25 Giugno: salviamo la Costituzione e la Repubblica che è in noi
di Federico La Sala (Libertà - quotidiano di Piacenza, 08.06.2006, p. 35)
Il 60° anniversario della nascita della Repubblica italiana e dell’Assemblea Costituente, l’Avvenire (il giornale dei vescovi della Chiesa cattolico-romana) lo ha commentato con un “editoriale” di Giuseppe Anzani, titolato (molto pertinentemente) “Primato della persona. La repubblica in noi” (02 giugno 2006), in cui si ragiona in particolar modo degli articoli 2 e 3 del Patto dei nostri ’Padri’ e delle nostre ’Madri’ Costituenti.
Salvo qualche ’battuta’ ambigua, come quando si scrive e si sostiene che “il baricentro dell’equilibrio resta il primato della persona umana di cui è matrice la cultura cattolica” - dove non si comprende se si parla della cultura universale, di tutto il genere umano o della cultura che si richiama alla particolare istituzione che si chiama Chiesa ’cattolica’ (un po’ come se si parlasse in nome dell’Italia e qualcuno chiedesse: scusa, ma parli come italiano o come esponente di un partito che si chiama “forza...Italia”!?), - il discorso è tuttavia, per lo più, accettabile...
Premesso questo, si può certamente condividere quanto viene sostenuto, alla fine dell’editoriale, relativamente al “diritto alla vita” (“esso sta in cima al catalogo ’aperto’ dell’articolo 2, sta in cima alla promessa irretrattabile dell’art. 3”) e alla necessità di una responsabile attenzione verso di essa (“Non declini mai la difesa della vita; senza di essa è la Repubblica che declina”).
Ma, detto questo, l’ambiguità immediatamente ritorna e sollecita a riporsi forti interrogativi su che cosa stia sostenendo chi ha scritto quanto ha scritto, e da dove e in nome di Chi parla?!
Parla un uomo che parla, con se stesso e con un altro cittadino o con un’altra cittadina, come un italiano comune (- universale, cattolico) o come un esponente del partito ’comune’ (’universale’, ’cattolico’)?
O, ancora, come un cittadino di un partito che dialoga col cittadino o con la cittadina di un altro partito per discutere e decidere su quali decisioni prendere per meglio seguire l’indicazione della Costituzione, della Legge dei nostri ’Padri’ e delle nostre ’Madri’ che ci ha fatti - e invita a volerci! - uomini liberi e donne libere, cittadini-sovrani e cittadine-sovrane?!
Nonostante tante sollecitazioni a sciogliere i nodi e chiarirsi le idee da ogni parte - dentro e fuori le istituzioni cattoliche, c’è ancora molta confusione nel cielo del partito ’cattolico’ italiano: non hanno affatto ben capito né la unità-distinzione tra la “Bibbia civile” e la “Bibbia religiosa”, né tantomeno la radicale differenza che corre tra “Dio” [Amore - Charitas] e “Mammona” [Caro-Prezzo - Caritas] o, che è lo stesso, tra la Legge del Faraone o del Vitello d’oro e la Legge di Mosè!!! E non hanno ancora ben-capito che Repubblica dentro di noi ... non significa affatto Monarchia o Repubblica ’cattolica’ né dentro né fuori di noi, e nemmeno Repubblica delle banane in noi o fuori di noi!!!
Il messaggio del patto costituzionale, come quello del patto eu-angelico ...e della montagna è ben-altro!!! La Costituzione è - ripetiamo: come ha detto e testimoniato con il lavoro di tutto il suo settennato il nostro Presidente, Carlo A. Ciampi - la nostra “Bibbia civile”, la Legge e il Patto di Alleanza dei nostri ’Padri’ e delle nostre ’Madri’ Costituenti (21 cittadine-sovrane presero parte ai lavori dell’Assemblea), e non la ’Legge’ di “mammasantissima” e del “grande fratello” ... che si spaccia per eterno Padre nostro e Sposo della Madre nostra: quale cecità e quanta zoppìa nella testa e nel cuore, e quale offesa nei confronti della nostra Legge dei nostri ’Padri’ e delle nostre ’Madri’- di tutti e tutte noi, e anche dei nostri cari italiani cattolici e delle nostre care italiane cattoliche!!!
Nel 60° Anniversario della nascita della Repubblica italiana, e della Assemblea dei nostri ’Padri e delle nostre ’Madri’ Costituenti, tutti i cittadini e tutte le cittadine di Italia non possono che essere memori, riconoscenti, e orgogliosi e orgogliose di essere cittadine italiane e cittadini italiani, e festeggiare con milioni di voci e con milioni di colori la Repubblica e la Costituzione di Italia, e cercare con tutto il loro cuore, con tutto il loro corpo, e con tutto il loro spirito, di agire in modo che sia per loro stessi e stesse sia per i loro figli e le loro figlie ... l’ “avvenire” sia più bello, degno di esseri umani liberi, giusti, e pacifici! Che l’Amore [Charitas] dei nostri ’Padri’ e delle nostre ’Madri’ illumini sempre il cammino di tutti gli italiani e di tutte le italiane...
Viva la Costituzione, Viva l’Italia!!!
Federico La Sala
DA RICORDARE:
Alla Costituente, su 556 eletti, 21 erano donne:
9 NEL GRUPPO DC, SU 207 MEMBRI - LAURA BIANCHINI, ELISABETTA CONCI, FILOMENA DELLI CASTELLI, MARIA IERVOLINO, MARIA FEDERICI, ANGELA GOTELLI, ANGELA GUIDI CINGOLANI, MARIA NICOTRA, VITTORIA TITOMANLIO;
9 NEL GRUPPO PCI, SU 104 MEMBRI - ADELE BEI, NADIA GALLICO SPANO, NILDE IOTTI, TERESA MATTEI, ANGIOLA MINELLA, RITA MONTAGNANA TOGLIATTI, TERESA NOCE LONGO, ELETTRA POLLASTRINI, MARIA MADDALENA ROSSI;
2 NEL GRUPPO PSI, SU 115 MEMBRI - BIANCA BIANCHI, ANGELINA MERLIN;
1 NEL GRUPPO DELL’UOMO QUALUNQUE: OTTAVIA PENNA BUSCEMI.
Federico La Sala
Sul tema, nel sito e in rete, si cfr.:
PIERO CALAMANDREI (Wikipedia)
FARE COME GIOVANNI XXIII E GIOVANNI PAOLO II: RESTITUIRE L’ANELLO A GIUSEPPE!!!
IL "GRANDE RACCONTO" EDIPICO DELLA CHIESA CATTOLICO-ROMANA E’ FINITO.
Lettera per amore.
Dialogo tra un vescovo e un giornalista: Dio, natura, umanità
di Francesco D’Agostino (Avvenire, sabato 18 maggio 2019)
Ammirevole la lettera che il vescovo Luigi Bettazzi, emerito di Ivrea, scrive a Corrado Augias, provocandolo, con amicizia, sul tema dei temi, quello di Dio e del nostro rapporto con Lui. Augias, diversamente da altri giornalisti e saggisti del suo spessore, non ha mai eluso il tema della religione, anzi lo ha affrontato più di una volta, anche in scritti di ampio respiro, senza però mai volersi compromettere personalmente e fino in fondo con questa tema.
Bettazzi non scrive ad Augias per metterne in discussione la spiritualità, ma per esortarlo a respingere la tentazione dell’ateismo e a considerarsi piuttosto agnostico: infatti, chi (come Augias) dà prova di credere nella libertà, nella bellezza, nella giustizia, crede fondamentalmente nel bene, anche se non vuole o comunque esita a chiamarlo ’Dio’. Agli agnostici, intesi nel senso che si è detto, conclude il vescovo, si può voler bene; mentre voler bene agli atei è davvero difficile.
La risposta di Augias nella rubrica che tiene su ’la Repubblica’ (pubblicata martedì scorso, 14 maggio 2019) è sobria e limpida: grato per l’attenzione che gli viene rivolta, egli ribadisce che il suo atteggiamento fondamentale è quello di prendere le distanze da tutti i dogmi, dai riti, dai catechismi, dai testi sacri e soprattutto da quell’immagine di Dio, come ’super-padre’, occulto e onnipotente governatore del creato, che le religioni inevitabilmente veicolano.
L’immagine di Dio è ormai uscita dagli scenari del nostro tempo, insiste Augias, ma non per questo ci mancano efficaci surrogati di questa immagine, surrogati tra i quali sembra che egli prediliga un’immagine vagamente spinoziana della natura, come epifania di Dio («Deus sive natura»). Il giornalista-scrittore riconosce che l’amore per la terra, per l’acqua, per l’aria non è un perfetto surrogato della religione, ma può comunque essere sufficiente per giustificare una spiritualità «matura e pacifica», rispettosa del prossimo e dell’ambiente e in fondo non molto diversa da quella percepita ed espressa da san Francesco di Assisi.
Il ’naturalismo’ di Augias non ci deve naturalmente meravigliare troppo: è perfettamente in sintonia con l’ecologismo dominante nella cultura contemporanea. Né ci deve meravigliare il riportare il naturalismo allo spirito francescano. Non è la prima volta che questo nesso viene istituito, anche se ha ben poco fondamento: l’amore di san Francesco per la natura è direttamente conseguente al suo amore per il creato e il creato, nello spirito francescano (e ovviamente non solo nello spirito francescano, ma in generale nella spiritualità cristiana), va amato proprio in quanto ’creato’, come portatore dell’immagine di Dio. Se togli Dio, o lo metti tra parentesi, del creato resta solo il paradigma materialistico e meccanicistico che pervade tanta parte della scienza contemporanea. La materia può anche essere ammirata, e una pari ammirazione possiamo nutrire nei confronti degli algoritmi che la strutturano; ma tra l’ammirazione e l’amore c’è una distanza su cui non dovremmo mai smettere di riflettere.
Il cuore della questione è che l’essenza della religione (e penso, in particolare, alla religione cristiana) non consiste nel costruire un’immagine di Dio come Ente supremo o come super-Padre e nel predicare la nostra doverosa sottomissione ai suoi comandi, bensì nel ricevere e nell’accogliere un Vangelo, una buona notizia, tanto semplice quanto sconvolgente: siamo creati e siamo amati da Dio senza alcun merito da parte nostra e questo amore, assolutamente immeritato, chiede di essere ricambiato.
La natura ci nutre, ci tiene in vita, ci affascina, ma non ci ama; dobbiamo rispettarla, prendercene cura, al limite anche venerarla, ma non dobbiamo illuderci: è la stessa natura, nel cui contesto veniamo al mondo, che ci condanna a morte. Solo l’amore è promessa di vita e solo l’amore gratuito di Dio è promessa di vita eterna. Augias ha ragione, quando afferma che oggi la domanda stessa se Dio esista per tanti «è», o sembra, «uscita di scena». Ciò però che non può uscire di scena è il bisogno di amore che ogni persona, anche la più violenta e arrogante, nutre nel segreto del cuore. Ateismo e agnosticismo sono nobili concetti teoretici, l’amore è un’esigenza vitale. Forse è proprio da qui che bisogna dare inizio alla nuova evangelizzazione, della quale da tanto tempo si parla.
SUL TEMA, BEL SITO, SI CFR.:
Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio ... Francesco D’Agostino (dall’Avvenire) vuole dare lezioni a Rosy Bindi e mostra solo tutto il livore di un cattolicesimo che ha sempre confuso "Erode" con Cesare e Dio con "Mammona"!!!
LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
La Bibbia in classe. Corso alle superiori nelle ore di italiano
di Marco Garzonio (Corriere della Sera, 18 maggio 2010)
Come l’Eneide, l’Iliade, L’Odissea anche la Bibbia entra nelle scuole. È stato firmato il protocollo d’intesa tra Ministero dell’Istruzione e Biblia (associazione laica e aconfessionale che da anni lavora al progetto) e una commissione mista è all’opera per predisporre proposte e materiali da inviare a tutti gli istituti dopo l’estate. L’innovazione è di portata storica. Si promuoverà infatti la conoscenza della Bibbia all’interno delle diverse materie e in percorsi interdisciplinari. Verranno offerti strumenti didattici e persone competenti per mostrare ai ragazzi come il testo sacro ha permeato opere letterarie, filosofia, arte, storia ed è vivo in esse. Da un punto di vista tecnico non verrà introdotta una nuova materia, né sarà toccata l’ora di religione; di fatto si creeranno le condizioni per aggiornare contenuti e svolgimento dei programmi. Secondo una prima ipotesi ministeriale l’esperienza pilota dovrebbe essere riservata al biennio delle superiori all’interno delle ore di italiano.
Il proposito, insomma, è far ritrovare le radici spirituali del pensiero e delle espressioni poetiche, risalire alla fonte originale là dove i geni dell’umanità hanno tratto materia e ispirazione, creare nessi e scoprire risonanze. Dar spazio alla Bibbia è un modo per destare curiosità negli studenti, dare spessore a insegnamenti che spesso sembrano lontani dalle domande di senso dei giovani. E son tante: anche se loro possono essere goffi o smodati nell’esprimerle, così da creare negli adulti alibi all’incapacità di stare ad ascoltarle e, soprattutto, a comprenderle. Gli effetti di questa moderna rivoluzione pedagogica sono destinati a coinvolgere i nostri figli, certo; ma possono investire imodi della convivenza oggi. In un’epoca in cui pare prevalente la logica del conflitto, proporre la Bibbia nella scuola è porre le premesse per ristabilire una verità spesso in ombra: Ebrei, Cristiani, Musulmani vengono da lì; dal Libro per antonomasia tutti traggono valori religiosi e umani insieme.
Attraverso i riferimenti al testo sacro si possono certo ricostruire diversità, vicende di tensioni e di scontri, ma la frequentazione della pagina ispirata da Dio, il misurarsi con l’attualità del suo messaggio, è anche l’occasione per stare assieme, ritrovarsi, dialogare, individuare riferimenti e progetti comuni. L’esperienza insegna come l’approccio diretto alla Parola divina, il silenzio e il clima di preghiera da essa suscitati avvicinano nel profondo. Sono le teologie, invece, ad indossare spesso l’elmetto, a creare le condizioni per cercar di tirare Dio dalla propria parte, appropriarsene e mettergli una casacca, autocandidarsi ad essere unici interpreti autentici.
Portare la Bibbia nella scuola, senza creare una nuova ora, né pensare a concorrenze con l’insegnamento confessionale della religione cattolica può costituire un’opportunità preziosa per diffondere un messaggio di cittadinanza condivisa, di ricerca pacifica in un destino comune, se l’approccio sarà quello giusto, fatto di grande competenza e di libertà. Sul primo termine del binomio sembra non vi siano dubbi. Alle spalle del movimento promosso da Biblia stanno personalità quali mons. Gianfranco Ravasi, Giuseppe De Rita, Claudio Magris, Tullio De Mauro, Umberto Eco, Amos Luzzatto, Margherita Hack, Tullia Zevi, per citare solo alcune delle oltre diecimila firme apposte al primo appello a sostegno dell’iniziativa. Ma anche il riferimento alla libertà sembra garantito.
I due protagonisti, il Ministero e gli esperti di Biblia, metteranno a disposizione materiali e anche una qualche risorsa, ma saranno poi i singoli istituti, in omaggio all’autonomia didattica, a decidere di recepire l’invito e di fare proprio il nuovo corso. Presidi e insegnanti, certo, ma anche genitori, famiglie, associazioni che in qualche modo si muovono intorno al mondo della scuola dovranno dimostrare di crederci. E chissà mai che non siano forse gli studenti stessi per primi a chiedere che l’occasione sia colta al volo. Ricambiando la fiducia che viene riposta in loro.
IDEE.
Parla Samir Khalil: a giorni partecipa all’incontro con alcuni esponenti musulmani che firmarono la «lettera dei 138» al Papa
L’alfabeto della convivenza
«Le differenze teologiche non si cancellano, ma dobbiamo lavorare per trovare forme di convivenza efficaci nei Paesi islamici e in Occidente. Nella libertà»
DI GIORGIO PAOLUCCI (Avvenire, 1.11.2008)
Un incontro per conoscersi di più. E per trovare forme di convivenza efficaci tra i seguaci delle due fedi religiose che insieme totalizzano più della metà della popolazione del pianeta. Dal 4 al 6 novembre una delegazione della Chiesa cattolica incontrerà a Roma alcuni tra i firmatari della lettera scritta un anno fa da 138 esponenti musulmani a Benedetto XVI e ai rappresentanti di altre confessioni cristiane. Samir Khalil Samir, gesuita di origini egiziane e con passaporto italiano che vive e insegna all’università di Beirut, uno dei massimi conoscitori di cose islamiche, farà parte della delegazione vaticana.
Padre Samir, il tema principale dell’incontro è «amore di Dio, amore del prossimo». Quali implicazioni pratiche può avere la discussione su un tema così impegnativo?
«L’argomento rappresenta una vera sfida per entrambe le comunità. Mi sembra molto calzante la frase della lettera di San Giacomo: ’A che serve dire che ami Dio che non vedi, se non ami i tuoi fratelli che vedi?’. L’amore non è una teoria, si esprime in atti concreti. Nel dialogo che avremo nei prossimi giorni dovremo affrontare con coraggio le difficoltà che cristiani e musulmani incontrano nel testimoniare che la loro religione si esprime nell’amore».
Invece spesso si usa la religione per giustificare il ricorso alla violenza.
«Oppure si formulano generiche condanne della violenza, ma se ne ammette la liceità quando si pensa di difendere Dio e la verità. Dio si difende con la buona testimonianza della fede, con la ragione e con le parole, non con la sopraffazione. Parlare al cuore dell’altro, dove stanno le esigenze elementari che accomunano ogni uomo, suscitare in lui la parte migliore di sé: ecco il modo migliore per disarmarlo. Il ricorso alla violenza, invece, eccita nell’altro ciò che ha di peggiore, provoca una reazione istintiva, e l’altro risponderà alla violenza con la violenza. E così si innesca una dinamica che non serve a risolvere le ragioni del conflitto ma le rende più acute, allontana i contendenti anziché avvicinarli. Come dimostra tristemente quello che accade da decenni in Medio Oriente».
Una delle piste di lavoro previste negli incontri dei prossimi giorni riguarda la «dignità umana e il rispetto reciproco». Sarà inevitabile affrontare il nodo dei diritti umani e del loro rispetto, non crede?
«L’affermazione della dignità umana, per non restare qualcosa di teorico, implica il rispetto dei diritti umani. Che riguardano, ad esempio, il rapporto tra uomo e donna, tra i fedeli di differenti religioni, tra credenti e non credenti. Alla radice di tutto c’è l’uso corretto della ragione naturale: grazie ad essa l’uomo può operare le sue scelte usando la libertà e facendola prevalere sull’istinto. E la libertà di coscienza è fondamento di tutte le altre libertà, è qualcosa che ’viene prima’».
Ma in molti Paesi islamici chi cambia religione rischia la morte o comunque gravi conseguenze.
«Col mondo musulmano c’è un problema derivante dal fatto che, partendo dal principio che l’islam è la migliore delle tre religioni rivelate e che le religioni rivelate sono migliori di qualunque altra scelta religiosa o filosofica, si afferma che chi ha già conosciuto il meglio non può ’tornare indietro’: farebbe qualcosa che è contro natura. Da qui deriva la condanna di chi vuole abbandonare la fede islamica. È necessario approfondire tutti insieme che la libertà è un dono fatto da Dio all’uomo perché la eserciti, e questo esercizio può arrivare fino al punto di scegliere una strada diversa da quella in cui si è nati, o perfino di rifiutare Dio. Se non avesse la possibilità di scegliere, l’uomo sarebbe un animale. Dunque, se Dio accetta anche di essere rifiutato pur di non privare l’uomo della libertà, come può l’uomo pretendere di togliere a un suo simile l’uso della libertà che ha ricevuto in dono? Sarebbe come sostituirsi a Dio».
C’è chi guarda con un po’ di scetticismo agli incontri di dialogo islamocristiano, temendo che si riducano ad appuntamenti per specialisti che non hanno riverberi concreti nei rapporti tra le due comunità. Che ne pensa?
«Bisogna chiarire preliminarmente che quello che si terrà tra pochi giorni non sarà un ’vertice’ a livello specificamente teologico. Le differenze tra le due fedi sono evidenti e non possono essere cancellate. Il problema che vogliamo affrontare è piuttosto come poter vivere meglio insieme, sia nei Paesi islamici sia in Occidente, dove le comunità musulmane crescono numericamente e si sono radicate. Dobbiamo chiederci come trovare una base comune per costruire insieme una società dove ognuno possa praticare la propria fede nella libertà e nel rispetto dell’altro, e dove l’appartenenza religiosa non diventi un fattore discriminante per essere considerati cittadini a pieno titolo del Paese in cui si vive».
In che misura i 138 saggi musulmani firmatari della lettera-appello al Papa e ad altri leader cristiani sono realmente rappresentativi dell’islam?
«Tra loro ci sono sunniti, sciiti, ismailiti, sufi. Provengono da 43 nazioni. C’è una pluralità di voci, che di per sé è un dato significativo. Ma pretendere che parlino con una sola voce sarebbe come snaturare una delle caratteristiche dell’islam, che è appunto quella di non avere un’autorità unanimemente riconosciuta. Questo non preclude la possibilità di fare un pezzo di cammino insieme e di raggiungere un consenso almeno su alcuni aspetti che verranno messi sul tappeto. L’obiettivo, migliorare le possibilità di convivenza, è troppo importante. Non solo per cristiani e musulmani, ma per l’umanità intera».
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L’INCONTRO
Confronto sull’amore di Dio e del prossimo
Il 4 e 5 novembre una delegazione delle 138 autorità musulmane che il 13 ottobre 2007 avevano inviato al Papa e ai responsabili di altre confessioni cristiane una lettera intitolata ’Una parola comune tra noi e voi’ (capeggiata dal principe di Giordania Ghazi bin Muhammad bin Talal), incontrerà i rappresentanti della Chiesa cattolica guidati dal cardinale Tauran, presidente del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso. Il tema generale è ’Amore di Dio, amore del prossimo’, con due approfondimenti: ’Fondamenti teologici e spirituali’ e ’Dignità umana e rispetto reciproco’. Il 6 novembre i partecipanti saranno ricevuti da Benedetto XVI. Il 19 novembre 2007 il Papa, attraverso il segretario di Stato cardinale Bertone, aveva risposto alla lettera dei 138: senza minimizzare le differenze tra le due fedi, venivano indicati alcuni terreni di confronto: il rispetto della dignità di ogni persona, la conoscenza obiettiva della fede dell’altro, la condivisione dell’esperienza religiosa, la promozione del rispetto e della reciproca accettazione tra le giovani generazioni. Poi era seguito l’invito per l’incontro a Roma.
Viaggio nelle scuole elementari emiliane, che l’Ocse indica come le migliori in assoluto
Tra le maestre imitate in tutto il mondo "Berlusconi ha fatto male i conti"
Bologna, la trincea delle maestre
"Una legge che tocca i figli, tutti la leggono bene, e la propaganda non funziona"
"Nelle nostre aule si mantengono vivi i valori della tolleranza, altrove minacciati"
di Curzio Maltese (la Repubblica, 28.10.2008)
. A New York sono sorte negli ultimi dieci anni scuole materne ed elementari che copiano quelle emiliane perfino negli arredi. Via i banchi, le classi prendono l’aria delle fattorie reggiane che ispirarono Loris Malaguzzi, con i bambini impegnati a impastare dolci sui tavolacci di legno, le foglie appese alle finestre per imparare a conoscere i nomi delle piante.
Si chiama "Reggio approach", un metodo studiato in tutto il mondo, dall’Emilia al West, con associazioni dal Canada all’Australia alla Svezia. Se la scuola elementare italiana è, dati Ocse, la prima d’Europa, l’emiliana è la prima del mondo, celebrata in centinaia di grandi reportage, non soltanto la famosa copertina di Newsweek del ’91 o quello del New York Times un anno fa, e poi documentari, saggi, tesi di laurea, premi internazionali. Non stupisce che proprio dalle aule del "modello emiliano", quelle doc fra Reggio e Bologna, sia nata la rivolta della scuola italiana. La storia dell’Emilia rossa c’entra poco.
A Bologna di rosso sono rimaste le mura, tira forte vento di destra e sul voto di primavera incombono i litigi a sinistra e l’ombra del ritorno di Guazzaloca. «C’entra un calcolo sbagliato della destra, che poi fu lo stesso errore dell’articolo 18», mi spiega Sergio Cofferati, ancora per poco sindaco. «Il non capire che quando la gente conosce una materia, perché la vive sulla propria pelle tutti i giorni, allora non bastano le televisioni, le favole, gli slogan, il rovesciamento della realtà. Le madri, i padri, sanno come lavorano le maestre. E se gli racconti che sono lazzarone, mangiapane a tradimento, si sentono presi in giro e finisce che s’incazzano».
Che maestre e maestri emiliani siano in gamba non lo testimonia soltanto un malloppo alto così di classifiche d’eccellenza, o la decennale ripresa della natalità a Bologna, unica fra le grandi città italiane e nonostante le mamme bolognesi siano le più occupate d’Italia. Ma anche il modo straordinario in cui sono riusciti in poche settimane a organizzare un movimento di protesta di massa. Stasera in Piazza Maggiore, alla fiaccolata per bloccare l’approvazione dei decreti sulla scuola, sono attese decine di migliaia di persone. «È il frutto di un lavoro preparato con centinaia di assemblee e cominciato già a metà settembre, da soli, senza l’appoggio di partiti o sindacati che non si erano neppure accorti della gravità del decreto», dice Giovanni Cocchi, maestro.
Il 15 ottobre Bologna e provincia si sono illuminate per la notte bianca di protesta che ha coinvolto 15 mila persone, dai 37 genitori della frazione montana di Tolè, ai tremila di Casalecchio, ai quindicimila per le strade di Bologna. Genitori, insegnanti, bambini hanno invaso la notte bolognese, ormai desertificata dalle paure, con bande musicali, artisti di strada, clown, maghi, fiaccole, biscotti fatti a scuola e lenzuoli da fantasmini, il logo inventato dai bimbi per l’occasione. Ci sarebbe voluto un grande regista dell’infanzia, un Truffaut, un Cantet o Nicholas Philibert, per raccontarne la meraviglia e l’emozione. C’erano invece i giornalisti gendarmi di Rai e Mediaset, a gufare per l’incidente che non è arrivato.
Perché stavolta la caccia al capro espiatorio non ha funzionato? Me lo spiega la giovane madre di tre bambini, Valeria de Vincenzi: «Non hanno calcolato che quando un provvedimento tocca i tuoi figli, uno i decreti li legge con attenzione. Io ormai lo so a memoria. C’è scritto maestro "unico" e non "prevalente". C’è scritto "24 ore", che significa fine del tempo pieno. Non c’è nulla invece a proposito di grembiulini e bullismo». Il fatto sarà anche che le famiglie vogliono bene ai maestri, li stimano. Fossero stati altri dipendenti statali, non si sarebbe mosso quasi nessuno.
Marzia Mascagni, un’altra maestra dei comitati: «La scuola elementare è migliore della società che c’è intorno e le famiglie lo sanno. Con o senza grembiule, i bambini si sentono uguali, senza differenze di colore, nazionalità, ceto sociale. La scuola elementare è oggi uno dei luoghi dove si mantengono vivi valori di tolleranza che altrove sono minacciati di estinzione, travolti dalla paura del diverso». Come darle torto? Ci volevano i maestri elementari per far vergognare gli italiani davanti all’ennesimo provvedimento razzista, l’apartheid delle classi differenziate per i figli d’immigrati. Rifiutato da tutti, nei sondaggi, anche da chi era sfavorevole alla schedatura dei bimbi rom. «Certo che il problema esiste», mi dicono alla scuola "Mario Longhena", un vanto cittadino, dove è nato il tempo pieno «ma bastava non tagliare i maestri aggiuntivi d’italiano».
E se domani il decreto passa comunque, nel nome del decisionismo a tutti i costi? «Noi andiamo avanti lo stesso», risponde il maestro Mirko Pieralisi. «Andiamo avanti perché indietro non si può. Non vogliono le famiglie, più ancora di noi maestri. Ma a chi la vogliono raccontare che le elementari di una volta erano migliori? Era la scuola criticata da Don Milani, quella che perdeva per strada il quaranta per cento dei bambini, quella dell’Italia analfabeta, recuperata in tv dal "Non è mai troppo tardi" del maestro Manzi».
Ve lo ricordate il maestro Alberto Manzi? Un grande maestro, una grande persona. Negli anni Sessanta fu calcolato che un milione e mezzo d’italiani sia riuscito a prendere la licenza elementare grazie al suo programma. Poi tornò a fare il maestro, allora con la tv non si facevano i soldi. Nell’81 fu sospeso dal ministero per essersi rifiutato di ritornare al voto. Aveva sostituito i voti con un timbro: «Fa quel che può, quel che non può non fa». È morto dieci anni fa. Altrimenti, sarebbe stasera a Piazza Maggiore.
SCUOLA: FAMIGLIA CRISTIANA, E’ SOLO TAGLIO SPESA GOVERNO RITIRI DL
NON E’ RIFORMA E NON GARANTISCE IL DIRITTO ALLO STUDIO
Roma, 27 ott. (Adnkronos) - Nel numero in edicola questa settimana, Famiglia cristiana critica il decreto Gelmini. "Non chiamiamo riforma un semplice taglio di spesa" e’ il titolo dell’editoriale d’apertura del giornale. "Nel mirino c’e’ una legge approvata di corsa, in piena estate. La dicitura e’ roboante: ’Riforma della scuola’; piu’ prosaicamente -si legge sul settimanale dei paolini- ’contenimento della spesa’, a colpi di decreti, senza dibattito e un progetto pedagogico condiviso da alunni e docenti. Non si garantisce cosi’ il diritto allo studio: prima si decide e poi, travolti dalle proteste, s’abbozza una farsa di dialogo. Il bene della scuola (ma anche del Paese) richiede la sospensione o il ritiro del decreto Gelmini. Per senso di responsabilita’", scrive il settimanale.
E ancora: "Un Paese che guarda al futuro investe nella scuola e nella formazione, razionalizzando la spesa, eliminando sprechi, privilegi e ’baronie’ nonche’ le ’allegre e disinvolte gestioni’. Ma i tagli annunciati sono pesanti: all’universita’ arriveranno 467 milioni di euro in meno. Nei prossimi cinque anni il Fondo di finanziamento si ridurra’ del 10 per cento. Solo il 20 per cento dei professori che andranno in pensione verra’ sostituito. Come dire: porte chiuse all’universita’ per le nuove generazioni".
"Un Paese in crisi trova i soldi per Alitalia e banche: perche’ non per la scuola? Si richiedono sacrifici alle famiglie, ma costi e privilegi di onorevoli e senatori -sottolinea Famiglia cristiana- restano intatti. Quando una Finanziaria s’approva in nove minuti e mezzo; quando, furtivamente, si infilano emendamenti rilevanti tra le pieghe di decreti legge, il Parlamento si squalifica". E per il futuro non mancano le preoccupazioni: "Ci siamo appena distratti, che gia’ un’altra norma ’razziale’ impone ai medici di denunciare alla polizia gli immigrati clandestini che bussano al pronto soccorso".
Anche i vescovi contro Berlusconi: «Non si governa a colpi di decreti legge»
Anche la Cei interviene sulla scuola e contro il governo di destra di Berlusconi. «È una scelta difficile procedere su questi problemi a colpi di decreti legge, ma dall’altra parte mi sembra inutile se non addirittura dannoso intervenire agitando le piazze», dice Diego Coletti, presidente della commissione Cei per la scuola, intervistato dalla Radio vaticana sul decreto Gelmini e i tagli scolastici. «Il problema dei risparmi è certamente sul tavolo ed è ineccepibile, - afferma Coletti - però bisogna anche dire che le riforme che si sono susseguite negli anni passati non hanno avuto la possibilità di una verifica e alcune questioni come il maestro prevalente o il controllo disciplina e del profitto sono state abbandonate a qualche intuizione. Bene ha fatto il ministro - rimarca il monsignore - a mettere i puntini sulle i su queste questioni, la risposta poteva essere anche un po’ più ragionata e pacata da parte di chi non fosse d’accordo».
A proposito della parità scolastica, infine, Coletti osserva che «non è possibile continuare a ragionare in termini di contrapposizione tra scuola pubblica statale e scuola pubblica non statale; la scuola pubblica non statale ha tutto il diritto di essere riconosciuta paritariamente come una istituzione di servizio pubblico rivolta a tutti».
Il responsabile della Cei per la scuola e l’educazione si era già detto, pochi giorni fa, «completamente d’accordo» con il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e con il presidente della Cei Angelo Bagnasco: «Ci vuole un sussulto di dialogo e di ragionevolezza, lo scontro frontale non aiuta ad affrontare i problemi complessi». Il confronto, aveva precisato Coletti, può essere anche «vivace e dialettico». «Le cose non maturano solo con i sorrisi sulle labbra, ci si può anche guardare in cagnesco. L’importante è ascoltare le ragioni dell’altro senza pregiudizi».
* l’Unità, Pubblicato il: 27.10.08, Modificato il: 27.10.08 alle ore 18.48