«Un uomo aveva due figli. Il più giovane disse al padre: Padre, dammi la parte del patrimonio che mi spetta. E il padre divise tra loro le sostanze. Dopo non molti giorni, il figlio più giovane, raccolte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò le sue sostanze vivendo da dissoluto. Quando ebbe speso tutto, in quel paese venne una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò e si mise a servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube che mangiavano i porci; ma nessuno gliene dava.
Allora rientrò in se stesso e disse: Quanti salariati in casa di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi leverò e andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi garzoni. Partì e si incamminò verso suo padre.
«Quando era ancora lontano il padre lo vide e commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. Ma il padre disse ai servi: Presto, portate qui il vestito più bello e rivestitelo, mettetegli l’anello al dito e i calzari ai piedi. Portate il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato. E cominciarono a far festa.
«Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò un servo e gli domandò che cosa fosse tutto ciò. Il servo gli rispose: È tornato tuo fratello e il padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo. Egli si arrabbiò, e non voleva entrare. Il padre allora uscì a pregarlo. Ma lui rispose a suo padre: Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando, e tu non mi hai dato mai un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che questo tuo figlio che ha divorato i tuoi averi con le prostitute è tornato, per lui hai ammazzato il vitello grasso.
Gli rispose il padre: Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato» (Luca, 15,11-32)
A commento, nel sito, si cfr.:
Federico La Sala
L’ atteso ritorno della figlia prodiga
di ALFREDO GIULIANI *
La figlia prodiga e altre storie di Alice Ceresa viene presentato oggi alla Casa delle Letterature di Roma da Giosetta Fioroni, Letizia Paolozzi, Patrizia Zappa Mulas, Alfredo Giuliani e Alice Vollenweider. Fa piacere veder comparire in un volume le opere pubblicate in vita da Alice Ceresa, scarse anche perché inesorabili e ispirate da un demone esigente; non dimenticate dai lettori che prediligono l’ essere sfidati e incantati, ma presto uscite di scena.
Ora La figlia prodiga e altre storie (La Tartaruga, pagg. 318, euro 14,60) ci riporta nella corrente che decenni fa si chiamò «sperimentalismo» e ci invita a riconoscerne la freschezza. Lo sperimentalismo non fu un movimento, né una teoria estetica. Intorno alla metà del Novecento, perfino un po’ prima che finisse la seconda guerra mondiale, e più chiaramente nei frangenti del lungo e minaccioso dopoguerra, «sperimentare» fu per alcuni scrittori uno stato di necessità, si potrebbe dire un caso di coscienza estetica e storica. Un impulso provocato dalla cognizione spasmodica del reale e delle possibili risorse inesplorate del linguaggio. Ci fu chi riuscì a smontare vecchie forme di scrittura ormai logore, lavorando con rigore e ironia.
Ceresa (1923-2001), ticinese vissuta oltre cinquant’ anni a Roma, è forse troppo singolare per prendere a modello, e nondimeno esemplare di una accanita e imperterrita consapevolezza. Dentro il primo romanzo, La figlia prodiga uscito da Einaudi nel 1967, non si celava affatto il composito atteggiamento della scrivente. La narratrice che si rifiutava di raccontare, volendo invece soltanto interpretare la condizione di una persona ipotetica, si fondeva con l’ antropologa che esplorava un fenomeno sociale (la piccola famiglia patriarcale) al solo scopo di identificare al suo interno la falla micidiale costituita da quella persona, appunto la figlia ingrata, ben più nociva del suo antico omologo maschile, in quanto sperperatrice non già di beni materiali, bensì del patrimonio biologico «morale» e culturale della famiglia.
Va da sé che la consistenza di tale patrimonio è sarcasticamente irrisoria, sebbene soggettivamente destinata a venire addirittura rimpianta. Non nel romanzo, che dal principio alla fine pretende ironicamente di avvicinare soltanto l’ oggettività, ma nei pensieri manifestati da Ceresa negli ultimi anni.
La figlia prodiga è costruito con strenua intensità logica, senza immagini concrete, né dialoghi né trama; è un tessuto di supposizioni, illazioni, evidenze dubbiose accuratamente ragionate e vagliate. E’ un’ avventura della mente.
Se non ha trama, nel senso convenzionale, è però inarcato nel senso del tempo. Anzi, ha una fortissima struttura temporale; la prodiga, il «personaggio di cui si parla», è seguita dall’ infanzia all’ età adulta. Se il romanzo non racconta eventi, offre incalzanti procedure d’ indagine, e gelidi referti.
Nell’ ultima pagina (ovviamente fuori testo) dell’ edizione ’67 della Figlia prodiga si leggevano alcuni estratti da uno scritto ad hoc dell’ autrice. Molto interessanti per capire il clima «sperimentale» dell’ epoca. E l’ oltranza lucida di Ceresa: «io non penso che il nostro tempo sia un tempo di personaggi di romanzo credibili e probabili: le avventure individuali importanti del nostro tempo, e che lasciano il loro segno sulle persone, sono avventure subdole e profonde che attendono ancora identificazione e sistemazione conoscitiva o, se si preferisce, una diagnosi e una terapia storica. Sono, per ora, avventure vissute ovunque e da chiunque in parte o per intero inconsapevolmente: il che solo ne attenua la micidialità».
«Ho tentato di narrare un’ avventura siffatta nella sua parabola vitale, sostituendo non solo a un personaggio credibile un personaggio artificiale, ma anche al tessuto narrativo convenzionale e "probabile" un tessuto astratto, che fosse tuttavia in condizione di svolgere lo stesso ruolo educativo e sensibile solitamente e per altro genere di avventure affidato ad elementi quali la descrizione, il dialogo, la sospensione ecc...»; «... per l’ aspetto linguistico, mi è sembrato divertente mettere la dialettica sociale a disposizione di chi da questa dialettica risulta spietatamente creato».
In una lettera a Maria Corti, che pur lodando La figlia prodiga aveva sollevato obiezioni di tipo linguistico-retorico, Ceresa risponde che il suo problema è «scoprire il linguaggio nella lingua»: è domandarsi fino a che punto è possibile recuperare la lingua come linguaggio (ossia come arte, essendo la lingua di per sé un uso determinato, un comportamento mentale, un dato di appartenenza a una comunità).
Con implicita intenzione parodistica Ceresa aveva usato la lingua della riflessione, antropo-sociologica, specialmente nei primi capitoli, modellandola come una rivelazione dell’ ovvio: l’ infelicità istitutiva del gruppo famigliare. Senza il quale non potrebbe naturalmente esistere la stessa prodiga, di cui sappiamo soltanto che impiega tutte le sue forze per fare sempre il contrario di quanto da lei ci si aspetta.
Anche i lettori che avevano ammirato l’ impresa temeraria, inaudita, scrivere un libro severamente parodico e ingannevole dal principio alla fine, si aspettavano di vedere prima o poi una sortita completamente diversa (dopotutto era lei la figlia prodiga); fu un poi di ventitré anni: nel 1990 uscì da Einaudi il secondo romanzo di Ceresa, Bambine. Il tema era lo stesso del precedente: l’ esplorazione di quel fenomeno umano che è il disastro di crescere. Ma il tono e la struttura sono il rovescio dell’ intenzione stilistica che aveva ferocemente guidato l’ estenuante e provocatorio argomentare del primo libro.
Bambine è accattivante, di incantevole leggerezza, sottilmente spiritoso e distaccato. Qui Ceresa adopera la scrittura come fosse una macchina da presa, gira brevi sequenze e le monta come fossero figurine ora ferme ora in movimento. Cerca l’ obiettività e governa la «macchina» (la scrittura) in modo di captare sempre ciò che è visibile e udibile; solo raramente si concede uno stringato commento suggerito dai fatti.
A metà strada tra l’ uno e l’ altro romanzo, si colloca il mirabile racconto "La morte del padre", pubblicato dalla rivista Nuovi argomenti nel 1979, naturalmente incluso nel volume della Tartaruga. Lo stile è assai vicino a quello di Bambine, ma il tono è tutt’ altra cosa. C’ è una pacata visionarietà che fa pensare a certi racconti magici e fantasmatici di Kipling e di Henry James. Testo davvero straordinario. Dispiace di trovare nel volume qualche vistoso refuso e una svista fastidiosa, che non saprei a chi attribuire (forse alla Ceresa in fase di revisione del dattiloscritto?), ma il bravo lettore sarà in grado di riparare.
Nella prima pagina della Prodiga: c’ è il dubbio che «al mondo non sappia» manchi di un «chi», ed è certo che «una storia di senso» sia invece di «sesso». E in Bambine la madre in visita alla tombina del fratellino delle due sorelline morto precocemente, non sarà «infinocchiata» ma convenientemente «inginocchiata».
Quanto ai refusi, mi limito a questi esempi. Segnalo la svista perché un tantino misteriosa e accuratamente concepita. Torniamo alla Prodiga, prima pagina del capitolo 3. Leggiamo un po’ disorientati: «fare per esempio in questo secondo capitolo come se non ve ne fosse stato un primo...». Andiamo a confrontare il passo nell’ edizione 1967: «fare per esempio in questo terzo capitolo come se non ve ne fossero stati un primo e un secondo...». Qui tutto fila. Mah.
* la Repubblica, 19 ottobre 2004.
Sul tema, in rete, si cfr.:
Tutte le parole di Alice Ceresa (di Michele Farina - La Balena Bianca, 24 Febbraio 2021).
FLS
Santa Marta.
Il Papa prega per la pace nelle famiglie in questo momento difficile
Francesco prega in modo particolare per le famiglie perché in questo momento difficile conservino la pace, la gioia e la fortezza. Una preghiera speciale anche per le persone con disabilità
Vatican News sabato 14 marzo 2020
Nell’omelia, Francesco commenta il Vangelo del figlio prodigo e del padre misericordioso, proposto dalla liturgia del giorno (Lc 15, 1-3. 11-32).
"Tante volte abbiamo sentito questo passo del Vangelo. Questa parabola Gesù la dice in un contesto speciale: “Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo”. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: “Costui accoglie i peccatori e mangia con loro”. E Gesù gli rispose con questa parabola. Cosa dicono? La gente, i peccatori si avvicinano in silenzio, non sanno dire, ma la loro presenza dice tante cose, volevano ascoltare. I dottori della legge cosa dicono? Criticano. “Mormoravano”, dice il Vangelo, cercando di cancellare l’autorità che Gesù aveva con la gente. Questa la grande accusa: “Mangia con i peccatori, è uno impuro”.
Poi la parabola è un po’ la spiegazione di questo dramma, di questo problema. Cosa sentono questi? La gente sente il bisogno di salvezza. La gente non sa distinguere bene, intellettualmente: “Io ho bisogno di trovare il mio Signore, che mi riempia”, ha bisogno di una guida, di un pastore. E la gente si avvicina a Gesù perché vede in Lui un pastore, ha bisogno di essere aiutata a camminare nella vita. Sente questo bisogno. Gli altri, i dottori sentono sufficienza: “Noi siamo andati all’università, ho fatto un dottorato, no, due dottorati. So bene, bene, bene, cosa dice la legge; anzi conosco tutte, tutte, tutte le spiegazioni, tutti i casi, tutti gli atteggiamenti casistici”. E si sentono sufficienti e disprezzano la gente, disprezzano i peccatori: il disprezzo verso i peccatori. Nella parabola, lo stesso, cosa dicono? Il figlio dice al Padre: “Dammi i soldi e me ne vado”. Il padre dà, ma non dice nulla perché è padre, forse avrà avuto il ricordo di qualche ragazzata che aveva fatto da giovane, ma non dice nulla.
Un padre sa soffrire in silenzio. Un padre guarda il tempo. Lascia passare dei momenti brutti. Tante volte l’atteggiamento di un padre è “fare lo scemo” davanti alle mancanze dei figli. L’altro figlio rimprovera il padre: “Sei stato ingiusto”, dice un rimprovero.
Cosa sentono questi della parabola? Il ragazzo sente voglia di mangiarsi il mondo, di andare oltre, di uscire dalla casa, e forse la vive come una prigione e ha anche quella sufficienza di dire al padre: “Dammi quello che tocca a me”. Sente coraggio, forza. Cosa sente il padre? Il padre sente dolore, tenerezza e molto amore. Poi quando il figlio dice quell’altra parola: “Mi alzerò - quando rientra in sé stesso - mi alzerò e andrò da mio padre”, trova il padre che lo aspetta, lo vede da lontano. Un padre che sa aspettare i tempi dei figli.
Cosa sente il figlio maggiore? Dice il Vangelo: “Egli si indignò”, sente quel disprezzo. E tante volte indignarsi, tante volte, è l’unico modo di sentirsi degno per quella gente. Queste sono le cose che si dicono in questo passo del Vangelo, le cose che si sentono.
Ma qual è il problema? Il problema - cominciamo dal figlio maggiore - il problema è che lui era a casa, ma non si era accorto mai cosa significasse vivere a casa: faceva i suoi doveri, faceva il suo lavoro, ma non capiva cosa fosse un rapporto di amore con il padre. “Il figlio si indignò e non voleva entrare”. “Ma questa già non è la mia casa?” ... aveva pensato. Lo stesso dei dottori della legge. “Non c’è ordine, è venuto questo peccatore qui e gli hanno fatto la festa, e io?”. Il padre dice la parola chiara: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo”. E di questo, il figlio non se n’era accorto viveva a casa come fosse un albergo, senza sentire quella paternità ... Tanti “alberghieri” nella casa della Chiesa che si credono i padroni.
È interessante, il padre non dice alcuna parola al figlio che torna dal peccato, soltanto lo bacia, lo abbraccia e gli fa festa; a questo deve spiegargli, per entrare nel cuore: aveva il cuore blindato per le sue concezioni della paternità, della figliolanza, del modo di vivere.
Io ricordo una volta un saggio sacerdote anziano, un grande confessore, è stato missionario, un uomo che amava tanto la Chiesa, e parlando di un sacerdote giovane molto sicuro di sé stesso, molto credente ... che lui era un valore, che lui aveva dei diritti nella Chiesa, diceva: “Ma io prego per questo, perché il Signore gli metta una buccia di banana e lo faccia scivolare, quello gli farà bene”. Come se dicesse, sembra una bestemmia: “Gli farà bene peccare perché avrà bisogno di chiedere perdono e troverà il Padre”.
Tante cose ci dice questa parabola del Signore che è la risposta a coloro che lo criticavano perché andava con i peccatori. Ma anche tanti oggi criticano, gente di Chiesa, coloro che si avvicinano alle persone bisognose, alle persone umili, alle persone che lavorano, anche che lavorano per noi. Che il Signore ci dia la grazia di capire qual è il problema.
Il problema è vivere in casa ma non sentirsi a casa, perché non c’è rapporto di paternità, di fratellanza, soltanto c’è il rapporto di compagni di lavoro.
PAPA FRANCESCO
Catechesi sul “Padre nostro”: 5. “Abbà, Padre!”
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Proseguendo le catechesi sul “Padre nostro”, oggi partiamo dall’osservazione che, nel Nuovo Testamento, la preghiera sembra voler arrivare all’essenziale, fino a concentrarsi in una sola parola: Abbà, Padre.
Abbiamo ascoltato ciò che scrive San Paolo nella Lettera ai Romani: «Voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: “Abbà! Padre!”» (8,15). E ai Galati l’Apostolo dice: «E che voi siete figli lo prova il fatto che Dio mandò nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio, il quale grida: “Abbà! Padre!”» (Gal 4,6). Ritorna per due volte la stessa invocazione, nella quale si condensa tutta la novità del Vangelo. Dopo aver conosciuto Gesù e ascoltato la sua predicazione, il cristiano non considera più Dio come un tiranno da temere, non ne ha più paura ma sente fiorire nel suo cuore la fiducia in Lui: può parlare con il Creatore chiamandolo “Padre”. L’espressione è talmente importante per i cristiani che spesso si è conservata intatta nella sua forma originaria: “Abbà”.
È raro che nel Nuovo Testamento le espressioni aramaiche non vengano tradotte in greco. Dobbiamo immaginare che in queste parole aramaiche sia rimasta come “registrata” la voce di Gesù stesso: hanno rispettato l’idioma di Gesù. Nella prima parola del “Padre nostro” troviamo subito la radicale novità della preghiera cristiana.
Non si tratta solo di usare un simbolo - in questo caso, la figura del padre - da legare al mistero di Dio; si tratta invece di avere, per così dire, tutto il mondo di Gesù travasato nel proprio cuore. Se compiamo questa operazione, possiamo pregare con verità il “Padre nostro”. Dire “Abbà” è qualcosa di molto più intimo, più commovente che semplicemente chiamare Dio “Padre”. Ecco perché qualcuno ha proposto di tradurre questa parola aramaica originaria “Abbà” con “Papà” o “Babbo”. Invece di dire “Padre nostro”, dire “Papà, Babbo”.
Noi continuiamo a dire “Padre nostro”, ma con il cuore siamo invitati a dire “Papà”, ad avere un rapporto con Dio come quello di un bambino con il suo papà, che dice “papà” e dice “babbo”. Infatti queste espressioni evocano affetto, evocano calore, qualcosa che ci proietta nel contesto dell’età infantile: l’immagine di un bambino completamente avvolto dall’abbraccio di un padre che prova infinita tenerezza per lui. E per questo, cari fratelli e sorelle, per pregare bene, bisogna arrivare ad avere un cuore di bambino. Non un cuore sufficiente: così non si può pregare bene. Come un bambino nelle braccia di suo padre, del suo papà, del suo babbo.
Ma sicuramente sono i Vangeli a introdurci meglio nel senso di questa parola. Cosa significa per Gesù, questa parola? Il “Padre nostro” prende senso e colore se impariamo a pregarlo dopo aver letto, per esempio, la parabola del padre misericordioso, nel capitolo 15° di Luca (cfr Lc 15,11-32).
Immaginiamo questa preghiera pronunciata dal figlio prodigo, dopo aver sperimentato l’abbraccio di suo padre che lo aveva atteso a lungo, un padre che non ricorda le parole offensive che lui gli aveva detto, un padre che adesso gli fa capire semplicemente quanto gli sia mancato. Allora scopriamo come quelle parole prendono vita, prendono forza. E ci chiediamo: è mai possibile che Tu, o Dio, conosca solo amore? Tu non conosci l’odio? No - risponderebbe Dio - io conosco solo amore. Dov’è in Te la vendetta, la pretesa di giustizia, la rabbia per il tuo onore ferito? E Dio risponderebbe: Io conosco solo amore.
Il padre di quella parabola ha nei suoi modi di fare qualcosa che molto ricorda l’animo di una madre. Sono soprattutto le madri a scusare i figli, a coprirli, a non interrompere l’empatia nei loro confronti, a continuare a voler bene, anche quando questi non meriterebbero più niente.
Basta evocare questa sola espressione - Abbà - perché si sviluppi una preghiera cristiana. E San Paolo, nelle sue lettere, segue questa stessa strada, e non potrebbe essere altrimenti, perché è la strada insegnata da Gesù: in questa invocazione c’è una forza che attira tutto il resto della preghiera.
Dio ti cerca, anche se tu non lo cerchi. Dio ti ama, anche se tu ti sei dimenticato di Lui. Dio scorge in te una bellezza, anche se tu pensi di aver sperperato inutilmente tutti i tuoi talenti. Dio è non solo un padre, è come una madre che non smette mai di amare la sua creatura. D’altra parte, c’è una “gestazione” che dura per sempre, ben oltre i nove mesi di quella fisica; è una gestazione che genera un circuito infinito d’amore.
Per un cristiano, pregare è dire semplicemente “Abbà”, dire “Papà”, dire “Babbo”, dire “Padre” ma con la fiducia di un bambino.
Può darsi che anche a noi capiti di camminare su sentieri lontani da Dio, come è successo al figlio prodigo; oppure di precipitare in una solitudine che ci fa sentire abbandonati nel mondo; o, ancora, di sbagliare ed essere paralizzati da un senso di colpa. In quei momenti difficili, possiamo trovare ancora la forza di pregare, ricominciando dalla parola “Padre”, ma detta con il senso tenero di un bambino: “Abbà”, “Papà”. Lui non ci nasconderà il suo volto. Ricordate bene: forse qualcuno ha dentro di sé cose brutte, cose che non sa come risolvere, tanta amarezza per avere fatto questo e quest’altro... Lui non nasconderà il suo volto. Lui non si chiuderà nel silenzio. Tu digli “Padre” e Lui ti risponderà. Tu hai un padre. “Sì, ma io sono un delinquente...”. Ma hai un padre che ti ama! Digli “Padre”, incomincia a pregare così, e nel silenzio ci dirà che mai ci ha persi di vista. “Ma, Padre, io ho fatto questo...” - “Mai ti ho perso di vista, ho visto tutto. Ma sono rimasto sempre lì, vicino a te, fedele al mio amore per te”. Quella sarà la risposta. Non dimenticatevi mai di dire “Padre”. Grazie.
PAPA FRANCESCO
UDIENZA GENERALE
Aula Paolo VI
Mercoledì, 16 gennaio 2019 (ripresa parziale).
Il mio regno non è di qui
di Piero Stefani ("Il Regno", 22/11/2018)
«Universo» è parola sconosciuta alla Bibbia. Per dire «il tutto», il primo versetto della Scrittura impiega l’espressione «il cielo e la terra» (Gen 1,1; cf. Ef 1,10). Il posto privilegiato che questo modo di dire riserva a ciò che noi definiamo «nostro pianeta» indica una distanza incolmabile tra l’immagine biblica del cosmo e quella attuale. Non ha senso logico definire un campo come fosse costituito da 100 ettari di terreno e da un granello di polvere. I tentativi di intrecciare teologicamente tra loro la visione cosmica biblica con quella odierna non portano da nessuna parte.
Meglio domandarsi allora perché il Nuovo Testamento, e in particolare Giovanni, precludono l’eventualità di qualificare la solennità odierna ricorrendo all’espressione «re del mondo».
«Il mio regno non è di questo mondo» (Gv 18,36), risponde Gesù a Pilato. Subito dopo Gesù aggiunge: «Il mio regno non è di qui (enteuthen)» (Gv 18,36). Le due espressioni kosmos («mondo») ed enteuthen («qui») gravitano dalla stessa parte.
Kosmos è una parola frequente nel quarto Vangelo. Essa è contraddistinta da una forte ambiguità. Il mondo rappresenta la scena sulla quale si svolge il dramma della redenzione: «Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui» (Gv 3,17; cf. Gv 10,36; 11,27). Il mondo è amato da Dio (cf. Gv 1,29; 4,42) eppure odia Gesù, «perché di esso io attesto che le sue opere sono cattive» (Gv 7,7; cf. Gv 15,18-19; 17,14).
Il Vangelo di Giovanni è caratterizzato da un lessico fortemente duale (luce-tenebre; vita-morte; amore-odio; verità-menzogna...); tuttavia alcuni termini, come appunto «mondo», più che colti in contrapposizione al loro opposto, vanno intesi in relazione a una tensione che sussiste tra vari significati attribuiti alla stessa parola: il mondo è amato e salvato, eppure odia Gesù. «Il mio regno non è di questo mondo» ma io sono venuto a salvare il mondo.
La contraddizione sembra insuperabile. Per cercare di scioglierla è di qualche aiuto seguire l’altro, e assai meno importante, termine: «qui». In effetti esso ricorre poche volte in Giovanni e nella maggior parte dei casi ha un semplice valore spaziale, secondo il senso comune del termine (cf. Gv 2,16; 7,3; 14,31).
Nella risposta a Pilato le cose stanno diversamente. Non ha significato alcuno affermare che «il mio regno non è di qui» perché è «altrove», come se si estendesse su un altro territorio. Tuttavia, guardando all’ultima occasione nella quale Giovanni fa ricorso al termine, si apre all’improvviso uno squarcio. Ciò avviene se nella traduzione, a differenza del solito, si ricorre all’avverbio «qui»: «Lo crocifissero e con lui altri due, uno da una parte e uno dall’altra (enteuthen kai enteuthen, una specie di «uno di qui e uno di qua»), e Gesù in mezzo» (Gv 19,18).
È solo un cenno, non più di una spia; tuttavia appare calzante pensare a un richiamo tra le due scene; come se si volesse far dire a Gesù: il mio regno non è «qui», ma è sulla croce. Non ci si muove nella logica dei poteri mondani, il tal caso qualcuno avrebbe combattuto (cf. Gv 18,36); il regno si trova invece nella forza attrattiva e salvifica della croce: «“E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me”. Diceva questo per indicare di quale morte doveva morire» (Gv 12,32-33).
Gesù afferma che il suo regno non è di qui, egli però rivendica pienamente la propria condizione regale: «Tu lo dici, io sono re» (Gv 18,37). Si tratta di una regalità diversa da quella mondana. «Gesù il Nazareno, il re dei Giudei» sarebbe stata la frase scritta sulla croce in ebraico, latino e greco, e che Pilato non volle mutare. «Quel che ho scritto ho scritto» (Gv 19,22) è una specie di definitivo sigillo posto al «Tu lo dici» (Gv 18,37) rivolto da Gesù a Pilato. È sulla croce che si dispiega la regalità «altra» e salvifica di Gesù.
*Sul tema, nel sito, si cfr.:
SAN PAOLO, COSTANTINO, E LA NASCITA DEL CATTOLICESIMO.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
Federico La Sala
Il ruolo del «terzo»
Le vie della riconciliazione
di Piero Stefani ("Il Regno", Attualità, 20/2018)
Al pari del perdono, del pentimento e della consolazione, la riconciliazione è una realtà che si colloca nell’ambito del «dopo». È così perché in tutti questi casi si tenta di rispondere a quanto c’è stato ma non avrebbe dovuto esserci: lo scontro, la divisione, il contrasto, la lite, la colpa, l’offesa, la perdita, il dolore lancinante.
Si tratta di un «dopo» che non annulla quanto è stato. Non è un colpo di spugna, non sono né dimenticanza, né oblio. Per queste vie ci si misura a viso aperto con il passato per non restarne prigionieri. Ci si colloca quindi agli antipodi non solo dell’oblio, ma anche della rimozione.
Tra i termini prima enunciati sussistono rilevanti differenze. La riconciliazione comporta una bilateralità in atto, il pentimento è invece unilaterale, colui che si pente, anche se esprime una richiesta di essere perdonato, non è nelle condizioni d’imporre d’essere esaudito. Lo stesso vale per un perdono concesso prima che nell’animo dell’offensore prenda dimora il pentimento.
Su un altro piano, pure la consolazione è costretta a operare nell’ambito di una bilateralità «sbilanciata»: chi ha patito una perdita è oggetto di premura da parte di chi si trova in un’altra situazione. Dal canto suo la compiuta bilateralità, tipica della riconciliazione, comporta la pari dignità delle due parti. La precedente sperequazione ora viene a cessare. Ciò vale nel caso di relazioni sia interpersonali sia collettive. Sullo sfondo di questi processi si staglia però una possibile ombra, vale a dire il fatto che l’avvenuta riconciliazione a due apra una frattura nei confronti di un terzo.
Osservata in questa luce, la parabola del «padre misericordioso» (Lc 15,11-32) evidenzia due passaggi rilevanti. Il figlio minore, dopo aver dissipato i beni ricevuti, torna verso casa. Lungo il tragitto egli mostra d’ignorare il cuore del proprio genitore, infatti pensa di conquistarlo declassandosi a servo. Tuttavia «quando era ancora lontano» il padre «lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli gettò le braccia al collo e lo baciò» (Lc 15,20).
Per comprendere questa dinamica non è necessario evocare un diuturno scrutamento dell’orizzonte. La situazione è infatti paragonabile a quella del samaritano che scorge il ferito sul bordo della via. In entrambi i casi ci troviamo di fronte a una stessa successione di verbi: dapprima si vede e immediatamente dopo si prova compassione (verbo splagchnizomai; cf. Lc 10,33). L’atto di misericordia che ci conduce verso l’«altro» non è bilaterale; il padre e il figlio, il soccorritore e il malcapitato non si trovano sullo stesso piano. Nel caso dei fratelli, il discorso può invece diventare più bilaterale.
Esaù e Giacobbe
Giacobbe, dopo tanti anni trascorsi presso suo suocero Làbano, si mette in marcia per ritornare, ricco di prole e di beni, alla terra d’origine. Lungo la via il patriarca apprende che il fratello Esaù, a cui aveva sottratto la primogenitura, viene verso di lui accompagnato da quattrocento uomini. Allora «Giacobbe ebbe paura e fu angosciato» (Gen 32,8). Il tradizionale commento ebraico propone questa spiegazione: Giacobbe ebbe paura di essere ucciso e fu angosciato dall’idea che forse sarebbe toccato a lui uccidere.1 Non tutte le paure sono però uguali, alcune sono paralizzanti, altre sollecitano l’azione.
Nel caso del patriarca essa è del secondo tipo; egli infatti reagisce ed elabora piani difensivi: divide gli accampamenti per far sì che almeno uno dei due si salvi; inoltre invia al fratello copiosi doni, pensando in tal modo di placarlo. Il giorno dopo, quando vide giungere Esaù accompagnato dalla sua numerosa scorta, Giacobbe affidò i propri figli alle loro rispettive madri, si mise in testa al gruppo e, a debita distanza, si prostrò sette volte fino a terra davanti al fratello.
Eppure la primogenitura e la benedizione da lui carpite lo avrebbero dovuto costituire signore. La via verso la riconciliazione è spianata però dallo stesso Esaù. È il fratello maggiore a ricoprire il ruolo più nobile; i vent’anni trascorsi avevano smorzato in lui la sete di vendetta; tuttavia il passare del tempo da solo non basta a spiegare il suo comportamento: troppe volte l’odio ha dimostrato di essere dotato di una memoria più tenace dell’amore. «Ma Esaù gli corse incontro, lo abbracciò, gli si gettò al collo, lo baciò e piansero» (Gen 33,4).
L’atto compiuto dal fratello maggiore in quella circostanza è talmente alto da essere stato assunto come sottotesto del gesto compiuto dal padre nella parabola. Rispetto al Vangelo, tuttavia, nella Genesi c’è un particolare in più: i fratelli piangono assieme. L’atto ora diviene perfettamente bilaterale. Il sigillo della riconciliazione sta nelle lacrime sgorgate dagli occhi di entrambi. È vero che subito dopo questo incontro i due fratelli decisero di separarsi.
Tuttavia Esaù e Giacobbe (nominati proprio in questo ordine allusivo a una specie di primogenitura riconquistata) si sarebbero di nuovo incontrati nell’atto di seppellire il loro padre Isacco (cf. Gen 35,29). La Bibbia presenta quest’ultimo avvenimento in una riga come puro dato di cronaca, ma dietro a quella spoglia annotazione ogni lettore scorge il valore e lo spessore del non detto.
Il ruolo del «terzo»
Nella parabola il padre fa festa per il ritorno del figlio minore. Tra i due è avvenuta una forma di riconciliazione. Tuttavia è proprio quest’ultima a spalancare il problema del terzo, in questo caso rappresentato dalla figura del fratello maggiore. L’avvicinamento degli uni provoca l’allontanamento dell’altro. Si tratta di una dinamica frequente in politica, dove la parola «riconciliazione» è per lo più impropria, ma non assente in altre operazioni riconciliatrici, comprese quelle presenti in campo ecumenico e interreligioso.
La parabola non riporta alcuna conclusiva risposta del fratello maggiore. Luca lascia quindi in sospeso l’esito del tentativo paterno di riconciliarsi anche con il primogenito. Al pari di Andrè Gide,2 ogni lettore è nelle condizioni d’immaginare molteplici «dopo». In questo caso il non detto si apre sull’indefinito. La mancata risposta rende comunque più acuto il problema del «terzo», una questione che, fino a quando resta aperta, incrina inevitabilmente il processo di riconciliazione.
Il «terzo» come mediatore
Nella tradizione giudaica, Aronne è la figura associata più di ogni altra alla costruzione di una pace intesa come riconciliazione. Il fratello di Mosè, nonostante la sua debolezza e accondiscendenza, o forse proprio grazie a esse, viene presentato come il prototipo di chi si sforza senza posa d’instaurare la riconciliazione tra i membri del suo popolo. Su questo punto i commenti narrativi si dilungano ampiamente, prospettando molti episodi leggendari in cui emerge la convinzione che, quando urge la riconciliazione, si è sospinti a compiere molti atti rischiosi e ibridi, ivi compresa la scelta di percorrere, almeno parzialmente, la via della finzione.
Si racconta che, quando due uomini avevano litigato, Aronne si andasse a sedere accanto a uno di loro e gli dicesse: «Figlio mio, bada a quanto sta facendo tuo fratello! Egli si batte il petto e bagna i suoi abiti di lacrime dicendo: “Me sventurato! Come potrò alzare gli occhi e guardare il mio compagno? Sono stato io a trattarlo stoltamente”».
Dopo aver terminato di riferire tali parole, il fratello di Mosè continuava a parlargli fino a quando fosse scomparsa ogni traccia di rancore. Allora Aronne si recava dall’altro contendente e ripeteva lo stesso rito conciliatorio e «quando i due uomini si incontravano s’abbracciavano e baciavano reciprocamente».3
Un altro commento applica l’attività riconciliatrice all’ambito familiare. Allorché un uomo aveva scacciato la moglie, Aronne andava da lui e gli chiedeva come mai avesse litigato con la sua sposa. Se il marito gli rispondeva affermando: «Perché ha agito in modo svergognato nei miei confronti», Aronne replicava che lui stesso si sarebbe reso garante che ciò non si sarebbe più ripetuto. Poi andava dalla moglie e le poneva la stessa domanda e se lei rispondeva che il marito l’aveva picchiata e maledetta, Aronne si rendeva ancora una volta personalmente garante che in seguito ciò non avrebbe più avuto luogo.
Il fratello di Mosè insisteva fino a quando i due non si fossero rappacificati. Come frutto della riconciliazione tra i coniugi la donna avrebbe avuto un figlio a cui sarebbe stato imposto il nome di Aronne. I bambini chiamati in quel modo ammontarono a tremila.4
L’iperbolica cifra sta a significare che in ogni tempo è stata profonda tanto la consapevolezza della precarietà di una convivenza quotidiana insidiata dal logoramento, dalla fatica, dalla stanchezza, quanto la fiducia nelle capacità di ripresa insite nel rapporto coniugale. Tenendo conto di ciò si sarebbe propensi ad affermare che, in un’ottica esistenziale, parlare d’indissolubilità del matrimonio appare formale e astratto, mentre prospettarne la «riannodabilità» è concreto e riconciliatore.
Il ruolo del mediatore rispetto ai processi di riconciliazione è ben più esteso dei casi interpersonali e coniugali ora esemplificati; le dinamiche positive legate alla presenza di un «terzo» illustrate da questi riferimenti giudaici rimangono comunque significative anche quando ci si muove in orizzonti più vasti.
1 Cf. Rashi a Gen 32,8.
2 Cf. il racconto di A. Gide, Il ritorno del figliol prodigo (1907). Per altre esemplificazioni, cf. C. Mazzucco, Il figliol prodigo nella parabola lucana e nelle reinterpretazioni di alcuni autori europei della prima metà del ’900, Edizioni dell’Orso, Alessandria 2008.
3 ‘Avot de-Rabbi Natan A, 12.
4 ‘Avot de-Rabbi Natan B, 25.
LA DOMANDA CAPOVOLTA: QUANDO "TUTTO SI ROVESCIA". La relazione figli-genitori.... *
Dare onore oltre ogni merito.
La relazione figli-genitori nell’insegnamento del Papa
di Marina Corradi (Avvenire, 20 settembre 2018)
Onora il padre e la madre. La parola del Quarto comandamento risuona da migliaia di anni, ma da altrettanto tempo generazioni di figli si sono domandate perché onorare quei genitori che magari li hanno abbandonati, o maltrattati, o fatti soffrire. “Onora il padre e la madre”, dice il Decalogo, come prescindendo dall’infelicità di certe famiglie di ieri come di oggi.
Onora tuo padre che non ti ha riconosciuto, che picchia tua madre, che se ne è andato? Un simile “onore” potrebbe apparire un’astratta, esteriore formalità. Ma questo onore, cos’è? Il Papa in Udienza ieri ha spiegato che il termine ebraico indica il «peso», la consistenza di una realtà. Non è questione di forme esteriori, ha aggiunto Francesco, «ma di verità». Cioè questo onore ha a che fare con il riconoscimento di un dato oggettivo. Tua madre e tuo padre ti hanno dato la vita.
A prescindere da cosa sia successo poi, l’«onore» che devi loro è legato a questa incontrovertibile verità. Il Quarto comandamento, ha spiegato papa Francesco, «Non parla della bontà dei genitori, non richiede che i padri e le madri siano perfetti. Parla di un atto dei figli, a prescindere dai meriti dei genitori, e dice una cosa straordinaria e liberante: anche se non tutti i genitori sono buoni e non tutte le infanzie sono serene, tutti i figli possono essere felici, perché il raggiungimento di una vita piena e felice dipende dalla giusta riconoscenza verso chi ci ha messo al mondo».
Perché quel comandamento si conclude con una parola ben nota, certo, ai religiosi e ai biblisti, meno alla gente comune e meno ancora ai ragazzi di oggi, una generazione che in ampie proporzioni viene ormai da famiglie divise e sofferenti. Onora il padre e la madre, dunque, si legge nel Deuteronomio, «perché si prolunghino i tuoi giorni e tu sia felice nel paese che il Signore, tuo Dio, ti dà». Annota Francesco: «La parola “felicità” nel Decalogo compare solo legata alla relazione con i genitori».
Dieci comandamenti, ma, singolare, solo in uno si fa esplicito riferimento alla felicità. Quell’«onore» dovuto riguarda una riconoscenza per il fatto di essere stati dati alla luce, e ha poi a che fare, in ultimo, con la felicità. Anche qui, certo, molti figli potrebbero umanamente recriminare che la vita data, e poi da quei genitori ferita o abbandonata, non è così bella da meritare tanta gratitudine. Spesso chi ne è protagonista trascorre l’esistenza a domandarsi “perché”, perché a me questa famiglia, perché a me, questa infanzia. Ma è una domanda sbagliata.
La domanda giusta, ha detto il Papa, non è «perché» ma «per chi» mi è successo questo, e ha spiegato: «In vista di quale opera Dio mi ha forgiato attraverso la mia storia? Qui tutto si rovescia, tutto diventa prezioso, tutto diventa costruttivo». In questo sguardo rovesciato le ferite dei figli possono diventare luoghi fecondi dell’anima. I silenzi e le parole, le assenze, i litigi, tutto ciò che segretamente ha fatto male, e perfino gli abbandoni e le violenze: di tutto questo dovremmo non chiederci più «perché», ma «per chi».
A quale disegno si è stati chiamati dentro alla incapacità o alla fragilità dei padri. Perché l’infanzia, come ha ricordato Francesco, è scritta «con inchiostro indelebile». Non ci si chiede di dimenticare, ma di andare oltre: a cosa serviva la sofferenza attraversata, e a che cosa ci chiama la forma, il “cuore” che con esso ci è stato dato.
Dentro a questo sguardo la vita ricevuta è davvero un dono. Dentro a questo sguardo l’onore dovuto ai genitori è anche, ha concluso Francesco, «misericordiosa accoglienza dei loro limiti». (Quasi fossimo noi, ora, madri e padri pietosi, e loro i figli). Quanta libertà e speranza in questa prospettiva.
I cristiani di una certa età vengono da tempi in cui ai bambini al catechismo veniva detto spesso «Onora il padre e la madre», e basta, come dando per scontate famiglie unite e perfette, come non prevedendo le sofferenze e i torti che pure allora c’erano. Oggi, con tanti figli che fin da piccoli vedono la famiglia spezzarsi, e con questa il loro stesso mondo, la “seconda parte” del Quarto comandamento ricordata dal Papa è una parola fondante. Non c’è solo il rancore, la tristezza, la depressione come reazione a certe infanzie, e nemmeno solo le psicoterapie, che analizzano, sezionano i ricordi, ma alla fine non curano la memoria. C’è anche questa domanda inconsueta, capovolta, posta da Francesco. Non più «perché», ma «per chi».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA VITA, L’ETICA E LA VERITA’ E IL LORO FONDAMENTO NASCOSTO, L’AMORE (DEUS CHARITAS). Come un "padre" diventa "figlio del suo figlio" - e il figlio "padre del suo padre"
"DUE SOLI". Come MARIA: "FIGLIA DEL TUO FIGLIO", così GIUSEPPE: "FIGLIO DEL TUO FIGLIO"!!! Dante non "cantò i mosaici" dei "faraoni", ma soprattutto la Legge del "Dio" di Mosè di Elia e di Gesù, del "Dio" dei nostri "Padri" e delle nostre "Madri". L’Amore che muove il Sole e le altre stelle
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
di Vito Mancuso (la Repubblica, 30 marzo 2017)
Essere figli, ovvero l’arte di vivere e di nutrire la vita: è questa la posta in gioco. Infatti ben prima di avere uno o più figli, a tutti si impone il fatto di essere figlio, di essere figlia, vale a dire di ricevere la vita, il corpo e il carattere da “Altro”, come scrive Massimo Recalcati nel suo ultimo libro (“Il segreto del figlio”, Feltrinelli) usando sempre regolarmente la maiuscola. Qual è il senso di questa maiuscola? Nessuna somiglianza con il “totalmente Altro” mediante cui Rudolf Otto o Max Horkheimer alludevano al “Numinoso”, nulla a che fare con Dio.
Tuttavia l’uso così reiterato del maiuscolo segnala pur sempre una trascendenza, il desiderio di indicare qualcosa di più grande di noi che ci attraversa e ci fonda nella nostra più intima identità. Vale a dire: la nostra più intima identità non è nostra. È Altro. Ecco il mistero, il segreto dell’essere uomini in quanto tutti inevitabilmente figli.
Tutta la parabola della modernità occidentale è stata vissuta all’insegna dell’uscita dalla condizione di figlio su cui il cristianesimo aveva strutturato fino ad allora la coscienza occidentale: Dio come Padre e la Madonna come Madre, con tutta la storia dell’arte a testimone. Si pensi, di contro, alle celebri parole con cui Kant apre lo scritto sull’Illuminismo del 1784: «L’Illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minore età». Ovvero l’uscita dalla condizione di figlio.L’Occidente non ha più voluto concepire la propria identità all’insegna dell’essere figlio e così la sua maggiore età ha coinciso logicamente con l’abbandono del Padre. Sto parlando della “morte di Dio”, proclamata prima sommessamente da Hegel con il saggio Fede e sapere del 1802, poi trionfalmente da Nietzsche con La gaia scienza del 1882. Il non voler più essere figli ha significato necessariamente la morte di Dio.
Ma la questione al centro del libro di Recalcati è la figliolanza e al riguardo io chiedo: è naturale, per chi è inevitabilmente e primariamente figlio, non riconoscere che la sua identità passa necessariamente dal rapporto di dipendenza in quanto rapporto con “Altro”? Non lo è, e forse il sempre più manifesto malessere che circonda l’esistenza occidentale dipende proprio dall’oblio della nostra condizione di figli. Anzi, forse con i nostri figli non sappiamo più avere un rapporto autorevole e che sia per loro realmente di guida (mentre indugiamo nella retorica del dialogo e dell’empatia così fortemente criticata da Recalcati) proprio perché a nostra volta non sappiamo più essere figli e rapportarci a un padre, cioè a una dimensione più importante di noi. La morte di Dio all’interno di una civiltà non è una cosa da poco e non passa senza conseguenze anche per le minute esistenze dei singoli.
Il punto non è certo il ritorno alla fede in Dio del passato, quanto piuttosto la necessità di una gerarchia mentale che faccia evitare quella «sorta di immedesimazione confusiva frutto di un’orizzontalizzazione del legame che smarrisce ogni senso di verticalità», con la conseguente «retorica pedagogica del dialogo oggi imperante». Il concetto centrale del libro infatti è che con i figli non si tratta tanto di dialogare e di cercare empatia, quanto piuttosto del «riconoscimento che la vita di un figlio è innanzitutto una vita altra, straniera, distinta, differente». Si tratta cioè di arrivare a comprendere che il figlio è «un mistero che resiste a ogni sforzo di interpretazione», è «un segreto indecifrabile che deve essere rispettato come tale». Parole antiche, che fanno venire in mente il Profeta di Gibran: «I vostri figli non sono i vostri figli... Essi non vengono da voi, ma attraverso voi, e non vi appartengono».
Ma la domanda è: la nostra cultura, così priva del senso dell’Altro e ossessionata dal desiderio di avere perché tutto ha un prezzo e si può comprare pagando (anche un figlio!), è in grado di concepire ancora il significato di termini come “mistero” e “segreto”, e di fermarsi con rispetto di fronte alla realtà indisponibile cui rimandano? Recalcati sostiene anche che essere figli significa essere eredi, il che comporta non solo ereditare dei beni ma anche costruirsi una propria e diversa identità perché «il figlio giusto è un erede, ma è anche sempre un eretico», non si limita cioè a ripetere il passato, ma lo riprende attualizzandolo originariamente nel suo presente.
Si tratta quindi di evitare due estremi: da un lato ignorare completamente il padre, dall’altro rimanere appiattiti sull’identità paterna dimenticando che la condizione di figlio «esige sempre il diritto alla rivolta». Occorre avere un padre e al contempo superarlo, occorre avere un dogma e al contempo contestarlo, perché solo così si costruisce la personalità matura: mediante questo legame vero ma libero e creativo con il padre e con ciò che simboleggia in termini di passato, tradizione, autorità, legge. Appartenenza ed erranza. Ma perché questa delicata dialettica possa aver luogo, i figli, ben lungi dall’avere nei genitori dei comodi fornitori di servizi, «necessitano di trovare nei propri genitori degli ostacoli».
Quale tipo di ostacoli? Qui sta la differenza tra Edipo e il figlio ritrovato della parabola evangelica (tradizionalmente detto “figliol prodigo”) attorno ai quali è costruito il libro. Entrambi vivono l’esigenza insopprimibile di abbandonare la casa per costruirsi un’identità diversa da quella preparata per loro, ed entrambi iniziano il loro percorso con una trasgressione. Ma mentre nel caso di Edipo la legge del destino inesorabilmente si compie, nella parabola evangelica si assiste a un superamento della legge da parte del padre. Per favorire il compiersi dell’identità del figlio, il padre accetta la ribellione del figlio e divide in due le sue sostanze, anzi «soprattutto se stesso». Se però da parte del padre non c’è nessuna intransigente opposizione nel nome della Legge, non c’è neppure l’appiccicosa e fatua complicità di chi vuol compiere le stesse bravate del figlio. Il padre prende sul serio l’esigenza della libertà del figlio di provare se stesso ma rimane padre, non si trasforma in amico, e così rimane ancora fedele al suo ruolo di “ostacolo”. E proprio di questo il figlio ha bisogno, perché «non si può essere figli giusti se si rinnega il padre».
Eccoci al punto. Secondo Recalcati il dramma specifico dei nostri giorni consiste nel fatto che «i nostri figli vivono il dramma del vuoto della Legge», una nuova specie di smarrimento data dall’assenza di codici, valori stabili, punti di riferimento. Per questo, se il compito dei genitori è di «avere fede nel segreto incomprensibile del figlio», occorre essere consapevoli che questo compito sarà espletabile non sulla base dell’ideologia orizzontale del dialogo e dell’empatia, ma solo sulla base di una fede nell’Altro quale nuova legge della relazione umana.
Massimo Recalcati, Il segreto del figlio *
Dopo le fondamentali e fortunatissime analisi della figura del padre e della madre nella civiltà contemporanea, con questo libro Massimo Recalcati completa un’ideale trilogia concentrando il suo sguardo sulla figura del figlio. Lo splendore di un figlio consiste nel suo segreto, che si sottrae alla retorica dell’empatia e del dialogo oggi conformisticamente dominante. Un figlio è un’esistenza unica, distinta e irriducibile a quella dei suoi genitori.
Contro ogni autoritarismo e contro una pedagogia falsamente libertaria che vorrebbe annullare la differenza simbolica tra le generazioni, Recalcati afferma il diritto del figlio a custodire il segreto della sua vita e del suo desiderio. Il confronto tra due figure mitiche di figlio - quella dell’Edipo di Sofocle e quella del figlio ritrovato della parabola lucana, alle quali fanno eco quelle di Isacco e di Amleto - offre una prospettiva particolare attraverso la quale osservare il segreto del figlio.
Edipo resta imprigionato in un destino che non gli lascia scampo, dove tutto è già scritto sin dall’inizio: il tentato figlicidio del padre si rovescia nel parricidio e nell’incesto del figlio.
Diversamente, il figlio ritrovato di cui Gesù narra la vicenda è colui che sa, pur nell’erranza e nel fallimento, distinguersi dalle sue origini. L’abbraccio del padre, in questo caso, non vuole soffocare o punire il figlio, ma riconoscerlo nella differenza incomprensibile e incondivisibile di una vita diversa.
“Nel tempo in cui tramonta la Legge che punisce e castiga inesorabilmente, il compito primo - il più alto e il più difficile - dei genitori è quello di avere fede nel segreto incomprensibile del figlio e nel suo splendore.”
* Pagina dal sito: Alzogliocchialcielo (29 marzo 2017).
AL DI LA’ DELLA TRINITA’ EDIPICA. "DIO NON E’ CATTOLICO" (Carlo M. Martini). E LA "CHARITAS" NON E’ LA "CARITAS" (Benedetto XVI, Deus caritas est, 2006)!!!
I tabù del mondo
Il coraggio del figliol prodigo di sfidare il padre
Il protagonista della parabola raccontata dall’evangelista Luca fugge dalla famiglia e finisce in povertà
Ma la sua sfacciata ribellione, la sua richiesta di avere subito la sua parte di eredità è molto attuale: “I nostri ragazzi non sono forse animati dalla stessa spinta al godimento immediato?”
È irresponsabile, infrange la Legge, ma è capace di compiere un atto fuori dalla tutela garantita del genitore. Non come il fratello, passivo e risentito
di Massimo Recalcati (la Repubblica, 10.04.2016)
Quale è la forza della parabola evangelica del figliol prodigo? Essa ci porta nel vivo del complesso rapporto tra padri e figli. La sua straordinaria attualità è evidente sin dalla sua apertura: il figlio minore reclama il diritto a ricevere subito la parte dell’eredità che gli spetta schierandosi apertamente contro la Legge ebraica che imponeva che l’eredità potesse essere divisa solo dopo la morte del padre. Egli sfida sfacciatamente il tabù del padre; non ha timore, non retrocede.
La sua domanda incarna una esigenza che non può essere differita e che non conosce mediazioni. La sua forma è imperativa come riporta l’evangelista Luca. Il figlio si rivolge al padre dicendogli: «Dammi!». Il padre viene inchiodato a commettere un atto contro la Legge: dare al figlio minore la sua parte di eredità pur essendo ancora in vita. Non è questa una cifra del nostro tempo, come ricorda in un intenso commento di questa parabola Paolo Farinella in Il padre che fu madre (Gabrielli editori, 2010)?
I nostri figli non sono forse animati da domande imperative, dalla spinta a realizzare il prima possibile un godimento che non tollera più alcun differimento? Non è questo forse uno scoglio sul quale sembra infrangersi il discorso educativo contemporaneo?
L’esclamazione «Dammi!» misconosce il debito ribaltandolo in un credito infinito. Essere figli non implica l’iscrizione della vita nella catena delle generazioni che ci hanno preceduto, non implica alcun debito simbolico ma solo un credito sconfinato. Il figlio minore non assume nessuna responsabilità se non quella della sua domanda impaziente.
E, tuttavia, è proprio questo figlio irresponsabile che infrange la Legge, che abbandona la casa del padre mettendosi in moto verso un paese lontano, il solo capace di compiere un atto fuori dalla tutela garantita del padre. Tra i due figli del padre è quello più giovane, più libero, meno vincolato al debito a compiere un passo giusto al di fuori dalla famiglia. Al contrario, il fratello maggiore resta schiacciato da una responsabilità che egli interpreta solo in modo sacrificale, come fedeltà passiva e obbediente al padre. Nella sua ottica miope e risentita il giusto erede è colui che si limita a ripetere la scelta del padre.
In questo modo la parabola lucana evidenzia due peccati contrapposti che sembrano definire due fallimenti differenti dell’eredità. Il più giovane pecca per misconoscimento del debito, mentre il primogenito per una sua interpretazione solo sacrificale; il primo sceglie la via improduttiva della rivolta nei confronti del padre, mentre il secondo quella, ugualmente improduttiva, della obbedienza rinunciataria e risentita.
Per entrambi l’accesso ad una giusta eredità resta precluso. E, tuttavia, tra i due il solo capace di trasformazione è il più giovane. Conosciamo la storia: sperpererà la sua parte di eredità in un paese lontano, finirà povero a contendere le ghiande ai porci. E quando deciderà di ritornare a casa resterà ancora incapace a cogliere la radice profonda del gesto del padre che lo ha lasciato andare e che ora si appresta a festeggiare il suo ritorno. In realtà nessuno dei due figli sa davvero cosa può essere la solitudine di un padre.
L’irrequietezza rivoltosa del più giovane e la fedeltà risentita del primogenito sono solo due interpretazioni nevrotiche del dono paterno. Ma solo il figlio che ha rischiato di perdersi potrà davvero conoscerlo. Il padre non punisce il figlio che ritorna, non applica su di lui la Legge, non lo castiga. Questa sarà piuttosto l’attesa delusa del fratello maggiore.
Il padre spiazza la Legge perché corre incontro al figlio, lo abbraccia, lo riveste convocando una festa in suo onore. Perché? Scegliendo la via del perdono offre la possibilità al figlio di conoscere una nuova versione della Legge. Non quella che punisce, che sentenzia. Il padre della parabola è un padre capace di amare perché capace di perdonare, ovvero di sospendere l’applicazione automatica della Legge nel nome dell’esistenza di un’altra Legge.
Il padre accoglie il figlio che ritorna e solo in questo gesto lo può davvero ritrovare come figlio, o, meglio, lo fa nascere una seconda volta come figlio giusto. È questo il nucleo più profondo della parabola: non è forse la forza straordinaria del perdono a rendere possibile il miracolo della resurrezione? A consentire il ritrovamento di chi si è perduto, a consentire una seconda possibilità? È questa l’immagine evangelica del pastore che si preoccupa dell’eccezione inquieta della pecora smarrita trascurando la normalità tranquilla del resto del gregge. Il comportamento del pastore appare scriteriato dal punto di vista della ragione: perché mettere a repentaglio un patrimonio intero per rincorrere una sola pecora? Egli però si allarma perché vuole dare testimonianza del fatto che «gli uomini non sono fatti per la Legge», ma è la «Legge che è fatta per gli uomini».
Il padre sa bene che la festa in onore del figlio spiazza ogni applicazione canonica della Legge aprendo la porta all’evento sempre possibile della grazia. Ma non dobbiamo leggere in questa apertura imprevedibile, ma possibile, dell’eccezione la differenza tra il Dio biblico e quello pagano che, invece, condanna spietatamente il figlio-Edipo al suo irrevocabile destino di figlio perduto, incestuoso e parricida? Non è forse per questa ragione che il Dio cristiano è sempre più interessato agli atei che non ai credenti? Che la sua gioia è maggiore «per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione » (Lc, 15,7.10)?
La personificazione della virtù nell’arte sacra è rara e spesso affidata a Maria. Per evitare la “femminilizzazione” di Dio
di Tomaso Montanari (la Repubblica, 07.03.2016)
Misericordiae vultus è il titolo della bolla con cui papa Francesco ha indetto il giubileo straordinario. Ma dove possiamo vederlo, il volto della misericordia? In quale immagine, in quale opera d’arte, in quale iconografia? La risposta è sorprendente: nell’arte sacra la personificazione della Misericordia non ha quasi avuto diritto di cittadinanza. Tutta la scena è stata occupata dalle virtù teologali (Fede, Speranza, Carità), e dalle consorelle cardinali (Prudenza, Giustizia, Fortezza, Temperanza): perché la Misericordia non è una virtù, ma, come scriveva già Dante, «è passione», cioè un moto profondissimo dell’anima. E questo ha sempre insospettito la macchina del potere ecclesiastico, che ha preferito doti meno eversive.
Esiste, certo, la tradizione iconografica delle opere di misericordia, che ha prediletto le sette corporali, raffigurandole per esempio negli ospedali (si pensi al fregio di quello del Ceppo, a Pistoia, eseguito intorno al 1525 da Santi Buglioni).
In un suo recente libro ( La mia idea di arte, a cura di Tiziana Lupi) papa Francesco ha incluso una di queste serie tra gli esempi che fanno capire il suo rapporto con il figurativo: le Opere di misericordia di Olivuccio di Ciccarello, che oggi sono nella Pinacoteca Vaticana, ma che furono dipinte, nei primi anni del Quattrocento, per la Chiesa della Misericordia di Ancona. Il papa ama questo ciclo perché qua «gli “scartati” della società si sono affermati come attori principali della rappresentazione »: un punto di vista radicalmente evangelico, che probabilmente i contemporanei di Olivuccio non avrebbero condiviso, concentrati com’erano sul ruolo non dei bisognosi, ma dei benefattori, cioè di se stessi.
Il papa potrebbe trovare, sempre nei Sacri Palazzi, un esempio monumentale di questo “protagonismo degli scartati”: l’affresco in cui Beato Angelico (pittore santo e frate mendicante) esalta san Lorenzo che distribuisce ai poveri i beni della Chiesa. È somma la dignità con cui i mendicanti, gli straccioni, i bambini scalzi dell’Angelico occupano la prospettiva della basilica aulica in cui avviene il gesto eversivo: la gerarchia ecclesiastica che si spoglia delle sue ricchezze, e sul muro della cappella privata di un papa!
Questo filone iconografico tocca l’apice nella pala d’altare in cui Caravaggio concentra le
Sette Opere di Misericordia,
ambientandole - scrive Roberto Longhi - «all’imbrunire, in un quadrivio napoletano», con gli angeli che volano «all’altezza dei primi piani, nello sgocciolìo delle lenzuola lavate alla peggio, e sventolanti a festone sotto la finestra cui ora si affaccia una “nostra donna col Bambino” ».
Grazie alla presenza di Maria - salutata fin dal X secolo come «mater misericordiae» - Caravaggio fonde l’iconografia delle Sette opere con quella della Madonna della Misericordia, colei che riunisce sotto il suo manto tutti i fedeli: un’immagine diffusissima nel Medioevo italiano, che Piero della Francesca (nel polittico di Borgo San Sepolcro, dipinto intorno al 1460) trasforma in uno spazio abitabile, una vera architettura di misericordia.
Il volto della misericordia è dunque il volto di Maria? Nell’arte italiana certamente sì: una scelta rassicurante, che pone tuttavia due problemi. Il primo è la divaricazione tra la misericordia della Madre e la verità del Figlio: quando invece il fulcro dell’annuncio messianico è che «misericordia e verità s’incontreranno, giustizia e pace si baceranno» (Salmo 84). Il secondo è che il monopolio di Maria serve a non attribuire a Gesù o a Dio Padre la visceralità della misericordia: ad evitare, insomma, una femminilizzazione di Dio che avrebbe stravolto gli stereotipi di genere.
Dopo il Concilio di Trento la Chiesa cercherà di eliminare perfino le immagini in cui è la stessa Maria ad apparire troppo umana (lo svenimento sotto la Croce, per esempio): figuriamoci rappresentare Gesù, o Dio Padre, commossi! E il punto, invece, era proprio quello: Dio è il Misericordioso perché di fronte ai figli le sue viscere di padre si muovono, e nemmeno Lui può fermarle. Ed è questa meravigliosa tenerezza di un Padre travolto dalla misericordia che sta oggi al centro della teologia di papa Francesco.
Quando apprende che il suo amico Lazzaro è morto, Gesù piange: ma inutilmente si cercherebbe il Signore in lacrime nella nostra storia dell’arte. E la traduzione italiana dei vangeli ha edulcorato, fino a travisarlo, il vasto repertorio in cui Gesù sente, letteralmente, il movimento delle proprie viscere («splancna», in greco). Nella città di Nain vede una vedova che porta alla sepoltura il suo figlio unico: senza che nessuno gli chieda nulla, Gesù si avvicina e lo resuscita, perché «le sue viscere lo avevano portato verso di lei» (Luca 7). Lo stesso avviene per i due ciechi di Gerico (Matteo 20). E quando il lebbroso gli grida: «se vuoi, puoi guarirmi », è il movimento delle viscere che trascina Gesù a rispondergli «Lo voglio, guarisci! » (Marco, 1).
Ma questo Gesù visceralmente misericordioso non ha alcun diritto di cittadinanza nell’iconografia, controllata per secoli dalla Chiesa. Eppure è Gesù stesso a suggerire alcune immagini: «Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi coloro che sono mandati a te, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una gallina la sua covata sotto le ali, e voi non avete voluto!» (Luca 13). Ma se abbiamo, in secoli d’arte cristiana, infinite rappresentazioni di un Gesù-pellicano che si squarcia il petto per nutrire i piccoli (trasparente allegoria della Passione), non abbiamo nemmeno un Gesù-chioccia: perché un Cristo femminile, uterino, era impensabile per il potere maschile del clero.
E, allora, dove cercare? Nella bolla, Francesco cita un’immagine evangelica che gli è particolarmente cara: quella della vocazione di Matteo. Gesù sceglie come apostolo ed evangelista l’esattore delle tasse, collaborazionista dei romani: il peggio in assoluto. Il Venerabile Beda ha commentato che qui Gesù agisce «miserando atque eligendo », cioè scegliendo attraverso la misericordia: ed è questa la frase che Bergoglio ha voluto come motto papale. In un’altra occasione il papa ha parlato del suo amore per il quadro più celebre che rappresenta quella scena: la Vocazione di Matteo di Caravaggio in San Luigi dei Francesi, vero manifesto della misericordia come metodo di governo.
Ma forse l’opera che più di ogni altra può diventare l’icona di questo Giubileo (e che infatti è già stampata sulle copertine di alcune traduzioni della bolla di indizione) è il Figliol prodigo (o meglio, appunto, il Padre misericordioso) di Rembrandt (1666-69 circa). Anche perché la parabola, su cui papa Francesco si è soffermato ieri all’Angelus, potrebbe essere il vero fulcro tematico di questo Giubileo.
Sotto lo sguardo ostile del fratello virtuoso, il figlio corrotto e ingrato è tornato, lacero e miserabile. Il padre si china verso di lui, lo accoglie: lo abbraccia e insieme lo benedice, con due mani immense. Non chiede, non processa, non rimprovera: chiude gli occhi per la commozione, e nessuno osa rompere il silenzio. È stato un artista protestante, lontano da ogni clero, a fare il più bel ritratto delle viscere misericordiose di un Dio padre che è anche madre.
di Massimo Recalcati (la Repubblica, 29.01.2016)
Freud dava due notizie ai genitori. La prima, piuttosto disarmante, è che si tratta di un mestiere impossibile. La seconda, che forse ci può rincuorare, è che i migliori tra loro sono quelli consapevoli di questa impossibilità.
Ma perché il mestiere del genitore sarebbe impossibile? Perché, come mostra l’esperienza, non si può esercitare questa funzione se non in modo sempre, più o meno, insufficiente, incerto. Nessuno può, infatti, possedere la risposta infallibile su qual è il senso della vita, del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto. Tutti noi ci barcameniamo alla meno peggio navigando a vista, rinunciando alla favola della mano sicura che guida la vita dei figli. Questo spiega anche perché i peggiori genitori sono invece quelli che pensano di essere dei buoni genitori, o, peggio, di incarnarne il loro modello ideale.
La psicoanalisi raccoglie sovente i cocci provocati da questo tipo di genitori eccessivamente identificati alla loro funzione educativa. Accadde, tra gli altri, al povero Schreber, presidente della Corte di Appello di Lipsia, paranoico delirante, che dovette sopportare da bambino il sadismo folle di un padre inventore di apparecchi educativi finalizzati a correggere la scarsa forza di volontà dei suoi figli.
Affermare che il mestiere del genitore è impossibile significa che non esistono manuali in grado di spiegare come si fa ad essere un genitore sufficientemente buono. La credenza - al limite della superstizione - del nostro tempo alimenta invece la fantasia che esistano ricette predefinite e valide per tutti capaci di rendere le cure genitoriali efficaci. Manuali che spiegano come regolare il sonno del proprio bambino, il suo appetito, le sue facoltà cognitive, il suo temperamento, il suo comportamento in generale. Manuali che spiegano come calibrare nella giusta misura gratificazioni e frustrazioni, premi e punizioni, affettività e normatività.
Non casualmente questo proliferare di un sapere educativo pret-à-porter fiorisce proprio nel momento in cui si assiste al tramonto dell’autorità simbolica in tutte le sue declinazioni, prima fra tutte quelle del pater familias. Se il tempo del padre-padrone si è esaurito, bisogna affidarsi a manuali dall’aspetto più democratico e ammantati da una parvenza di scientificità per orientare con sicurezza la vita dei nostri figli. Ecco allora apparire un esercito di esperti specializzati sulla funzione genitoriale che spiegano - di fronte al vuoto lasciato dal declino (benedetto) dell’ideologia patriarcale - in che cosa consisterebbe la “giusta” educazione. Una pletora di istruttori di genitori (solitamente, a loro volta, genitori protagonisti di fallimenti) si prodiga nell’elencare le regole che dovrebbero garantire un successo educativo.
Ma è questa la via per provare a reinventare un modello educativo alternativo a quello che abbiamo ereditato dall’ideologia patriarcale e ai fallimenti di quello libertario post ‘68? I migliori genitori, spiega Freud, sono quelli consapevoli della loro insufficienza, ovvero quelli che rifuggono da un sapere predefinito, standard. Quelli che sanno che la sola cosa che conta nel rapporto coi figli è aver fatto loro segno dell’amore, ovvero riconoscerli nella loro assoluta particolarità. Senza questo riconoscimento la vita si ammala, si depotenzia, si disperde.
Quello che conta nel processo di umanizzazione della vita è avere fede nel desiderio dei propri figli, donare loro la possibilità della sconfitta e del fallimento, ma anche quella di rialzarsi, di ripartire contando sul sostegno dei loro genitori. Quello che conta è donare loro la libertà di essere diversi da come li avremmo voluti; è lasciarli essere quello che sono. Sartre diceva che se i genitori hanno delle attese sui figli i figli avranno dei destini e, solitamente, assai infelici. Nessuna regola comportamentale può compensare l’assenza del segno d’amore che sa riconoscere la particolarità reale del figlio al di là di ogni sua rappresentazione ideale.
Diventare adulti
Obbedire o ribellarsi?
di Francesca Rigotti (Il Sole-24 Ore - Domenica, 14.06.2015)
Nel 1784 Immanuel Kant pubblicò un opuscolo dal titolo Was ist Aufklärung? destinato a diventare il manifesto della ragione illuminata. È un’esortazione all’uso della propria intelligenza, un elogio del rischiaramento dei nuovi tempi, un inno al coraggio e all’azione. Tale «rischiaramento» coincide con l’uscita dalla autocolpevole minorità, che viene premiata col passaggio alla condizione di adulto caratterizzata da libertà, autonomia e indipendenza soprattutto economica.
Da questa particolare uscita prende le mosse Curi, nella sua personale e originale ricognizione del transito alla maggiorità quale processo mai concluso ma che si rinnova, si potrebbe dire, ogni giorno. Per assumere la nuova postura priva di sostegni e abbandonare il girello per bambini di cui parla Kant occorre «osare sapere», ovvero rapportarsi al padre. (Ben consapevole del carattere sessista del linguaggio, Curi lo demolisce subito chiarendo fin dalle primissime pagine che non terrà conto della distinzione di sesso).
Si esce dalla minorità disobbedendo al padre o uccidendolo, commettendo dunque parricidio, come farà Edipo, colui che risolve l’enigma dei piedi perché ha il piede nel nome. La nostra tradizione è ricca di eroi giovani che instaurano il nuovo ordine distruggendo il vecchio, e ricavano da questo atto la legittimità del pensare con la propria testa e agire di propria iniziativa. La faccenda sembra lineare, la soluzione univoca. Si uccide il padre e si eredita il regno, vedi, con le varianti del caso, Amleto, o il Prigaioniero de I Fratelli Karamazov.
Ma con Curi le cose non sono mai semplici e lineari e soprattutto non univoche, perché è proprio Curi che da tempo ci ripete che la condizione dell’essere umano è di essere uno e molti, di avere i tanti piedi di cui parla l’indovinello della Sfinge. E infatti, ecco che il passaggio alla maggiorità segue un altro modello, antitetico al primo: non la ribellione ma l’obbedienza al padre. L’obbedienza di Abramo, Gesù, Francesco d’Assisi, Giovanni della Croce. Obbedienze attive condotte in piedi guardando in faccia il padre con amore. Eppure nemmeno questa è la soluzione, dal momento che la porta di Curi rimane, per quanto stretta, sempre aperta. Anche davanti a chi a uscire dalla minorità non ci pensa nemmeno; è il caso di Bartleby, lo scrivano del racconto di Melville, che alla proposta di modificare la sua banale mansione, risponde pacatamente: «Preferirei di no», affermando la sua libertà di non obbedire né uccidere.
LETTURE BIBLICHE
QUANDO SI DICE DIO PADRE
di Franco Barbero *
In queste settimane mediteremo dei testi - come succede
del resto un po’ tutto l’anno - in cui Dio viene
“nominato” con la metafora del “Padre”. Le teologie
femministe in particolare ci hanno aiutato, ormai da molti
anni, a riflettere con maggior consapevolezza sul fatto
che Dio è tanto padre quanto madre; anzi Dio non è una
realtà sessuata.
L
’osservazione non è né ovvia, né banale,
né scontata perché spesso nella tradizione cristiana
l’accezione maschile di Dio ha favorito la deviazione di
un immaginario maschilista e patriarcale che poi ha
invaso la teologia e le strutture delle chiese cristiane
favorendo l’emarginazione delle donne.
Dio è stato vestito di panni maschili compiendo così un grave travisamento teologico e culturale che ha poi registrato spesso gravi ricadute nei rapporti uomo- donna. Qui Dio Padre è usato con valenze completamente diverse. Sulla bocca di Gesù è cifra dell’amore accogliente.
Amore straripante
Ho davanti a me una montagna di commentari biblici in cui, con competenza e passione, si legge e si medita su questa straordinaria parabola. Gli studiosi non sono nemmeno d’accordo sul “titolo”. Parabola del “Padre e i figli” oppure parabola del “Padre misericordioso” o del “figliol prodigo”?
Ma questa divergenza è tutto sommato irrilevante. Infatti si tratta di una pagina talmente “straripante” di significati che diventa quasi impossibile darle un “titolo” capace di cogliere la punta della parabola. Per quel che riguarda il contenuto essa invece è unitaria; nessun singolo elemento può essere eliminato senza pregiudicare l’intera struttura narrativa della parabola.
Un po’ di attenzione al testo
Mi servo di due pagine che ritengo straordinariamente espressive del grande esegeta di Zurigo (HANS WEDER, Metafore del regno , Paideia Editrice, pagg. 304-305). “Un primo momento dell’interpretazione deve consistere nell’esaminare la narrazione in se stessa. Dopo un breve antefatto (v v . 11 e s.) che illustra la situazione di partenza e mette in movimento l’azione con la divisione dei beni paterni, segue la prima parte (v v . 13-24), che narra la sorte del figlio minore. La sua degradazione (v v . 13-16) inizia con la sua emigrazione in un paese lontano, dove egli perde il patrimonio; la degradazione prosegue: il figlio si trova nel bisogno; inoltre perde la sua purezza religiosa ebraica, quando è costretto a pascolare i porci di un pagano. La degradazione raggiunge il culmine, quando il figlio - che ormai lotta per la pura e semplice sopravvivenza - non riesce a saziare la sua fame neanche con il cibo dei maiali.
A questo punto la narrazione arriva alla peripezia cioè alla svolta che cambia il corso dell’azione (v v . 17-19) nella quale il figlio riflette razionalmente sulla sua situazione mettendola a confronto con quella dei salariati di suo padre. Il confronto gli rivela che la cosa più ovvia è tornare a casa e chiedere al padre di essere assunto come salariato. Il figlio riconosce che non ha più alcun diritto di essere chiamato figlio, perché ha peccato contro il cielo e contro il padre.
Gli eventi al suo ritorno si svolgono in maniera inaspettata (v v . 20-24): il padre previene la sua confessione di colpevolezza, abbracciando e baciando il figlio; in questo modo il padre annulla il passato del figlio, gli ridà la condizione di figlio e fa preparare una festa. Il figlio non riesce neppure a formulare la richiesta di essere assunto come salariato, poiché è già divenuto di nuovo il figlio del padrone e la festa non consente rinvii.
Nella seconda parte (v v . 25-32) è in primo piano il figlio maggiore: ritornando dai campi gli arriva l’eco della musica e delle danze; irritato si informa sull’accaduto; il resoconto del servo è formulato in modo tale da suggerire l’ovvietà del comportamento paterno. Il figlio maggiore non riesce però a vedere la questione con gli occhi del padre; adirato rimane fuori. Il padre viene a pregarlo. Ma il figlio resta aggrappato alla sua giustizia; non può accettare il minore come fratello (perciò dice “questo tuo figlio”, v . 30). Il padre ascolta i suoi argomenti e li confuta; ancora una volta prega il figlio di partecipare alla festa, affinché nella festa comune ridiventi figlio e fratello.
La figura centrale della narrazione (anche se non è sempre lui il protagonista) è il padre. E’ lui che conferisce unità alla vicenda dell’uno e dell’altro figlio; il suo amore incontenibile lo spinge a correre incontro al figlio minore e ad invitare il maggiore a lasciar da parte la sua giustizia ed a far festa assieme. L ’obiettivo fondamentale di questo amore è la ricomposizione della totalità”.
Accoglie l’uno e non dimentica l’altro
Questo Padre che nella parabola rimanda chiaramente a Dio non si limita ad un amore generico ed indifferenziato. Non si tratta di un amore di buoni sentimenti e di facili emozioni. Il Padre orienta il Suo amore a persone precise, in contesti precisi, in modo concreto, da cuore a cuore. Così la parabola ci parla, allude, tenta di esprimere il “come” dell’amore di Dio.
Al figlio che era partito da casa il Padre accorda un perdono che trionfa sul suo passato. Egli viene così introdotto in un presente nuovo. Ma il fratello maggiore si è anche lui perso dentro il suo perbenismo, dentro la sua osservanza.
Si tratta di due fratelli entrambi “perduti”, anche se in modi diversi . Dio, nelle vesti di questo Padre, vuole riunirli ambedue nella festa dell’amore. Questo succede quando si accoglie il regno di Dio, il Suo amore trasformante: il figlio minore si fa più “vicino a se stesso” riscoprendosi figlio e il fratello maggiore si fa più vicino all’altro uomo riscoprendolo fratello. La “festa dell’amore”, cioè il coinvolgimento nella strada di Dio, mette ognuno dei fratelli in un cammino e in un orizzonte nuovo. La conversione è cammino di tutti e due, di ciascuno/a di noi.
Se per caso...
Forse già Luca voleva ricordare alla sua comunità che le facili categorizzazioni sono false: la comunità non è divisibile come un pezzo di parmigiano in buoni e cattivi. L ’unità sostanziale di una comunità cristiana consiste nel prendere coscienza che il Padre ci cerca, ci accoglie, ci invita, ci avvolge tutti/e con il Suo amore e nessuno/ a di noi può pensare che la conversione sia faccenda che riguarda esclusivamente altri.
Forse Luca, buon conoscitore della sua comunità, voleva anche offrire ai fratelli e alle sorelle uno stimolo a fare i conti con questo amore straripante di Dio per “provocarli” a guardare oltre i calcoli, le meschinerie o le arroganze che spesso segnano i nostri rapporti quotidiani.
Disorientamento e ri-orientamento
La teologa Sallie McFague in un volume scritto molti anni fa ma edito in Italia solo nel 1998 (Modelli di Dio, Editrice Claudiana) scrive: “La parabola ha inizio nel mondo ordinario, con i suoi modelli e le sue attese convenzionali, ma nel corso della “storia” viene introdotta una prospettiva radicalmente diversa che disorienta l’ascoltatore e... viene creata una tensione che sfocia in un riorientamento, una ridefinizione della vita... La parabola costituisce un attacco contro le convenzioni accettate che la gente costruisce per proprio conforto e sicurezza. La parabola è un racconto inteso a invertire e sovvertire queste strutture culturali e sociali e a suggerire che la via del regno di Dio non è quella del mondo. Nelle parabole di Gesù vediamo un figlio maggiore che non ottiene quel che merita e un figlio minore che ottiene quel che non merita” (ivi, pag. 79).
Il nostro orientamento perbenista e logico subisce un radicale disorientamento e poi... compare all’orizzonte un riorientamento che comporta una nuova visione e impostazione delle relazioni e della vita.
Insomma, seguire Gesù significa accettare lo sconcerto
di un disorientamento che fa crollare il “modello”
vincente in questa società e accettare di essere
“riorientati” e accompagnati dalla mano invisibile di Dio:
un programma che passa attraverso la destabilizzazione
di tutto il nostro “palazzo”.
Capisco allora perché la curia
romana rimane aggrappata alle vecchie istituzioni prive
di ogni spessore di fede. Difendono il castello del potere
e dei dogmi perché non riescono ad accettare “il dono
dello smarrimento”, il disorientamento necessario per
entrare in un nuovo cammino: chi non si tuffa nelle acque
non arriva all’altra riva.
La “terraferma” delle nostre sicurezze spesso è la nostra prigione, la nostra rovina. Se non ti muovi di casa perché hai l’ossessione di dover custodire i tuoi presunti tesori, puoi morire di fame accanto ad un idolo o anche accanto ad un diamante.
Franco Barbero
*
Fonte: ASSOCIAZIONE VIOTTOLI. ANNO VII - N. 1/2004
Associazione V iottoli - Comunità cristiana di base --- c.so Torino, 288 - 10064 Pinerolo (TO)
La società orizzontale
di Massimo Recalcati (la Repubblica, 25 novembre 2012)
Nel nostro tempo spira un vento forte in direzione contraria alla funzione sociale delle istituzioni. Gli esempi sono molteplici e investono anche la nostra vita collettiva: dalla famiglia alla Scuola, dai partiti ai sindacati, dall’editoria alla vita affettiva, assistiamo ad una caduta tendenziale della mediazione e della sua funzione simbolica.
Di fronte ad una bocciatura i genitori tendono ad allearsi con i loro figli più che con gli insegnanti; possono cambiare scuola o impugnare la loro causa rivolgendosi ai giudici del Tar; il ruolo educativo da parte di un adulto suscita spesso il sospetto di un abuso di potere; la Rete offre la possibilità a chi ritiene di essere uno scrittore di farsi il proprio libro online senza passare dal giudizio degli editori; la figura del critico, che faceva da ponte tra opera e pubblico, è oramai azzerata; le amicizie non passano più dalla mediazione indispensabile dell’incontro dei volti e dei corpi, ma si coltivano in modo immateriale sui social networks;di fronte alla dimensione necessariamente snervante del conflitto politico si preferisce l’opzione della violenza o dell’insulto.
Anche i sintomi che affliggono la vita delle persone hanno cambiato di segno; mentre qualche decennio fa apparivano centrati sulle pene d’amore, sull’importanza irrinunciabile del legame sociale, oggi non è più la rottura del legame a fare soffrire, ma è l’esistenza del legame che viene avvertita come fonte di disagio.
Un disagio diffuso soprattutto tra i ragazzi. Milioni di giovani vivono, nel mondo cosiddetto civilizzato, come prigionieri volontari. Hanno interrotto ogni legame con il mondo, si sono ritirati nelle loro camere, hanno abbandonato scuola e lavoro. Questa moltitudine anonima preferisce il ritiro, il ripiegamento su di sé, alla difficoltà della traduzione imposta dalla legge della parola.
È un segno dei nostri tempi. Il Terzo appare sempre più come un intruso. Eppure non c’è vita umana che non si costituisca attraverso la mediazione simbolica dell’Altro. Il pianto angosciato di un bambino nella notte ci chiama alla risposta, alla presenza, ci convoca nella nostra responsabilità di accogliere la sua vita. Il mito del farsi da se stessi, dell’autogenerazione, come quello del farsi giustizia da sé, è un mito che il liberismo contemporaneo ha assunto come un suo stemma.
In realtà nessuno è padrone delle sue origini, come nessuno può essere salvatore del mondo. Non esiste comunità umana senza mediazione istituzionale, senza mediazione simbolica, senza il lavoro paziente della traduzione della lingua dell’Altro.
Divento ciò che sono solo passando dalla mediazione dell’Altro (famiglia, istituzioni, società, cultura, lavoro, ecc.) e non solo attraverso le esperienze personali che ho fatto. Nel nostro tempo questa mediazione necessaria alla vita è in crisi.
Nel nome di una società orizzontale che esalta i diritti degli individui senza dare il giusto peso alle loro responsabilità evapora la dimensione della mediazione simbolica: fare gli interessi della collettività è percepito come un abuso di potere contro la libertà dell’individuo.
Questo declino della mediazione simbolica non significa solo che il nostro tempo ha smarrito la funzione orientativa dei grandi ideali della modernità e scorre privo di bussole certe al di fuori dei binari solidi che le grandi narrazioni ideologiche del mondo (cattolicesimo, socialismo, comunismo, ecc) e le sue istituzioni disciplinari (Stato, Chiesa, Esercito) assicuravano, ma manifesta una sorta di mutazione antropologica della vita.
L’individualismo si afferma nella sua versione più cinica e narcisistica investendo la dimensione della mediazione simbolica di un sospetto radicale: tutte le istituzioni che dovrebbero garantire la vita della comunità non servono a niente, sono, nella migliore delle ipotesi, zavorre, pesi arcaici che frenano la volontà di potenza dell’individuo o, nella peggiore delle ipotesi, luoghi di sperpero e di corruzione osceni. Ma come? Non è compito delle istituzioni, come dichiarava Lacan, porre un freno al godimento individuale rendendo possibile il patto sociale, la vita in comune?
La violenza di questa crisi economica ha prodotto giusta indignazione e sfiducia verso tutto ciò che agisce in nome della vita pubblica, verso tutto ciò che sfugge al controllo diretto del cittadino. Le istituzioni non l’hanno saputa avvertire, frenare, governare.
Il caso della politica si impone come esemplare. Il luogo che secondoAristotele deve riuscire a determinare l’integrazione pubblica delle differenze individuali sotto il segno del bene dellapolis- il luogo più eminente della traduzione simbolica - si è rivelato corrotto dalla affermazione più scriteriata degli interessi individuali.
Il politico liberato dal peso dell’ideologia si è ridotto a un furfante che ruba per se stesso. Eppure non si può rinunciare così facilmente alla politica, l’arte della mediazione.Perché i rischi sono evidenti, li abbiamo visti in questi anni, tra leadership carismatiche e fondazioni mitiche. Li vediamo oggi quando avanza un nuovo populismo che si appoggia sulla democrazia tecnologica garantita dalla Rete per evitare la “truffa” della mediazione politica.
Ma il populismo non è forse una forma radicale di pensiero anti-istituzionale che rigetta la mediazione simbolica affermando l’illusione di una democrazia diretta puramente demagogica?In questo senso il liberale conservatore Lacan replicava alle critiche degli studenti del ’68 che gli rimproveravano di non autorizzare la rivolta contro le istituzioni che non esiste alcun “fuori” dalla mediazione imposta dal linguaggio. Il destino degli esseri parlanti è infatti quello della traduzione.
Lacan disillude l’impeto rivoluzionario degli studenti: non esiste possibilità che una rivolta animata dalla rottura con il campo istituzionale del linguaggio non ricada nella stessa violenza dalla quale avrebbe voluto liberarsi. La rivoluzione porta sempre con sé un nuovo padrone.
L’invocazione di una democrazia diretta che reagisca in modo anti-istituzionale alla debolezza e alla degenerazione insopportabile delle istituzioni rischia di spalancare il baratro di un populismo che finisce per gettare via insieme all’acqua sporca anche il bambino.
Il grillismo sbandiera una forma di partecipazione diretta del cittadino che rifiuta, giudicandola un ferro vecchio della democrazia, la funzione sociale dei partiti. Ma è un film che abbiamo già visto. È una legge storica e psichica, collettiva e individuale insieme: chi si pone al di fuori del sistema del confronto politico e della mediazione simbolica che la democrazia impone,finisce per rigenerare il mostro che giustamente combatte.
Non è solo un insegnamento della storia ma anche, più modestamente, della pratica della psicoanalisi. La rabbia verso i padri, il puro rifiuto di tutto ciò che si è ricevuto, il disprezzo dell’eredità, rischia sempre di generare una protesta sterile, che impedisce di discriminare l’oro dal fango, che fa di tutta l’erba un fascio, e,dulcis in fundo,che mantiene legati per sempre al padre di cui ci si voleva liberare, rieditandone il volto mostruoso e autoritario.
Tutto su Lacan
Il primo volume, appena pubblicato, è sul soggetto e i sentimenti
di Roberto Esposito (la Repubblica, 28.11.2012)
Noi, i soggetti. Ma chi siamo, noi? E cosa vuol dire “soggetto”? Che rapporto passa tra me e l’altro, all’interno della comunità? Ma anche tra me e ciò che, senza appartenermi, come il linguaggio che parlo, mi condiziona, mi modella, mi altera? E ancora: cosa è, per ciascuno di noi, il desiderio? A quale legge risponde? E come si articola con l’etica, l’arte, l’amore? Sono le grandi domande che si pone, e ci pone, Massimo Recalcati in Jacques Lacan. Desiderio, godimento, soggettivazione (Cortina), prima parte di un dittico, straordinario per quantità e qualità, cui seguirà un’altra sulla clinica psicoanalitica. Si tratta del suo ultimo libro, ma anche, più a fondo, del libro della sua vita. Certamente Recalcati ne scriverà ancora molti. Ma il libro della vita è un’altra cosa. È il libro cui dedichiamo la vita, ingaggiando una battaglia che non possiamo mai davvero vincere. E che poi, a un certo momento, sorprendendoci, la vita scrive attraverso di noi.
Si potrebbe dire che questo, a conti fatti, è quanto ci ha insegnato Lacan. La sua è un’opera “difficile” - non perché lontana dalla nostra esperienza, ma perché, al contrario, tanto prossima ad essa che quasi non riusciamo a metterla a fuoco e oggettivarla. La forza e il fascino del libro di Recalcati stanno appunto in questa consapevolezza. Nel sapere, e nel dirci, che le tesi di Lacan non possono essere descritte dall’esterno, come una qualsiasi teoria, ma vanno riconosciute dentro di noi - nei nostri gesti e nelle nostre parole, nei nostri impulsi e nei nostri smarrimenti. In questo senso va intesa quella “sovversione del soggetto” cui, fin dai primi seminari, Lacan dedica la propria opera - e dunque, come si diceva, la propria vita. Contro l’idea di una padronanza del soggetto su se stesso egli ci insegna che diveniamo ciò che siamo soltanto attraverso la mediazione simbolica dell’Altro - di un terzo che s’interpone nella relazione narcisistica tra noi e la nostra immagine, complicandola ma anche vivificandola, dando senso a ciò che sembra non averne.
Recalcati ricostruisce in tutte le sue pieghe lo sviluppo, tutt’altro che lineare, di un pensiero, come quello di Lacan, costituito nel punto di confluenza e di tensione tra esistenzialismo e strutturalismo, capace di assorbire, traducendoli in un impasto originalissimo, gli influssi di Hegel e Heidegger, di Sartre e Kojève, di Saussurre e Jakobson - per non parlare di Freud, restato fino all’ultimo il suo interlocutore privilegiato.
In questo quadro complesso e in continua evoluzione, quale è il suo punto di partenza - il nucleo rovente da cui si può dire nasca la necessità del suo pensiero? Si tratta del fatto che, nel rifiuto narcisistico dell’altro, nel tentativo inane di ricucire la propria faglia originaria, il soggetto mostra di odiare innanzitutto se stesso. In questo modo - nel nodo mortifero che lega Narciso a Caino - si può rinvenire la radice dei totalitarismi e della guerra, a ridosso dei quali Lacan comincia a lavorare.
Quello che, nella stretta distruttiva tra Immaginario e Reale, risulta escluso è il piano del Simbolico, della relazione con l’altro, intesa come domanda di riconoscimento reciproco, come legge della parola e del dono. Quando la tendenza all’immunità - alla chiusura identitaria - prevale sulla passione per la comunità, l’Io batte contro il proprio limite rimbalzando sull’altro, secondo una pulsione di morte che finisce per risucchiarli entrambi nel proprio vortice. I grandi temi dell’inconscio come linguaggio, del nome del padre, della dialettica tra desiderio e godimento, sono tutti modi per proporre, da parte di Lacan, la medesima esigenza. Che è quella, per un soggetto esposto alla propria alterità, di non identificarsi con se stesso, ma senza perdersi nell’altro. Di sfuggire alla ricerca compulsiva di un godimento senza limiti, ma anche alla legge di un desiderio senza realizzazione.
L’originalità di Lacan - nell’interpretazione di Recalcati - sta nella capacità di tenersi lontano da entrambi questi estremi. Di non contrapporre il godimento al desiderio, ma di cercare di articolarli in una forma che fa di uno il contenuto dell’altro. Il processo di soggettivazione - vale a dire di elaborazione, da parte dell’io, dell’alterità da cui proviene - è il luogo di questa alleanza, la zona mobile in cui le acque del desiderio confluiscono in quelle del godimento, pur senza mischiarsi. Godere nel desiderio, attraverso il desiderio - vale a dire non di una pienezza irraggiungibile, ma della differenza che ci attraversa e ci costituisce: ecco la sfida, il luogo impervio della nostra responsabilità etica verso l’altro, che né la dissipazione libertina di Sade né la morale sacrificale di Kant potevano mai attingere.
È il tema su cui sono tornati con efficacia anche Bruno Moroncini e Rosanna Petrillo in L’etica del desiderio. Un commentario del seminario sull’etica di Lacan (Cronopio). Quali sono i segni di questa possibile giuntura tra godimento e desiderio, pulsione e legge, uno e altro? Lacan li rintraccia intanto in un’etica del reale - non dei valori trascendenti - che, pur consapevole della necessità che ci governa, la apre alla contingenza dell’incontro inatteso, come quella che, nell’interpretazione sartriana, fa di Flaubert non un idiota, ma un genio.
Ma li ritrova anche nella dinamica dell’amore - come ciò che riscatta l’impossibilità degli amanti di ottenere un godimento reciproco. Mentre il maschio non può godere che di se stesso e in se stesso, la domanda della donna è senza limiti e dunque mai soddisfatta. Vero amore è quello che, anziché rimuoverla, riconosce questa distanza, rinunciando al godimento assoluto. Non l’abolizione della mancanza, ma la sua condivisione nell’abbandono e nel rischio che ne deriva. L’arte, in una diversa esperienza di sublimazione, riproduce tale condizione. Anche in essa la pulsione si afferma circoscrivendo un vuoto - elevando il proprio oggetto alla dignità della Cosa. Come provano i quadri di Cézanne, ma anche la scatola di fiammiferi di Prévert, in una pratica artistica intesa come organizzazione del vuoto, presenza e assenza si sovrappongono in una forma che fa dell’una l’espressione rovesciata dell’altra, così come, in tutta l’arte contemporanea, la figura si rivolge all’infigurabile.
Ancora una volta il soggetto si riconosce assoggettato a qualcosa che lo domina, su cui egli non può avere controllo. E tuttavia, ciò non ne determina né la dissoluzione né la soggezione a una potenza straniera. C’è sempre, in ogni esistenza, una sporgenza rispetto al proprio destino, un punto di resistenza alla ripetizione che coincide con la singolarità della vita. È proprio l’assenza di governo di sé, l’esposizione all’Altro, che riapre il cerchio della necessità alla dimensione del possibile. Forse, si potrebbe aggiungere, l’unico terreno sul quale questa possibilità appare più appannata, nell’opera di Lacan, è quello della politica.
Non a caso il libro di Recalcati percorre i territori della filosofia, dell’etica, dell’estetica, ma non quello della politica. Forse perché alla politica non basta la soggettivazione in quanto tale, e neanche l’incrocio dell’uno con l’altro. Occorre anche una linea conflittuale che, all’interno della società, aggreghi gli uni contro, o almeno di fronte, agli altri. Ecco è la questione ultima, lasciata aperta da Lacan, con cui la ricerca di Recalcati è chiamata a confrontarsi.
Leggendo il filosofo tedesco e Platone si capisce meglio
La società dei minorenni
— Ne bamboccioni né “choosy”
I giovani d’oggi ce li spiega Kant
di Umberto Curi (Corriere La Lettura, 02.12.2012)
Il copyright è saldamente nelle mani di Tommaso Padoa-Schioppa. Nell’ottobre del 2007, l’allora titolare del ministero dell’Economia nel secondo governo Prodi aveva infatti definito «bamboccioni» quei giovani che, sulla soglia dei trent’anni, continuavano a vivere in casa con i genitori. Benché duramente contestata, quella espressione era destinata ad aprire la strada a un vero florilegio di definizioni, analoghe nel contenuto, anche se differenti nella forma.
Nel giro di pochi anni, malgrado l’avvicendarsi dei governi, i giovani sarebbero stati chiamati «mammoni» (Brunetta, ministro del governo Berlusconi), «sfigati» (Martone, viceministro del governo Monti), «monotoni» (Monti, presidente del Consiglio), «choosy», più o meno: schizzinosi (Fornero, ministro del governo Monti), solo perché non avevano ancora conseguito la laurea, o perché aspiravano a un posto fisso, in un mercato del lavoro in cui la flessibilità è in realtà un eufemismo per indicare la precarietà.
Non si può dire che le polemiche divampate dopo queste esternazioni siano state un modello di eleganza o di rigore concettuale. Eppure, al fondo di un dibattito culturalmente desolante vi sarebbe in realtà una questione tutt’altro che banale o trascurabile. La si potrebbe riassumere nei termini seguenti: come si diventa maggiorenni? Assodata l’insufficienza del criterio puramente anagrafico, in base al quale la maggiore età coinciderebbe con il raggiungimento dei 18 anni, a quali parametri razionalmente definibili ci si può riferire per valutare la fuoriuscita dalla minorità? E poi: davvero basta abitare da soli, o essere disponibili a cambiare lavoro, per allontanare da sé l’infamante epiteto di choosy?
Una risposta appena un po’ meno occasionale a questi interrogativi può essere rintracciata in due testi filosofici, la cui importanza - anche per la comprensione di alcuni temi legati alla diatriba di cui parliamo - è abitualmente ignorata, o almeno non adeguatamente valorizzata. Da una secca definizione della minorità prende le mosse anzitutto un saggio di Immanuel Kant, tanto rilevante quanto per lo più negletto, anche perché offuscato dalla risonanza suscitata dalle tre Critiche. Essa non dipende affatto, secondo il filosofo, dall’età, ma consiste piuttosto in una carenza decisiva, quale è «l’incapacità di servirsi della propria intelligenza senza la guida di un altro».
È opportuno sottolineare che lo scritto kantiano compare originariamente non in una rivista filosofica specializzata, ma in quello che si potrebbe definire un periodico di «varia umanità», quale era la «Berlinische Monatsschrift», in risposta a un interrogativo proposto nel fascicolo precedente da un religioso, il quale chiedeva che qualcuno si prendesse la briga di spiegare «che cos’è l’Aufklärung».
Conservare, almeno provvisoriamente, il termine tedesco non è una inutile civetteria, ma corrisponde all’esigenza di evitare i fraintendimenti ai quali ha dato luogo la traduzione italiana corrente, e gravemente negligente. Mentre, infatti, nel testo originale Aufklärung indica insieme quel movimento culturale che è stato chiamato «Illuminismo» e il «rischiaramento», inteso come processo mediante il quale è possibile «fare chiarezza», la traduzione italiana appiattisce l’ambivalenza del termine tedesco, rendendolo univocamente con «Illuminismo».
Mentre è del tutto evidente che l’iniziativa assunta da Kant con la sua Risposta, pubblicata nel gennaio del 1784, non è motivata dalla volontà (che sarebbe poco comprensibile) di offrire una definizione tecnica di un movimento filosofico, quanto piuttosto dalla ben più significativa esigenza di spiegare in che modo si possa realizzare il «rischiaramento» intellettuale.
Ne è prova il testo del saggio, scritto in maniera limpida e particolarmente incisiva, senza alcuna concessione a «tecnicalità» filosofiche, presumibilmente inadatte al pubblico eterogeneo a cui si rivolgeva la rivista. Aufklärung - scrive Kant - è uscire dallo stato di minorità, è avere il coraggio di servirsi della propria intelligenza, senza soggiacere alla guida di altri. Più esattamente, essa si identifica con una decisione - quella di diventare Selbstdenker, vale a dire letteralmente «uno che pensa con la propria testa». Né questo monito deve apparire scontato o pleonastico.
Al contrario, secondo il filosofo, «la stragrande maggioranza degli uomini ritiene il passaggio allo stato di maggiorità, oltre che difficile, anche pericoloso», e dunque preferisce sottrarsi a quella «fastidiosa occupazione» che richiede l’uso libero delle proprie capacità intellettuali. «È così comodo - sottolinea ancora l’autore delle Critiche - essere minorenni! Se ho un libro che pensa per me, un direttore spirituale che ha coscienza per me, un medico che valuta la dieta per me eccetera, non ho certo bisogno di sforzarmi da me».
Di qui una conclusione linearmente deducibile dalle premesse poste: se si vuole diventare maggiorenni, è necessario sottrarsi alla custodia di quei tutori che costantemente invitano a non ragionare («L’ufficiale dice: non ragionate, fate esercitazioni militari! L’intendente di finanza: non ragionate, pagate! L’ecclesiastico: non ragionate, credete!»), usando invece sistematicamente la propria intelligenza, senza soggiacere alla presunta autorità altrui. Insomma, minorenni - o se si preferisce «bamboccioni» - si può essere a qualunque età. Lo è anzi chiunque fra noi eviti di pensare con la propria testa, delegando di conseguenza ad altri questa «fastidiosa occupazione».
Un ragionamento convergente con quello contenuto nel saggio kantiano si ritrova già in uno dei Dialoghi platonici più noti, anche se spesso misinterpretato. Al centro del Sofista, infatti, vi è la ricerca, condotta da due personaggi presumibilmente «giovani» (tale è se non altro con certezza Teeteto, mentre il suo interlocutore, presentato come lo Straniero, proveniente da Elea, è giovane se non altro nel senso della sua condizione di discepolo rispetto al «grande» Parmenide), impegnati a fornire una definizione della figura del sofista.
L’indagine a due voci prosegue a ritmo serrato, e con esiti apparentemente soddisfacenti, fino a che i protagonisti si imbattono in una difficoltà che minaccia di compromettere radicalmente l’impresa nella quale si stanno cimentando.
Per poter sostenere la conclusione alla quale sono pervenuti, e cioè che il sofista è colui che esercita l’arte di far apparire ciò che non è, essi dovrebbero implicitamente riconoscere che anche il non essere, da un certo punto di vista è, mentre l’essere, sia pure da un certo punto di vista, non è. Ma questa affermazione contraddice frontalmente un divieto, quello proveniente dal «padre» Parmenide, secondo il quale il non essere è «inesprimibile», «impronunciabile», «illogico».
La situazione nella quale si vengono a trovare Teeteto e lo Straniero appare dunque inchiodata a un’alternativa drammatica: piegarsi all’osservanza della proibizione parmenidea, con ciò tuttavia privandosi del logos, e dunque perdendo la possibilità di dire alcunché, ovvero avere il coraggio di epitíthesthai tó patrikó lógo - «dare l’attacco al discorso paterno».
L’impiego di una metafora bellica non è casuale nel contesto di un dialogo in cui ritornano insistentemente termini desunti dal lessico polemologico. Serve a sottolineare quanto delicata sia la scelta che si è chiamati a compiere, quanto sia letteralmente vitale - «questione di vita o di morte», si legge nel testo platonico - la posta in gioco.
È noto il compimento di questo percorso. Onde riprendere la possibilità di parlare e di pensare, i due interlocutori saranno indotti a «torturare» il padre e a «usare violenza» su di lui, giungendo al punto da sfiorare il parricidio.
Per quanto temerario possa apparire questo esito, esso resta l’unica possibile via da percorrere, l’unico modo per riguadagnare il cammino, uscendo dalla mancanza di strada, dall’a-poria, dunque, in cui ci si era imbattuti. Mentre, infatti, Parmenide vorrebbe «trattarci da bambini», «raccontandoci delle favole» e «dialogando con noi con atteggiamento di sufficienza», è imperativo per noi riprenderci il logos, e assoggettare a un vaglio rigoroso le affermazioni «paterne».
Dopo questa autentica svolta, improntata alla rinuncia a ogni filiale subordinazione, la ricerca che si era incagliata può riprendere, giungendo speditamente alla sua conclusione. Teeteto e lo Straniero sono diventati maggiorenni. Non subiranno più i divieti del padre «venerando e terribile». Non accetteranno di farsi trattare da bambini, né si accontenteranno di ascoltare delle favole.
Il compimento dell’intenso drama descritto da Platone ci riporta alla Risposta kantiana. Essere maggiorenni non è un dato di carattere anagrafico, né una condizione statica, nella quale si possa dire di risiedere stabilmente. È una conquista, che impegna energie morali, come il coraggio e la decisione, e risorse intellettuali. Ed è la meta, mai definitivamente raggiunta, di una lotta anzitutto con se stessi, con la viltà di chi preferisca affidarsi alla tutela altrui.
E forse allora si può comprendere fino in fondo il senso dell’affermazione kantiana quando rileva, con un realismo spinto fino al disincanto, che minorenne è ancora la stragrande maggioranza degli uomini. Insomma, per quanto possa apparire paradossale, i giovani che al giorno d’oggi stanno lottando per guadagnarsi la loro autonomia sono meno bamboccioni di coloro che ripetono acriticamente le formule imposte da altri.
Teeteto e lo Straniero sono diventati maggiorenni. Non subiranno più i divieti del padre "venerando e terribile". Non accetteranno di farsi trattare da bambini, né si accontenteranno di ascoltare delle favole.
di Corrado Ocone (Corriere della Sera La Lettura, 02.12.2012)
Non c’è dubbio che il dibattito pubblico italiano degli ultimi tempi sia come attraversato da una retorica giovanilista, spesso fatta propria da quelle persone anziane e ben collocate che a tutto pensano fuorché a farsi da parte. È una retorica che riproduce, col segno cambiato, il modo di ragionare di certe stucchevoli apologie della vecchiaia come età della saggezza, di cui parla Bobbio nel suo De Senectute.
Il filosofo torinese, a ben vedere, ci dà anche la chiave per ragionare sulla dicotomia giovani-vecchi, invitandoci a considerare la questione almeno sotto tre aspetti: l’età anagrafica, quella biologica e quella psicologica o soggettiva. Non dimenticando che oggi essere o sembrare giovani è diventato quasi un obbligo, sicuramente una moda, e comunque una tendenza che l’industria dei consumi asseconda promuovendo diete, lifting, modi di vivere che ci facciano sembrare sempre giovani.
Però l’aspetto più rilevante della questione è che, nel giovanilismo diffuso e praticato, si sia come persa l’importante funzione di elaborazione e trasmissione del sapere che un tempo regolava il rapporto fra le generazioni. E che quasi accompagnava per mano i giovani nel crescere. Una funzione che si esplicava in istituzioni appositamente create per adempiere a questo scopo. Le quali oggi, anche se continuano ad esistere formalmente, si sono di fatto, tranne pochissime eccezioni, svuotate dell’aura che la funzione esercitata finiva per conferire loro.
Era inimmaginabile ad esempio che chi facesse politica non si fosse formato nelle scuole di partito, o lavorando a fianco di un politico navigato. Le carriere nella pubblica amministrazione, ma anche nel privato, seguivano percorsi ben definiti, che potevano certamente essere accelerati da coloro che erano dotati di un particolare ingegno, ma che comunque non potevano essere ignorati come accade oggi nelle assunzioni per «chiamata diretta».
Per non parlare dell’Università, ove era sempre il docente che cooptava, ma allora lo faceva avendo cura di scegliere i più bravi: sia perché teneva al prestigio derivante dall’autorevolezza morale, sia per continuare la tradizione di pensiero con cui si identificava e a cui spesso aveva dedicato la sua vita di studioso. Il Maestro, come veniva chiamato (nessuno avrebbe osato chiamarlo barone), non aveva certo bisogno, per individuare i continuatori del suo impegno, degli astratti metodi quantitativi oggi in voga, fatti apposta, sembrerebbe, per avvalorare nuovi imbrogli. Persino le parrocchie e le scuole religiose svolgevano una funzione di «educazione alla vita».
Ora, con tutto questo non si vuole certo esaltare il buon tempo antico, che aveva anch’esso i suoi limiti e i suoi difetti. Anche perché di acqua ne è passata tanta sotto i ponti e non si può pensare di fermare il mondo, il che, oltre che stupido, sarebbe anche ingiusto: oggi già un adolescente si trova immerso in una rete di dati ed è sottoposto all’azione di una quantità di «agenzie formative» (diciamo così con un eufemismo).
Quel che si vuole constatare è semplicemente un fatto, che tocca a noi capire e regolare, o (se lo riteniamo) contrastare: il problema del rapporto fra giovani e vecchi riguarda anche la generale scomparsa del «terzo», nella fattispecie dei luoghi di mediazione e di formazione in cui giovani e meno giovani, interagendo, potevano reciprocamente arricchirsi e completarsi, perché anche chi non è più giovane ha bisogno di rinfrescare il suo sapere, di sottoporlo alle naturali e irriverenti forze vitali che rompono le incrostazioni o le abitudini consolidate.
Scomparsa del «terzo» è anche il rinchiudersi delle generazioni in loro stesse: i leader non vogliono mollare il potere perché non danno per garantito che i nuovi continuino la loro opera; i giovani vogliono semplicemente quel potere, dimentichi che il vero nuovo deve porsi in rapporto dialettico con il vecchio, «superandolo» e non semplicemente «rottamandolo». «Il Partito democratico invece di rinnovarsi si limita a cambiare di nome, laddove i nomi dei suoi dirigenti restano invariabilmente gli stessi», osserva Antonio Funiciello nel libro A vita (Donzelli).
Ma il discorso non riguarda solo la politica. Può una società funzionare a lungo con il «principio del terzo escluso»? Il rapporto fra le generazioni, senza un luogo di mediazione, non rischia di porsi su un terreno aspramente conflittuale? E a chi giova un antagonismo fra vecchi e giovani non sulle idee, come in passato, ma solo sulle posizioni di potere da occupare? Più in generale: è possibile sottrarre il rapporto fra generazioni a una logica dicotomica che trascura il carattere chiaroscurale del mondo? Introdurre qualche elemento di consapevolezza è già un primo tentativo di risposta a queste domande.
Recalcati, lo psicologo a induzione, come i fornelli
di Nanni Delbecchi (il Fatto, 9.11.2014)
Magari non sembra, ma la televisione italiana sempre affamata di ospiti, lavora alacremente all’evoluzione delle specie. Massimo Recalcati, per esempio, rappresenta la nuova generazione della pregiata specie dello psicologo da salotto; quelli che, invece di fare accomodare il paziente sul divano, preferiscono accomodarsi loro in poltrona.
Molti di loro, come Alessandro Meluzzi, negli ultimi tempi sono definitivamente passati alla cronaca nera, nuova Mecca degli ascolti, e ormai i loro ragionamenti sulla colpevolezza del marito cornuto o della cugina invidiosa non sono più distinguibili da quelli che si sentono fare al bar. Solo una ristretta élite di questi psicologi continua a volare veramente alto; così Recalcati rappresenta un riuscito restyling del modello Paolo Crepet per quanto riguarda l’immagine (giacca di buon taglio e occhiali di celluloide al posto di cachemire color pastello), ma anche del modello Raffaele Morelli per quel che riguarda i concetti.
Anche Recalcati tende a scoprire l’acqua calda, ma con più fatica, come se il boyler avesse il termostato difettoso; poi però la porta a ebollizione con aria più calma, senza scaldarsi troppo lui. Uno psicologo a induzione, come i fornelli.
Domenica scorsa Recalcati ha presentato a Che tempo che fa il suo libro L’ora di lezione - Per un’erotica dell’insegnamento: titolo promettente, che pareva evocare grandi professoresse del passato come Edwige Fenech o Gloria Guida.
OSSERVANDO intensamente Fazio come Castellitto osserva Kasia Smutniak in In treatment, lo psicologo a induzione ha esordito con alcune grandi verità della vita.
Prima verità: “Si insegna agli altri solo ciò che noi stessi amiamo”.
Seconda verità: “Siamo passati dalla ‘Scuola Edipo’ di quando i genitori si alleavano con i professori contro i figli, alla ‘Scuola Narciso’ di oggi, in cui i genitori si alleano con i figli contro i professori.
Terza verità: “La vita è fatta di incontri, tutto dipende dagli incontri che facciamo”.
Quarta verità: “Gli incontri si dividono in due categorie: quelli buoni e quelli cattivi” (questa conviene segnarsela, è troppo complessa).
Di fronte a un Fazio pensoso e un po’ preoccupato (non sapremmo se per le verità della vita o per lo share del programma), l’induttore si è poi messo a narrare due incontri decisivi. Uno buono e l’altro cattivo.
L’incontro cattivo avvenne alle elementari, quando la maestra chiese ai bambini “Perché ci piace il fuoco? ”, e lei stessa dette la risposta: “Perché il fuoco si muove”.
Una delusione cocente, che lo studente Recalcati riuscì a superare grazie un nuovo incontro nel liceo di Quarto Oggiaro, “un’insegnante di lettere giovane e carina che si dimostrò capace di trasformare i libri di testo in corpi erotici”.
Evvai: vuoi vedere che era proprio Gloria Guida? E il compagno di banco di Recalcati sarà stato Alvaro Vitali? Ma no, questa è archeologia edipica da buco della serratura; questa professoressa, invece, spalancò fino in fondo alla sua classe le porte della conoscenza.
“Appartengo a una generazione che si è perduta nella droga, nel terrorismo, nelle filosofie orientali. Se mi sono salvato, devo dire grazie a quell’insegnante”. Fu lei a cambiargli la vita, e un po’ l’ha cambiata anche a noi. Se trent’anni fa Recalcati non è partito per l’India, ma sta in tv a spiegarci come va il mondo, ora anche noi sappiamo a chi dire grazie.
RICONCILIAZIONE
Perdono, la sfida del cristiano
di Benoît Standaert (Avvenire, 20 agosto 2012)
In un detto dei Padri del deserto ci viene proposta una scala al contrario. Antonio Abate deve trattare con certi fratelli alquanto deboli e incapaci, nei quali riconosciamo forse un po’ di noi stessi. «Dei fratelli fecero visita al padre Antonio e gli dissero: “Dicci una parola: come possiamo salvarci?”. L’anziano disse: “Avete ascoltato la Scrittura? È quel che occorre per voi”. Ed essi: “Anche da te, padre, vogliamo sentire qualcosa”. L’anziano disse loro: “Dice il Vangelo: Se uno ti percuote sulla guancia destra, porgigli anche l’altra”. Gli dissero: “Ma di far questo non siamo capaci”. L’anziano disse loro: “Se non sapete porgere l’altra guancia, tenete almeno ferma la prima”. Gli dicono: “Neppure di questo siamo capaci”. E l’anziano: “Se neppure di questo siete capaci, non contraccambiate ciò che avete ricevuto”. Dissero: “Neppure questo sappiamo fare”. Allora l’anziano disse al suo discepolo: “Prepara loro una minestra: sono deboli”. E a loro: “Se questo non potete e quello non volete, che posso fare per voi? C’è bisogno di preghiere”» (Antonio, 19).
La pratica del perdono si trova sovente un po’ più in là dell’esatta idea di perdono. Probabilmente condividiamo la dottrina del perdono e della riconciliazione, tuttavia ciò non significa che la via della pratica ora sia facilmente accessibile. Nella vita concreta possono esserci esigenze particolarmente complesse. Ognuno ha il proprio passato, come individuo e come collettività, vale a dire come membro di una comunità, di una chiesa, di un Paese.
Qui di seguito indico alcuni esempi con la speranza che il lettore, con l’aiuto di Dio, possa ritrovare processi e applicazioni utili nel proprio contesto. Naturalmente, ogni paragone risulta sempre lacunoso.
Una volta una donna chiese di parlarmi. Suo padre aveva abusato di lei quando era bambina. Solo ora, dopo anni, riusciva a parlarne. Scoppiò in lacrime: «La Chiesa mi dice che debbo perdonare. Che significa questo? Io non ce la faccio!». Il padre era vecchio. Era incapace di riconoscere quanto aveva fatto, tanto meno di chiedere perdono. Le ho suggerito di provare non tanto a perdonare il padre, quanto a smettere di imputargli il male. Il padre non chiedeva perdono e di conseguenza non era possibile affrontare apertamente la questione. «Non continuare ad accusarlo nel tuo cuore». Era questo un primo passo. Successivamente le proposi di tentare un approccio col padre non più in maniera diretta, ma indirettamente, ossia partendo da Dio: «Dio è in contatto con tuo padre. Egli lo porta e lo sopporta, lo tiene in vita e lo ama. Chiedi a Dio di aiutare tuo padre nel modo in cui Egli lo vede e continua a stargli intorno». Come terza cosa le dissi: «Prega lo Spirito affinché guarisca le tue ferite interiori con la forza e la tenerezza, risani completamente la tua memoria e renda il tuo cuore di nuovo libero e saldo». Abbiamo pregato anche insieme. Tre anni dopo suo padre morì. La donna gli era stata vicino nelle sue ultime ore. Era abbastanza forte per questo compito, senza rancore alcuno. È stato qualcosa di grande. Le ferite possono incidere profondamente la carne interiore di un uomo.
Chi ha una vita contemplativa, nel corso della sua esistenza si scontra quasi inevitabilmente con la sofferenza non elaborata della gioventù, a volte persino con quella degli anni dell’infanzia o delle settimane trascorse nel ventre materno. Non c’è da meravigliarsi: una vita contemplativa opera nel più profondo e investe la persona nella sua totalità. Nel mondo si può vivere rimuovendo tanto dolore passato, e questa è anche una cosa buona. Ma chi vive una vita più ritirata, prima o poi lascerà scorrere tutte le immagini, delle cose belle e delle cose brutte.
Una suora di circa sessant’anni mi raccontò: «Ci sono voluti anni prima di capire perché io dappertutto e in ogni contesto mi mettessi alla ricerca di una vera madre. Son venuta al mondo indesiderata. Quando rimase incinta di me, mia madre non era sposata. In quel periodo - prima della Seconda guerra mondiale - si trattava di una cosa terribile, uno scandalo per tutti. Sono stata rifiutata già nel ventre materno. E dopo non mi è stato permesso di rimanere con lei. Solo dopo sette, otto anni ho visto mia madre e mio padre per la prima volta. Litigavano sempre tra loro se c’ero di mezzo io, e per mia madre io non ero capace di fare niente di buono. Come posso andare avanti con questo peso? Come posso perdonare?».
Oggi esistono più modi raffinati per aiutare le persone con un passato pesante e una memoria offesa. Pregando si impara come invocare la grazia di Dio e visitare tutte le zone del dolore e del dispiacere. Dio, il creatore, con la sua volontà eterna, ci viene incontro nella nostra storia personale e dice: «Vivi! Io ti amo. Anche quando non ti amava nessuno e nessuno ti pensava, io c’ero». Un racconto del genere lo troviamo nel primo libro della Bibbia.
Agar è incinta di Ismaele e viene cacciata da Sara. Ella fugge nel deserto, dove trova Dio che la consola personalmente e le dice parole cariche di promesse (Gen 16). Il filosofo francese Paul Ricoeur ha scritto molto sulla memoria e su tutto ciò che riguarda passato e storia. In uno dei suoi testi egli spezza una lancia in favore dell’arte del dimenticare: l’oubli heureux (l’oblio felice). Anche questo è una medicina, e chi desidera prosciugare la fonte del suo rancore, dovrà impadronirsi sempre più di questa arte. A volte incontri gente che viene a chiedere perdono, ma con poco o nessun rimorso o pentimento. Il racconto della riconciliazione tra Giuseppe e i suoi fratelli sorprende per il lungo processo di avvicinamento.
Anche nella tradizione giudaica è stata posta la questione: perché Giuseppe aspetta così a lungo prima di farsi riconoscere dai suoi fratelli? Nel Medioevo lo studioso Maimonide diede la seguente spiegazione: «Giuseppe vuole certamente riconciliarsi con i suoi fratelli, ma intende prima saggiare la loro disposizione d’animo più profonda, affinché la riconciliazione non divenga un gesto superficiale, senza comprensione e senza rimorso». Dopo la morte del loro padre Giacobbe, alla fine del racconto, i fratelli pensano, in effetti, che Giuseppe voglia ancora vendicarsi. Essi escogitano una bugia madornale nella speranza che Giuseppe possa perdonarli. L’epilogo è commovente: «Ma i fratelli di Giuseppe cominciarono ad aver paura, dato che il loro padre era morto, e dissero: “Chissà se Giuseppe non ci tratterà da nemici e non ci renderà tutto il male che noi gli abbiamo fatto?”. Allora mandarono a dire a Giuseppe: “Tuo padre prima di morire ha dato quest’ordine: direte a Giuseppe: Perdona il delitto dei tuoi fratelli e il loro peccato, perché ti hanno fatto del male! Perdona dunque il delitto dei servi del Dio di tuo padre!”. Giuseppe pianse quando gli si parlò così. E i suoi fratelli andarono e si gettarono a terra davanti a lui e dissero: “Eccoci tuoi schiavi!”.
Ma Giuseppe disse loro: "Non temete. Sono io forse al posto di Dio? Se voi avevate pensato del male contro di me, Dio ha pensato di farlo servire a un bene, per compiere quello che oggi si avvera: far vivere un popolo numeroso. Dunque non temete, io provvederò al sostentamento per voi e per i vostri bambini”. Così li consolò e fece loro coraggio» (Gen 50,15-21). Un racconto chassidico sottolinea quanto sia importante che chi desidera essere perdonato lo faccia in tutta lealtà. Il perdono che riceviamo è commisurato alla nostra fede, al nostro impegno, alla nostra più profonda lealtà d’animo. Chi fa molti calcoli, ne dovrà pagare anche le conseguenze.
Il rabbino Nahum di Chernobyl veniva continuamente offeso da un avversario. Un giorno, gli affari di quest’ultimo cominciarono ad andare molto male e pensò di andare a chiedere scusa al rabbino. «Io ti perdono con lo stesso spirito con cui tu me lo chiedi» (cfr. Nm 14,19), rispose il rabbino. Ma le perdite dell’uomo aumentarono sempre di più e i discepoli del rabbino lo supplicarono di aver misericordia e di perdonarlo con tutto il cuore. Il rabbino accondiscese alla richiesta, ma l’uomo si ritrovò ridotto in miseria. I discepoli chiesero al rabbino perché il suo perdono aveva aggravato ancora di più la posizione dell’uomo. Egli rispose: «Mosè era il più mite di tutti gli uomini [cfr. Nm 12,3]. Quando sua sorella lo offendeva, egli non tramava alcun male, ma la perdonava immediatamente. Ma Dio la punì in modo ancor più duro. La stessa cosa è successa a me. Più era grande il mio perdono, più aumentava la punizione del Signore, visto che l’uomo non si era pentito del suo errore con tutto il cuore». In seguito i discepoli raccolsero denaro per il pover’uomo e, ora che il suo peccato era stato perdonato in virtù della sua miseria, la fortuna gli sorrise nuovamente ed egli prese a cuore la giustizia. In questo percorso di perdono la frase «Io ti perdono» può essere pronunciata solo come parola assolutamente libera. Solo allora essa opera liberando, sia in chi è stato offeso sia nel colpevole che riconosce lealmente la sua colpa. Molti conoscono il racconto di Maiti Girtanner. Ella fu torturata durante la guerra e per tutta la vita ne ha portato le conseguenze nel suo corpo segnato, immobilizzato e pieno di dolori. Quarant’anni dopo ritrova il suo aguzzino, affetto da un male incurabile. La morte gli fa paura e chiede di essere perdonato. I ruoli si sono capovolti: un tempo, l’uomo aveva potere di vita e di morte ed era in grado di provocare sofferenza e incutere paura. Ora è la donna che, nonostante giaccia malata rannicchiata in un letto, dispone di quel potere. Potrebbe guardare quest’uomo con disprezzo e mandarlo via. Solo lei però è in grado di rassicurarlo contro la sua terribile angoscia. Non un prete, non uno psichiatra. Soltanto lei ha il potere di dire: «Io ti perdono», cosicché lui si possa sentire veramente perdonato.
Processi del genere non sono automatici. Quando papa Giovanni Paolo II visitò Ali Agca in carcere, non era chiaro come avrebbe reagito il delinquente trovandosi faccia a faccia con la persona che aveva tentato di eliminare. Avrebbe potuto rifiutare o disprezzare il gesto del papa, per il cruccio di non essere riuscito nella sua impresa criminale. In realtà egli rimase sconvolto da quella visita da parte della sua vittima e ciò lo indusse a riflettere sul suo comportamento. Una reazione non prevedibile. Questi esempi ci mostrano che la pratica del perdono è un evento umano complesso, che può realizzarsi soltanto passo dopo passo e con pazienza. Su questo, possiamo imparare molto dagli altri.
Dopo il genocidio in Ruanda si è tentato di avviare un movimento di riconciliazione, con il sostegno di diversi mediatori provenienti da diversi movimenti per la pace come Pax Christi. È stato diffuso un pieghevole, scritto in due lingue (francese e kinyarwanda), che illustrava, passo dopo passo, una via di riconciliazione. Nella parte bassa dell’opuscolo appaiono le immagini delle fosse dove sono sepolti migliaia di morti, delle macerie di numerose case distrutte e di alcuni dei sopravvissuti, donne e bambini. Più in alto troviamo una scala composta di nove gradini. Alla base si trovano i mattoni indispensabili per la ricostruzione: desiderio, volontà, verità, rispetto, interesse. I vari gradini in successione si chiamano: comunicazione, mediazione, incontro, discorso, discussione, dialogo, trattativa, intesa e infine coabitazione. Più in alto ancora compare l’immagine di una capanna sulla quale campeggia la scritta «Riconciliazione». All’interno della capanna vediamo una zucca africana con tre cannucce: i tre gruppi etnici (hutu, tutsi e pigmei twa) possono bere di nuovo insieme la birra locale, sorseggiandola dalla stessa zucca all’ombra di una capanna. In cima a tutto si staglia la scritta: «È difficile, richiede tempo, ma è possibile».
Un giorno, durante un viaggio in autobus, mi ritrovai a sedere accanto a un giovane che mostrava chiaramente di avere un peso sul cuore. Mi raccontò che era appena uscito dal carcere e stava facendo ritorno a casa. La sua condanna era stata causa di vergogna per i suoi familiari. Quando era in prigione non erano mai venuti a trovarlo e soltanto sporadicamente gli avevano scritto brevi lettere. Nonostante ciò, egli sperava ancora che lo avessero perdonato. Per rendere le cose più facili, aveva inviato loro una lettera in cui proponeva di dargli un segno del loro atteggiamento nei suoi confronti: nel caso l’avessero perdonato, avrebbero legato un nastro giallo intorno alla quercia della piccola fattoria di famiglia; se invece non intendevano più vederlo, non avrebbero dovuto far nulla. In questo caso, egli sarebbe rimasto a sedere sul bus e continuato il viaggio, solo Dio sa fin dove. Quando l’autobus cominciò ad avvicinarsi al paese, la tensione del giovanotto divenne talmente forte che non osava più guardare dal finestrino. Scambiai allora il posto con lui, promettendogli che avrei tenuto d’occhio io la quercia. Dopo poco, gli appoggiai la mano sul braccio. «Eccola!», sussurrai e gli occhi mi si riempirono di lacrime. Tutto era a posto: non uno, ma cento nastri gialli decoravano l’albero! In quel momento vidi scomparire l’amarezza che aveva avvelenato la vita del giovane. Era come se avessi vissuto un miracolo. Forse ne era avvenuto realmente uno...
Benoît Standaert
“Ciascuno è la vera chiesa”
intervista ad Ermanno Olmi
a cura di Arianna Prevedello (“settimana” - attualità pastorale, 4 marzo 2012)
“Cinema, specchio della vita” è il titolo di una serie di iniziative della diocesi di Padova che, attraverso la "settima arte", mette a confronto registi, presbiteri e operatori pastorali su tematiche di forte attualità per la comunità ecclesiale. Ecco un estratto del primo incontro avvenuto il 13 febbraio. Successivamente alla proiezione de Il villaggio di cartone i presbiteri diocesani hanno intensamente dialogato con il regista Ermanno Olmi.
Maestro Olmi, lei è uno sposo da tanti anni, eppure con questo film ha saputo raccogliere il sentimento interiore di moltissimi sacerdoti. Dove ha trovato ispirazione?
Non si sa mai da che parte arrivi l’ispirazione. È come quel vento dello Spirito che non si sa da dove viene e dove vada. Pensate quando, alla fine di alcuni appuntamenti di tipo culturale, ci accorgiamo di aver ascoltato cose interessanti fuori dalla nostra aspettativa.
Quando Picasso disse «vorrei dipingere come i bambini», intendeva dire che i bambini non hanno la consapevolezza necessaria ad amministrare la loro potenzialità comunicativa. Sentono l’esigenza di comunicare senza preoccuparsi della forma. Dovremmo arrivare all’età della libertà, come per esempio la mia, attrezzati in questo senso e pretendendo di essere ascoltati con l’innocenza dei bambini. Quindi, l’ispirazione non sai da dove arriva. Arriva, e senti che lì ci sono domande che ti poni e tenti di dare alcune risposte, ma non è mai "la" risposta. Il modo di pronunciare una frase cambia il senso di ciò che vuoi comunicare. Pur essendo rigidamente confezionata in un testo, la frase cambia di significato a seconda di come tu cambi. Lo stesso Vangelo cambia a seconda di come noi cambiamo. Nel momento in cui non lo leggiamo più perché pensiamo di conoscerlo o di poterlo ripetere a memoria, quello è il momento del fallimento. È come se, amando una persona, dicessimo «adesso non ho più parole d’amore». Quando senti che non hai più parole, vuol dire che hai perduto quell’amore.
La religione si basa come intima convinzione su alcuni principi che abbiamo ascoltato, condiviso e che ora manteniamo vivi. È davvero così se ogni giorno, leggendo una frase di quella religione, sentiamo che quella frase cambia significato. Altrimenti è un fatto puramente amministrativo e, se fossi il Padre eterno, mi incavolerei, perché ha dato la possibilità di vivere la realtà come la più bella opportunità di scoperta delle grandi manifestazioni che abbiamo sotto gli occhi. Altrimenti le religioni rischiano di essere delle gabbie mortificanti.
Perché un film come il suo è scomparso subito dalle sale?
Il problema non è che questo film è scomparso dalle sale, ma che capita a questo film e a molti altri film più belli del mio, come il Faust, Leone d’Oro a Venezia, o Una separazione, Orso d’Oro a Berlino. In realtà, nell’ultima stagione ci sono state produzioni italiane che hanno incassato bene e che rispetto ma sono tutti film di genere "spensierato".
Le persone cercano rifugio in occasioni - e lo capisco - che non danno il tempo di soffermarsi sulla gravità di problemi che dovremo arrivare ad affrontare. Prima di tutto la chiesa! Nel vedere ogni giorno la realtà che abbiamo intorno, per alcune cose pensiamo di poter rispondere, per altre veniamo interrogati e non abbiamo risposte. Un’infinità di interrogativi irrisolti, e allora io chiamo il Maestro. Se tu, Cristo, fossi al mio posto, cosa faresti? Secondo voi, Cristo si preoccuperebbe del cattolicesimo o di quella religione del perdono per relazionarci agli altri, per renderci disponibili agli altri. Se io guardo il suo percorso, ogni giorno c’è sempre un insegnamento che mi riguarda.
Il cattolicesimo - come apparato - oggi è diventato forse troppo ingombrante. So che qualcuno non è d’accordo con me... e va bene. Non pretendo questo, ma mi domando qual è il cristianesimo di oggi. Tante volte dico ai cattolici: «ricordatevi che siete anche cristiani».
Qual è oggi il modello di Cristo? Cristo ha chiamato Pietro e gli ha detto «chi dici che io sia?». Chi diciamo che sia questo Cristo? Un orpello appeso ai punti apicali delle volte delle chiese? O è quell’altro chenon osa entrare in chiesa perché non ha i panni adatti?
La chiesa di questo film è chiesa quando si è svuotata dagli orpelli, quando qualcuno che non è cristiano ha bisogno di aiuto. Gli devo chiedere «sei cristiano? cattolico? Allora entra, se no stai fuori...». Cristo dice «Tu che sei Pietro, tu sei pietra». Tu! Ciascuno di noi è la vera chiesa. C’è qualcosa che mi fa dire in questo momento: «Cristiani svegliamoci! È il nostro momento». È il momento di presentarci agli altri dicendo all’altro «Ecco il volto di Cristo!».
Quando rincasiamo, possiamo dire alla sera: oggi ho visto Cristo? Oppure, ho visto il ragioniere, l’architetto, il neretto all’angolo della strada? Quale volto di Cristo abbiamo visto in ogni giorno della nostra vita?
Ecco perché non rispondo a chi si preoccupa se sono o meno cristiano, io non mi preoccupo se loro lo sono. Mi basta guardarti, sei una creatura di Dio. E poi, quando ci innamoriamo, è il massimo. E l’estasi dell’umanità. Anche quel prete nel film che guarda gli occhi di una fanciulla. E perché no? Quanti preti innamorati infelici! Io credo che l’innamoramento sia una chiamata, certo che poi dobbiamo comportarci di conseguenza. Rispetto all’innamoramento, c’è un passaggio difficile da accettare: quando il prete dice al Cristo della piccola Pietà «sei troppo lontano nel tempo perché io possa amarti come dovrei». Ma che cosa, allora, si riconosce di quel piccolo Cristo? Anche Cristo ha conosciuto la solitudine dell’ultimo istante. Dio, che è venuto e ha parlato a profeti e ad angeli, non ha parlato a Cristo nel silenzio dell’ultimo respiro. Come mai? Avrebbe - credo - intaccata la santa, la sacra eroicità della donazione. Dobbiamo accettare la solitudine dell’ultimo respiro.
Nel film il prete sintetizza tante epoche, stagioni e passaggi della vita. Alla fine cos’è diventato quel prete?
All’inizio il prete rimpiange il fatto che non sarà più quel prete lì, perché gli manca lo strumento della sua pratica sacerdotale. Quando non c’è più un fedele, lui fa quella predica alle panche vuote, si confida con esse. Dice «quante volte qui alla domenica, quando la chiesa era piena di fedeli... eppure ogni tanto avevo il dubbio!». Guai ad avere le certezze assolute. Ti siedi comodamente su queste certezze e rinunci alla tua vita come continua curiosità della riscoperta. Se qualcuno mi dice che crede in Dio, prega Dio, ama Dio in maniera così graniticamente definitiva, ho l’impressione che non conosca il termine amore. L’amore è una lotta continua, un travaglio che non ci dà tregua.
All’inizio il prete si accontentava di avere la chiesa piena di fedeli. Nel momento in cui essa diventa vuota, scopre che cosa significa essere prete. Anche grazie alle circostanze che è costretto a vivere con un gruppo di pellegrini erranti che sostano nella sua chiesa mettendo in piedi quel villaggio di cartone di chi è continuamente in cammino e che non è affatto di cartone. Di cartone sono i muri di cemento armato. Anche Cristo ci dice «non ho nemmeno una pietra su cui poggiare il capo».
Tutte cose di cui il prete non si poneva più una domanda, ma era fermamente convinto della giustezza delle risposte. Finalmente avverte l’idea del porsi la domanda. Quale volto di Cristo ho incontrato?
Tutti i giorni la medesima domanda, perché infinite sono le risposte. La risposta che il prete dà al sacrestano: «mi sono fatto prete per fare del bene. Ho capito che il bene è più della fede».
Perché il bene è più della fede? Lo dico in maniera grezza: quando recitiamo le nostre preghiere, abbiamo la sensazione di compiere un atto di fede; poco dopo usciamo ed abbassiamo lo sguardo senza guardare in faccia l’umanità. Allora la fede è fare del bene o è dire "ho fede"? Si riesce perfino a pregare pensando ad altro. Il prete a quel nero che lo ringrazia per averli accolti dice «anch’io sto tornando alla casa del Padre». Questo è l’atto di fede. Sapere che il Padre è lì che mi aspetta. Siamo tutti dei "figliol prodigo". L’importante è capirlo e tornare a lui.
Il Cantico faccia terrena dell’amore
di Enzo Bianchi (La Stampa, 14 marzo 2012)
Nel Cantico dei cantici vi è anche la faccia terrena, umana dell’amore. Un aiuto alla sua comprensione ci viene dalla celebre espressione di Tertulliano, caro cardo salutis , «la carne è il cardine della salvezza»: è con questo corpo che l’essere umano si salva, è con questa carne che riceve la carne di Cristo affinché l’uomo sia divino. Nel cristianesimo non ci dovrebbe essere angoscia nei confronti della sessualità, né cinismo verso il corpo: questi, infatti, è realtà voluta da Dio. Allora il Cantico è cantico dell’amore terreno, ma sempre visto di fronte a Dio.
Fin dal primo movimento del poema troviamo un versetto decisivo: la nascita dell’amore porta a essere gli uni per gli altri. «Il mio amato è per me e io sono per lui» ricalca la formula dell’alleanza per eccellenza: «Voi siete per me il mio popolo e io sarò per voi il vostro Dio». E san Paolo nella Prima Lettera ai Corinti afferma: «Il corpo è per il Signore e il Signore è per il corpo», facendo poi discendere la resurrezione proprio dall’alleanza tra il Signore e il corpo.
Nel Cantico c’è l’eloquenza dell’amore nato e cresciuto che diventa alleanza: è un amore tra una ragazza e un ragazzo, non tra sposa e sposo, ma questo dovrà essere celebrato nell’alleanza, preciso segno dell’amore di coppia. È un amore terreno ma incastonato in un patto: «Il mio amato è per me e io sono per lui». (...) Più avanti il racconto assume un tono di «notturno», ricco di elementi di sogno, come nei Notturni di Chopin o nel Sogno di una notte di mezza estate di Mendelssohn: i due amanti ora sono lontani. È un sogno?
Nella vicenda d’amore, proprio perché l’amore non è mai un incontro effimero e passeggero, si instaura la distanza; proprio perché l’amore è una vicenda c’è la possibilità dell’assenza. Sì, a volte è possibile l’esilio, la rottura, la separazione, ma proprio allora può nascere un’altra dimensione: quella dell’attesa, della ricerca reciproca. Questa zona «notturna» all’interno del Cantico potrebbe essere la crisi, il confronto, la verifica, il momento di riconoscersi e accettarsi dopo l’entusiasmo iniziale che è sempre pieno di fuoco e di passione: è il momento di amare in modo diverso.
La lontananza non è negativa nell’amore: quando si è lontani ci si cerca, si è abitati dal desiderio, questo sentimento che strugge e ferisce e che pure è così necessario all’amore. Non è una disgrazia l’esilio, la distanza, lo stare ogni tanto lontani l’uno dall’altra, anche nell’amore più fedele. Nel desiderio dobbiamo semplicemente aspettare, aspettare e ancora aspettare, e soffrire indicibilmente per la separazione: dobbiamo esercitarci al desiderio, perché così possiamo sperare di vivere con consapevolezza la relazione, la comunicazione, la comunione con le persone che amiamo.
Nell’amore è così importante amarsi anche a distanza! E non si dimentichi che se c’è un riflesso dell’amore umano nell’amore per Dio, questo lo si può trovare nel desiderio, perché l’amore per Dio proprio su questa linea si attesta: Dio è invisibile, Dio è sempre al di là di tutto, è quasi assente, lo cerchiamo sempre, il nostro è un quaerere Deum e la sua è una presenza elusiva. Noi siamo sempre in esilio, lontano dal Signore, il nostro è sempre un amore a distanza, e solo chi ha vissuto un amore umano a distanza, con la separazione e il distacco, sa cos’è questo elemento di nostalgia sempre presente nell’amore per Dio. (...) L’amore è incontro di due amanti, tra un io e un tu; in questa relazione duale l’amante chiama regina l’amata, questa chiama re l’amato, l’amata è unica: «Unica è la mia colomba ... Tu sei come l’aurora, bella come la luna, fulgente come il sole...».
L’amante che viene meno per lo sguardo le dice: «No, non guardarmi, distogli i tuoi occhi, nonresisto». E l’amata risponde: «Il tuo palato nel baciarti è vino dolce ... Io sono per il mio amato e la sua brama è verso di me» (Ct 7,11). Questo è un versetto capitale che capovolge la constatazione di Genesi 3,6 , dove si dice alla donna: «Verso l’uomo sarà la tua brama, ma lui ti dominerà»: qui l’orizzonte è quello finale, non l’orizzonte della storia con tutte le violenze e i soprusi vissuti nell’amore e verso le donne, soprusi di cui non siamo abbastanza consapevoli; qui è narrata la brama delluomo verso la donna, è cantata la reciprocità della brama, dunque la reciprocità dell’amore.
Infine, alcune parole che non si riesce a capire da chi siano pronunciate: «Mettimi come sigillo sul tuo cuore». È la terza parola di questo amore umano: dopo l’alleanza («Io sono per lui, lui è per me»), dopo l’unicità («Unica è la mia colomba») ecco che l’amore va sigillato: unico l’amore, unica l’alleanza su cui è posto il sigillo delle nozze. «Perché l’amore è forte come la morte, tenace come l’inferno, fuoco divorante, fiamma divina»: è questa l’unica volta che compare un’allusione a Dio nel Cantico, e compare legata all’immagine dell’amore fuoco divorante, fiamma divina.
Davvero l’amore cantato dal Cantico è amore umanissimo, terreno ma l’amore è in se stesso divino, eterno, capace di ingaggiare un duello con la morte. Quando Dio, guardando ad Adamo ed Eva, ha esclamato che era «cosa molto buona», si è rallegrato e si rallegra ancora e sempre dell’amore autentico, terreno ed erotico come quello descritto nel Cantico, l’amore di un ragazzo e di una ragazza, di un uomo e di una donna, l’amore di due amanti che anche celebrando l’amore nella liturgia dei corpi raccontano che l’amore vince la morte e va oltre la morte. Nessun amore andrà perduto, ma sarà per l’eternità.
Il patrono della Chiesa come modello per affrontare le turbolenze del mondo
Attualità di san Giuseppe
di TARCISIO STRAMARE *
"È certo che la figura di Giuseppe acquista una rinnovata attualità per la Chiesa del nostro tempo, in relazione al nuovo Millennio cristiano". Così afferma Giovanni Paolo II nell’Esortazione apostolica Redemptoris custos, dove richiama la Christifideles laici nel contesto storico del decreto Quemadmodum Deus (1870) con il quale Pio IX "metteva se stesso e tutti i fedeli sotto il potentissimo patrocinio del santo Patriarca Giuseppe". Giovanni Paolo II riteneva che la situazione della Chiesa e della società non fosse meno grave al presente che "in quei tristissimi tempi": "Questo patrocinio deve essere invocato ed è necessario tuttora alla Chiesa non soltanto contro gli insorgenti pericoli, ma anche e soprattutto a conforto del suo rinnovato impegno di evangelizzazione del mondo e di rievangelizzazione in quei paesi e Nazioni dove la religione e la vita cristiana (...) sono messi a dura prova" (n. 29). Il Pontificio consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione, istituito da Benedetto XVI il 21 settembre 2010, a vent’anni dalla Redemptoris custos, con il motu proprio Ubicumque et semper, si pone nella linea della continuità.
I mezzi di comunicazione sociale ci informano quotidianamente sulle gravi turbolenze che scuotono l’umanità e sulle sofferenze della Chiesa, che ne compromettono lo sviluppo, dimostrando che ancora oggi abbiamo numerosi motivi per pregare san Giuseppe. La rinnovata attualità del santo si estende dall’intervento di difesa verso l’esterno all’opera interna di rinvigorimento.
Tutta la Redemptoris custos è focalizzata sull’economia della salvezza, della quale san Giuseppe è stato, insieme con Maria, singolare "ministro". Così lo ha presentato la predicazione apostolica, testimoniata nei vangeli là dove essi descrivono "gli inizi della redenzione", ossia "i misteri della vita nascosta di Gesù", gli stessi misteri che la Chiesa rivive nel ciclo annuale della sua celebrazione liturgica. Di essi Giuseppe è stato ministro fedele "mediante l’esercizio della sua paternità" (n. 8).
Che di san Giuseppe si intenda evidenziare soprattutto il ministero, appare già nel titolo dell’esortazione apostolica. Custos, infatti, non vuole metterne in ombra la paternità, della quale anzi il documento difende espressamente l’autenticità, quanto piuttosto sottolinearne la funzione, che è quella del servizio, come d’altronde deve essere per ogni paternità. Già questo è un chiaro ammonimento per quei genitori che oggi si arrogano il diritto di spadroneggiare sulla vita dei figli come se fossero un loro prodotto. La vita dell’uomo è nelle mani di Dio, al quale il titolo di Padre appartiene in assoluto (cfr. Matteo, 23, 9). Di questa paternità divina san Giuseppe è stato colui che ha esperimentato in modo singolare la ministerialità: escluso dalla generazione a motivo dell’origine divina del Figlio, egli ha assunto, tuttavia, gli impegni più onerosi della paternità, ossia l’accoglienza e l’educazione della prole, elementi che rientrano, insieme alla generazione, nella natura della paternità umana, come insegna san Tommaso. Già Origene scriveva: "Benché niente nella sua generazione, Giuseppe gli ha dedicato il servizio e l’amore. È per questo suo fedele servizio, che la Scrittura gli ha concesso il nome di "padre"".
Giovanni Paolo II considera la paternità di san Giuseppe appunto come un servizio, del quale la debolezza dell’umanità di Gesù aveva bisogno soprattutto nel periodo della sua vita nascosta - "custode del Redentore" e "ministro della salvezza". Ebbene, questo profilo del santo è lo stesso che deve qualificare e definire la Chiesa. Di fronte all’odierna diffusa crisi di "identità", che non ha risparmiato neppure lei, è proprio "il riconsiderare la partecipazione dello sposo di Maria al riguardo che consentirà alla Chiesa di ritrovare continuamente la propria identità" (n. 1).
Se già la qualifica di custode è significativa per designare la funzione della paternità umana, tanto più lo è se questa ha come termine non un semplice uomo ma il redentore. La figura e il ruolo di san Giuseppe, infatti, avrebbero potuto essere esaltati con il titolo di "Padre del Verbo" o "Padre di Dio", espressioni già presenti nella liturgia, ovvero con l’espressione più familiare e largamente diffusa dell’inno latino Salve, pater Salvatoris; salve, custos Redemptoris. Perché allora non scegliere proprio nell’abbinamento di questi due titoli quello di Pater Salvatoris, che sarebbe stato più elogiativo? Evidentemente perché "custode" si adattava meglio al tenore del documento pontificio, che intende presentare san Giuseppe come "ministro della salvezza".
La domanda, allora, è un’altra: perché Giovanni Paolo II ha voluto presentare san Giuseppe come "ministro della salvezza", pur esaltandone e valorizzandone la paternità? La risposta va cercata nella scelta fondamentale del suo magistero, che è il tema della redenzione. Poiché la redenzione dell’umanità è la dimostrazione dell’amore di Dio per la "sua immagine" (Genesi, 1, 27), assunta dallo stesso suo Figlio nell’incarnazione, tutti devono parteciparvi. Il Papa rivolge la sua esortazione alla Chiesa tutta, ricordandole quale sia la sua identità e proponendole un modello concreto, san Giuseppe, appunto.
L’affermazione di Giovanni Paolo II, secondo cui deve "crescere in tutti la devozione al Patrono della Chiesa universale", è finalizzata all’accrescimento dell’"amore al Redentore, che egli esemplarmente servì". Proprio questo "servì" è il profilo della figura di san Giuseppe, sempre presentato nei vangeli come attento e fedele esecutore degli ordini di Dio trasmessigli da un angelo nel sonno. San Tommaso traccia questo profilo con due parole: "ministro e custode". Si comprende allora perché all’invocazione del patrocinio, la Chiesa debba associare coerentemente la necessità di imitare il suo patrono, "un esempio che supera i singoli stati di vita e si propone all’intera comunità cristiana, quali che siano in essa la condizione e i compiti di ciascun fedele".
* L’Osservatore Romano 19 marzo 2011
Il Padre che fu madre
Una lettura moderna della parabola del Figliol Prodigo
Trascrizione dell’incontro di presentazione dell’ultimo libro di don Paolo Farinella tenutosi a Roma il 19 gennaio 2011
[INTERVENTO - RIPRESA PARZIALE] *
Paolo Farinella (Autore):
[...] Premetto che non sono un teologo, né voglio esserlo, con tutto i lrispetto per i teologi e le teologhe. [...] Sono trent’anni o grosso modo che mi cimento con l’introduzione al Vangelo di Giovanni e sono ancora fermo lì. Quindi ci sono specializzazioni, ci sono puntualizzazioni, però non bisogna mai perdere l’orizzonte della Bibbia. [...]
[...] oggi credo che il servizio sia questo. Altrimenti finiamo in quelle aberrazioni che stiamo vedendo nei nostri giorni [...] ho contestato il libro del papa su Gesù di Nazaret, perché lui non ha competenza su Gesù di Nàzaret.
Perché come papa non può scrivere un libro su Gesù di Nàzaret, perché commette un illecito e, da un punto di vista etico, commette un delitto. Perché nel momento in cui tu papa scrivi un libro su Gesù di Nazaret, tu devi sapere, anche se poi a pag. 19 e 20 della tua introduzione tu mi dici che ti possono criticare perché questo è frutto della tua ricerca, ma tu sai bene che lo useranno come testo di catechesi nelle parrocchie perché diranno: “questo è affidabile perché l’ha detto il papa!” Questa è la mistificazione. [...]
[... ] noi oggi non comprendiamo il 90% del vangelo perché lo leggiamo con una mentalità latina, con una mentalità occidentale e non lo incarniamo nel suo contesto naturale che è giudaismo. I vangeli sono scritti giudaici del I secolo d.C. e per un periodo di tempo, anzi direi che è uno dei motivi della scomunica che si sono dati gli ebrei rispetto ai cristiani e viceversa, è stato proprio questo, perché ad un certo m omento i cristiani pretendevano di leggere come parola di Dio i testi del Nuovo Testamento.
[...] Ma come si fa a leggere il Nuovo Testamento senza comprendere che il Nuovo Testamento usa la traduzione della Bibbia della LXX come testo di riferimento?
Allora per capire le singole parole, per capire le singole frasi, per capire il testo, il contesto, il metodo storico-critico che oggi è in crisi perché prendono piede altri metodi ... per esempio oggi il metodo comunemente utilizzato è il cosiddetto “metodo narrativo”. Cioè si prende non più un testo piccolo, ma un testo nella sua totalità, si esamina nella sua totalità e lo si mette a confronto con tutta la scrittura - ed è questo il midrash ebraico - confrontare la scrittura con la scrittura.
Mi sembra di aver trovato questa chiave nel fatto che i primi cristiani son ebrei, che leggono la Bibbia con la mentalità e la cultura ebraica e applicano i metodi esegetici ebraici. E nel vangelo è pieno, bisogna tirarli fuori. Questa parabola, che non sappiamo da dove viene, perché come si dice tecnicamente è un hapax legomenon, cioè una ‘cosa detta una sola volta’, e si trova in Luca. Però noi sappiamo che Luca è, dei tre evangelisti sinottici, il più tardo nel tempo, verso la fine del I secolo. Da dove lo deriva? Noi dal suo vangelo sappiamo che ha delle fonti sue, sicuramente dipende da Marco, conosce Matteo, però ha accompagnato Paolo nei suoi viaggi. Qual è il tema di fondo di Paolo? Il tema di fondo di Paolo è la giustificazione, su questo non ci piove. Questo poi è compito dei teologi dare le spiegazioni e fare la struttura. Perché la giustificazione è il tema centrale di Paolo? Per un semplice motivo di ordine storico: perché i primi cristiani hanno avuto problemi di convivenza tra ebrei e greci. I greci dovevano essere considerati cristiani di seconda categoria e dovevano diventare prima ebrei e poi diventare cristiani.
E’ a questo che si oppone Paolo. Paolo annuncia una libertà di adesione a Cristo perché è l’unico mediatore; non più il sacerdozio, non più il tempio e neanche la struttura, che anche nelle comunità di Paolo già si ha, e forse anche nella comunità giovannea. L’unica mediazione è l’accesso all’incontro con Gesù Cristo mediante la fede. Penso che un giorno senza nemmeno accorgercene ci sveglieremo e non ci troveremo più né cattolici, né protestanti, né musulmani, ma semplicemente credenti in Dio. Il giorno in cui accadrà questo il vangelo sarà compiuto. [...]
Credete voi nelle cose che Dio ha rivelato? Rispondono gli ebrei: “Noi crediamo nelle cose che Dio ha rivelato a noi!” Non che ha rivelato a tutti, a noi. Però all’interno di queste tradizioni noi troviamo degli spiragli, ad esempio le leggi di Noè, che hanno un respiro universale - e questo lo ammettono anche gli Ebrei oggi. Le leggi di Noè sono per tutti, ma non i comandamenti di Mosè che sono per gli Ebrei. Ecco se noi andiamo alla natura, all’osso delle cose, scopriremo delle sorprese, e la sorpresa che io ho scoperto ... mi sembra di capire che, applicando le regole dell’esegesi di Rabbì ben Eliezer che si usavano all’epoca di Gesù in modo comune, e sono 32 regole esegetiche che gli ebrei utilizzavano, Luca, che conosce bene il mondo ebraico, anche perché, tra gli evangelisti, è l’unico che riesce ad usare lo stile semitico della LXX, specialmente nei primi due capitoli, quelli dell’infanzia che sono scritti per ultimi ... allora Luca fa un’applicazione, a modo giudaico, del capitolo 31 di Geremia.
E’ il capitolo famoso che poi verrà ripreso da Gesù nell’ultima cena. “Io concluderò con la casa di Israele una nuova ed eterna alleanza”, questo è l’ultimo versetto, Ger 31,31, però se voi leggete il capitolo 31 tutto per intero, che viene riportato per esteso ... perché uno dei modi con cui io scrivo è questo: quando faccio delle citazioni importanti, le riporto sempre per esteso, perché uno che legge deve poterlo vedere immediatamente, e adesso le metto in parallelo così che ci si possa rendere conto delle somiglianze che delle differenze.
E metto in evidenza, a pag. 55 mi pare, questo confronto tra queste figure che si trovano nel profeta Geremia, che c’è un uomo con due figli, poi abbiamo una donna con dei figli che piange i suoi figli, abbiamo i due figli, e via di seguito, le pecore anche qui. Ed è un commento nuovo. Il tema dell’alleanza di Geremia applicato utilizzando una parabola che Luca recupera probabilmente dalla tradizione orale, oppure la inventa lui di sana piante, ed esplicita l’insegnamento di Paolo, cioè che non c’è più greco né giudeo né uomo né donna, ma c’è soltanto l’uomo, la persona, l’individuo in Cristo.
E’ il concetto della salvezza universale rinchiuso nella dinamica del vangelo. E poi come si propone questa dinamica e questa salvezza nel testo di Luca? Si propone attraverso una modulazione che è tutta particolare. E bisogna leggerla in greco per capirla. Perché, intanto dice che è un uomo e non dice chi è. Come giustamente è stato detto non c’è la madre, perché nel contesto in cui Luca scrive, ed è il contesto sia dell’Antico che del Nuovo Testamento, basta leggere Esodo 20,17 nell’ultimo comandamento, “Non desidererai la casa del tuo prossimo; non desidererai la moglie del tuo prossimo, il suo servo, la sua serva, il suo bue, il suo asino, e tutto quello che è del tuo prossimo”.
La donna è mero possesso dell’uomo. E devo fare anche una precisazione, secondo la mentalità ebraica, non è la donna che trasmette la vita. Secondo la mentalità ebraica è l’uomo che trasmette la vita, la donna è soltanto un contenitore che tiene in caldo il seme della vita, tant’è vero che in greco si usano due verbi distinti: uno è gennáo per ‘generare’, l’altro è tìktō, esclusivo per la donna, che significa ‘partorire’; la donna non genera. E’ evidente che in una cultura del genere, l’immagine di Dio è un’immagine proiettata, è evidente. Ma non è compito mio di biblista fare applicazioni, farei “eisegesi”, cioè immetterei nel testo quello che nel testo non c’è. Però sono convinto che se gli evangelisti scrivessero oggi avrebbero di Dio un’immagine diversa.
Tenuto presente Giovanni 1,18 in cui si dice che Dio nessuno lo ha mai visto e, se nessuno ha mai visto Dio, come facciamo a parlare di Dio? Io credo che noi possiamo parlare solo di Gesù Cristo. E di Gesù Cristo sempre lo stesso versetto 18b di Giovanni ci dice che lui ha fatto l’esegesi del volto del Padre. Il testo greco dice che ha fatto l’esegesi. Allora io devo ascoltare la persona di Gesù perché è soltanto lui che ha visto il Padre.
E quando vi dicono che Dio compare qui o compare lì, che la madonna è apparsa qua o là, sappiate che viene dal demonio, perché Dio e la madonna sono persone serie e non vanno in giro ad apparire né di giorno né di notte. E sappiate anche che, in base alla teologia cattolica tradizionalissima - e io mi appello a questa teologia - non sono tenuto a credere né a Lourdes né a Fatima, né alla madonna del pero, né alla madonna del bosco, né alla madonna della foresta, né alla madonna che piange, né alla madonna sanguigna, né alla madonna sempre madonnara.
E io non credo a queste apparizioni e con questo sono perfettamente cattolico sino al midollo dell’osso. Se poi ci aggiungete padre Pio la frittata è colma! Perché quella è l’oscenità del sacro che no c’entra niente con un rapporto di fede. Ecco perché dico che dobbiamo ritornare esclusivamente alla nuda parola di Dio prenderla e sminuzzarla parola per parola, e assaporarne la valenza. Per esempio quando mi dice che questo padre ha due figli, è chiaro se voi leggete il resto e il contesto di tutto il vangelo, e leggete l’Antico Testamento - e credo di aver riportato quasi tutti i rapporti che ci sono nella Bibbia, voi vedete che il rapporto tra fratelli potrebbe essere una filigrana di lettura.
Se leggete il capitolo sulla legge della impossibilità. Perché vince sempre il secondo che giuridicamente non aveva nessun diritto? All’epoca di Gesù il patrimonio non poteva essere diviso perché ereditava soltanto il figlio maggiore. Il figlio minore aveva un terzo di eredità, che per non poteva vendere, era titolare ma non poteva disporne, perché la proprietà non poteva essere divisa. Il figlio maggiore rappresentava la tutela della proprietà.
E questo è stato fino a Napoleone. Grosso modo nel XVII secolo i monasteri, i conventi erano pieni di figli secondogeniti per non sperperare il patrimonio. Il motivo per cui nella chiesa cattolica si ostina a difendere il celibato non credete che sia per motivo di assimilazione a Cristo, queste sono balle che hanno voluto far credere! Ma il vero motivo dal X secolo in avanti, con l’XI secolo in modo particolare in Francia, è per garantire la legittimità del figlio del re di Francia e per impedire che il prete sposato possa intaccare il patrimonio della chiesa.
Questo è il vero motivo detto papale papale. E non motivi spirituali. Se poi i teologi o gli spiritualisti o gli ascetici vogliono farci degli arzigogoli sopra sono liberi di fare quello che vogliono, però siano onesti nel dire quali sono i veri motivi. Un Padre aveva due figli, il fariseo e pubblicano che stanno nel tempio. E poi ci sono tanti altri, per esempio Esaù e Giacobbe e via di seguito. Nel libro cerco di spiegare questi rapporti, Pharez e Zerah, quello che nasce prima viene dopo, quello che doveva nascere dopo viene prima, e c’è tutto un casino che si sviluppa proprio per affermare un principio, che è il principio paolino della prima lettera ai Corinzi, che Dio sceglie nel mondo tutto ciò che non conta niente per affermare il regno di Dio. Non dovrebbe essere questo un principio nella chiesa oggi? Non dovrebbe essere questa la pastorale? Non dovrebbe essere questo l’annuncio profetico? Non dovrebbe essere questo quello che il papa dal balcone, o il cardinale Bertone dal balchino, dovrebbero gridare davanti a un Berlusconi su questo governo? Non dovrebbero dire: “E’ il secondogenito che ha diritto, cioè sono i poveri che hanno diritto, che devono essere tutelati”?
Questo dovrebbe dire la chiesa, questo dovrebbe gridare e no semplicemente andare a pranzo, di giorno, di notte, come i carbonari, per sollecitare interessi vergognosi, perché in questo modo noi nascondiamo il vangelo, anzi lo rinneghiamo il vangelo. Dice Paolo: “Dio non sceglie le cose che contano”, anche perché aggiunge poco prima che “soltanto lo Spirito è capace di leggere le profondità di Dio”. Allora bisogna veramente diventare spirituali per poter leggere le profondità di Dio. Perché soltanto nello Spirito del risorto noi possiamo incontrare Dio. Che cosa dice il figlio minore al padre? Il figlio minore guardate non vuole semplicemente andarsene di casa. Il figlio minore fa una richiesta precisa. Purtroppo le traduzioni non rendono. Voi sapete qual è il sistema delle traduzioni? La CEI, prendendo atto che il popolo di Dio non conosce la scrittura, ha fatto la scelta liturgica, cioè quella del testo che si capisca subito e che abbia un buon suono e che sia orecchiabile, anche a scapito del significato. Io preferisco una traduzione più stridente, ma che sia più letterale e profonda e poi magari si spiega.
Allora, invece di perdere tempo a fare lettere pastorali, a fare piani pastorali, a fare progetti culturali e via di seguito ... sono cinquant’anni ormai che facciamo queste cavolate qui. Bastava semplicemente fare un solo documento di una pagina e dire: “Da oggi in poi si fa solo Bibbia, Bibbia, Bibbia. Bibbia la mattino, Bibbia al pomeriggio, Bibbia alla sera. Bibbia prima dei pasti, dopo i pasti. Bibbia prima delle cure, dopo le cure, prima delle vacanze e dopo le vacanze. Bibbia, Bibbia, Bibbia!”
Se avessero formato un gruppo enorme di biblisti e li avessero sparsi per il paese, noi oggi avremmo un popolo di Dio che almeno può prendersi la scrittura e leggersela tranquillamente. Ma è quello che non si vuole, perché la parola di Dio deve essere sempre mediata da qualcuno, perché se non è mediata da qualcuno, l’autorità per come viene intesa, cioè come possesso delle coscienze, va a farsi fottere tranquillamente.
Allora il lavoro che bisogna fare, a mio parere, è proprio questo [...] E’ mio compito oggi restituire tutte queste cose e restituirle con gli interessi! Perché io non appartengo a me stesso, ma appartengo a una comunità, sono figlio di una comunità e non posso tenerle solo per me. Ecco perché nella preparazione di questa grammatica sono arrivato a sei, sette lezioni, che è faticosissimo perché alle volte, in una giornata, scrivi solo due righe, tre righe, perché devi cercare in tutta la Bibbia greca dell’Antico Testamento, in tutti i libri, devi trovare la forma e poi metterla a confronto con testo ebraico. Poi devi dire il passaggio che c’è stato nelle varie poche, e diventa un lavoro appassionante.
Il Card. Martini, quando ci incontravamo in Gerusalemme, mi diceva: “Don Paolo sono queste le cose che dobbiamo fare perché la gente possa avere in mano gli strumenti per poter leggere la Bibbia per conto proprio e non necessariamente andare in una chiesa per avere una spiegazione”. Tu devi andare in chiesa per incontrarti con la tua comunità e condividere la parola perché non è più una parola sola per te, ma una parola che diventa profezia e questa profezia deve essere gridata, deve essere annunciata.
La richiesta che fa il figlio al padre è una richiesta fondamentale: “Padre, dammi la parte di vita che mi spetta”. Non dammi la parte del patrimonio. In greco usa il termine “ousìa - natura”, dammi la parte della tua natura. E subito dopo il padre - notate il gesto eucaristico - “prese la sua vita e la spezzò tra i due figli”. Questo è il compito di Dio, spezzarsi per darsi. E’ l’Eucaristia.
Quando il figlio va lontano non va lontano. Il verbo greco è apedêmēsen. E apedêmēsen è un aoristo che significa ... qui c’è il problema dell’aoristo con cui io ho problemi, perché in base alla scuola di Niccacci, dipende da dove si trova, e cioè nella lettura narrativa bisogna vedere dove è collocato il verbo principale, cioè in quale linea, in una linea di primo piano o secondaria, ecc. Però io qui non voglio fare questo discorso specialistico. Voglio dire solo che il verbo apedêmēsen viene da apò demèō, dèmos - popolo: “Il figlio, andandosene con la vita del padre, si allontanò dal suo popolo”. Non è semplicemente andare lontano, ma è staccarsi dalla sua identità. E infatti, secondo la traduzione italiana, aggiunge che “visse da dissoluto”. In greco non dice che visse da dissoluto, in greco dice che visse da “asôtos”, un avverbio che indica “senza salvezza”. Vi rendete conto che non è semplicemente una parabola. Quando ero giovane prete non ho mai fatto cantare “mi alzerò e andrò da mio padre ...” nel tempo di Quaresima, perché in tempo di Quaresima c’è tutto questo sciorinamento di questo figlio che si converte.
Ma non è così. Il figlio non si converte e non ritorna per amore del amore del padre, non ritorna perché è pentito, non ritorna per la coscienza di aver fatto male, ritorna perché vuole mangiare, ed è disposto anche a diventare schiavo del padre, non più figlio, pur di sbarcare il lunario e avere un piatto di minestra. E non c’è amore in questo, non c’è compassione in questo. E lo vedo sullo stesso piano dell’altro figlio che Rembrandt ... se voi guardate il quadro che si trova all’Ermitage di San Pietroburgo, se voi guardate il quadro per intero, voi vedete che il figlio maggiore è rappresentato dietro, sul nero, con un pugnale in mano.
E questo pugnale indica che il fratello desiderava la morte del fratello minore, cioè c’era una competizione tra di loro. Ed è la competizione che si trova nella chiesa primitiva fra gli ebrei che si considerano figli prediletti e i greci che invece non devono far parte allo stesso titolo della stessa chiesa. Ed è contro questa impostazione che Paolo si scaglia. E oggi è contro un’umanità di fronte a cui ci troviamo e verso cui la chiesa, o parte di essa, fa delle esclusioni perché si identifica in una civiltà e in una cultura. L’eresia di oggi è affermare che il cristianesimo è identificabile come civiltà occidentale. Non esiste un cristianesimo occidentale. Nella mia chiesa noi diciamo il Padre Nostro - per quattro anni l’abbiamo detto - in aramaico. E da domenica scorsa l’abbiamo iniziato in greco, proprio per far capire dal punto di vista dei segni, che la lingua di Gesù, cioè il cristianesimo nasce in Oriente: Avunà di bishmaiàh itkaddàsh shemàch tettè malkuttàch tit’avèd re’utàch, non sembra di sentire un arabo? Come possiamo dire che il cristianesimo si identifica con la civiltà occidentale? Questa è una bestemmia! Il cristianesimo si identifica con Gesù Cristo, il quale deve essere detto e letto in ogni lingua, in ogni cultura e ambiente può essere annunciato.
E deve essere letto con le categorie specifiche di ciascuno [...]
Allora imparare la parabola del figliol prodigo come chiave ermeneutica di tutto il vangelo significa annunciare oggi al mondo che Dio non è il giudice perverso che sta attengo se metti un piede fuori della riga e ti spara subito una pallonata per riportarti in riga all’interno di regole morali, perché il cristianesimo è stato ridotto ad una morale, direi di più, ad una ossessione sessuale. Questo è il limite forte. Mentre l’annuncio che mi sembra di ricavare da questa parabola è che in Dio in concetto di amore si identifica col concetto di giustizia, e il concetto di giustizia si identifica col concetto di amore. Detto in parole più semplici, Dio è giusto perché ama.
* Il Dialogo, Martedì 25 Gennaio,2011 Ore: 14:41 (RIPRESA PARZIALE).
Non è il Dio in cui credo
di Nandino Capovilla (Adista/Notizie, n. 64, 31 luglio 2010)
Tra catechismi e compendi, guide e sussidi, le nostre librerie non riescono nemmeno ad esporre tutta la produzione di tentativi per ridurre, semplificare e sminuzzare l’unico testo veramente consigliabile, la Parola di Dio. Tutti questi Bignami vogliono spiegarci chi è Dio e come rapportarci con lui, ma spesso esco sconcertato dalla libreria col dubbio che quello non sia il Dio in cui credo.
Tutti vorrebbero insegnarmi a pregare Dio, ma non credo vada trascurata anche la testimonianza di Raymond Devos che dice di aver incontrato, in un villaggio della Lozerè, Dio che stava pregando. "Mi son detto: chi prega? Non prega certo se stesso. Non lui, non Dio. Pregava l’uomo! Egli mi pregava. Pregava me! Metteva in dubbio me come io avevo messo in dubbio lui. Diceva: ’O uomo, se tu esisti, dammi un segno’. Ho detto: ’Dio mio sono qui’. Lui ha detto: ’Miracolo! Un’apparizione umana’". Ogni giorno, allora, cerco di "dare un segno" a Dio dalla mia giornata affannata, sapendo che Lui mi ha preceduto e mi precede sempre, che non ho bisogno di cercare le prove della sua esistenza, ma casomai purificare costantemente l’immagine di Dio che mi sta davanti.
Mi basterebbe in realtà tornare più frequentemente a quelle pagine intrise di lacerante sofferenza e gioiosa consolazione con cui Luca ci racconta chi è il nostro Dio attraverso il suo amarci e il suo ostinato legame con ogni uomo. Altro che Dio come l’assoluto che sa tutto e non è giustificato da nulla, imperscrutabile nella sua dimora divina e praticamente micidiale per l’uomo! Il Dio che racconta Gesù, l’unico che vale la pena di ascoltare, non è l’entità che sa tutto e può tutto, ma l’appassionato Padre che ci ama indipendentemente dalla nostra risposta. La grandezza del mio Dio non ha bisogno di spiegarsi perché io ne accetti l’esistenza, visto che da sempre lui stesso si è definito in rapporto a noi uomini e che dalla prima passeggiata nel giardino si è messo in agitazione per cercare Adamo e, in lui, anche me.
Così, ogni giorno e in ogni tempo, Dio ha cercato di convincerci della sua misericordia, della sua enorme bontà e assoluta inermità di fronte al nostro rifiuto. Il Padre prodigo di amore percorre tutti i giorni le strade di tutti gli uomini: cerca, bussa, chiede trafelato e stanco di essere ascoltato e capito nella sua paternità.
È evidente che i due figli della parabola non hanno capito il loro padre. Uno ribelle e l’altro servo, non hanno saputo cogliere che il dono più grande è la libertà dei figli. Tra perdita e ritrovamento, il Padre si ritrova col cuore in gola finché non vede il figlio minore arrivare in fondo alla strada. Questo Dio è dunque sempre più altro rispetto a quello che i poteri politici e le ragioni di Stato stanno costantemente utilizzando.
Aspettiamo il giorno in cui la Chiesa, che si sente depositaria e custode della fede, alzerà forte la voce per fermare coloro che bestemmiano il nome di Dio confiscandolo a loro uso e consumo e facendo della sua storia una consuetudine popolare, una tradizione e una cultura.
Significativo è il modo in cui Luca introduce le tre parabole della misericordia: "Si avvicinavano a Gesù i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano: ‘Costui riceve i peccatori e mangia con loro’”. Lo scandalo continua oggi, se siamo fedeli nel mostrare questo volto di Dio che fa saltare gli schemi e le norme acquisite solo col suo amore totalmente gratuito.
Perché allora non ci scuote la sofferenza di tanti per la rigidità di una Chiesa che giudica senza ascoltare, minaccia senza accogliere, condanna senza perdonare? E quanta strada dobbiamo fare per assomigliare a quel Padre che corse verso suo figlio "quando era ancora lontano"? Certo, abbiamo smesso di etichettare mezzo mondo con la categoria dei "lontani" ma non abbiamo ancora tolto il baricentro di questa ipotetica "vicinanza" a Dio dalla nostra Chiesa cattolica, e invece di andare noi verso i fratelli aspettiamo tranquilli che si convertano a noi e arrivino fin sulla porta a bussare.
«Quando sentì il calore delle lacrime di suo fratello rigare il proprio volto, qualcosa in lui si schiuse, le labbra si aprirono per sussurrare un semplice ’Sì!’»
di ENZO BIANCHI *
Nella sua predicazione Gesù è ricorso a racconti e narrazioni: le parabole, frutto della sua ricerca della volontà di Dio, della sua immaginazione, della sua osservazione contemplativa del cuore umano, della natura e delle storie personali e collettive. Ma tra queste, ve n’è una che appare come «incompiuta», una parabola che sembra attendere altri eventi, quasi una parabola in atto di compiersi: è quella dei due figli, che abbiamo memorizzato come «la parabola del figliol prodigo». Una parabola con il finale sospeso: il figlio perduto ritorna a casa, il padre lo abbraccia e gli usa piena misericordia senza chiedergli conto del male commesso, l’inizio della festa per questo figlio ritrovato... Poi ecco apparire l’altro figlio, il maggiore, rimasto sempre a casa: risentito, non vuole partecipare alla gioia del padre e del fratello.
Allora il padre esce di casa anche per lui, pregandolo di entrare e unirsi alla festa... La fine del racconto tace sulla reazione del figlio maggiore: è rimasto ostinatamente fuori? Cos’è successo dopo l’avvio della festa con la musica e il pranzo preparato? Una parabola incompiuta, appunto.
Suonerebbe poco riverente verso il Vangelo osare immaginare non un’altra fine, ma un seguito che renda la parabola compiuta?
Significherebbe forse indicare un esito, far accadere ciò che non è stato narrato come accaduto... Ma siccome tutte le volte che leggo questa parabola penso sempre all’esito che avrebbe potuto avere e mi ritrovo a ipotizzare sempre lo stesso finale, oso affidarlo ai lettori, certo della loro capacità di farne buon uso e di non confonderlo con il Vangelo stesso.
l figlio minore scappato di casa, dopo aver dilapidato tutta l’eredità pretesa dal padre, si era deciso a ritornare a casa: meglio essere un servo in casa di suo padre che vivere da salariato guardiano di porci! Non conosceva in profondità suo padre, infatti da lui si attendeva solo un po’ di pietà per colui che I restava nonostante tutto suo figlio. Il padre invece, da quando il figlio era fuggito, l’aveva sempre aspettato e il suo amore - che esprimeva anche l’amore della madre che non c’era più - non era mai venuto meno: aspettava, aspettava, sovente scrutando l’orizzonte dalla terrazza di casa, là dove la strada scompariva dietro le colline... Così un giorno, scorgendo una sagoma in lontananza, comprese che era lui, suo figlio. Allora gli corse incontro: era scalzo, vestito di cenci, barba e capelli incolti, avanzava come un relitto umano, emanava anche un tanfo insopportabile... Quella corsa finì con un abbraccio, sfociò in un volto contro volto, occhi contro occhi, in un unico pianto di gioia. Il padre non sentì le parole biascicate dal figlio, ma gli salì dal cuore una parola: «È vivo! Festa, allora!». E festa sia: i garzoni vanno a macellare il vitello grasso, accendono il fuoco della cucina, mentre altri preparano il bagno, le vesti profumate e i calzari nuovi... E il padre gli mette al dito l’anello di famiglia, custodito per lui, mentre i musicanti invitano alla festa.
Festa grande, festa per tutti! Ma l’altro figlio dov’è? A quest’ora avrebbe dovuto essere rientrato dai campi... Dov’è? Il padre esce di nuovo, di corsa, per cercarlo e dargli la buona notizia del fratello tornato, non più perduto come un morto, ma vivo! Invece, il dramma: nell’ora in cui il padre ha riacquistato un figlio rischia di perdere l’altro. Non appena il maggiore, infatti, vede il padre e sente la sua «buona notizia», ecco l’indignazione, la rivolta! La sua voce risuona dura, tagliente: «Come puoi chiedermi di essere contento e di far festa per questo tuo figlio che ha preso i suoi soldi prima che gli spettassero, che è andato a spenderli comprandosi amici interessati e amore di prostitute, che ha lasciato a noi la fatica e il lavoro, senza mai dare un cenno di vita? E io dovrei far festa?». Ma il padre: «È mio figlio, certo, ma è anche tuo fratello! Io sono il padre di tutti e due: vi ho amati e vi amo, siete la mia vita! Tu sei rimasto qui accanto a me, è vero, lui se n’è andato lontano, ma io vi amo tutti e due, di tutti e due mi sento padre e non posso fare diversamente. Se non vi sentite fratelli tra voi, è come se io non potessi essere vostro padre!».
Come aveva abbracciato il figlio fuggito, il padre ora supplicava l’altro figlio che non voleva partecipare alla festa. Come aveva atteso il figlio perduto, ora era disposto ad aspettare che il primogenito entrasse in casa per la festa. Fino a quando restò là a pregarlo? Fino al momento - che il padre non aveva osato sperare - in cui sopraggiunse il figlio minore, fino a quando il figlio rinato non accorse verso suo fratello!
Questa volta non aveva preparato parole di circostanza, come prima di tornare a casa: avanzò semplicemente, gli occhi bassi colmi di contrizione, giunse davanti al fratello e, senza alzare lo sguardo, gli disse solo: «Fratello, rivolgimi una parola, anche di condanna, e saprò di essere rinato anche per te: allora sarò veramente rinato!». Il primogenito rimase come paralizzato: non riusciva né aprire la bocca né ad allargare le braccia... Si lasciò abbracciare, tenendo le braccia rigide, come legate al corpo. Ma quando sentì il calore delle lacrime del fratello rigare il proprio volto, qualcosa in lui si schiuse, le labbra si aprirono per sussurrare semplicemente «Sì!». Davvero tutto quello che era del padre era anche suo! Non solo la casa e i campi, non solo vitelli e capretti, ma anche l’amore per quell’uomo perduto e ritrovato, l’amore per un figlio ridiventato fratello. Sì, l’amore del padre era amore anche suo, un amore condiviso. E cominciarono a far festa, tutti insieme, una festa senza fine...
Non potremo mai sapere se questo era davvero il finale della parabola narrata da Gesù, né questa domanda è decisiva.
Possiamo e dobbiamo invece interrogarci proprio a partire dall’intero racconto e da quel fiato sospeso che lo conclude: chi è il figlio primogenito e chi è il minore, perduto? Chi dei due è autenticamente figlio e fratello?
Quando lo diventa o lo ridiventa? E ciascuno di noi, dove si colloca?
Decisivo in questa parabola familiare è che entrambi i fratelli sono stati ritrovati dal padre, il quale è nella gioia solo quando ha in casa tutti i suoi figli, capaci di perdonarsi e di fare festa insieme.
*
L’AUTORE
Il monaco piemontese che parla del pane e della Bibbia
Enzo Bianchi è priore della Comunità di Bose e studioso della religione e della cultura ebraica.
Dirige le edizioni Qiqajon ed è autore di numerosi commenti esegetici e spirituali, di saggi e di libri per bambini, pubblicati da vari editori. Tra i suoi ultimi libri ricordiamo «Il pane di ieri» (Einaudi), in cui ripercorre con la memoria il sentiero che lo lega al passato, alla sua gioventù trascorsa nelle terre tra Monferrato e Langhe e vi coglie delle chiavi di lettura, sia per il presente, sia per il futuro. Inoltre, «Per un’etica condivisa», (Einaudi); «Il Padre Nostro. Compendio di tutto il Vangelo» (San Paolo), «Lettere a un amico sulla vita spirituale» (Qiqajon), che rispondono agli interrogativi posti da un giovane che desidera mettersi in cammino sui sentieri dell’avventura interiore; «Le vie della felicità. Gesù e le beatitudini» (Rizzoli); «Perché pregare, come pregare» (San Paolo), in cui la preghiera diventa cifra interpretativa della cultura e della sua trasformazione (F.P.)
* Avvenire, 20.08.2010
Paradiso. La biblioteca di Dante
Una lettura del canto X della terza Cantica della «Divina Commedia», rappresentata qui come un trittico dal biblista e teologo Gianfranco Ravasi.
Il Sommo Poeta ci parla dei grandi teologi e filosofi cui si è ispirato: Boezio e Sigieri di Brabante in primo luogo, ma anche Alberto Magno e Dionigi Areopagita, Isidoro di Siviglia e Beda il Venerabile *
di Gianfranco Ravasi (Avvenire, 14.09.2008)
« T ra le scienze la teologia è la più bella, la sola che tocchi la mente e il cuore arricchendoli, che tanto si avvicini alla realtà umana e getti uno sguardo luminoso sulla verità divina». Questa confessione di un grande teologo come Karl Barth nella sua Introduzione alla teologia evangelica (1962) propone la stessa emozione che secoli prima Dante aveva sperimentato e suggerito, rivelando il suo volto di teologo, soprattutto nel Paradiso. Ed è appunto, entrando nel quarto cielo, dominato dal sole, «lo ministro maggior de la natura» (v. 28), tappa decisiva dell’ascesa verso lo zenit supremo divino, che il poeta intesse una riflessione teologica che ora vorremmo simbolicamente raccogliere in un trittico.
IL CANTO DELLA LUCE
A dare sostanza a questo abbozzo sono i 148 versi del canto X del Paradiso, che segna il transito verso i cieli superiori ove ormai del tutto remota è l’ombra della terra e glorioso si dispiega il moto de «l’alte rote» (v. 7), quelle sfere celesti che tanto appassionavano anche il Dante astronomo. Una prima scena della nostra ideale trilogia potrebbe intitolarsi il canto della luce. È facile, infatti, subito riconoscere che quasi ogni verso della pagina poetica è irradiato dallo sfolgorare della luce che, come insegna tutta la tradizione biblica, è immagine del divino, al punto tale che san Giovanni non esiterà nella sua Prima Lettera (1,5) a coniare la celebre definizione ho Theòs phôs estin, «Dio è luce». La luce può mirabilmente rappresentare sia la trascendenza divina (è esterna a noi e inafferrabile) sia la sua immanenza (ci individua, ci avvolge, ci attraversa, ci riscalda e fa vivere). Anche per Dante Dio è «il Sol de li angeli» (v. 53).
A irrompere innanzitutto è, però, il sole fisico che «col suo lume il tempo ne misura» (v. 30), l’astro che - come si è detto - impera nel quarto cielo e che non può essere travalicato («sopra ’l sol non fu occhio ch’andasse», v. 48). Occhieggia per un istante anche la luna, «la figlia di Latona» (v. 67), ma per il poeta la luce solare, che pure è studiata nelle sue meccaniche celesti, è soprattutto una metafora di una luminosità interiore sulla scia delle parole di Cristo: «La lucerna del corpo è l’occhio» ( Matteo 6, 22). È per questo che Beatrice svela «lo splendor de li occhi suoi ridenti» (v. 62). Ma sono soprattutto gli spiriti beati che poi incontreremo ad essere la vera luce spirituale: essi, infatti, brillano più della stessa luminosità solare (vv. 40-42) e l’aggettivo che Dante adotta per definirli è appunto «lucenti» (vv. 40; 66). Essi sono «vivi e vincenti» la stessa luce solare e, quindi, destinati a superare anche l’umana capacità visiva. Simili alla folgore (v. 64), sono «ardenti soli» (v. 76) o «come stelle» sfavillanti (v. 78). Anzi, per definirli il poeta ricorre costantemente alla parola «luce» (vv. 109; 118; 136), ora «bella», ora «piccoletta», ora «etterna», ora «lume» (vv. 73; 115; 134). Il loro è un «fiammeggiare» (vv. 103; 130).
E la sorgente di questa luminosità è trascendente: è, infatti, «lo raggio de la grazia» divina col quale «s’accende verace amore» (vv. 83-84), facendo sì che l’anima risplenda «di luce in luce» (v. 122). Siamo, allora, nel cuore della teologia che ha nella cháris, la «grazia» di Dio, la sua sorgente, come insegnava san Paolo, tenendo conto che questa categoria teologica implica la radicale trasformazione della persona da schiavo a figlio adottivo, la sua rigenerazione in «nuova creatura», attraverso la vicenda battesimale che non per nulla era denominata photismós, «illuminazione» (cf. Efesini 5,13-14), mentre il Cristo giovanneo entrava in scena proclamando: «Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita» (8,12).
IL CANTO DELLA CONTEMPLAZIONE
In stretta connessione con la luce è naturalmente la visione. È per questo che la seconda parte del nostro ideale trittico potrebbe essere definita il canto della contemplazione. È suggestivo che l’incipit del canto X sia affidato a un «guardare» divino (v. 1), a cui si associa il «rimirare» umano (v. 6).
L’appello dantesco rivolto al «lettore» è, perciò, quello di «levare» in alto lo sguardo dell’anima, a «vagheggiar», cioè a contemplare con amore sia l’opera cosmica di Dio sia il suo mistero trascendente.
Sulla creazione, infatti, il Creatore «mai da lei l’occhio non parte» (v. 12): è la provvidenza divina che incessantemente si appunta sulla creatura per sostenerla nell’essere. Similmente l’uomo deve «credere» ora con gli occhi della fede, nell’attesa e nella «brama di vedere» attraverso la piena visione beatifica (v. 45).
Il percorso di questa contemplazione è arduo perché la nostra stessa fantasia è insufficiente a immaginare abissi di luce così profondi, anche perché l’esperienza del nostro occhio non ha mai intuito una realtà più luminosa del sole (vv. 46-48). Il nostro è, quindi, solo un «prelibare» (v. 23) parziale e imperfetto rispetto a un orizzonte infinito. Ecco, allora, la necessità per l’uomo di essere «levato per grazia» divina (v. 54). Solo così, condotto per la «scala» celeste (v. 86), riesce a «vedere»; e questo verbo è spesso reiterato dal poeta per designare la sua stessa esperienza nell’itinerario celeste (vv. 64; 145), È un «vedere» che dà gioia e godimento (v. 124), e che è attuato attraverso «l’occhio de la mente» (v. 121).
Ma ora, dopo aver sottolineato come la contemplazione sia la via privilegiata della conoscenza paradisiaca, Dante delinea ed esalta anche l’oggetto di quella visione. E lo fa soprattutto in apertura e in finale al canto, anticipando quanto affermava Barth sulla felicità che prova il teologo quando fissa lo sguardo nel mistero dell’essere divino e umano. L’attacco del canto è solenne e punta direttamente a quel gorgo di luce che è il mistero trinitario.
È sempre sorprendente vedere come nell’arco di una sola terzina e con una decina di parole Dante riesca a formulare la dottrina cattolica della Trinità, affrontando persino la famosa questione del Filioque, ossia della processione dello Spirito Santo, cioè l’«amore», sia dall’«uno», che è il Padre, «lo primo e ineffabile Valore» (potenza), sia dall’«altro», il Figlio: «Guardando nel suo Figlio con l’Amore/ che l’uno e l’altro etternalmente spira, /lo primo e ineffabile Valore...» (vv. 1-3).
Ma la contemplazione trinitaria svela anche l’agire divino; ossia la creazione che Dio opera, e qui Dante propone la tradizionale via «analogica» già presente nel libro biblico della Sapienza: «Dalla grandezza e bellezza delle creature per analogia si conosce l’Autore» (13, 5), tema liberamente ripreso da Paolo in Romani 1, 20.
Infatti, afferma il poeta, Dio creò i cieli e il cosmo con un ordine così perfetto che chi lo contempla non può non intuire e gustare la perfezione divina che in essi si dispiega: «con tant’ordine fé, ch’esser non puote / sanza gustar di lui chi ciò rimira» (vv. 5-6).
Per questo Dante poi si abbandona alla contemplazione astrale, coinvolgendo anche il suo interlocutore: «Leva dunque, lettore, a l’alte rote / meco la vista...» (vv. 7-8). E ciò che si scopre non è una mera opera di architettura cosmica bensì un vero e proprio atto d’amore.
Il Creatore rivela un’«arte» da «maestro», vale a dire da signore e artefice che la sua opera «dentro a sé l’ama, / tanto che mai da lei l’occhio non parte» (vv. 10-12). L’amore di Dio che presiede alla creazione continua ininterrottamente così da assicurare vita ed esistenza alla sua opera; è un amore che fiorisce all’interno di Dio stesso, per cui il creato è in qualche modo nel cuore di Dio.
La dottrina trinitaria si riaffaccerà a metà del canto quando si ricorderà che i beati del quarto cielo, «la quarta famiglia» di Dio, sono «saziati» nella visione dell’intimo processo trinitario che si compie nell’essenza divina: quella «famiglia» di santi, infatti, «l’alto Padre sempre la sazia / mostrando come spira e come figlia», rivelandole cioè la generazione del Figlio e la «processione» dello Spirito Santo (vv. 50-51).
Ma, come si diceva, anche la finale del canto X ritorna alla contemplazione del mistero divino, una contemplazione di purissimo e gioioso abbandono d’amore, come già si suggeriva nel v. 59 ove Dante dichiarava che «tutto ’l mio amore» era trasfuso in Dio.
L’immagine ora evocata è di taglio musicale, a due livelli di armonia. C’è prima il tintinnare dell’orologio che scandisce nell’alba ancor incerta il sorgere della Chiesa, la «sposa di Dio», che si leva a «mattinar lo sposo» divino perché la ami. La scena, dipinta nelle due terzine dei vv. 139-144, è di straordinaria fragranza, tutta percorsa da ammiccamenti all’uso degli innamorati di elevare il loro canto sotto le finestre dell’amata.
Quel «tin tin», che risuona «con sì dolce nota» e che fa fremere l’anima fedele che si «turge» d’amore appassionato, richiama l’altra immagine musicale esplicita, quella del coro dei beati che canta «in tempra», cioè in piena armonia - quasi fosse uno strumento «ben temperato» - la sua lode a Dio, creando nel poeta una sensazione talmente alta di bellezza da fargli pregustare l’eterna felicità paradisiaca, «colà dove gioir s’insempra» (vv. 146-148).
IL CANTO DELLA SAPIENZA
A popolare il cielo del sole sono gli spiriti dei sapienti, di coloro che consacrarono la loro esistenza terrena alla ricerca della verità sia nella teologia sia nelle scienze umane, cioè il Sdiritto, la filosofia, la grammatica, e nell’attività concreta di governo e di opere, come fu per Salomone, emblema della sapienza biblica, che qui è pure convocato.
Chiameremo, perciò, questa terza tavola del nostro trittico ideale, il canto della sapienza. Dante ordina questi sapienti in due cori di dodici spiriti ciascuno e il canto X fa sfilare la prima sequenza di personaggi che hanno per corifeo il grande Tommaso d’Aquino (la seconda entrerà in scena nel canto XII). È stato detto suggestivamente che si riesce a intravedere in questi due elenchi quasi la biblioteca di Dante e anche le sue predilezioni, come accade nel nostro canto per Boezio e per Sigieri di Brabante.
Le immagini che rappresentano questo ideale congresso di sapienti sono affascinanti: è una «corona» luminosa (v. 65), fatta di «ardenti soli» (v. 76), è una «ghirlanda» di fiori (v. 92), è «lo beato serto» (v. 102), è la «gloriosa rota» (v. 145), è il «coro» (v. 106). E a descrivere la perfetta armonia, pur nella diversità delle voci (anzi, proprio per questa ideale policromia), è appunto la citata raffigurazione corale finale (vv. 146-148), ritmata sul tintinnare d’un orologio, a cui possiamo associare la precedente rievocazione del loro canto che si sviluppa in una danza, capace di richiamare l’armonia dei moti siderali (vv. 78-81). È qui che Dante riesce plasticamente a cogliere quell’emozionante momento di sospensione - quasi un «fermoimmagine » - in cui le danzatrici sostano per un istante tra l’una e l’altra figura del loro movimento, quando si ha la pausa musicale tra la strofe e l’antistrofe della loro danza.
Bellezza e armonia si sposano, però, con la profondità del pensiero di questi dodici sapienti, vere e proprie «luci» nel cammino della ricerca teologica e filosofica. Sì, Dante, fedele alla sua Weltanschauung che distingueva senza separare o opporre religione e politica, fede e ragione, vuole qui ribadire in modo simbolico la sua concezione.
E lo fa ponendo in rilievo - accanto alla serie dei pur ammirati e celebrati Alberto Magno, Graziano, Pietro Lombardo, Salomone, Dionigi Areopagita, Orosio, Isidoro di Siviglia, Beda Venerabile e Riccardo di San Vittore - due figure emblematiche. Da un lato, Severino Boezio, l’originale mediatore tra la cultura classica e la cristiana, al quale vengono riservate due commosse e intense terzine (vv. 124-129), espressione anche di una sintonia nel comune travaglio vissuto dal filosofo e dal poeta a livello culturale, personale e politico. D’altro lato, ecco emergere un po’ provocatoriamente alla fine Sigieri di Brabante, il maestro parigino dalla «luce etterna» (v. 136), paradossalmente celebrato dal suo avversario teorico, Tommaso d’Aquino. Egli che fu contestato per la sua affermazione radicale dell’autonomia della filosofia e della razionalità rispetto alla fede, viene appunto posto su un piedestallo proprio per la sintonia che Dante sente vibrare col suo pensiero.
Si ha, così, la libertà e la sincerità appassionata del poeta, ma si ha anche la testimonianza della profonda sofferenza che può generare la sapienza cosciente e coerente, nella linea di quanto confessava un sapiente biblico, il Qohelet/Ecclesiaste, che nel dir questo s’era tra l’altro rivestito del manto di Salomone: «Grande sapienza è grande tormento; chi più sa più soffre» (1,18). Sigieri, l’araldo di «invidïosi veri», cioè di verità invise e scomode (v. 138), fu così torturato nei suoi pensieri acuti e liberi da dover quasi desiderare la morte («’n pensieri gravi a morir li parve venir tardo», vv. 134-135).
Ma è significativo che in cielo a celebrare così altamente Sigieri sia proprio - come si diceva - colui che lo contestò aspramente in terra, ed è altrettanto significativo che a cantare le glorie di san Francesco sarà il domenicano Tommaso d’Aquino (canto XI), così come a esaltare san Domenico sarà incaricato il francescano san Bonaventura (canto XII).
Le due scuole, la domenicana e la francescana, che si confrontavano vigorosamente e fin duramente nell’accademia terrena, ora nella sapienza celeste s’incontrano e s’incrociano non più per un duello, ma per un abbraccio, nella bellezza dell’armonia molteplice e nell’umiltà della contemplazione della luce divina, che ora si compie non «in uno specchio, in maniera confusa, ma vedendo a faccia a faccia» ( 1 Corinzi 13,12). Si ferma qui il nostro sguardo dall’alto su questo canto dantesco.
Ora è il momento, conclusa la fase delle presentazioni introduttorie, di proseguire, nell’ascolto pieno e approfondito, lungo lo svolgersi dei versi: «Messo t’ho innanzi: omai per te ti ciba» (v. 25).
RAVENNA
Due appuntamenti per il Settembre dantesco
Tra il 13 e il 14 settembre 1321 (come concorda la maggior parte degli studiosi), «nel dì - scrive il Boccaccio - che la esaltazione della santa Croce si celebra dalla Chiesa», moriva a Ravenna Dante Alighieri. Questo ’evento’, attorno a cui ruotano le tradizionali manifestazioni del ’Settembre dantesco’, viene commemorato con due iniziative promosse del Centro Dantesco dei Frati Minori Conventuali in collaborazione con l’Archidiocesi di Ravenna-Cervia e il Comune di Ravenna. Il primo appuntamento si è svolto ieri sera alla Basilica di San Francesco con il «Dantis Poetae Transitus»: il noto biblista Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, ha commentato il canto X del «Paradiso» in cui Dante, lasciata la zona del terzo regno dove ancora si allunga l’ombra della terra, entra in quella dove abitano gli spiriti «sapienti», la cui vita fu tutta rivolta al fine proprio dell’uomo, cioè a Dio. Oggi poi, domenica 14 settembre, lo stesso monsignor Ravasi presiederà la «Messa di Dante» (Basilica di San Francesco, ore 11.30), la solenne celebrazione eucaristica al termine della quale la delegazione del Comune di Firenze rinnoverà l’offerta dell’olio e riaccenderà la lampada votiva che dal 1908 - giusto cent’anni fa - arde nella tomba del Sommo Poeta.
I PERSONAGGI
Severino Boezio ( Roma, 476 - Pavia 525) è uno dei maggiori filosofi latini: le sue opere influenzarono notevolmente la filosofia cristiana del Medioevo.
Figlio del console romano Flavio Boezio, alla morte del padre fu affidato a Simmaco, nobile e letterato romano, del quale sposerà la figlia Rusticiana avendone due figli. Formatosi alla scuola di Atene, Boezio scrive i trattati del quadrivio che gli rendono grande fama. Verso il 520 compone il De Trinitate e l’ Utrum Pater et Filius et Spiritus Sanctus de divinitate substantialiter praedicentur.
Boezio capro espiatorio di Teodorico. L’interesse di Boezio e del patriziato romano per i problemi teologici mettono in allarme Teodorico, che nel 493 aveva sconfitto Odoacre, re degli Eruli, stabilendo in Italia il proprio regno. In seguito al sequestro da parte di un magistrato di lettere dirette alla corte di Bisanzio, Boezio difende Albino dall’accusa di complotto ai danni di Teodorico, e a sua volta viene sospettato. Incarcerato nel 524 a Pavia con l’accusa di praticare arti magiche scrive la De consolatione philosophiae. Giudicato colpevole nel 525 la sua condanna a morte viene eseguita presso Pavia.
Sigieri di Brabante, l’anti- Scolastica
Sigieri di Brabante ( Brabante 1235 c. - Orvieto 1282) compì gli studi all’università di Parigi nella facoltà delle arti tra l’anno 1255 e il 1257. In seguito fu professore presso la stessa università. Di spirito sovversivo e grande conoscitore di Aristotele, attraverso gli studi compiuti sui testi di Averroè che in quegli anni, anche grazie alle crociate, cominciano a circolare nelle università europee, si pone in contrasto con la corrente filosofica della Scolastica, collocandosi nella corrente filosofica degli Averroisti latini che contestano il rettore dell’Università, Alberico di Reims. Venne condannato per 13 proposte eretiche, contenute nei suoi scritti, dal vescovo di Parigi Etienne Tempier nel 1270. Nel 1277 gli venne proibito l’insegnamento all’università e venne convocato dall’inquisitore di Francia Simon du Val. Per sfuggire all’inquisizione parte per Orvieto, in quel tempo residenza del Papa, dove si appellò al pontefice Martino IV. Rimasto a Orvieto, in attesa della sentenza papale, venne pugnalato a morte dal suo segretario impazzito.
"Hai scannato per lui il giovane toro ingrassato’”. Con queste parole il figlio maggiore rivelò chiaramente che non aveva capito affatto cosa significa essere un figlio. Serviva il padre più o meno come un dipendente serve il datore di lavoro
I capi religiosi ebrei assomigliavano al figlio maggiore. Pensavano di essere leali a Dio perché seguivano rigorosamente un codice di leggi. È vero che l’ubbidienza è essenziale. Ma l’eccessivo risalto che davano alle opere aveva trasformato l’adorazione di Dio in una serie di atti formali, in una devozione esteriore, priva di vera spiritualità. La loro mente era ossessionata dalle tradizioni. Il loro cuore era privo di amore. Disprezzavano le persone comuni, arrivando a definirle “gente maledetta”. Come poteva Dio gradire le opere di quei capi religiosi quando il loro cuore era così lontano da lui?
Gesù disse ai farisei: “Andate . . . e imparate che cosa significa questo: ‘Voglio misericordia, e non sacrificio’”. La loro scala di valori era confusa, perché senza la misericordia tutti i loro sacrifici sarebbero stati inutili. Non avere misericordia è una cosa molto seria, perché la Bibbia classifica gli “spietati” fra quelli che secondo Dio “meritano la morte”. Non sorprende dunque che Gesù dicesse che come classe i capi religiosi erano destinati alla distruzione eterna. Evidentemente la mancanza di misericordia contribuiva parecchio a renderli meritevoli di tale giudizio. Ma forse in quella classe di persone c’erano degli individui ricuperabili.
PROVOCAZIONE. È motivato il rancore del fratello «virtuoso» per le feste del padre dopo il ritorno di quello smarrito? Una rilettura controluce
Ma l’altro figliol fu «prodigo»?
di ENZO BIANCHI (Avvenire, 11.03.2010)*
Il padre accoglie la confessione sincera del figlio minore tornato a casa, una confessione solo ora divenuta sincera, non più interessata: «Ho peccato contro il cielo e contro di te, non sono degno di essere chiamato figlio». Quella fuga, quella lontananza è stata rottura, rifiuto di un rapporto di vita con la paternità, una rottura di quel legame che nasce dell’accoglienza del dono della vita. Ma il padre non fa rimproveri, non recrimina sul passato, non pone al figlio alcuna condizione, non gli lascia pronunciare le parole che il figlio aveva preparato: «Trattami come uno dei tuoi salariati!». Queste parole di scambio non sono dette, non sono poste davanti al Padre. «Fammi ritornare ed io ritornerò », cioè «Convertimi ed io mi convertirò!». Queste parole del profeta Geremia sono ormai comprese nella verità assoluta dal figlio. Il padre con il suo amore preveniente ha attirato a sé il figlio, il cui ritorno era andare verso chi lo attirava e lo chiamava, proprio come Dio aveva fatto con l’uomo Adamo dopo il peccato: «Dove sei? Adamo, dove sei? Figlio dove sei?». Inizia allora la festa: un peccatore è ritornato, un morto è risuscitato.
La casa è sempre rimasta aperta, il figlio deve lasciarsi amare dal padre. Sì, è più importante capire che Dio ci ama che capire che noi dobbiamo amare Dio. Nella sua predicazione e nel suo agire, Gesù ha detto molto di più su Dio che ci ama che non sul nostro dovere di amare Dio. È significativo: può amare Dio colui che ha conosciuto che da Dio è stato amato prima e di amore preveniente. Capiamo le parole di Giovanni: «Chi non ama, non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore» (1Gv 4,18), eco di quelle di Gesù ai discepoli: «Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi!» (Gv 15,16). Ecco allora la casa paterna diventare luogo del perdono e della festa: il vestito più bello è messo al figlio, l’anello è messo al suo dito, gli sono portate le calzature perché non sia più a piedi nudi come gli schiavi. Viene ucciso il vitello migliore e si fa festa. Il padre dice «presto»: è urgente la festa, la gioia, perché il peccato è cancellato, il padre non lo ricorda più e dunque tutto dev’essere riportato all’integrità. E i servi si affrettano a preparare la celebrazione della per tutta la famiglia.
La parabola poteva finire qui, sarebbe finita come gli altri due racconti analoghi della pecora e della dracma smarrite, ma qui l’evangelista apre un altro quadro. Appare il figlio maggiore, colui che era re- stato sempre a casa e aveva servito il padre per tanti anni. Di fronte al tornare in vita del fratello prova una reazione di gelosia: in nome della giustizia non può tollerare che quel suo fratello sia causa di festa. Com’è possibile? Se n’è andato, pretendendo l’eredità che poi ha dilapidato, non ha fatto mai avere sue notizie, mentre lui è restato a casa, ha obbedito al padre, ha lavorato, ha tirato avanti per anni con fatica. E ora si fa festa per uno che non lo riconosceva neppure come fratello e che, andandosene, aveva di fatto negato i legami familiari?
No, questa festa non gli appartiene. Lì non vuole saperne di entrare. Ed ecco di nuovo il padre che esce - non lo fa chiamare, ma esce incontro a lui - esce un’altra volta di casa per incontrare un figlio e lo prega insistentemente. Ma il figlio restato a casa recrimina. Vanta una fedeltà - «da tanti anni ti servo» -, mette davanti al padre la sua giustizia: «Non ho mai trasgredito un tuo comando». Ha vissuto fino allora come un mercenario puntuale, si è impegnato verso il padre come un salariato, ed è il padre che manca verso di lui: non gli ha mai dato un capretto per lui e i suoi amici e ora dà il vitello grasso per il fratello indegno di quel nome! C’è risentimento, c’è protesta, c’è un’accusa precisa verso il padre in questo rifiuto.
La spiegazione di questo atteggiamento è sulla bocca di Gesù nel vangelo di Giovanni: «Chi è schiavo non resta sempre nella casa (paterna) solo chi è figlio vi rimane sempre!» (Gv 8,35), cioè chi si sente schiavo sta a casa come un mercenario, non come un figlio, sta a casa ma si sente in prigione, fa le cose perché si sente costretto, senza la libertà propria di chi è figlio, senza amore.
Sì, questo figlio in realtà non era mai stato nella casa del padre: il suo dimorare accanto al padre non lo aveva portato a conoscerne il cuore. Era stato schiavo in una prigione. Il suo comportamento non è fondamentalmente diverso da quello di chi se ne era andato! Tutti e due i figli non vivevano nella relazione paterna, non conoscevano l’amore del padre. E il padre allora dice: «Figlio, figlio amato, quello che è mio è tuo!». Téknon, mio caro figlio, mio caro ragazzo, «ciò che è mio, è tuo», tra noi c’è comunione, tu sei sempre con me, tra noi c’è vita comune, compagnia. Avrebbe potuto dirgli: «Tu dici di non aver mai trasgredito uno dei miei comandi, ma ora che ti invitano a entrare tu ti fai disobbediente ». E invece, anche questa volta, non rimprovera ma prega, chiede soprattutto di accogliere la resurrezione di suo fratello. «Tuo fratello è risorto! Occorre far festa!».
Qui termina il racconto di Gesù, ma sulla conclusione della vicenda restano aperti interrogativi fondamentali per noi che leggiamo la parabola. È entrato il fratello a fare festa? E il padre, è entrato lasciando il figlio maggiore fuori, oppure è ancora là che lo prega affinché la festa sia completa? Questa parabola ci aiuta davvero a chiederci: tu che chiami Dio Padre, quale immagine di Dio hai? L’immagine di un padre padrone? Di un padre giusto, dotato di giustizia retributiva? O di un padre che ama senza porre condizioni? Un padre che perdona sempre? Gesù così ci interpella! A ciascuno di noi la risposta nel nostro cuore: una risposta che possiamo dare solo nel pentimento, tornando a Dio, nel segreto del cuore. In attesa di vedere Dio faccia a faccia, come esclamava sant’Ignazio di Antiochia avvicinandosi al martirio: «Una voce mi dice come acqua zampillante: Vieni al Padre!». Questo figlio in realtà non era mai stato nella casa del genitore, perché non vedeva il suo cuore: proprio come quello che se n’era andato, non ne conosceva l’amore
* L’INCONTRO
Il priore di Bose fa «lectio divina» a Piacenza
Anticipiamo in queste colonne ampi stralci della lectio «Si alzò e ritornò da sua padre (Lc 15,20)» che il priore di Bose, Enzo Bianchi (nella foto sotto), terrà questa sera alle 21 in cattedrale a Piacenza, nell’ambito del ciclo «Esercizi di lectio divina sul Vangelo di Luca in cattedrale».
Angelus
Di fronte a Dio né «ribellione» né «obbedienza infantile»
di Benedetto XVI (Avvenire, 14 Marzo 2010)
Cari fratelli e sorelle!
In questa quarta domenica di Quaresima viene proclamato il Vangelo del padre e dei due figli, più noto come parabola del "figlio prodigo" (Lc 15,11-32). Questa pagina di san Luca costituisce un vertice della spiritualità e della letteratura di tutti i tempi. Infatti, che cosa sarebbero la nostra cultura, l’arte, e più in generale la nostra civiltà senza questa rivelazione di un Dio Padre pieno di misericordia? Essa non smette mai di commuoverci, e ogni volta che l’ascoltiamo o la leggiamo è in grado di suggerirci sempre nuovi significati. Soprattutto, questo testo evangelico ha il potere di parlarci di Dio, di farci conoscere il suo volto, meglio ancora, il suo cuore.
Dopo che Gesù ci ha raccontato del Padre misericordioso, le cose non sono più come prima, adesso Dio lo conosciamo: Egli è il nostro Padre, che per amore ci ha creati liberi e dotati di coscienza, che soffre se ci perdiamo e che fa festa se ritorniamo. Per questo, la relazione con Lui si costruisce attraverso una storia, analogamente a quanto accade ad ogni figlio con i propri genitori: all’inizio dipende da loro; poi rivendica la propria autonomia; e infine - se vi è un positivo sviluppo - arriva ad un rapporto maturo, basato sulla riconoscenza e sull’amore autentico.
In queste tappe possiamo leggere anche momenti del cammino dell’uomo nel rapporto con Dio. Vi può essere una fase che è come l’infanzia: una religione mossa dal bisogno, dalla dipendenza. Via via che l’uomo cresce e si emancipa, vuole affrancarsi da questa sottomissione e diventare libero, adulto, capace di regolarsi da solo e di fare le proprie scelte in modo autonomo, pensando anche di poter fare a meno di Dio. Questa fase, appunto, è delicata, può portare all’ateismo, ma anche questo, non di rado, nasconde l’esigenza di scoprire il vero volto di Dio.
Per nostra fortuna, Dio non viene mai meno alla sua fedeltà e, anche se noi ci allontaniamo e ci perdiamo, continua a seguirci col suo amore, perdonando i nostri errori e parlando interiormente alla nostra coscienza per richiamarci a sé. Nella parabola, i due figli si comportano in maniera opposta: il minore se ne va e cade sempre più in basso, mentre il maggiore rimane a casa, ma anch’egli ha una relazione immatura con il Padre; infatti, quando il fratello ritorna, il maggiore non è felice come lo è, invece, il Padre, anzi, si arrabbia e non vuole rientrare in casa.
I due figli rappresentano due modi immaturi di rapportarsi con Dio: la ribellione e una obbedienza infantile. Entrambe queste forme si superano attraverso l’esperienza della misericordia. Solo sperimentando il perdono, riconoscendosi amati di un amore gratuito, più grande della nostra miseria, ma anche della nostra giustizia, entriamo finalmente in un rapporto veramente filiale e libero con Dio.
Cari amici, meditiamo questa parabola. Rispecchiamoci nei due figli, e soprattutto contempliamo il cuore del Padre. Gettiamoci tra le sue braccia e lasciamoci rigenerare dal suo amore misericordioso. Ci aiuti in questo la Vergine Maria, Mater misericordiae.
In Francia la Chiesa sta cambiando
Dal corrispondente di Svegliatevi! in Francia
“‘Le presenze in chiesa sono pressoché zero. Tutte le mattine dico messa per i passeri e i ragni. L’anno scorso ho celebrato un battesimo e 26 funerali. Che ne dite? Neppure un matrimonio’. Quando [questo sacerdote] arrivò a La Bastide [nel sud della Francia], alle lezioni di catechismo assistevano 85 bambini. Oggi ce ne sono cinque in tutto. Nella diocesi c’è solo un seminarista e 120 parrocchie sono senza sacerdote”. - Un sacerdote, citato dal quotidiano parigino Le Figaro.
“Chi prenderà la decisione di restituire ai cattolici il canto gregoriano, i begli inni, . . . gli altari pieni di fiori, i paramenti sacri, l’incenso, l’organo e il parroco sul pulpito? . . . Se un cattolico rimasto lontano dalla chiesa per tanto tempo decidesse di tornare all’ovile somiglierebbe al figliol prodigo. Tuttavia oggigiorno non troverebbe la calorosa casa di suo padre ma un parcheggio dotato di altoparlanti”. - Geneviève Dormann, su Le Figaro Magazine.
MA LA FILOSOFIA OGGI NON IGNORI LA «VERITÀ»
di VITTORIO POSSENTI (Avvenire, 12.09.2008)
La filosofia moderna è un’etica. Questa acuta idea di Giovanni Gentile segna nobiltà e crisi della modernità filosofica. Gentile era catturato dalla prassi, e questo lo portò ad avere simpatia per la filosofia di Marx intesa appunto come una forma alta di prassismo. Egli riteneva che la filosofia teoretica tesa al «rispecchiamento» del reale dovesse essere abbandonata per l’azione. Autori che probabilmente non lo hanno mai letto si accostano a Gentile nell’affinità della posizione, a testimonianza che le posizioni filosofiche fondamentali sono poche. Il pragmatismo di Rorty e in un certo senso di Vattimo (vedi il suo articolo di ieri su ’La Stampa’, «Mettiamoci d’accordo, la verità non c’è più») riprende l’idea che quanto conta è l’atteggiamento pragmatico, teso non a conoscere la realtà in sé ma a combattere l’infelicità.
La «verità» è la capacità di operare effetti, di funzionare. Una cosa è vera perché funziona, mentre per il pragmatista ha poco senso chiedere se «funziona perché è vero», che è invece l’altra faccia assolutamente non trascurabile del problema. L’idea di Rorty e molti altri che la filosofia sia un’etica del dialogo e della ricerca di convergenze ha una sua plausibilità, ma è disperatamente fragile per quanto concerne la squalifica del momento contemplativo, essenziale nella vita e in filosofia. Il «tutto è etica e niente teoretica» è un equivoco che nasce dal rifiuto dell’intelletto e del contemplare, che rimangono momenti di vertice della persona. Scrivendo «La filosofia e lo specchio della natura», Rorty non è sfuggito all’equivoco che affligge molte scuole filosofiche del moderno, ossia l’idea che «là fuori» vi è qualcosa che la mente deve rispecchiare, operandone una rappresentazione fedele e comportandosi come un calco.
Su questi aspetti difficili risparmierò al lettore una lezione, ma l’idea che il compito della mente umana sia di essere lo specchio della natura è fuorviante, sebbene Rorty avesse nel pensiero moderno esempi di ciò. Il compito dell’intelletto non è di rispecchiare ma di giudicare come stanno le cose, e il suo operare è tutt’altra cosa dall’essere uno specchio passivo.
L’attacco ai fondamenti che ha contraddistinto molto pensiero del Novecento muove dal rifiuto dell’intelletto e del contemplare, è cioè un nichilismo per il quale non esiste alcuna realtà che ci misuri, nessun ordine naturale di giustificazione delle proprie credenze, né alcun percorso prestabilito che un argomento debba seguire. »Anything goes».
Il «tutto etica» e il «niente contemplazione» non solo è una diminuzione dell’uomo, ma non funziona neppure sul piano pratico. Hobbes scriveva che le azioni degli uomini procedono dalle loro opinioni. Le nostre azioni sono profondamente influenzate dalle visioni che ci facciamo del reale, quindi dalle nostre posizioni «metafisiche» e questo è vero anche per coloro che non hanno alcuna idea della metafisica. I problemi bioetici sono la prova del nove che mettersi d’accordo senza sapere «come vanno le cose» conduce ad un rebus insolubile. Nessun accordo pratico può partire se non c’è una qualche affinità tra i dialoganti su basi comuni, senza una condivisione di verità e valori. Vattimo non sembra d’accordo quasi preferendo oppone verità e carità, come se queste due sorelle gemelle abitassero su monti lontani, e la prima fosse inutile, pericolosa e perfino violenta. Il Vangelo invita ad operare la verità nella carità («veritatem facientes in caritate»); ugualmente bene potrebbe chiedere di operare la carità nella verità.