degli adulti e finiscono per ignorare il senso del limite. Davanti ai figli e alle loro richieste, i genitori rinunciano a ogni possibile pedagogia
Gli esiti di questo processo si possono riassumere con una difficoltà crescente dei nostri ragazzi di accedere alla dimensione generativa del desiderio
di Massimo Recalcati (la Repubblica, 27.03.2016)
È sempre esistita una corrente della pedagogia che, a diverso titolo, ha preteso di liberarsi dell’educazione considerata come un vero e proprio tabù: le vite dei figli traggono più danno che benefici dall’educazione, la quale non sarebbe altro che una museruola messa da genitori paranoici sulla legittima voglia di libertà dei loro figli. Tra tutti i riferimenti possibili possiamo pensare al recente lavoro di Peter Gray dal titolo, che è già, come si può intendere facilmente, tutto un programma: Lasciateli giocare (Einaudi). La tesi di questo libro è quella che bisogna restituire ai nostri figli la loro autonomia che una concezione aridamente disciplinare della scuola gli ha sottratto. Quella che l’autore definisce “istruzione forzata” appare come una macchina repressiva tale da spegnere la creatività nel nome di una esigenza di controllo e di disciplinamento coatto che proviene dal mondo degli adulti.
Questa rappresentazione della problematica dell’educazione risente di una ideologia libertaria che misconosce la funzione della differenza simbolica tra le generazioni e il ruolo essenziale degli adulti giocato nel processo di formazione. Si tratta di una vera e propria “mutazione antropologica” che è stata descritta con efficacia da Marcel Gauchet in un bel libro titolato Il figlio del desiderio (Vita e pensiero).
Riassumo sinteticamente il suo ragionamento: se c’è stato un tempo dove l’educazione aveva il compito di liberare il soggetto dalla sua infanzia, oggi si tende invece a concepire l’infanzia come un tempo al quale si vorrebbe essere eternamente fedeli, come una sorta di “ideale del sé” puro e incontaminato da tutti quei condizionamenti culturali e sociali che rischiano di corrompere la sua affermazione. Non si tratta più di educare il bambino alla vita adulta ma di liberare il bambino dalla vita degli adulti perché la vita adulta non è una vita, ma solo la sua falsificazione morale. Nessun tempo come il nostro ha mai esaltato così la centralità del bambino nella vita della famiglia. Tutto pare capovolgersi: non sono più i bambini che si piegano alle leggi della famiglia, ma sono le famiglie che devono piegarsi alle leggi (capricciose) dei bambini.
Nanni Moretti ne fornì un esempio esilarante in Caro diario: in una piccola isola delle Eolie i bambini diventano i padroni anarchici della famiglia obbligando tutti gli adulti al telefono a prodigarsi in improbabili imitazioni di animali per poter ottenere il permesso di parlare coi loro genitori. Il compito dell’educazione viene aggirato nel nome della felicità del bambino che solitamente corrisponde a fargli fare tutto quello che vuole: il soddisfacimento immediato non è solo un comandamento del discorso sociale, ma attraversa anche le famiglie sempre più in difficoltà a fare esistere il senso del limite e del differimento della soddisfazione. Non è forse questa la nuova Legge che governa le nostre vite? Lo spirito del mercato non esige forse la realizzazione del massimo profitto in tempi sempre più brevi?
Gli esiti di questo processo si possono riassumere con una difficoltà crescente dei nostri figli di accedere alla dimensione generativa del desiderio poiché la condizione di questo accesso è data dall’incontro con il trauma virtuoso del limite. Solo se la vita riconosce che non tutto è possibile può fare esistere il desiderio come una possibilità autenticamente generativa. Altrimenti il desiderio si eclissa soffocato dalla marea montante della soddisfazione immediata dei bisogni. È un problema cruciale del nostro tempo.
L’elevazione del bambino a nuovo idolo di fronte al quale, al fine di ottenere la sua benevolenza, i genitori si genuflettono, è un effetto di questa erosione più diffusa del discorso educativo.
Nella pedagogia falsamente libertaria che oscura il trauma benefico del limite come condizione per il potenziamento del desiderio, l’educazione stessa è diventata un tabù arcaico dal quale liberarsi, una parola insopportabile che nasconde e giustifica subdolamente il sadismo gratuito degli adulti verso l’innocenza dei figli.
In realtà, questa dismissione del concetto di educazione è un modo con il quale gli adulti - che, come ricorda Lacan, sono i veri bambini - tendono a disfarsi del peso della loro responsabilità di contribuire a formare la vita del figlio. Ne è una prova il sospetto coi quali molti genitori osservano gli insegnanti che si permettono di giudicare negativamente i loro figli o di sottoporli a provvedimenti disciplinari.
Dando per scontato il fatto che non esistono genitori ideali, o, che, come sentenziava Freud, il mestiere del genitore è impossibile, cioè è impossibile per un genitore non sbagliare, questo non significa affatto disertare la responsabilità di assumere delle decisioni, di non farsi dettare la Legge dai propri figli.
Non si tratta per i genitori di proporsi come modelli educativi infallibili - niente di peggio per un figlio che avere un padre o una madre che si offrono come misura ideale della vita - ma di fare sentire che esiste sempre un mondo al di là di quello incarnato dell’esistenza del figlio, che l’esistenza di un figlio non può esaurire l’esistenza del mondo. In un recente colloquio clinico con una famiglia in difficoltà di fronte ad un bambino che ha progressivamente cannibalizzato le loro vite mostrando di non aver alcun rispetto per il senso del limite, il padre, per definirlo, ha usato questa espressione eloquente: «Lui pensa di essere il centro del mondo». Aggiungendo però subito dopo, senza riuscire a trattenere una certa soddisfazione: «Lui non sa quanto per noi questo sia assolutamente vero».
I tabù del mondo
La perversione non è un comportamento sessuale deviato, visto che la trasgressione è comune a tutte le forme di erotismo. È piuttosto una sfida impossibile contro qualsiasi regola, qualsiasi precetto legato alla cultura, in nome di un concetto astratto di Natura Una tendenza che ai giorni nostri è forte più che mai
Il nostro lato Sade
il libertino che sfida la Legge
di Massimo Recalcati (la Repubblica, 06.03.2016)
Nessuna figura come quella del perverso si candida ad infrangere ogni tabù. È la sua professione e il suo programma. È la sola perversione degna di questo nome: sfidare la Legge degli uomini mostrando la sua natura falsa e ipocrita, poiché la sola Legge che conta è quella del proprio godimento.
Un luogo comune, avallato anche da una certa psicoanalisi, ha voluto invece considerare la perversione come una aberrazione del comportamento sessuale, come un vizio che sottolineerebbe il carattere deviato, anarchico, esorbitante della sessualità. In realtà, da questo punto di vista, gli esseri umani sarebbero tutti egualmente perversi. Il desiderio sessuale è, infatti, abitato strutturalmente da una dimensione lussuriosa. Freud parlava a questo proposito già della sessualità del bambino come di una sessualità perversa-polimorfa. Mentre nel mondo animale il sesso sembra rispondere alla bussola infallibile dell’istinto, la sessualità umana eccede quella guida, la sconvolge; non si piega né alla finalità riproduttiva, né a quella del rapporto sessuale come semplice congiunzione dei genitali. Lacan ironizzava affermando che nella sessualità umana non c’è mai nulla di naturale, nulla di realistico: i gusti e le pratiche sessuali non sono piegati alla legge biologica dell’istinto ma appaiono sempre devianti, strambi, simili a dei collage surrealisti.
La vera perversione non si manifesta dunque nelle pratiche sessuali fuori norma anche perché è la sessualità umana come tale a essere “normalmente” perversa. Né si manifesta nella spinta a trasgredire la Legge perché nella trasgressione della Legge c’è già una qualche forma di riconoscimento del valore simbolico della Legge. Ne è una prova il senso di colpa che accompagna solitamente ogni atto trasgressivo.
Nell’Epistola ai Romani Paolo di Tarso ha messo bene in evidenza il nesso che lega la Legge al peccato. Solo se esiste una Legge può esistere anche il senso della sua trasgressione, ovvero il senso del peccato. È questa la dimensione della perversione che accompagna ordinariamente il desiderio umano, il quale può intensificarsi e inebriarsi grazie all’esistenza di un limite e al brivido provocato dal suo oltrepassamento trasgressivo.
Lo insegna anche il mito biblico di Genesi: è l’interdizione dell’oggetto (il frutto dell’albero della conoscenza) che lo rende un oggetto di desiderio. Più si rende un oggetto qualsiasi proibito e inaccessibile, più si alimenta il suo desiderio. Questa spinta del desiderio a superare il limite della Legge, non definisce però ancora la vera perversione.
Per intenderne davvero il significato bisogna abbandonare la dialettica tra Legge e desiderio sul quale si fonda l’iscrizione simbolica del tabù. Il vero perverso, infatti, vuole distruggere ogni tabù, cioè vuole liberare il desiderio da ogni forma di Legge, vuole sfidare la Legge degli uomini nel nome di un’altra Legge.
È quello che Lacan vede incarnarsi nell’opera libertina del marchese De Sade. Questi non si accontenta della versione paolina della Legge e della sua trasgressione. Questa nuova Legge con la quale il vero perverso pretende di smascherare la Legge degli uomini come un’impostura, una maschera, un artifizio ipocrita è la Legge del godimento. Essa non trova posto nei Codici, ma è per Sade iscritta nella Natura.
È il fondamento vitalistico che anima il sogno del perverso: seguire la Legge della Natura per raggiungere un godimento puro, non ancora corrotto dal linguaggio. Per questo la pedofilia è una delle espressioni più forti e inquietanti della perversione: godere dell’innocente significa ricuperare un godimento pieno, assoluto, non ancora contaminato dall’esistenza della Legge. Nessun tabù, compreso quello dell’incesto, deve ostacolare questo dispiegamento onnipotente e cinico del godimento.
Il disegno politico della perversione si chiarisce così come lo sforzo inumano di liberare le leggi della Natura dalle catene repressive delle Leggi della Cultura per riportare l’uomo al suo fondamento materialistico, vitalistico, come spiega pedagogicamente M.me Saint-Ange alla sua giovane depravata discepola Eugénie ne La filosofia nel boudoir: «Spezza le tue catene a qualunque costo, disprezza le vane rimostranze di una madre imbecille, a cui non devi che odio e disprezzo. Se tuo padre ti desidera, concediti: goda di te, ma senza incatenarti; spezza il giogo se vuole asservirti... Fotti, insomma, fotti: è per questo che sei al mondo. Nessun limite ai tuoi piaceri se non quelli delle tue forze o delle tue volontà».
Il teatro perverso di Sade, le giovani donne straziate, degradate, seviziate, umiliate dai loro carnefici, non ha altro fine che questo: riportare il godimento alla sua Origine, liberandolo definitivamente da ogni mancanza. Il richiamo alla Legge della Natura avviene così contro la Legge degli uomini, falsa e corrotta. Il vero crimine non è, infatti, quello del libertino, ma quello della Legge che osa imporre dei limiti al godimento; il vero crimine non è quello sadiano, ma quello dell’uomo falsamente morale che non rispetta le leggi della Natura.
Sade ci costringe a invertire il punto di vista morale della distinzione tra Bene e Male, tra Virtù e Vizio. Il vero peccato non è quello del libertino - il Vizio - ma quello della morale - la Virtù - che nega i desideri “naturali” che costituiscono l’essere umano. La Legge degli uomini è vista come un serpente o una vipera velenosa dalla quale bisogna difendersi. Essa impone sacrifici, limiti, soglie simboliche inutili che mutilano la spinta auto-affermativa di godimento della vita. In questo il marchese de Sade anticipa una svolta epocale in corso del nostro tempo dove i suoi proseliti si moltiplicano mostrando che la Legge degli uomini è solo una maschera artefatta della sola Legge che conta: l’affermazione incontrastata della propria volontà di godimento.
di Massimo Recalcati (la Repubblica, 29.01.2016)
Freud dava due notizie ai genitori. La prima, piuttosto disarmante, è che si tratta di un mestiere impossibile. La seconda, che forse ci può rincuorare, è che i migliori tra loro sono quelli consapevoli di questa impossibilità.
Ma perché il mestiere del genitore sarebbe impossibile? Perché, come mostra l’esperienza, non si può esercitare questa funzione se non in modo sempre, più o meno, insufficiente, incerto. Nessuno può, infatti, possedere la risposta infallibile su qual è il senso della vita, del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto. Tutti noi ci barcameniamo alla meno peggio navigando a vista, rinunciando alla favola della mano sicura che guida la vita dei figli. Questo spiega anche perché i peggiori genitori sono invece quelli che pensano di essere dei buoni genitori, o, peggio, di incarnarne il loro modello ideale.
La psicoanalisi raccoglie sovente i cocci provocati da questo tipo di genitori eccessivamente identificati alla loro funzione educativa. Accadde, tra gli altri, al povero Schreber, presidente della Corte di Appello di Lipsia, paranoico delirante, che dovette sopportare da bambino il sadismo folle di un padre inventore di apparecchi educativi finalizzati a correggere la scarsa forza di volontà dei suoi figli.
Affermare che il mestiere del genitore è impossibile significa che non esistono manuali in grado di spiegare come si fa ad essere un genitore sufficientemente buono. La credenza - al limite della superstizione - del nostro tempo alimenta invece la fantasia che esistano ricette predefinite e valide per tutti capaci di rendere le cure genitoriali efficaci. Manuali che spiegano come regolare il sonno del proprio bambino, il suo appetito, le sue facoltà cognitive, il suo temperamento, il suo comportamento in generale. Manuali che spiegano come calibrare nella giusta misura gratificazioni e frustrazioni, premi e punizioni, affettività e normatività.
Non casualmente questo proliferare di un sapere educativo pret-à-porter fiorisce proprio nel momento in cui si assiste al tramonto dell’autorità simbolica in tutte le sue declinazioni, prima fra tutte quelle del pater familias. Se il tempo del padre-padrone si è esaurito, bisogna affidarsi a manuali dall’aspetto più democratico e ammantati da una parvenza di scientificità per orientare con sicurezza la vita dei nostri figli. Ecco allora apparire un esercito di esperti specializzati sulla funzione genitoriale che spiegano - di fronte al vuoto lasciato dal declino (benedetto) dell’ideologia patriarcale - in che cosa consisterebbe la “giusta” educazione. Una pletora di istruttori di genitori (solitamente, a loro volta, genitori protagonisti di fallimenti) si prodiga nell’elencare le regole che dovrebbero garantire un successo educativo.
Ma è questa la via per provare a reinventare un modello educativo alternativo a quello che abbiamo ereditato dall’ideologia patriarcale e ai fallimenti di quello libertario post ‘68? I migliori genitori, spiega Freud, sono quelli consapevoli della loro insufficienza, ovvero quelli che rifuggono da un sapere predefinito, standard. Quelli che sanno che la sola cosa che conta nel rapporto coi figli è aver fatto loro segno dell’amore, ovvero riconoscerli nella loro assoluta particolarità. Senza questo riconoscimento la vita si ammala, si depotenzia, si disperde.
Quello che conta nel processo di umanizzazione della vita è avere fede nel desiderio dei propri figli, donare loro la possibilità della sconfitta e del fallimento, ma anche quella di rialzarsi, di ripartire contando sul sostegno dei loro genitori. Quello che conta è donare loro la libertà di essere diversi da come li avremmo voluti; è lasciarli essere quello che sono. Sartre diceva che se i genitori hanno delle attese sui figli i figli avranno dei destini e, solitamente, assai infelici. Nessuna regola comportamentale può compensare l’assenza del segno d’amore che sa riconoscere la particolarità reale del figlio al di là di ogni sua rappresentazione ideale.
Il segreto di Caino l’uomo che voleva uccidere l’Ideale
Eroe negativo biblico, simbolo universale di tradimento, il figlio di Adamo ammazza il fratello per eliminare l’Altro e vivere senza rivali in simbiosi incestuosa con la madre. In realtà ciò che non sopporta è vedere in Abele una versione “perfetta” di sé. Ma solo dopo l’omicidio scopre che il sangue versato ha lo stesso colore del suo
di Massimo Recalcati (la Repubblica, 24 gennaio 2016)
Il mito di Narciso svela la tendenza, profondamente distruttiva, dell’uomo a restare prigioniero dell’adorazione per il proprio Io. Respingendo l’alterità, Narciso finisce per perdere la propria vita, muore affogando nel tentativo di unificarsi con se stesso. La sua passione non conosce limiti; è accecata, furiosa, insaziabile. Per questa ragione, secondo la psicoanalisi, la violenza umana trova il suo fondamento proprio nel mito di Narciso.
Prendiamo come riferimento la prima grande scena di violenza narrata dalla Bibbia nella Genesi, quella del gesto fratricida di Caino. Anche Caino come Narciso non è in grado di fare esperienza dell’alterità; egli viene sequestrato da sua madre che lo elegge a proprio “Uomo” al posto di Adamo. Si tratta di un sequestro incestuoso sul quale ha dedicato pagine insuperabili il biblista francese André Wenin in Dalla violenza alla speranza (Qiqajon, 2005): Caino appartiene alla madre, non ha vita propria, è catturato dallo specchio dello sguardo materno. Lui e sua madre riproducono la scena in cui Narciso si perde: la confusione dilaga tra i Due perché non c’è presenza simbolica del Terzo, del principio della mediazione simbolica rappresentato dal padre.
Come Edipo, anche Caino si trova perso nelle spirali di una simbiosi mortifera con sua madre. Egli odia l’alterità perché l’alterità rompe il legame incestuoso in cui è sprofondato. È su questo sfondo che si deve iscrivere il suo confronto mortale con Abele.
Per Lacan la violenza non scaturisce solo dalla privazione e dalla frustrazione provocata da una realtà sociale impietosa. Esiste una radice più profonda della violenza che precede, se si può dire così, ogni sua causalità sociologica. Si tratta della fascinazione del soggetto verso il proprio Ideale. La violenza umana non segnala mai - come invece sembra credere Wenin nel suo commento a Caino - una regressione al bestiale, il «prevalere dell’animale sull’essere dell’uomo», ma la dipendenza dell’uomo dal suo narcisismo, dalla sua difficoltà di accogliere veramente l’alterità. Solo in questo modo possiamo intendere la cattura incestuosa di cui resta vittima Caino. La violenza umana sorge da una regressione allo specchio e non all’istintualità animale.
È una tesi che Lacan ha sviluppato attraverso il suo celebre “stadio dello specchio” che racconta il mito della nascita dell’Io. Il bambino che non ha ancora consapevolezza della sua individualità, tra i sei e i diciotto mesi, osserva allo specchio l’immagine ideale di se stesso senza però poterla mai afferrare. Questa immagine gli appare tanto ideale quanto irraggiungibile. Mentre nella realtà egli si vive privo di coordinazione motoria, di parola, di autonomia, lo specchio gli restituisce una rappresentazione monumentale, statuaria, idealizzata di se stesso. L’immagine che lo specchio gli riflette aiuta il bambino a potersi riconoscere come un soggetto, ma solo a prezzo di uno sfasamento: nessun umano potrà mai coincidere con l’immagine ideale di se stesso che lo specchio mentre gli restituisce gli sottrae, in realtà, per sempre. La nostra vita non sarebbe allora altro che la rincorsa vana verso questa coincidenza impossibile da realizzare.
Narciso incarna questo dramma al suo colmo. E Caino? Perché non possiamo capire l’hybris che ispira il suo gesto atroce senza evocare lo spettro di Narciso? Caino vede in Abele l’immagine ideale di sé che egli vorrebbe essere ma non è. Abele è, al tempo stesso, un oggetto ideale e un rivale. Caino invidia Abele in quanto prediletto da Dio. Come Narciso egli non sopporta di non essere l’immagine che lo specchio gli ha sottratto. Ecco allora che colpisce Abele con la ferocia criminale che solo gli uomini, diversamente dagli animali, sanno mostrare. Tuttavia, colpendo il fratello - come gli ricorda il suo Dio - non fa altro che colpire se stesso. Abele, infatti, mostra a Caino tutta la sua insopportabile incompiutezza. Per questa ragione non solo esistono miti fratricidi all’origine delle grandi Civiltà (si pensi a quello di Romolo e Remo per l’antica Roma), ma si ricerca sempre in ogni dittatore e in ogni persecutore incallito la continuità inconscia che lo lega all’oggetto indistruttibile del suo odio.
Il gesto di Caino si può intendere solo attraverso la chiave di Narciso. La psicoanalisi definisce “proiezione” un processo psichico di difesa che consiste nel localizzare nello straniero e nel diverso quelle parti più oscure di noi stessi che non riusciamo ad integrare nella nostra personalitàdiurna. È l’ambivalenza radicale e inquietante che ci lega a doppio filo ai nostri nemici: lo xenofobo, il fascista, l’intollerante è il più prossimo a noi stessi, abita in noi stessi prima di incarnarsi nell’altro.
Abele è l’intruso, il secondogenito, colui che è arrivato dopo, il figlio ”aggiunto” che ha scombussolato l’identità incestuosa di Caino. La sua vita non è stata accolta con l’entusiasmo con il quale è stata accolta quella del fratello, ma la sua esistenza impedisce che Caino sia il primo e unico figlio. Il secondogenito - che nella Bibbia è sempre premiato rispetto al primo - impone a Caino, l’incestuoso, l’esperienza dell’alterità.
La follia di Narciso divenuta trappola del nostro tempo
L’epoca in cui viviamo ha esaltato la figura raccontata da Ovidio come emblema di un soggetto che basta a se stesso e che vorrebbe annullare la dipendenza dall’Altro.
L’Io è diventato il nuovo idolo pagano altrettanto superstizioso di quelli che la ragione critica dell’illuminismo è riuscito a smascherare
Lacan lo diceva a suo modo: il problema non è più quello di distinguere la preda dall’ombra, ma di essere tutti noi prede della nostra stessa ombra
di Massimo Recalcati (la Repubblica, 17.01.2016)
Caravaggio, seguendo il mito raccontato da Ovidio, ci presenta il giovane Narciso affacciato sulle acque che gli restituiscono - in una perfetta simmetria avvolta dal buio - la sua immagine adorata. La bellezza di Narciso contiene, si capisce, una trappola mortale: la fascinazione per se stessi può essere fatale. È quello che accade anche nel mito: nel tentativo di afferrare la propria immagine riflessa il giovane Narciso sprofonda nell’abisso delle acque perdendo la propria vita.
Freud aveva coniato da questo mito una figura fondamentale della clinica psicoanalitica: il narcisista è colui che perde la propria vita restando alienato nell’infatuazione esaltata ma sterile per la propria immagine. Nel mito di Ovidio Narciso è, infatti, colui che suscita ammirazione e amore, ma che non può, a sua volta, né provare, né ricambiare in nessuna forma.
L’anestesia affettiva è un tratto anche clinico della personalità narcisistica che segnala la sua impossibilità di entrare in una forma di legame con l’altro in quanto tutta la sua libido appare sequestrata dal proprio Io. Non a caso per Freud l’Io è il primo oggetto di investimento libidico, il suo “serbatoio” originario. Il che significa che l’essere umano non nasce predisposto all’altruismo, ma, casomai, al culto di se stesso. Il narcisismo definisce la tendenza egocentrica dell’uomo che contrasta radicalmente con la tesi aristotelica dell’uomo come animale sociale: il nostro Io è il primo grande e insidioso idolo alla cui potenza immaginaria la nostra vita si consacra.
L’illusione narcisistica vorrebbe cancellare il tabù della dipendenza dell’uomo dall’Altro. Il suo fantasma è partenogenetico, esclude ogni fecondazione dell’Altro. Il suo disegno è quello dell’auto-costituzione, dell’auto-fondazione, dell’auto-realizzazione. Mai nessun tempo come il nostro ha esaltato a dismisura la figura di Narciso come emblema di un soggetto che basta a se stesso, indipendente, autonomo.
È una patologia non solo individuale. Narciso può, come nel mito di Ovidio, innamorarsi solo di ciò che gli assomiglia, solo della propria immagine ideale; egli non conosce l’alterità, non conosce l’amore come esposizione assoluta verso il dissimile. Il fantasma di autoconsistenza che governa la vita di Narciso ispira da capo a piedi il mito neo-liberale del “farsi un nome da sé”. Esso domina le nostre vite come una vera e propria forma pagana di idolatria. L’ideale seduttivo dell’auto-generazione vorrebbe negare ogni debito, ogni provenienza dall’Altro nutrendo la credenza folle dell’Io che basta a se stesso.
Tuttavia, il mito di Narciso non si limita a mostrare la potenza seduttiva dell’illusione di farsi un nome da sé, ma ne evidenzia anche il rischio mortale. Narciso vorrebbe cancellare la distanza che lo separa da se stesso, reintegrare il suo doppio che vede riflesso, negare quella divisione che attraversa tutti noi impedendoci di credere troppo al nostro Io. Nessuno di noi, infatti - salvo i grandi paranoici - può pensare di coincidere perfettamente con l’Io che crede di essere. Nel tentativo di realizzare questa coincidenza, Narciso perde la sua vita. Per questa ragione Lacan ha messo in evidenza il carattere profondamente suicidario del narcisismo umano: idolatrando la propria immagine, perseguendo il sogno onnipotente di cancellare l’alterità, il sogno di Narciso naufraga nell’abisso oscuro delle acque.
Credere di essere un Io è, infatti, la malattia umana per eccellenza, la follia più grande, la forma più subdola e pericolosa di idolatria. Se la modernità ha segnato il tempo della giusta emancipazione dell’Io dagli oscurantismi irrazionali della superstizione, se la voce di Kant ha definito la stagione dei lumi come l’uscita necessaria dell’uomo dal suo stato di minorità, l’epoca ipermoderna, quella in cui viviamo, non ha forse trasformato l’Io stesso in un nuovo idolo pagano, altrettanto superstizioso di quelli che la ragione critica dell’illuminismo ha smascherato nella loro impostura?
Bisognerebbe forse rileggere in questa luce un testo di immutata attualità com’è la Dialettica dell’illuminismo di Adorno e Horkheimer per cogliere sino in fondo la portata di questo ribaltamento epocale: l’Io si emancipa dalle ombre della superstizione religiosa per trasformarsi esso stesso in un’ombra altrettanto inquietante. Lacan lo diceva a suo modo: il problema non è più quello di distinguere la preda dall’ombra, di emanciparsi dall’ombra, ma di essere tutti noi prede della nostra stessa ombra.
Narciso è l’ombra spessa di cui l’uomo ipermoderno è preda. La sua passione furiosa, la sua superbia capricciosa, vorrebbe annullare lo scarto che lo separa da se stesso negando ogni forma di dipendenza dall’Altro. Questa è la sua follia mortale che il nostro tempo ha elevato ad una sorta di nuovo comandamento sociale. Senza dimenticare però che le forme forse più nocive del narcisismo sono quelle passive, della falsa umiltà, del rigetto dell’ambizione, della vita schiva, ma avvelenata.
Si tratta, in realtà, solo del retro di una stessa medaglia: lo sguardo torvo del risentito - scolpito magistralmente da Nietzsche ne La genealogia della morale - odia la vita capace di realizzarsi invocando l’umiltà e il nascondimento solo come segni grigi della sua impotenza rabbiosa. In essa dimora più che mai lo spettro narcisistico che anima, al suo fondo, ogni forma di invidia umana.
Il protagonista della tragedia di Sofocle è diventato la figura emblematica dell’uomo vittima del suo destino
Condannato senza colpa a infrangere i due divieti fondativi: non uccidere tuo padre, non giacere con tua madre
Ma secondo Lacan più che l’incesto il re di Tebe incarna l’eccessivo desiderio di verità che è in noi
Siamo tutti Edipo l’eroe maledetto della conoscenza
di Massimo Recalcati (la Repubblica, 10.01.2016)
Per definire la vita umana Lacan ha più volte evocato la leggenda antica dello schiavo-messaggero che portava iscritto sulla propria nuca rasata il messaggio che avrebbe dovuto recapitare senza poterlo leggere. Tutti noi portiamo sulle nostre nuche le sentenze, le maledizioni, gli auspici, le speranze, i desideri, le gioie delle nostre madri e dei nostri padri senza mai poterle leggere direttamente. Ciascuno porta scritto sulla propria nuca il destino che l’Altro ci ha assegnato senza poterlo decifrare. La nostra vita è allora solo l’esito di una necessità inesorabile? Ecco arrivare la sagoma inquietante di Edipo, il figlio innocente che il destino ha voluto colpevole. L’oracolo consultato al momento della sua nascita legge la sua nuca: infrangerà i tabù più grandi, i tabù dei tabù: ucciderà suo padre e si unirà sessualmente con sua madre. È questo il suo dramma: la fine della sua vita coincide con il suo inizio senza alcuna possibilità di movimento.
Conosciamo la sua storia che per Freud è la nostra storia: l’oracolo sentenzia al padre Laio il destino disgraziato di suo figlio Edipo. Per evitare che la profezia si compia, il re consegna il figlio a un pastore con la raccomandazione spietata di ucciderlo. Abbandono e infanticidio sono alle radici del dramma del figlio Edipo. Nel racconto di Sofocle il primo ad infrangere la Legge non è il figlio ma il padre: Laio vuole fare uccidere il figlio perché altrimenti ne sarebbe ucciso. Figlicidio e parricidio si corrispondono drammaticamente come due facce della stessa medaglia. Tutto, proprio tutto, è già scritto per Edipo, sin dall’inizio. Il pastore mosso a pietà affida il bimbo a un altro pastore che a sua volta lo affida a una coppia regale della città di Corinto che non poteva avere figli. Edipo scopre il suo destino consultando il Dio Apollo e proprio per evitare che si compia decide di allontanarsi dalla sua città. Lungo la strada incontra però, senza riconoscerlo, il proprio padre e lo uccide in uno scontro mortale. In seguito risolverà l’enigma della Sfinge e diventerà il re di Tebe, sposo della sposa di Laio, di sua madre Giocasta. La tragedia di Edipo si condensa nella sua impossibilità a sfuggire al proprio destino: tutto era già scritto e più Edipo rifiuta la scrittura del proprio destino, più resta impigliato.
In un primo tempo Edipo è vittima passiva della sentenza dell’Altro che porta tatuata sulla sua nuca: è un figlio abbandonato e adottato. In un secondo tempo della sua vita diviene un eroe, un salvatore; libera Tebe risolvendo il mistero della Sfinge. Sembra aver modificato il suo destino: diventa un re che assicura prosperità al suo popolo e alla sua famiglia. Ma l’ombra tetra dell’epidemia cade sulla sua città a causa di una colpa oscura. Edipo vuole sapere la causa del flagello. Attiva con decisione un’inchiesta per scoprire il colpevole ma anche in questo caso volendo sfuggire al proprio destino lo incontra inesorabilmente. La sua inchiesta trascura di indagare se stesso; è tutta rivolta verso l’esterno. È il contrario di Socrate; se questi sa di non sapere, Edipo non sa di sapere. La sua determinatezza lo allontana, paradossalmente, dalla verità. Il nucleo della tragedia, scrive Ricoeur, «non è il problema del sesso, ma quello della luce». Mentre Edipo pensa di vedere, è cieco; è Tiresia, il veggente cieco, che invece può vedere rivelandogli la verità più scabrosa: «Sei tu l’impuro che infetta questa terra... tu cerchi l’assassino di Laio. L’assassino sei tu: questo ti dico... viene da te il tuo Male...».
Edipo preferisce la verità al suo bene e a quello di chi gli sta vicino e lo ama («tutto questo bene mi ha seccato!»). Edipo non patteggia, non media, non ascolta i consigli di Tiresia e di Giocasta, non è attaccato alla propria identità, alla sicurezza delle sue proprietà. La verità, per lui, conta di più di ogni altra cosa. La sua volontà di sapere assume la forma di una hybris radicale che sfida ogni tabù. E questa verità, alla fine, sarà accecante, violenta, traumatica. L’accecamento a cui si sottopone dopo la rivelazione di Tiresia denuncia la sua colpa irrimediabile: «Luce di questo giorno, tu devi essere l’ultima mia luce. Ecco chi sono: nato da chi non mi doveva generare. Vissuto accanto a chi non mi doveva vivere accanto. Chi non dovevo uccidere, io l’ho ucciso».
Edipo non ha il dono della visione immediata della verità propria dell’oracolo. Egli è solo un uomo. La sua ricerca della verità - come quella di tutti gli uomini - è un cammino necessariamente lento e faticoso. Egli paga la colpa del suo desiderio di sapere che non si frena di fronte a nessun limite. Se Edipo non avesse voluto sapere la verità della sua origine sarebbe rimasto padre, Re e marito. Egli non accetta la rimozione, la maschera, non si accontenta di quello che sa; vuole interrompere l’omertà borghese dell’Io, vuole andare sino in fondo.
È la forza tragica di questa figura maledetta. Edipo esce dall’oscurità del non-sapere potendo finalmente vedere quello che ha compiuto. La sua identità di Re, padre e liberatore si ribalta in quella di figlio parricida e incestuoso, destinato a vivere da reietto. È il punto su cui ha insistito, dopo Freud, Lacan: la tragedia del parricidio e dell’incesto è, in realtà, una tragedia della verità. Possiamo chiederci, con Edipo, quanta verità può sopportare un uomo? Nel suo caso la rivelazione della verità coincide con la realizzazione del suo destino; la sua innocenza diventa la sua colpa; la verità non è soltanto luce che libera la visione, ma può essere anche talmente insopportabile da rendere impossibile ogni visione.
FILOSOFIA E PSICOANALISI: A GLORIA ETERNA DI FREUD. Con l’aiuto di Edipo, ha gettato una grande luce su Mosè e con l’aiuto di Mosè ha gettato una grande luce su Edipo. Con questo doppio movimento, egli ha liberato il cielo - e la terra....
LACAN. In una intervista rilasciata a Rinascita nel maggio del 1977 a chi gli chiedeva un parere sull’Anti-Edipo rispose che «L’Edipo costituisce di per se stesso un tale problema per me che non penso che ciò che Deleuze e Guattari hanno voluto intitolare l’Anti-Edipo possa avere il minimo interesse».
La società orizzontale
di Massimo Recalcati (la Repubblica, 25 novembre 2012)
Nel nostro tempo spira un vento forte in direzione contraria alla funzione sociale delle istituzioni. Gli esempi sono molteplici e investono anche la nostra vita collettiva: dalla famiglia alla Scuola, dai partiti ai sindacati, dall’editoria alla vita affettiva, assistiamo ad una caduta tendenziale della mediazione e della sua funzione simbolica.
Di fronte ad una bocciatura i genitori tendono ad allearsi con i loro figli più che con gli insegnanti; possono cambiare scuola o impugnare la loro causa rivolgendosi ai giudici del Tar; il ruolo educativo da parte di un adulto suscita spesso il sospetto di un abuso di potere; la Rete offre la possibilità a chi ritiene di essere uno scrittore di farsi il proprio libro online senza passare dal giudizio degli editori; la figura del critico, che faceva da ponte tra opera e pubblico, è oramai azzerata; le amicizie non passano più dalla mediazione indispensabile dell’incontro dei volti e dei corpi, ma si coltivano in modo immateriale sui social networks;di fronte alla dimensione necessariamente snervante del conflitto politico si preferisce l’opzione della violenza o dell’insulto.
Anche i sintomi che affliggono la vita delle persone hanno cambiato di segno; mentre qualche decennio fa apparivano centrati sulle pene d’amore, sull’importanza irrinunciabile del legame sociale, oggi non è più la rottura del legame a fare soffrire, ma è l’esistenza del legame che viene avvertita come fonte di disagio.
Un disagio diffuso soprattutto tra i ragazzi. Milioni di giovani vivono, nel mondo cosiddetto civilizzato, come prigionieri volontari. Hanno interrotto ogni legame con il mondo, si sono ritirati nelle loro camere, hanno abbandonato scuola e lavoro. Questa moltitudine anonima preferisce il ritiro, il ripiegamento su di sé, alla difficoltà della traduzione imposta dalla legge della parola.
È un segno dei nostri tempi. Il Terzo appare sempre più come un intruso. Eppure non c’è vita umana che non si costituisca attraverso la mediazione simbolica dell’Altro. Il pianto angosciato di un bambino nella notte ci chiama alla risposta, alla presenza, ci convoca nella nostra responsabilità di accogliere la sua vita. Il mito del farsi da se stessi, dell’autogenerazione, come quello del farsi giustizia da sé, è un mito che il liberismo contemporaneo ha assunto come un suo stemma.
In realtà nessuno è padrone delle sue origini, come nessuno può essere salvatore del mondo. Non esiste comunità umana senza mediazione istituzionale, senza mediazione simbolica, senza il lavoro paziente della traduzione della lingua dell’Altro.
Divento ciò che sono solo passando dalla mediazione dell’Altro (famiglia, istituzioni, società, cultura, lavoro, ecc.) e non solo attraverso le esperienze personali che ho fatto. Nel nostro tempo questa mediazione necessaria alla vita è in crisi.
Nel nome di una società orizzontale che esalta i diritti degli individui senza dare il giusto peso alle loro responsabilità evapora la dimensione della mediazione simbolica: fare gli interessi della collettività è percepito come un abuso di potere contro la libertà dell’individuo.
Questo declino della mediazione simbolica non significa solo che il nostro tempo ha smarrito la funzione orientativa dei grandi ideali della modernità e scorre privo di bussole certe al di fuori dei binari solidi che le grandi narrazioni ideologiche del mondo (cattolicesimo, socialismo, comunismo, ecc) e le sue istituzioni disciplinari (Stato, Chiesa, Esercito) assicuravano, ma manifesta una sorta di mutazione antropologica della vita.
L’individualismo si afferma nella sua versione più cinica e narcisistica investendo la dimensione della mediazione simbolica di un sospetto radicale: tutte le istituzioni che dovrebbero garantire la vita della comunità non servono a niente, sono, nella migliore delle ipotesi, zavorre, pesi arcaici che frenano la volontà di potenza dell’individuo o, nella peggiore delle ipotesi, luoghi di sperpero e di corruzione osceni. Ma come? Non è compito delle istituzioni, come dichiarava Lacan, porre un freno al godimento individuale rendendo possibile il patto sociale, la vita in comune?
La violenza di questa crisi economica ha prodotto giusta indignazione e sfiducia verso tutto ciò che agisce in nome della vita pubblica, verso tutto ciò che sfugge al controllo diretto del cittadino. Le istituzioni non l’hanno saputa avvertire, frenare, governare.
Il caso della politica si impone come esemplare. Il luogo che secondoAristotele deve riuscire a determinare l’integrazione pubblica delle differenze individuali sotto il segno del bene dellapolis- il luogo più eminente della traduzione simbolica - si è rivelato corrotto dalla affermazione più scriteriata degli interessi individuali.
Il politico liberato dal peso dell’ideologia si è ridotto a un furfante che ruba per se stesso. Eppure non si può rinunciare così facilmente alla politica, l’arte della mediazione.Perché i rischi sono evidenti, li abbiamo visti in questi anni, tra leadership carismatiche e fondazioni mitiche. Li vediamo oggi quando avanza un nuovo populismo che si appoggia sulla democrazia tecnologica garantita dalla Rete per evitare la “truffa” della mediazione politica.
Ma il populismo non è forse una forma radicale di pensiero anti-istituzionale che rigetta la mediazione simbolica affermando l’illusione di una democrazia diretta puramente demagogica?In questo senso il liberale conservatore Lacan replicava alle critiche degli studenti del ’68 che gli rimproveravano di non autorizzare la rivolta contro le istituzioni che non esiste alcun “fuori” dalla mediazione imposta dal linguaggio. Il destino degli esseri parlanti è infatti quello della traduzione.
Lacan disillude l’impeto rivoluzionario degli studenti: non esiste possibilità che una rivolta animata dalla rottura con il campo istituzionale del linguaggio non ricada nella stessa violenza dalla quale avrebbe voluto liberarsi. La rivoluzione porta sempre con sé un nuovo padrone.
L’invocazione di una democrazia diretta che reagisca in modo anti-istituzionale alla debolezza e alla degenerazione insopportabile delle istituzioni rischia di spalancare il baratro di un populismo che finisce per gettare via insieme all’acqua sporca anche il bambino.
Il grillismo sbandiera una forma di partecipazione diretta del cittadino che rifiuta, giudicandola un ferro vecchio della democrazia, la funzione sociale dei partiti. Ma è un film che abbiamo già visto. È una legge storica e psichica, collettiva e individuale insieme: chi si pone al di fuori del sistema del confronto politico e della mediazione simbolica che la democrazia impone,finisce per rigenerare il mostro che giustamente combatte.
Non è solo un insegnamento della storia ma anche, più modestamente, della pratica della psicoanalisi. La rabbia verso i padri, il puro rifiuto di tutto ciò che si è ricevuto, il disprezzo dell’eredità, rischia sempre di generare una protesta sterile, che impedisce di discriminare l’oro dal fango, che fa di tutta l’erba un fascio, e,dulcis in fundo,che mantiene legati per sempre al padre di cui ci si voleva liberare, rieditandone il volto mostruoso e autoritario.
Leggendo il filosofo tedesco e Platone si capisce meglio
La società dei minorenni
— Ne bamboccioni né “choosy”
I giovani d’oggi ce li spiega Kant
di Umberto Curi (Corriere La Lettura, 02.12.2012)
Il copyright è saldamente nelle mani di Tommaso Padoa-Schioppa. Nell’ottobre del 2007, l’allora titolare del ministero dell’Economia nel secondo governo Prodi aveva infatti definito «bamboccioni» quei giovani che, sulla soglia dei trent’anni, continuavano a vivere in casa con i genitori. Benché duramente contestata, quella espressione era destinata ad aprire la strada a un vero florilegio di definizioni, analoghe nel contenuto, anche se differenti nella forma.
Nel giro di pochi anni, malgrado l’avvicendarsi dei governi, i giovani sarebbero stati chiamati «mammoni» (Brunetta, ministro del governo Berlusconi), «sfigati» (Martone, viceministro del governo Monti), «monotoni» (Monti, presidente del Consiglio), «choosy», più o meno: schizzinosi (Fornero, ministro del governo Monti), solo perché non avevano ancora conseguito la laurea, o perché aspiravano a un posto fisso, in un mercato del lavoro in cui la flessibilità è in realtà un eufemismo per indicare la precarietà.
Non si può dire che le polemiche divampate dopo queste esternazioni siano state un modello di eleganza o di rigore concettuale. Eppure, al fondo di un dibattito culturalmente desolante vi sarebbe in realtà una questione tutt’altro che banale o trascurabile. La si potrebbe riassumere nei termini seguenti: come si diventa maggiorenni? Assodata l’insufficienza del criterio puramente anagrafico, in base al quale la maggiore età coinciderebbe con il raggiungimento dei 18 anni, a quali parametri razionalmente definibili ci si può riferire per valutare la fuoriuscita dalla minorità? E poi: davvero basta abitare da soli, o essere disponibili a cambiare lavoro, per allontanare da sé l’infamante epiteto di choosy?
Una risposta appena un po’ meno occasionale a questi interrogativi può essere rintracciata in due testi filosofici, la cui importanza - anche per la comprensione di alcuni temi legati alla diatriba di cui parliamo - è abitualmente ignorata, o almeno non adeguatamente valorizzata. Da una secca definizione della minorità prende le mosse anzitutto un saggio di Immanuel Kant, tanto rilevante quanto per lo più negletto, anche perché offuscato dalla risonanza suscitata dalle tre Critiche. Essa non dipende affatto, secondo il filosofo, dall’età, ma consiste piuttosto in una carenza decisiva, quale è «l’incapacità di servirsi della propria intelligenza senza la guida di un altro».
È opportuno sottolineare che lo scritto kantiano compare originariamente non in una rivista filosofica specializzata, ma in quello che si potrebbe definire un periodico di «varia umanità», quale era la «Berlinische Monatsschrift», in risposta a un interrogativo proposto nel fascicolo precedente da un religioso, il quale chiedeva che qualcuno si prendesse la briga di spiegare «che cos’è l’Aufklärung».
Conservare, almeno provvisoriamente, il termine tedesco non è una inutile civetteria, ma corrisponde all’esigenza di evitare i fraintendimenti ai quali ha dato luogo la traduzione italiana corrente, e gravemente negligente. Mentre, infatti, nel testo originale Aufklärung indica insieme quel movimento culturale che è stato chiamato «Illuminismo» e il «rischiaramento», inteso come processo mediante il quale è possibile «fare chiarezza», la traduzione italiana appiattisce l’ambivalenza del termine tedesco, rendendolo univocamente con «Illuminismo».
Mentre è del tutto evidente che l’iniziativa assunta da Kant con la sua Risposta, pubblicata nel gennaio del 1784, non è motivata dalla volontà (che sarebbe poco comprensibile) di offrire una definizione tecnica di un movimento filosofico, quanto piuttosto dalla ben più significativa esigenza di spiegare in che modo si possa realizzare il «rischiaramento» intellettuale.
Ne è prova il testo del saggio, scritto in maniera limpida e particolarmente incisiva, senza alcuna concessione a «tecnicalità» filosofiche, presumibilmente inadatte al pubblico eterogeneo a cui si rivolgeva la rivista. Aufklärung - scrive Kant - è uscire dallo stato di minorità, è avere il coraggio di servirsi della propria intelligenza, senza soggiacere alla guida di altri. Più esattamente, essa si identifica con una decisione - quella di diventare Selbstdenker, vale a dire letteralmente «uno che pensa con la propria testa». Né questo monito deve apparire scontato o pleonastico.
Al contrario, secondo il filosofo, «la stragrande maggioranza degli uomini ritiene il passaggio allo stato di maggiorità, oltre che difficile, anche pericoloso», e dunque preferisce sottrarsi a quella «fastidiosa occupazione» che richiede l’uso libero delle proprie capacità intellettuali. «È così comodo - sottolinea ancora l’autore delle Critiche - essere minorenni! Se ho un libro che pensa per me, un direttore spirituale che ha coscienza per me, un medico che valuta la dieta per me eccetera, non ho certo bisogno di sforzarmi da me».
Di qui una conclusione linearmente deducibile dalle premesse poste: se si vuole diventare maggiorenni, è necessario sottrarsi alla custodia di quei tutori che costantemente invitano a non ragionare («L’ufficiale dice: non ragionate, fate esercitazioni militari! L’intendente di finanza: non ragionate, pagate! L’ecclesiastico: non ragionate, credete!»), usando invece sistematicamente la propria intelligenza, senza soggiacere alla presunta autorità altrui. Insomma, minorenni - o se si preferisce «bamboccioni» - si può essere a qualunque età. Lo è anzi chiunque fra noi eviti di pensare con la propria testa, delegando di conseguenza ad altri questa «fastidiosa occupazione».
Un ragionamento convergente con quello contenuto nel saggio kantiano si ritrova già in uno dei Dialoghi platonici più noti, anche se spesso misinterpretato. Al centro del Sofista, infatti, vi è la ricerca, condotta da due personaggi presumibilmente «giovani» (tale è se non altro con certezza Teeteto, mentre il suo interlocutore, presentato come lo Straniero, proveniente da Elea, è giovane se non altro nel senso della sua condizione di discepolo rispetto al «grande» Parmenide), impegnati a fornire una definizione della figura del sofista.
L’indagine a due voci prosegue a ritmo serrato, e con esiti apparentemente soddisfacenti, fino a che i protagonisti si imbattono in una difficoltà che minaccia di compromettere radicalmente l’impresa nella quale si stanno cimentando.
Per poter sostenere la conclusione alla quale sono pervenuti, e cioè che il sofista è colui che esercita l’arte di far apparire ciò che non è, essi dovrebbero implicitamente riconoscere che anche il non essere, da un certo punto di vista è, mentre l’essere, sia pure da un certo punto di vista, non è. Ma questa affermazione contraddice frontalmente un divieto, quello proveniente dal «padre» Parmenide, secondo il quale il non essere è «inesprimibile», «impronunciabile», «illogico».
La situazione nella quale si vengono a trovare Teeteto e lo Straniero appare dunque inchiodata a un’alternativa drammatica: piegarsi all’osservanza della proibizione parmenidea, con ciò tuttavia privandosi del logos, e dunque perdendo la possibilità di dire alcunché, ovvero avere il coraggio di epitíthesthai tó patrikó lógo - «dare l’attacco al discorso paterno».
L’impiego di una metafora bellica non è casuale nel contesto di un dialogo in cui ritornano insistentemente termini desunti dal lessico polemologico. Serve a sottolineare quanto delicata sia la scelta che si è chiamati a compiere, quanto sia letteralmente vitale - «questione di vita o di morte», si legge nel testo platonico - la posta in gioco.
È noto il compimento di questo percorso. Onde riprendere la possibilità di parlare e di pensare, i due interlocutori saranno indotti a «torturare» il padre e a «usare violenza» su di lui, giungendo al punto da sfiorare il parricidio.
Per quanto temerario possa apparire questo esito, esso resta l’unica possibile via da percorrere, l’unico modo per riguadagnare il cammino, uscendo dalla mancanza di strada, dall’a-poria, dunque, in cui ci si era imbattuti. Mentre, infatti, Parmenide vorrebbe «trattarci da bambini», «raccontandoci delle favole» e «dialogando con noi con atteggiamento di sufficienza», è imperativo per noi riprenderci il logos, e assoggettare a un vaglio rigoroso le affermazioni «paterne».
Dopo questa autentica svolta, improntata alla rinuncia a ogni filiale subordinazione, la ricerca che si era incagliata può riprendere, giungendo speditamente alla sua conclusione. Teeteto e lo Straniero sono diventati maggiorenni. Non subiranno più i divieti del padre «venerando e terribile». Non accetteranno di farsi trattare da bambini, né si accontenteranno di ascoltare delle favole.
Il compimento dell’intenso drama descritto da Platone ci riporta alla Risposta kantiana. Essere maggiorenni non è un dato di carattere anagrafico, né una condizione statica, nella quale si possa dire di risiedere stabilmente. È una conquista, che impegna energie morali, come il coraggio e la decisione, e risorse intellettuali. Ed è la meta, mai definitivamente raggiunta, di una lotta anzitutto con se stessi, con la viltà di chi preferisca affidarsi alla tutela altrui.
E forse allora si può comprendere fino in fondo il senso dell’affermazione kantiana quando rileva, con un realismo spinto fino al disincanto, che minorenne è ancora la stragrande maggioranza degli uomini. Insomma, per quanto possa apparire paradossale, i giovani che al giorno d’oggi stanno lottando per guadagnarsi la loro autonomia sono meno bamboccioni di coloro che ripetono acriticamente le formule imposte da altri.
Teeteto e lo Straniero sono diventati maggiorenni. Non subiranno più i divieti del padre "venerando e terribile". Non accetteranno di farsi trattare da bambini, né si accontenteranno di ascoltare delle favole.
di Corrado Ocone (Corriere della Sera La Lettura, 02.12.2012)
Non c’è dubbio che il dibattito pubblico italiano degli ultimi tempi sia come attraversato da una retorica giovanilista, spesso fatta propria da quelle persone anziane e ben collocate che a tutto pensano fuorché a farsi da parte. È una retorica che riproduce, col segno cambiato, il modo di ragionare di certe stucchevoli apologie della vecchiaia come età della saggezza, di cui parla Bobbio nel suo De Senectute.
Il filosofo torinese, a ben vedere, ci dà anche la chiave per ragionare sulla dicotomia giovani-vecchi, invitandoci a considerare la questione almeno sotto tre aspetti: l’età anagrafica, quella biologica e quella psicologica o soggettiva. Non dimenticando che oggi essere o sembrare giovani è diventato quasi un obbligo, sicuramente una moda, e comunque una tendenza che l’industria dei consumi asseconda promuovendo diete, lifting, modi di vivere che ci facciano sembrare sempre giovani.
Però l’aspetto più rilevante della questione è che, nel giovanilismo diffuso e praticato, si sia come persa l’importante funzione di elaborazione e trasmissione del sapere che un tempo regolava il rapporto fra le generazioni. E che quasi accompagnava per mano i giovani nel crescere. Una funzione che si esplicava in istituzioni appositamente create per adempiere a questo scopo. Le quali oggi, anche se continuano ad esistere formalmente, si sono di fatto, tranne pochissime eccezioni, svuotate dell’aura che la funzione esercitata finiva per conferire loro.
Era inimmaginabile ad esempio che chi facesse politica non si fosse formato nelle scuole di partito, o lavorando a fianco di un politico navigato. Le carriere nella pubblica amministrazione, ma anche nel privato, seguivano percorsi ben definiti, che potevano certamente essere accelerati da coloro che erano dotati di un particolare ingegno, ma che comunque non potevano essere ignorati come accade oggi nelle assunzioni per «chiamata diretta».
Per non parlare dell’Università, ove era sempre il docente che cooptava, ma allora lo faceva avendo cura di scegliere i più bravi: sia perché teneva al prestigio derivante dall’autorevolezza morale, sia per continuare la tradizione di pensiero con cui si identificava e a cui spesso aveva dedicato la sua vita di studioso. Il Maestro, come veniva chiamato (nessuno avrebbe osato chiamarlo barone), non aveva certo bisogno, per individuare i continuatori del suo impegno, degli astratti metodi quantitativi oggi in voga, fatti apposta, sembrerebbe, per avvalorare nuovi imbrogli. Persino le parrocchie e le scuole religiose svolgevano una funzione di «educazione alla vita».
Ora, con tutto questo non si vuole certo esaltare il buon tempo antico, che aveva anch’esso i suoi limiti e i suoi difetti. Anche perché di acqua ne è passata tanta sotto i ponti e non si può pensare di fermare il mondo, il che, oltre che stupido, sarebbe anche ingiusto: oggi già un adolescente si trova immerso in una rete di dati ed è sottoposto all’azione di una quantità di «agenzie formative» (diciamo così con un eufemismo).
Quel che si vuole constatare è semplicemente un fatto, che tocca a noi capire e regolare, o (se lo riteniamo) contrastare: il problema del rapporto fra giovani e vecchi riguarda anche la generale scomparsa del «terzo», nella fattispecie dei luoghi di mediazione e di formazione in cui giovani e meno giovani, interagendo, potevano reciprocamente arricchirsi e completarsi, perché anche chi non è più giovane ha bisogno di rinfrescare il suo sapere, di sottoporlo alle naturali e irriverenti forze vitali che rompono le incrostazioni o le abitudini consolidate.
Scomparsa del «terzo» è anche il rinchiudersi delle generazioni in loro stesse: i leader non vogliono mollare il potere perché non danno per garantito che i nuovi continuino la loro opera; i giovani vogliono semplicemente quel potere, dimentichi che il vero nuovo deve porsi in rapporto dialettico con il vecchio, «superandolo» e non semplicemente «rottamandolo». «Il Partito democratico invece di rinnovarsi si limita a cambiare di nome, laddove i nomi dei suoi dirigenti restano invariabilmente gli stessi», osserva Antonio Funiciello nel libro A vita (Donzelli).
Ma il discorso non riguarda solo la politica. Può una società funzionare a lungo con il «principio del terzo escluso»? Il rapporto fra le generazioni, senza un luogo di mediazione, non rischia di porsi su un terreno aspramente conflittuale? E a chi giova un antagonismo fra vecchi e giovani non sulle idee, come in passato, ma solo sulle posizioni di potere da occupare? Più in generale: è possibile sottrarre il rapporto fra generazioni a una logica dicotomica che trascura il carattere chiaroscurale del mondo? Introdurre qualche elemento di consapevolezza è già un primo tentativo di risposta a queste domande.
E se desiderassimo ciò che abbiamo?
Dalla smania di potere alla nostalgia: in questa epoca senza desideri l’analista Massimo Recalcati passa in rassegna le sue molteplici forme
di Bruno Gravagnuolo (l’Unità, 03.04.2012)
Fino a qualche decennio fa, a sinistra e non solo, ci si chiedeva: ma nella vita sociale conta più la struttura economica o l’ideologia, la «sovrastruttura»? Ne nascevano in replica varie miscele di fattori economici e culturali, primati dell’economico sulle idee e viceversa. Di combinazioni e retroazioni tra cause ed effetti. Una querelle lunga, da Marx ed Engels, a Weber, a Croce, alla sociologia post-weberiana fino ad oggi. Pochi in questa disputa, a parte Gramsci col simbolismo «attrattivo» dell’ «egemonia», si sono posti un’altra domanda, in apparenza bizzara: ma quanto conta invece il «desiderio»?
Già il «desiderio», una forza che è al centro della psicoanalisi freudiana e di quella post-freudiana di da Jacques Lacan, eretico della psicoanalisi francese, morto nel 1980. Oggi un allievo ideale di Lacan, docente a Pavia e tra i più noti analisti lacaniani in Italia, Massimo Recalcati, rilancia la questione assieme a quella del potere: delle forme di dominio, del destino del «soggetto» in tutta la gamma delle relazioni inter-soggettive nelle moderne società capitalistiche. Recalcati, bravo a scendere in prosa dalle rarefazioni linguistiche del Maestro francese, s’era già occupato per Cortina editore de l’Uomo senza inconscio e di Cosa resta del padre. Mostrando abilità nell’infilzare fenomeni sociali fludi, come l’anestesia delle emozioni profonde, o la cancellazione dell’Autorità paterna (a vantaggio di confusività e nichilismo).
DA DON GIOVANNI A ANTIGONE
Stavolta va al punto chiave: il desiderio appunto. Con un saggio fatto di ritratti e figure emblematiche: Ritratti del desiderio. Ecco alcune delle figure: invidia, angoscia, desiderio sessuale, Don Giovanni, Antigone, desiderio di niente, desiderio di godere, desiderio dell’Altrove, desiderio del desiderio, desiderio dell’Analista. In ultimo un breve ritratto di Jacques Lacan, utile a capire l’uso che Recalcati fa del «suo» Lacan.
Ma torniamo al «desiderio», che Recalcati spiega etimologicamente come allontanamento dalle stelle: de-(sidera)re, contrario di con-siderare, cioè fissare i «sidera». Lo sviamento o perdita della direzione stellare generava «mancanza» e appunto desiderio di ritrovare i sidera. Era un fenomeno noto ai naviganti, o ai soldati di Cesare (i «de-siderantes») che smettevano di guardare in attesa le stelle, per ritrovare gli amici reduci dalla battaglia. Insomma il desiderio è «mancanza», connessa all’umano e alle «umane». Che attende come Eros platonico il suo «riempimento». In un «immaginario» e in un Altrove. In un oggetto del «desiderio» e in una cometa perduta da ritrovare («E andiamo! Con l’indesiderato al posto della cometa», come spiega in poesia Pietro Spataro).
Quell’altrove-oggetto in realtà, scrive Recalcati, è sempre un rapporto inter-soggettivo, una relazione umana. Che si incide nell’anima tramite il linguaggio, con tutte le immagini emotive che racchiude: lacanianamente è il Significante. I «significanti», con il patrimonio simbolico connesso. Ecco allora che anche il Potere, oltre all’amore, si svela come capacità di soddisfare un desiderio: un desiderio di essere riconosciuti dall’altro nella Parola. Protetti, oppure obbediti. È un dato inconscio della natura umana, che prima della psicoanalisi ha ben svelato Hegel, consideratissimo da Alexandre Kojeve (un maestro di Lacan). E cioè: il desiderio è sempre «desiderio del desiderio dell’altro», proprio per venir (riconosciuti) come soggetti. Non è desiderio di «cose». E quando appare come edonismo capitalistico di mercato, virtù dell’accumulazione o appetito acquisitivo, quel desiderio in realtà parla d’altro. Parla di distruttività, masochismo, confusione illusoria tra bisogno animale e desiderio. Tra soggetto e oggetto del desiderio. E perciò parla di nevrosi. Del farsi riconoscere come potente, per cibarsi dell’altro in un godimento assoluto e solitario. In altri termini, per tornare alla politica l’economia è sempre scambio umano, non «tecnica». Dunque rapporto di dominio, oppure di rispecchiamento equilibrato, nel rispetto e nell’accoglienza dell’altro (eguale o più debole), o di contro nella manipolazione e nella divorazione del mio altro. Anche l’economia quindi è una relazione simbolica e di linguaggio, nella quale trapela il «desiderare» che dà forma alla forza e ai rapporti di forza tra gli umani, o all’amore tra persone concrete.
MARX-FREUD
Conclusione: per cambiare l’economia e la politica occorre liberare e capire il «desiderio», che è il vero motore dentro il linguaggio dell’economia. Sicché niente scissione tra economia e ideologia, ma primato dell’economia come «struttura desiderante» del dominio. Detto diversamente: la relazione «servo-padrone» è un incantesimo, dove il primo e l’altro termine «si desiderano» a vantaggio del dominio del secondo. Succede anche nel rapporto violento uomo-donna. E quella relazione stregata va rovesciata. In un desiderio accogliente tra soggetti liberi e distinti. Dove la libertà solidale dell’uno si muta in libertà di ciascun altro. E dove ciascuno può «desiderare il suo desiderio», magari col rischio di fallire, ma senza distruggere o autodistruggersi con «sintomi» e finti oggetti compensativi. Il tutto sarebbe poi per Recalcati il frutto di una cura psicoanalitica riuscita. Magari. Sarebbe un modo per «cambiare il mondo», rilanciando la formula «Marx-Freud», con «l’additivo Lacan».
Se vivere insieme diventa tragedia
Le ossessioni del nostro presente dietro i drammi di Edipo, Aiace, Oreste voluti dal fato
di Nadia Fusini (la Repubblica, 06.06.2011)
Accadono cose che ci commuovono. Ci meravigliano, ci spaventano, ci confondono. Restiamo stupiti, ammutoliti. Poi, come se il significato fosse qualcosa che viene dopo l’emozione, proviamo a ragionare. In altre parole, diventiamo responsabili, e cioè capaci di rispondere di ciò che accade - e ci offende, o ci contraria, o ci rincuora - spassionatamente raffreddando la passione. Addirittura, in un certo senso dimenticando il nostro interesse, anche nel senso puro e semplice di coinvolgimento personale, ideologico. La ragion pura è un sogno inattingibile, ma lo sforzo per raggiungere tal fine resta encomiabile. Un modo magnifico di ragionare per comprendere un fatto accaduto nei nostri giorni s’è manifestato nell’articolo di Barbara Spinelli del 18 maggio scorso, dove rifletteva su quel che è accaduto nella suite dell’albergo Sofitel di Manhattan a una personalità di spicco, un "eroe" moderno, ricorrendo a Dostoevskij. Ecco, mi sono detta un bell’uso della letteratura! - che come tutti sanno è una forma di conoscenza, un patrimonio, di cui disponendo si può capire la realtà in cui viviamo.
E’ la stessa reazione che ho avuto leggendo il libro di Davide Susanetti, Catastrofi politiche (Carocci editore, pagg. 236, euro 18). Il sottotitolo spiega che Sofocle, sì, il grande drammaturgo - cui si debbono indimenticabili tragedie come Antigone, Filottete, Edipo Re, Edipo a Colono, Aiace, Elettra, le Trachinie - con le sue storie ci racconta "la tragedia di vivere insieme". E’ questo secondo Susanetti il vero dramma a tema nel teatro greco già con Sofocle, e ancora di più con Euripide: con loro si liquida un mito, e cioè che le istituzioni reggano l’urto della vita. Invece, più e più volte nelle loro tragedie "la casa va in frantumi, la città rischia di diventare un deserto inabitabile". Altro che catarsi, trionfa la catastrofe. Per catastrofe intendendo la devastazione della memoria, e con essa l’intransitabile passaggio da una generazione all’altra, e dunque alla fine l’impossibilità di vivere congiunti in uno stesso orizzonte condiviso.
Con garbo e sapienza Susanetti ri-racconta le vecchie storie. Non c’è nessuna compiaciuta e sterile esibizione, c’è semmai un gusto del sapere; si sente che conoscere i suoi testi dà allo studioso un’emozione autentica. Li indaga con amore, li parafrasa, li riassume, li assorbe nella sua lingua, nel nostro tempo. Ma non per questo si concede un’estemporanea attualizzazione, nessun troppo ovvio riferimento al presente. Eppure chi legge sente affiorare i fantasmi che aleggiano sulla scena politica nei secoli dei secoli fino ad oggi... Ed è qui l’incanto, dove si dimostra che la cultura serve all’intelligenza. Che la conoscenza della tradizione sostiene il presente e sorregge ogni vero atto di comprensione della nostra esistenza qui e ora.
Pian piano riconosciamo la "nostra" catastrofe politica: dietro Edipo, Aiace, Oreste si sollevano a specchio i tipi attuali, i contemporanei impacci intellettuali e pratici che ossessionano il nostro presente. Sofocle è un signore vissuto in un certo tempo e di quel certo tempo parla; risponde di ciò che accade nella sua epoca nel modo poetico. Ripeto: non vive nell’empireo, è un "poeta" e un "politico" che vive ad Atene e mai la lascia e la ama. Il potere lo conosce, la sua vita ne è toccata, di Atene e di Pericle e della democrazia è fervido sostenitore. Basta leggere l’orgoglio con cui descrive la sua terra nell’Edipo a Colono. Nelle sette tragedie che ci sono giunte per lo più al centro è un uomo di straordinarie capacità, che gli dei travolgono, come accade ad Aiace. E’ commovente oltre ogni dire seguire le dolorose vicende dell’eroe che la dea Atena trasforma in una cieca macchina di distruzione... E’ tremendo assistere alla fine atroce di Eracle, e non è colpa di Deianira la quale gli ha mandato in dono il mantello che gli divora la carne; è il fato che così si compie. Quanto a Elettra e a Oreste, anche loro sono perduti in un atto cui li trascina la legge androcratica della stirpe, che riconosce nella vendetta del padre l’inevitabile debito di obbedienza. Ma quale nuovo ordine seguirà?
Il modo della lettura del testo antico da parte di Davide Susanetti non ha niente a che fare con una certa critica marxista d’antan, che anche in revival foucaltiani, intende strappare alla sovrastruttura della costruzione artistica la maschera che nasconde il vero fondo. Niente di tutto ciò. Nessuno smascheramento, nessun violento strappo. Susanetti acconsente, si concede al testo, lo insegue nelle sue ambiguità, lo commenta intonandosi alle sue preoccupazioni. Perché un dramma è anche questo, un gomitolo di fili in cui si annodano le cure profonde di una cultura, una società, un paese; una cultura, una società, un paese, in questo caso, dove il potere comincia ad apparire in-fondato. Tanto che chi lo raggiunge è forse "solo un delinquente più fortunato di altri".
Vi ricordo che così Edipo giunge a Tebe: con le mani insanguinate. Edipo è tyrannos a Tebe, e quel termine, anche se non coincide con il significato che noi diamo alla parola "tiranno", però svela che Edipo non è re per diritto di nascita. E’ semmai un self-made re, che grazie alla sua intelligenza - ha risolto l’indovinello, ricordate? - si eleva il più in alto che può, finché non si ritrova il "più maledetto" tra gli uomini. Ma, allora, chi governa il mondo?
Parla lo psicoanalista Massimo Recalcati, autore di un saggio sulla evaporazione della figura paterna: «Oggi prevale una incestuosità diffusa, un modello di paternità che autorizza alla più totale dissoluzione dei No»
Formatosi come filosofo, è tra i più noti psicoanalisti lacaniani in Italia. Insegna Psicopatologia del comportamento alimentare all’Università di Pavia e Sociologia dei fenomeni collettivi all’Università cattolica del Sacro Cuore di Milano.
di Beppe Sabaste (l’Unità, 17.04.2011)
È meglio la questione dell’eredità e della trasmissione di un «ordine simbolico» della madre e del padre nella formazione dell’individuo. Se sull’«ordine simbolico della madre» esiste una letteratura intensa prodotta da anni di pensiero femminile (penso al gruppo Diotima e a Luisa Muraro) la questione dell’imago paterna «nell’epoca dell’evaporazione del padre» è oggi riassunta con chiarezza dallo psicoanalista Massimo Recalcati in un libro di cui consiglio a chiunque la lettura: Cosa resta del padre? È un saggio di psicanalisi impregnato di filosofia (l’etica dell’alterità di Emmanuel Lévinas è sottesa lungo tutto il discorso), fortemente influenzato dal pensiero clinico di Jacques Lacan; ma per mostrarne subito la politicità attuale e stringente riporto quasi per intero la lunga nota a pagina 14: «L’espressione “papi”, recentemente alla ribalta della cronaca politica italiana a causa di innumerevoli giovani (papi-girls) che così si rivolgono al loro seduttore, mette in evidenza la degenerazione ipermoderna della Legge simbolica del padre. La figura del padre ridotta a “papi”, anziché sostenere il valore virtuoso del limite, diviene ciò che autorizza alla sua più totale dissoluzione. Il denaro elargito non come riconoscimento di un lavoro, ma come puro atto arbitrario, l’illusione che si possa raggiungere l’affermazione di se stessi rapidamente, senza rinuncia né fatica, l’enfatizzazione feticistica dei corpi femminili come strumenti di godimento, il disprezzo per la verità, l’opposizione ostentata nei confronti delle istituzioni e della legge, (...) il rifiuto di ogni limite in nome di una libertà senza vincoli, l’assenza di pudore e di senso di colpa costituiscono alcuni tratti del ribaltamento della funzione simbolica del padre che trovano una loro sintesi impressionante nella figura di Silvio Berlusconi. Il passaggio dal padre della legge simbolica al “papi” del godimento non definisce soltanto una metamorfosi dello statuto profondo del potere (dal regime edipico della democrazia al sultanato postideologico di tipo perverso), ma rivela anche la possibilità che ciò che resta del padre nell’epoca della sua evaporazione sia solo una versione cinico-materialistica del godimento».
«Sì, il libro è fortemente politico mi dice Massimo Recalcati perché nella dimensione contemporanea prevale una incestuosità diffusa, di cui una manifestazione è che le istituzioni diventano proprietà delle persone come corpi, in un processo di proprietà o appropriazione senza responsabilità, come la legge ad personam. La vocazione della paternità implica invece una responsabilità senza appropriazione, senza proprietà. È questa la cifra politica del mio studio».
Se la figura del padre si è vaporizzata, suggerisce Recalcati, possiamo però pensare al padre come «resto», non un Ideale ma la singolarità incarnata di una vita che ci precede, testimonianza etica di una possibilità di vivere, fallire, perdersi, riorientarsi e immaginare. In questo senso il libro di Recalcati può affiancarsi a un altro piccolo classico contemporaneo, L’uomo flessibile di Richard Sennett, che descrive il mutamento antropologico dietro la retorica della «precarietà»: la perdita di un senso della durata che rende incomprensibili parole come dedizione, impegno, relazione, perdita di un senso narrativo dell’esistenza, quindi della possibilità di immaginare e progettare la propria vita, del cui progetto è parte integrante e necessaria anche l’esperienza, oserei dire l’epica, del fallire. Elogio del fallimento è il titolo di un bellissimo paragrafo del saggio di Recalcati, dove si legge che «la psicoanalisi non tesse l’elogio della prestazione», «è antagonista al narcisismo dell’apparizione, a quel successo dell’io che abbaglia e cattura i giovani di oggi», ma «punta piuttosto a scorticare l’involucro narcisistico dell’immagine per porre il soggetto di fronte alla verità del proprio desiderio»: «il fallimento è uno zoppicamento salutare dell’efficienza della prestazione». Recalcati illumina quindi una singolare convergenza tra l’insegnamento clinico di Lacan e la lungimirante critica alla barbarie consumista dell’eretico Pier Paolo Pasolini: l’immaginazione al potere dello slogan del ’68 si è ahimè realizzata, ma in senso opposto (e perverso) a quello auspicato.
Con la sparizione del padre, ovvero dell’esperienza del limite e della conflittualità, del No che orienta e stimola l’affacciarsi nel giovane di un’identità desiderante, di una trasgressione che nasce dal desiderio di infrangere la Legge rappresentata dalla figura paterna, anche il godimento, osservava Lacan, diventa «smarrito». Con parole nostre: l’innesto del feticismo della merce preconizzato da Marx nel «capitalismo culturale» (quello dell’intrattenimento) descritto da James Rifkin, fa del Potere una centrale di spaccio istituzionalizzato di droga, una fabbrica di sogni che produce incubi. Lost in the supermarket, cantava Joe Strummer, perso nel supermercato, luogo simbolico e globale della trasformazione dei sudditi in consumatori, in una spirale di dannazione fatta di facile godimento e libertà illimitata fino all’intossicazione, non contrastata da nessun Padre ma anzi proposta da chi ne occupa il suo spazio vacante, il «papi». Quella che Lacan definiva «l’astuzia fondamentale del discorso del capitalista» consiste, spiega Recalcati, nell’intrecciare la dimensione illusoria e salvifica dell’oggetto-merce o idolo con la vacuità di un godimento. La schiavitù del soggetto all’oggetto (anche sessuale) è la tragica realtà del coincidere oggi in Italia di potere economico e potere politico in un nuovo fascismo pubblicitario.
La psicoanalisi, ci insegna Recalcati, è chiave e strumento per decostruire la libertà immaginaria della nuova alienazione. «Lacan è stato un grande maestro perché la sua virtù più profonda era di aprire interrogativi invece che fornire risposte. La sua forza non era solo retorica ma capace di incarnarsi in una parola viva, centrata non sul libresco e l’accademico, ma sul desiderio. Sono nato come filosofo mi dice sono stato fabbricato come professore di filosofia, poi sono inciampato nei miei sintomi e sono diventato psicoanalista... La differenza è che la filosofia si preoccupa della verità universale, trascendentale, la psicanalisi della verità più infima e scabrosa, quella che ci risponde nel nostro peggio» (anche il berlusconi che è dentro di noi).
Nella terra di papi non c’è posto per papà
Nel libro “Cosa resta del padre?” Massimo Recalcati racconta la scomparsa di colui che sa unire. E non opporre la legge al desiderio
di Elisabetta Ambrosi (il Fatto, 16.03.2011)
Da “Padre” a “papi”. Questo semplice passaggio lessicale (provate a pronunciare le due parole a voce alta notando la differenza di solennità nel suono) racconta un cambiamento epocale. Quello che va “dal regime edipico della democrazia al sultanato post-ideologico di tipo perverso”, nelle parole di Massimo Recalcati. Nel nuovo libro Cosa resta del padre? la paternità nell’epoca ipermoderna, lo psicoanalista lacaniano utilizza con originalità categorie analitiche per leggere la società. E sostiene che la vicenda delle papi-girls riassume in forma pura i valori oggi imperanti: “Il denaro elargito come puro atto arbitrario, l’illusione che si possa raggiungere l’affermazione di sé senza rinuncia, l’enfatizzazione feticistica dei corpi femminili, l’opposizione ostentata nei confronti della Legge, il rifiuto di ogni limite e l’assenza di pudore”.
UNA TESI che nulla ha a che fare con la condanna moralistica. In realtà questo insieme di comportamenti produce in chi li pratica, a partire da Berlusconi, sicura angoscia e infelicità. Come guarire? La strada suggerita da Recalcati per tornare a desiderare sembra una cattiva notizia per il premier: la castrazione. Ma solo simbolica, ovviamente: nel senso della presenza di qualcuno che ponga confini e divieti alla possibilità di godere di tutto. In breve, papi, per essere felice, avrebbe bisogno di un Padre. Quel ruolo che non è riuscito pubblicamente ad incarnare, il Padre della nazione, rivestendo al massimo quello dello zio ricco e scapestrato che diseduca i figli altrui. Attenzione, però: secondo Recalcati Berlusconi rappresenta l’espressione più spudorata di una sceneggiatura che riguarda soprattutto noi, sul piano privato e pubblico. E che sarebbe bene rileggere con cura, perché scorrendola con attenzione noteremo che la scomparsa di uno dei principali protagonisti del passato, il Padre (e insieme a lui la Legge), - ucciso dai colpi inferti sia dalla sua estremizzazione mostruosa durante il nazifascismo, che lo ha reso una caricatura inutilizzabile, sia dalle grida studentesche del ’68 - è una sciagura.
I MOTIVI sono due: il primo è che la Legge, posta dal Padre, non costituisce una minaccia del desiderio, anzi ne rappresenta la condizione. Una tesi davvero fuori moda e pure un po’ ardita per chi, da psicoanalista, dovrebbe curare le ferite di precoci e insensati divieti. Eppure, come ormai gran parte della teoria clinica va dicendo, oggi gli individui (cittadini e pazienti), sono cambiati e i sintomi che causano loro sofferenza non sono più quelli che affliggevano l’austera borghesia viennese. Al contrario, le psicopatologie sono sempre più l’effetto della scomparsa di qualsiasi divieto, che autorizza al godimento artistico e seriale e conduce all’infelicità. Anche qui, il moralismo non c’entra nulla.
Provate a immaginare visivamente, sembra suggerire l’autore, una terra senza alcun confine, senza alberi, fiumi, montagne, sentieri che conducono da un punto all’altro. Il risultato sarà uno smarrimento mortale, lo stesso che produce il consumismo: una “fede nell’oggetto come rimedio al dolore di esistere”, che invece ci restituisce quel dolore nella sua forma più acuta. Il secondo motivo per cui la scomparsa del Padre è un male è perché il Padre è colui che dovrebbe trasmettere al figlio la più preziosa delle eredità: la capacità di desiderare. Per spiegare in che modo possa riuscire nel compito, occorre rapidamente addentrarsi nella mitologia psicoanalitica: il Padre ha la funzione di proibire ciò che l’Edipo di Sofocle realizza, l’incesto con la Madre.
TRADOTTO per tutti, genitori e non: la sua funzione dovrebbe essere quella di aiutare il figlio alla dolorosa separazione dal paradiso terrestre rappresentato dalla fusione “emblema di un godimento assoluto e senza mancanze” che si realizza nella pancia e poi durante l’allattamento. “Non puoi ritornare da dove sei venuto!”, deve ricordare il Padre. Se questa operazione viene a mancare, perché la madre vuole anch’essa restare fusa con il figlio quest’ultimo sarà incapace di desiderare. Il desiderio comporta separazione, esodo, erranza e insieme l’esperienza che non tutto è a portata di mano, che l’oggetto del nostro amore sfugge al possesso.
Il Padre, dunque, è colui che sa unire e non opporre, la Legge al desiderio, ammansendo sia Kant che Sade. E proponendo una nuova alleanza tra i due, che impedisca sia che il desiderio degeneri “nell’inconsistenza dissipativa del godimento”, sia che si restauri “l’ordine della morale repressiva e patriarcale”. Certo, la parola del Padre inizialmente è un trauma, ma un trauma benefico, comunque necessario, perché oltre che condizione del desiderio, il divieto ci consente di accedere alla dimensione sociale, dove incestuosità, violenza, tracotanza sono vietati. Pena l’impossibilità a convivere.
Come può oggi il Padre trasmettere il desiderio? Per Recalcati oggi non resta che una possibilità, quella che finalmente ci autorizza a parlare di padre con la “p” minuscola: unicamente attraverso la propria testimonianza di vita, che non può avere valore universale né ideale, ma solo singolare. Non il Padre, ma i tanti padri. Che non sono necessariamente quelli biologici, ricorda lo psicoanalista contro ogni possibile uso ideologico della sua teoria. Chiunque infatti può essere padre (biologico e non, ma persino maschio o femmina ), a patto che sappia svolgere la funzione di cui la nostra società ha un bisogno disperato: interdire il desiderio, ponendo i confini; incarnare il desiderio nella propria esistenza; infine gestire con sapienza il conflitto che questo ruolo inevitabilmente comporta.
Il peso dei padri
Che cosa significa ereditare il passato
Oggi cerchiamo spesso di liberarci da certe cose per essere autonomi e senza impegni
Qual è il rapporto con la tradizione e come ci si fa carico di riceverla evitando di esserne schiacciati? Ecco la riflessione del filosofo
di Massimo Cacciari (la Repubblica, 04.05.2011)
Subisce il termine "erede" la stessa sorte di tanti altri preziosi "nomi", che la chiacchiera quotidiana consuma e dissipa. Si fanno merci anch’essi, il cui valore è relativo esclusivamente all’utilità che se ne ricava. Siamo eredi che ignorano l’essenza più nobile della nostra eredità: il linguaggio - e lo massacriamo come fosse un mero strumento a nostra disposizione. Siamo, sotto questo aspetto, eredi che non sanno parlare, infanti, nepioi, dice il Vangelo.
Eppure, proprio l’essere-eredi rappresenta per San Paolo il nostro "titolo" più alto: se siamo figli, siamo eredi (kleronòmoi), eredi di Dio, co-eredi di Cristo. Ma il figlio sa rivolgersi al padre, sa liberamente fare ritorno a lui - e allora soltanto eredita. Non si è "naturalmente" eredi, nessuna semplice nascita garantisce l’eredità - così come non conosciamo la nobiltà del linguaggio solo perché abbiamo ascoltato parlare la mamma. Erede sarà colui che riconosce in sé, come costitutivo del proprio sé, la relazione col padre, e cerca di esprimerla in tutta la sua tremenda difficoltà. Se è così, allora proprio l’erede sarà chi, "all’inizio", avverte la propria mancanza, la propria solitudine. Si fa erede soltanto colui che si scopre abbandonato. Heres latino ha la stessa radice del greco kheros, che significa deserto, spoglio, mancante. Può ereditare, dunque, solo chi si scopre orbus, orphanos (stessa radice del tedesco Erbe). Per essere eredi occorre saper attraversare tutto il lutto per la propria radicale mancanza. Così, per San Paolo, non si eredita se non facendosi co-eredi col Cristo - il che significa: attraverso la imitazione della sua Croce.
Nulla forse ci è più estraneo di questa idea di eredità. Per quanto essa possa essere balenata nell’Umanesimo più filosoficamente e teologicamente audace, i grandi figli della modernità non si riconoscono più come veri eredi. L’eroico idealismo della nuova scienza e della nuova filosofia è dominato da homines novi, dall’idea di "uomo nuovo", che si infutura da sé, in base a ciò che egli stesso ha scelto di essere. L’"uomo nuovo" è un orfano felice. L’eredità non ha per lui alcun interesse sostanziale. Illusioni, favole, saperi inutili, di cui liberarsi in ogni modo.
Figli siamo costretti a nascere, ma il figlio sarà davvero tale, cioè liber, quando saprà rifiutare d’essere erede. Le grandi visioni del mondo storicistiche non contraddicono affatto, nell’essenza, questo formidabile paradigma "progressivo". Il loro richiamo alle "radici", al fondamento di ogni sapere nei linguaggi "ereditati", alla necessaria connessione degli eventi, è tutto dominato dal presupposto che la storia, ora, nel nostro tempo, riveli un suo senso e un suo fine. Possiamo allora, sì, dirci eredi - ma eredi che "superano" in sé il padre. Quest’ultimo è divenuto, per così dire, il combustibile della nostra storia. Non l’erede fa ritorno a lui, ma è lui a consumarsi come alimento della vita nuova dell’erede. L’erede è "pieno" del padre, orbo di nulla, ma, anzi, occhio onniveggente. Allora anche la domanda sulle "radici" assume questo "prepotente" aspetto: quale paternità abbiamo meglio assimilato, quale ci risulta più utile per "progredire", quale ha più efficacemente funzionato da combustibile? E se una non basta, mescoliamole un po’... Padri "a disposizione" sul mercato dei beni-valori-merci.
Che di fronte al formidabile dispositivo teleologico che informa di sé questa visione della storia e questa idea di eredità risultino del tutto impotenti sedentarie erudizioni, la cura meramente conservatrice del "così fu", dovrebbe risultare ovvio. Il passato diviene davvero una gabbia che impedisce di fare storia non appena si riduce a semplice "participio passato".
Qualsiasi religio del passato, in questo senso, nega l’essenza di quell’erede, che vuole fare ritorno, ma che alla luce di questo ritornare concepisce il proprio stesso procedere. Qui consiste il paradosso dell’autentico erede: erede nomina una dinamica, dal riconoscimento di un proprio, essenziale, mancare , attraverso la ricerca di una relazione che possa presentarsi altrettanto determinante per il proprio carattere, fino al riconoscersi in essa. Eredità non significa "caricarsi" di contenuti dati, presupposti, ma ricercare il proprio stesso nome nell’interrogazione del passato. Eredità non significa assumere dei "beni" da ciò che è morto, ma entrare in una relazione essenziale, non occasionale, non contingente, con chi ci appare portante passato. Ma una tale relazione potrà essere voluta soltanto da chi si sente, da solo, in quanto semplice "io", deserto, mancante, impotente a dire e a vedere.
La chiacchiera dominante concepisce la ricerca di eredità esattamente all’opposto. Come ricerca di fondamento e di assicurazione. Mille volte meglio, allora, il gesto prepotente di quei "padri" che pretendevano di potersi "decidere" da ogni passato. Poter essere eredi comporta, invece, provare angoscia per una condizione di sradicatezza o di abbandono, porsi, su un tale "fondamento", all’ascolto interrogante del "così fu", cogliere di esso quelle voci, quei simboli che ci siano riconoscibili come relazioni essenziali, costitutive della trama del nostro stesso esserci. Dinamica arrischiata quanto altre mai, poiché il passato può sempre inghiottire chi se ne cerca erede, e in particolare proprio colui che presume di potersene appropriare.
Erede è nome di una relazione massimamente pericolosa, il cui senso è oggi soffocato tra impotenti nostalgie conservatrici, quasi a voler fare del figlio l’automatico erede, e idee sradicanti, se non deliranti, di libertà, e cioè di un essere liberi in quanto assolutamente non destinati alla ricerca di essere eredi, di un necessario rapporto con l’altro da sé. Non solo non cerchiamo di essere eredi, ma accogliamo soltanto eredità che non impegnino, che non obblighino, che ci rassicurino ancor più nella nostra pretesa "autonomia" - quando qualsiasi eredità è "partecipabile" per definizione. Ma ciò che è dimenticato non per questo è morto, e nessun destino impedisce di riascoltare il nome di "erede" in tutta la pregnanza che nella nostra lingua, ancora, nonostante tutto, si custodisce.