AI CERCATORI DEL MESSAGGIO EVANGELICO. Una nota sulla "lettera" perduta.
di Nicole Sotelo *
Papa Benedetto ha confermato il 19 giugno come l’inizio dell’Anno Sacerdotale. Ha proclamato che "senza il ministero presbiterale non ci sarebbe Eucaristia, non ci sarebbe missione, né chiesa". Mi secca essere l’unico ad informarlo che l’Eucaristia, la missione e la chiesa esistevano già molto prima che ci fosse il prete.
Secondo il Vangelo, Gesù non era un prete e neanche i suoi discepoli lo erano. Troviamo riferimenti a Gesù come prete nella Lettera agli Ebrei. L’autore usa questo termine per riferirsi a Gesù come il nuovo ed ultimo "Sommo Sacerdote", segnando la fine della lunga serie di leader giudei. L’autore inoltre conferma che i preti non sono più necessari poiché non lo sono i sacrifici. Gesù è stato l’ultimo sacrificio ed è il nostro ultimo sacerdote.
Forse il papa ha dimenticato che Gesù non era attento al presbiterato, ma al ministero. Egli chiamava le persone ad amministrare insieme a lui, a prescindere dal loro status sociale. Egli ha chiamato pescatori e pubblicani, nonché una donna con sette demoni. Tutti erano responsabili dell’edificazione del regno di Dio. Tutti erano invitati ad amministrare ed a farlo secondo i titoli attribuiti dalla stessa comunità sulla base dei carismi.
Alcuni erano chiamati profeti, altri maestri ed altri ancora apostoli. Solo più tardi iniziamo a vedere la nascita di una struttura ministeriale formale con una relativa terminologia, quando i seguaci di Gesù vennero influenzati ed integrati nell’Impero Romano. Fino al 215 non ci furono ordinazioni rituali di vescovi, preti o diaconi.
La creazione della struttura clericale comportò la divisione dei cristiani in "clero" e "laici". Nei primi anni del cristianesimo, tuttavia, Paolo ricordava ai seguaci di Gesù "Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù" (Gal 3,28). Dopo la nascita dell’ordinazione e del presbiterato, si è sviluppato l’ordine gerarchico tra i fedeli. Il termine "ordinazione" deriva dal latino "ordinare" che significa "fare ordine".
Si è sviluppato dall’usenza romana del termine "ordines" che si riferiva alle classi del popolo di Roma distinte a seconda della eleggibilità ai ruoli governativi. I laici sono diventati "di-ordinati" rispetto al clero. Il termine "laico" deriva dalla parola "laikoi" che si riferisce a quelli che nella società Greco-Romana non erano "ordinati" nell’ambito di una struttura politica prestabilita.
Il termine "clero"deriva da "kleros" che significa "gruppo separato". Mentre molti cristiani continuarono ad amministrare all’interno della chiesa, e perfino alcune donne acquisivano il titolo di diacono, prete o vescovo, molti a cui era attribuito questo titolo facevano parte di un gruppo ristretto di uomini appartenenti ad un particolare contesto socio-politico o ordine religioso.
Questo è perdurato fino al 1964 quando il Vaticano II ha ricordato alla chiesa che il ruolo di ministro, o prete, non era limitato agli ordinati, ma era una chiamata per tutti i battezzati. Il documento Lumen Gentium, proclamava che i laici sono stati "resi partecipi dell’ufficio sacerdotale, profetico e regale di Cristo, per la loro parte compiono, nella Chiesa e nel mondo, la missione propria di tutto il popolo cristiano" (31). Il presbiterato, che deriva dalle basi dei ministeri primitivi dei seguaci di Gesù, è stato restituito a tutti i cristiani. Tutti sono nuovamente chiamati al ministero.
Tutti i cristiani sono chiamati a far parte dei ruoli profetici, sovrani e, sì, anche presbiterali relativi la missione della chiesa.
Quindi mentre il papa esorta i preti ordinati alla riflessione in questo Anno Sacerdotale, la chiamata arriva a tutti noi, affinché riflettiamo su come stiamo vivendo il nostro ministero per la chiesa e per il mondo. Non mi preoccuperei di dire al papa che l’Eucaristia, la missione e la chiesa esistevano già molto prima dei preti, e neanche che l’Anno Sacerdotale dovrebbe essere un anno dedicato a tutti i laici, piuttosto mi preme che siamo noi a capirlo.
Questo Anno Sacerdotale è una opportunità per tutti i fedeli cristiani per riflettere sul ministero presbiterale, e attraverso di esso, riprenderci il nostro.
Testo reperito da Patrizia Vita
Traduzione di Stefania Salomone
Don’t tell the pope
by Nicole Sotelo on Jun. 11, 2009
Pope Benedict has declared June 19 as the beginning of the Year of the Priest. He has proclaimed that “without priestly ministry, there would be no Eucharist, no mission and even no church.” I hate to be the one to inform him, but Eucharist, mission and church existed long before the rise of priesthood.
According to the Gospels, Jesus was not a priest, nor were his disciples. We do see reference to Jesus as a priest in the Letter to the Hebrews. The author uses the word to refer to Jesus as the new and last “High Priest,” ending a long line of Jewish leaders. The author claims that priests are no longer necessary because no more sacrifices are needed. Jesus was the ultimate sacrifice and is our final high priest.
Perhaps the pope has forgotten that Jesus was not focused on priesthood. He was focused on ministry. He called people to minister alongside him, regardless of their status in society. He called out to fishermen and tax collectors and the woman with seven demons. Everyone was responsible for engendering the kingdom of God.
All were invited to minister and they did so with various titles given to them by the community based on their gifts. Some were called prophet, others teacher and still others apostle. It was only later that we begin to see the emergence of a formal ministry structure and corresponding terminology as the followers of Jesus were influenced and integrated into the Roman Empire. It is not until 215 A.D. that we have evidence of an ordination ritual for bishop, priest and deacon.
The emergence of the clerical structure eventually led to a division of the Christian faithful into “clergy” and “laity.” In the early years of Christianity’s emergence, however, Paul reminded Jesus’ followers, “There is no longer Jew or Greek, there is no longer slave or free, there is no longer male and female; for all of you are one in Christ Jesus” (Galatians 3:28).
After the rise of ordination and priesthood, there develops a hierarchical order among the faithful. The word “ordination” derives from the Latin “ordinare” which means “to create order.” It developed from the Roman usage of the words “ordines” that referred to the classes of people in Rome according to their eligibility for government positions.
The laity became “dis-ordered” from the clergy. The word “laity” originates from the word “laikoi” that referred to those in Greco-Roman society who were not “ordered,” or “ordained” within the established political structure. The word “clergy” comes from the word “kleros,” meaning “a group apart.”
While many Christians continued to minister within the church and even some women carried the titles of deacon, priest and bishop, most carrying this title were part of a limited group of men commissioned within the context of a particular socio-political and religious order.
This endured until 1964 when the Second Vatican Council reminded the church that the role of minister, or priest, was not limited to the ordained, but was a call to all the baptized. The document, Lumen Gentium, proclaimed that the laity were “made sharers in the priestly, prophetical and kingly functions of Christ; and they carry out for their own part the mission of the whole Christian people in the Church and in the world” (31).
Priesthood, which arose out of the foundation of the early ministries of Jesus’ followers, was now returned to all Jesus’ faithful. All people are called to ministry again. All Christians are meant to share in the prophetic, sovereign and, yes, even priestly roles within the mission of the church.
So while the pope is exhorting ordained priests to reflection in this Year of the Priest, the call goes out to all of us to reflect on how we are living out our ministry in the church and world.
I wouldn’t worry about telling the pope that Eucharist, mission and church existed long before the priesthood, nor that the Year of the Priest should really be a year dedicated to all the laity. Instead, we need to understand this ourselves.
The Year of the Priest is an opportunity for the entire Christian faithful to reflect on priestly ministry, and in so doing, to claim our own.
Nicole Sotelo is the author of Women Healing from Abuse: Meditations for Finding Peace, published by Paulist Press, and coordinates www.WomenHealing.com. A graduate of Harvard Divinity School, she currently works at Call To Action.
Ansa» 2009-06-18 13:23
PAPA: DEPLORIAMO INFEDELTA’ PRETI MA RICORDIAMO QUELLI FEDELI
CITTA’ DEL VATICANO - Le "infedeltà" dei sacerdoti non sono "mai abbastanza deplorate": è "la Chiesa stessa a soffrirne" ed "é il mondo a trarne motivo di scandalo e di rifiuto". Ma, ricorda il papa chiamando tutti i preti cattolici a una "forte e incisiva testimonianza nel mondo di oggi", ci sono anche tanti preti veri e non "é tanto la puntigliosa rilevazione delle debolezze dei suoi ministri che può giovare alla Chiesa". Benedetto XVI ricorda così la "fedeltà coraggiosa di tanti sacerdoti che, pur tra difficoltà e incomprensioni, restano fedeli alla loro vocazione".
Nella lettera che ha indirizzato a tutti i sacerdoti del mondo in occasione dell’anno sacerdotale che inaugurerà domani, papa Ratzinger ha sottolineato anche "le numerose situazioni di sofferenza in cui molti sacerdoti sono coinvolti, sia perché partecipi della esperienza del dolore nella molteplicità del suo manifestarsi, sia perché incompresi dagli stessi destinatari del loro ministero: come non ricordare - scrive il papa - i tanti sacerdoti offesi nella loro dignità, impediti nella loro missione, a volte anche perseguitati fino alla suprema testimonianza del sangue?".
La lettera ai preti di tutto il mondo serve al papa per tracciare l’identikit del parroco e della sua missione e giunge dopo che nelle scorse settimane Benedetto XVI ha tenuto due vertici in Vaticano, con la Chiesa irlandese e con quella austriaca, in cui sono state affrontate alcune "infedeltà" dei sacerdoti, in particolare la pedofilia per l’Irlanda e i preti concubini per l’Austria. Oltre al ricordo dei preti "martiri" e alla condanna delle infedeltà (la pedofilia non è mai citata esplicitamente) papa Ratzinger, a partire da ricordi personali come l’incontro con il suo primo parroco che aiutò dopo l’ordinazione e dal confronto con la figura del curato d’Ars, evangelizzatore della Francia dell’Ottocento, definisce "doveroso estendere sempre più gli spazi di collaborazione ai fedeli laici, con i quali - rimarca - i presbiteri formano l’unico popolo sacerdotale...".
Se il Concilio, ricorda il pontefice, ha chiesto di riconoscere "la dignità dei laici", i preti "siano pronti ad ascoltare il parere dei laici, considerando con interesse fraterno le loro aspirazioni e giovandosi della loro esperienza e competenza nei diversi campi della attività umana, in modo da poter insieme riconoscere i segni dei tempi". Solo preti "incarnati" e capaci "di una profonda vita spirituale", raccomanda il pontefice, possono "trasformare il cuore e la vita di tante persone", facendo loro percepire "l’amore misericordioso di Dio". A un buon prete, suggerisce, non deve mancare la Parola di Dio, unica in grado di evitare che "nasca un vuoto esistenziale in noi e sia compromessa la fiducia nel nostro ministero". E, come disse Paolo VI, ricordiamo che il mondo contemporaneo "ascolta più volentieri i testimoni che i maestri".
Nella lettera, il papa accenna anche alla necessità che i preti vivano in comunità, accolgano con fiducia i movimenti ecclesiali e siano obbedienti ai vescovi. Chiede anzi una "fraternità sacerdotale effettiva e affettiva": "solo così - commenta - i sacerdoti sapranno vivere in pienezza il dono del celibato e saranno capaci di far fiorire comunità cristiane nelle quali si ripetano i prodigi della prima predicazione del Vangelo".
’’PRETI NON RASSEGNATEVI AI CONFESSIONALI VUOTI’’ - "I sacerdoti non dovrebbero mai rassegnarsi a vedere deserti i loro confessionali né limitarsi a constatare la disaffezione dei fedeli" verso il sacramento della confessione. Lo raccomanda il papa nella lettera ai tutti preti del mondo in occasione dell’anno sacerdotale che inaugurerà domani. Benedetto XVI, invitando i preti a ispirarsi all’esempio del curato d’Ars, patrono dei parroci, (che stava in confessionale fino a 16 ore al giorno, ndr) chiede ai sacerdoti di imparare, di "mettere al centro delle nostre preoccupazioni pastorali" il sacramento della confessione, imparando dal curato "una inesauribile fiducia nel sacramento della penitenza".
Ai tempi del curato d’Ars Jean-Marie Vianney, nella Francia postrivoluzionaria, osserva il papa, "la confessione non era né più facile, né più frequente che ai nostri giorni, dato che la tormenta rivoluzionaria aveva soffocato a lungo la pratica religiosa. Ma egli cercò in ogni modo, con la predicazione e con il consiglio persuasivo, di far riscoprire ai suoi parrocchiani il significato e la bellezza della Penitenza sacramentale, mostrandola come un’esigenza intima della Presenza eucaristica. Seppe così dare il via a un circolo virtuoso. Con le lunghe permanenze in chiesa davanti al tabernacolo - racconta il pontefice - fece sì che i fedeli cominciassero ad imitarlo, recandovisi per visitare Gesù, e fossero, al tempo stesso, sicuri di trovarvi il loro parroco, disponibile all’ascolto e al perdono. In seguito, fu la folla crescente dei penitenti, provenienti da tutta la Francia, a trattenerlo nel confessionale fino a 16 ore al giorno". Riscoprire la penitenza, raccomanda il papa, significa ricordarsi della "misericordia di Dio".
La lettera si conclude con un forte incoraggiamento: "nonostante il male che vi è nel mondo" Cristo ci dà "la forza per guardare con fiducia al futuro". Da qui i preti devono partire per essere "nel mondo di oggi messaggeri di speranza, di riconciliazione, di pace".
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
AI CERCATORI DEL MESSAGGIO EVANGELICO. Una nota sulla "lettera" perduta.
[I Corinthii 13] *
13:1 Si linguis hominum loquar, et angelorum, charitatem autem non habeam, factus sum velut æs sonans, aut cymbalum tinniens.
[...]
13:13 Nunc autem manent, fides, spes, charitas: tria hæc. maior autem horum est charitas.
ANNO SACERDOTALE, 2009-2010 AVANTI CRISTO: DIO E’ MAMMONA (Benedetto XVI, "Deus caritas est", 2006) E ... NOI SIAMO I SUOI SACERDOTI "PER VOI"!!! IL CURATO D’ARS E IL MESSAGGIO EVANGELICO. GIOVANNI MARIA VIANNEY SAPEVA ANCHE DI (MARIA) FILOMENA, DI GIUSEPPE, E DELLA "CHARITAS". Il curato del Vaticano sa solo del "caro-prezzo" ("caritas") e del tesoro da gestire!!! LA "SACRA FAMIGLIA" DELLA GERARCHIA CATTOLICO-ROMANA E’ ZOPPA E CIECA: IL FIGLIO HA PRESO IL POSTO DEL PADRE "GIUSEPPE" E DELLO STESSO "PADRE NOSTRO" ... E CONTINUA A "GIRARE" IL SUO FILM PRE-EVANGELICO PREFERITO, "IL PADRINO"!!!
Avvenire, 19 agosto 2009
Udienza del Mercoledì
Seminari, punto di partenza per l’evangelizzazione
Testo integrale del discorso di Benedetto XVI
Cari fratelli e sorelle!
ricorre oggi la memoria liturgica di san Giovanni Eudes, apostolo infaticabile della devozione ai Sacri Cuori di Gesù e Maria, vissuto in Francia nel secolo XVII, un secolo segnato da contrapposti fenomeni religiosi e anche da gravi problemi politici. E’ il tempo della guerra dei Trent’anni, che ha devastato non solo gran parte del Centro Europa, ma ha devastato anche le anime. Mentre si andava diffondendo il disprezzo per la fede cristiana da parte di alcune correnti di pensiero allora dominanti, lo Spirito Santo suscitava un rinnovamento spirituale pieno di fervore, con personalità di alto rilievo come il de Bérulle, san Vincenzo de Paoli, san Luigi M. Grignon de Montfort e san Giovanni Eudes. Questa grande "scuola francese" di santità ebbe tra i suoi frutti anche san Giovanni Maria Vianney. Per un misterioso disegno della Provvidenza, il mio venerato predecessore Pio XI proclamò santi insieme, il 31 maggio 1925, Giovanni Eudes e il Curato d’Ars, offrendo alla Chiesa e al mondo intero due straordinari esempi di santità sacerdotale.
Nel contesto dell’Anno Sacerdotale, mi è caro soffermarmi a sottolineare lo zelo apostolico di san Giovanni Eudes, particolarmente rivolto alla formazione del clero diocesano. I santi sono la vera interpretazione della Sacra Scrittura. I santi hanno verificato, nell’esperienza della vita, la verità del Vangelo; così ci introducono nel conoscere e capire il Vangelo. Il Concilio di Trento, nel 1563, aveva emanato norme per l’erezione dei seminari diocesani e per la formazione dei sacerdoti, in quanto il Concilio era ben consapevole che tutta la crisi della riforma era anche condizionata da un’insufficiente formazione dei sacerdoti, che non erano preparati per il sacerdozio in modo giusto, intellettualmente e spiritualmente, nel cuore e nell’anima. Questo nel 1563; ma siccome l’applicazione e la realizzazione delle norme tardavano sia in Germania, sia in Francia, san Giovanni Eudes vide le conseguenze di questa mancanza. Mosso dalla lucida consapevolezza del grave bisogno di aiuto spirituale, in cui versavano le anime proprio a causa anche dell’inadeguatezza di gran parte del clero, il santo, che era un parroco, istituì una Congregazione dedita in maniera specifica alla formazione dei sacerdoti. Nella città universitaria di Caen fondò il suo primo seminario, esperienza quanto mai apprezzata, che ben presto si allargò ad altre diocesi. Il cammino di santità, da lui percorso e proposto ai suoi discepoli, aveva come fondamento una solida fiducia nell’amore che Dio ha rivelato all’umanità nel Cuore sacerdotale di Cristo e nel Cuore materno di Maria. In quel tempo di crudeltà, di perdita di interiorità, egli si rivolse al cuore, per dire al cuore una parola dei Salmi molto ben interpretata da sant’Agostino. Voleva richiamare le persone, gli uomini e soprattutto i futuri sacerdoti al cuore, mostrando il cuore sacerdotale di Cristo e il cuore materno di Maria. Di questo amore del cuore di Cristo e di Maria ogni sacerdote deve essere testimone e apostolo. E qui arriviamo al nostro tempo.
Anche oggi si avverte la necessità che i sacerdoti testimonino l’infinita misericordia di Dio con una vita tutta "conquistata" dal Cristo, ed apprendano questo fin dagli anni della loro preparazione nei seminari. Papa Giovanni Paolo II, dopo il Sinodo del 1990, ha emanato l’Esortazione apostolica Pastores dabo vobis nella quale riprende e aggiorna le norme del Concilio di Trento e sottolinea soprattutto la necessaria continuità tra il momento iniziale e quello permanente della formazione; questo per lui, per noi è un vero punto di partenza per un’autentica riforma della vita e dell’apostolato dei sacerdoti, ed è anche il punto nodale affinché la "nuova evangelizzazione" non sia semplicemente solo uno slogan attraente, ma si traduca in realtà. Le fondamenta poste nella formazione seminaristica, costituiscono quell’insostituibile "humus spirituale" nel quale "imparare Cristo", lasciandosi progressivamente configurare a Lui, unico Sommo Sacerdote e Buon Pastore. Il tempo del Seminario va visto pertanto come l’attualizzazione del momento in cui il Signore Gesù, dopo aver chiamato gli apostoli e prima di mandarli a predicare, chiede loro di stare con Lui (cfr.Mc 3,14). Quando san Marco racconta la vocazione dei dodici apostoli, ci dice che Gesù aveva un duplice scopo: il primo era che stessero con Lui, il secondo che fossero mandati a predicare. Ma andando sempre con Lui, realmente annunciano Cristo e portano la realtà del Vangelo al mondo.
Durante questo Anno Sacerdotale vi invito a pregare, cari fratelli e sorelle, per i sacerdoti e per quanti si preparano a ricevere il dono straordinario del Sacerdozio ministeriale. A tutti rivolgo, e così concludo, l’esortazione di san Giovanni Eudes, che dice così ai sacerdoti: "Donatevi a Gesù, per entrare nell’immensità del suo grande Cuore, che contiene il Cuore della sua Santa Madre e di tutti i santi, e per perdervi in questo abisso di amore, di carità, di misericordia, di umiltà, di purezza, di pazienza, di sottomissione e di santità" (Coeur admirable, III, 2).
In questo senso cantiamo adesso insieme il Padre Nostro in latino.
Il prete, uomo di relazioni
di Jean Rigal, teologo
in “La Croix” del 12 dicembre 2009 (traduzione. www.finesettimana.org)
L’ “Anno sacerdotale”, aperto in giugno da Benedetto XVI, dovrebbe essere un tempo importante di riflessione e di preghiera dedicato al ministero dei preti. La scelta del punto di partenza è di capitale importanza; è la chiave di volta a partire dalla quale tutti gli elementi costituiscono un insieme ordinato e si situano gli uni rispetto agli altri.
Il Vaticano II ricorda con insistenza che questo punto di partenza deve essere posto sotto il segno della missione della Chiesa. Il prete non è un “in sé”, che si potrebbe considerare al di fuori delle relazioni che gli danno la sua ragion d’essere e lo fanno vivere. Se l’anno “sacerdotale” diventasse una esaltazione del prete per se stesso, posto fuori o al di sopra del popolo di Dio che però è esso stesso tutto “sacerdotale”, allontanerebbe i cristiani dal suo vero significato e da ciò che comporta.
È importante, innanzitutto, sfuggire alla bipolarità “preti-laici”. Essa ha suscitato molto interesse nel corso dei decenni precedenti il Vaticano II. Valorizzava opportunamente i “fedeli laici” in un’epoca in cui la vita della Chiesa girava quasi esclusivamente attorno ai preti. Ma questo schema dualistico è riduttivo. Dove sono gli altri ministeri ordinati in questo binomio? Quale spazio viene dato ai laici e ai religiosi incaricati di una missione ecclesiale?
Questa bipolarità “preti-laici” ha il grave inconveniente di non essere collegata con la comunità cristiana né con la missione prima della Chiesa. Ora, la testimonianza del Nuovo Testamento e un insegnamento importante del Concilio è che ogni ministero cristiano è fondamentalmente un ministero della Chiesa che si definisce esso stesso attraverso la sua missione a servizio del mondo.
Senza dubbio bisogna ripeterlo, - perché il clericalismo, da qualunque parte venga, è una tentazione permanente -, la realtà prima del Popolo di Dio non risiede nella diversità delle funzioni e dei carismi, ma nel “noi dei battezzati” che insieme costituiscono il Corpo di Cristo. I ministri non stanno al di sopra di questo insieme: ne fanno parte.
Questo approccio pone i preti in una rete di relazioni. Innanzitutto, una relazione personale con il Cristo Pastore, al quale la loro esistenza è “configurata”, non come un privilegio o uno stato di vita superiore agli altri, ma un umile servizio degli uomini al seguito di Gesù. Allo stesso tempo, delle relazioni collegiali con il vescovo, il presbiterio, i diaconi, i laici che esercitano un ministero. E poi relazioni con gli altri cristiani che hanno dei legami più o meno stretti con la comunità cristiana, e in senso più ampio con tutti coloro che la vita permette di incontrare. È tutto questo che definisce la specificità del prete e non la presenza o l’autosufficienza, come se si pretendesse di portare agli altri senza ricevere niente da loro. L’ordinazione non separa, ma invia.
In questa prospettiva relazionale, i preti non potrebbero essere definiti né solo né innanzitutto come gli uomini del “sacrificio eucaristico”. Essi sono, più globalmente, i servi del Popolo di Dio: nel triplice servizio della Parola di Dio, della vita sacramentale e della guida pastorale. Queste tre funzioni non sono indipendenti, esse si compenetrano reciprocamente e rinviano l’una all’altra. È una delle insistenze del Vaticano II, come ha sottolineato il teologo Joseph Ratzinger: Presbyterium ordinis, il decreto sul ministero dei preti, “presenta un fatto notevole e sorprendente: non è in primo luogo il sacrificio che rende ragione del ministero dei preti, ma è la riunione del popolo di Dio” (1).
Queste considerazioni teologiche e pastorali lasciano aperte certe importanti questioni sollevate dalla situazione dei preti. Un “Anno sacerdotale” non può fingere di ignorarle. Un discorso fuori del tempo sull’invito al ministero presbiterale ha poche chances di essere ascoltato dai nostri contemporanei. La notevole diminuzione del numero dei preti, almeno in Occidente, è conosciuta e resta una “ferita aperta” nel fianco della Chiesa. Inoltre, questa regressione si inscrive in un contesto secolarizzato, gravoso per i credenti e in particolare per i preti. Tra i problemi relativi alla missione dei preti e al loro equilibrio umano, rileviamo la necessità della formazione permanente, le condizioni dell’esercizio del ministero, la collaborazione con gli altri cristiani, la vita spirituale, la vita materiale ed affettiva... E come non ricordare che le comunità cristiane avranno i preti che contribuiscono a suscitare? Non è facile dare delle risposte concrete a ciascuna di queste domande, ma sarebbe ingiustificabile non affrontarle e non tentare di rispondervi “come Chiesa”. L’ “Anno sacerdotale” lo esige, perché la nostra riflessione avvenga nella verità e la nostra preghiera sia segnata dall’autenticità.
(1) “La mission d’après les textes conciliaires”, in L’activité missionaire de l’Église (Cerf, coll. “Unam sanctam” n° 67), p. 135.
Messaggio per la 44° Giornata Mondiale delle comunicazioni sociali
«I sacerdoti siano animatori del Web»
di Benedetto XVI (Avvenire, 23 Gennaio 2010)
Cari fratelli e sorelle,
il tema della prossima Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali - "Il sacerdote e la pastorale nel mondo digitale: i nuovi media al servizio della Parola" -, si inserisce felicemente nel cammino dell’Anno sacerdotale, e pone in primo piano la riflessione su un ambito pastorale vasto e delicato come quello della comunicazione e del mondo digitale, nel quale vengono offerte al Sacerdote nuove possibilità di esercitare il proprio servizio alla Parola e della Parola. I moderni mezzi di comunicazione sono entrati da tempo a far parte degli strumenti ordinari, attraverso i quali le comunità ecclesiali si esprimono, entrando in contatto con il proprio territorio ed instaurando, molto spesso, forme di dialogo a più vasto raggio, ma la loro recente e pervasiva diffusione e il loro notevole influsso ne rendono sempre più importante ed utile l’uso nel ministero sacerdotale.
Compito primario del Sacerdote è quello di annunciare Cristo, la Parola di Dio fatta carne, e comunicare la multiforme grazia divina apportatrice di salvezza mediante i Sacramenti. Convocata dalla Parola, la Chiesa si pone come segno e strumento della comunione che Dio realizza con l’uomo e che ogni Sacerdote è chiamato a edificare in Lui e con Lui. Sta qui l’altissima dignità e bellezza della missione sacerdotale, in cui viene ad attuarsi in maniera privilegiata quanto afferma l’apostolo Paolo: "Dice infatti la Scrittura: Chiunque crede in lui non sarà deluso ... Infatti: Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato. Ora, come invocheranno colui nel quale non hanno creduto? Come crederanno in colui del quale non hanno sentito parlare? Come ne sentiranno parlare senza qualcuno che lo annunci? E come lo annunceranno, se non sono stati inviati?" (Rm 10,11.13-15).
Per dare risposte adeguate a queste domande all’interno dei grandi cambiamenti culturali, particolarmente avvertiti nel mondo giovanile, le vie di comunicazione aperte dalle conquiste tecnologiche sono ormai uno strumento indispensabile. Infatti, il mondo digitale, ponendo a disposizione mezzi che consentono una capacità di espressione pressoché illimitata, apre notevoli prospettive ed attualizzazioni all’esortazione paolina: "Guai a me se non annuncio il Vangelo!" (1 Cor 9,16). Con la loro diffusione, pertanto, la responsabilità dell’annuncio non solo aumenta, ma si fa più impellente e reclama un impegno più motivato ed efficace. Al riguardo, il Sacerdote viene a trovarsi come all’inizio di una "storia nuova", perché, quanto più le moderne tecnologie creeranno relazioni sempre più intense e il mondo digitale amplierà i suoi confini, tanto più egli sarà chiamato a occuparsene pastoralmente, moltiplicando il proprio impegno, per porre i media al servizio della Parola.
Tuttavia, la diffusa multimedialità e la variegata "tastiera di funzioni" della medesima comunicazione possono comportare il rischio di un’utilizzazione dettata principalmente dalla mera esigenza di rendersi presente, e di considerare erroneamente il web solo come uno spazio da occupare. Ai Presbiteri, invece, è richiesta la capacità di essere presenti nel mondo digitale nella costante fedeltà al messaggio evangelico, per esercitare il proprio ruolo di animatori di comunità che si esprimono ormai, sempre più spesso, attraverso le tante "voci" scaturite dal mondo digitale, ed annunciare il Vangelo avvalendosi, accanto agli strumenti tradizionali, dell’apporto di quella nuova generazione di audiovisivi (foto, video, animazioni, blog, siti web), che rappresentano inedite occasioni di dialogo e utili mezzi anche per l’evangelizzazione e la catechesi.
Attraverso i moderni mezzi di comunicazione, il Sacerdote potrà far conoscere la vita della Chiesa e aiutare gli uomini di oggi a scoprire il volto di Cristo, coniugando l’uso opportuno e competente di tali strumenti, acquisito anche nel periodo di formazione, con una solida preparazione teologica e una spiccata spiritualità sacerdotale, alimentata dal continuo colloquio con il Signore. Più che la mano dell’operatore dei media, il Presbitero nell’impatto con il mondo digitale deve far trasparire il suo cuore di consacrato, per dare un’anima non solo al proprio impegno pastorale, ma anche all’ininterrotto flusso comunicativo della "rete".
Anche nel mondo digitale deve emergere che l’attenzione amorevole di Dio in Cristo per noi non è una cosa del passato e neppure una teoria erudita, ma una realtà del tutto concreta e attuale. La pastorale nel mondo digitale, infatti, deve poter mostrare agli uomini del nostro tempo, e all’umanità smarrita di oggi, che "Dio è vicino; che in Cristo tutti ci apparteniamo a vicenda" (Benedetto XVI, Discorso alla Curia romana per la presentazione degli auguri natalizi: L’Osservatore Romano, 21-22 dicembre 2009, p. 6).
Chi meglio di un uomo di Dio può sviluppare e mettere in pratica, attraverso le proprie competenze nell’ambito dei nuovi mezzi digitali, una pastorale che renda vivo e attuale Dio nella realtà di oggi e presenti la sapienza religiosa del passato come ricchezza cui attingere per vivere degnamente l’oggi e costruire adeguatamente il futuro? Compito di chi, da consacrato, opera nei media è quello di spianare la strada a nuovi incontri, assicurando sempre la qualità del contatto umano e l’attenzione alle persone e ai loro veri bisogni spirituali; offrendo agli uomini che vivono questo nostro tempo "digitale" i segni necessari per riconoscere il Signore; donando l’opportunità di educarsi all’attesa e alla speranza e di accostarsi alla Parola di Dio, che salva e favorisce lo sviluppo umano integrale. Questa potrà così prendere il largo tra gli innumerevoli crocevia creati dal fitto intreccio delle autostrade che solcano il cyberspazio e affermare il diritto di cittadinanza di Dio in ogni epoca, affinché, attraverso le nuove forme di comunicazione, Egli possa avanzare lungo le vie delle città e fermarsi davanti alle soglie delle case e dei cuori per dire ancora: "Ecco: sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me" (Ap 3,20).
Nel Messaggio dello scorso anno ho incoraggiato i responsabili dei processi comunicativi a promuovere una cultura di rispetto per la dignità e il valore della persona umana. E’ questa una delle strade nelle quali la Chiesa è chiamata ad esercitare una "diaconia della cultura" nell’odierno "continente digitale". Con il Vangelo nelle mani e nel cuore, occorre ribadire che è tempo anche di continuare a preparare cammini che conducono alla Parola di Dio, senza trascurare di dedicare un’attenzione particolare a chi si trova nella condizione di ricerca, anzi procurando di tenerla desta come primo passo dell’evangelizzazione. Una pastorale nel mondo digitale, infatti, è chiamata a tener conto anche di quanti non credono, sono sfiduciati ed hanno nel cuore desideri di assoluto e di verità non caduche, dal momento che i nuovi mezzi consentono di entrare in contatto con credenti di ogni religione, con non credenti e persone di ogni cultura. Come il profeta Isaia arrivò a immaginare una casa di preghiera per tutti i popoli (cfr Is 56,7), è forse possibile ipotizzare che il web possa fare spazio - come il "cortile dei gentili" del Tempio di Gerusalemme - anche a coloro per i quali Dio è ancora uno sconosciuto?
Lo sviluppo delle nuove tecnologie e, nella sua dimensione complessiva, tutto il mondo digitale rappresentano una grande risorsa per l’umanità nel suo insieme e per l’uomo nella singolarità del suo essere e uno stimolo per il confronto e il dialogo. Ma essi si pongono, altresì, come una grande opportunità per i credenti. Nessuna strada, infatti, può e deve essere preclusa a chi, nel nome del Cristo risorto, si impegna a farsi sempre più prossimo all’uomo. I nuovi media, pertanto, offrono innanzitutto ai Presbiteri prospettive sempre nuove e pastoralmente sconfinate, che li sollecitano a valorizzare la dimensione universale della Chiesa, per una comunione vasta e concreta; ad essere testimoni, nel mondo d’oggi, della vita sempre nuova, generata dall’ascolto del Vangelo di Gesù, il Figlio eterno venuto fra noi per salvarci. Non bisogna dimenticare, però, che la fecondità del ministero sacerdotale deriva innanzitutto dal Cristo incontrato e ascoltato nella preghiera; annunciato con la predicazione e la testimonianza della vita; conosciuto, amato e celebrato nei Sacramenti, soprattutto della Santissima Eucaristia e della Riconciliazione.
A voi, carissimi Sacerdoti, rinnovo l’invito a cogliere con saggezza le singolari opportunità offerte dalla moderna comunicazione. Il Signore vi renda annunciatori appassionati della buona novella anche nella nuova "agorà" posta in essere dagli attuali mezzi di comunicazione. Con tali voti, invoco su di voi la protezione della Madre di Dio e del Santo Curato d’Ars e con affetto imparto a ciascuno la Benedizione Apostolica.