Carità, una sfumatura arcaica?
Carità e beneficenza sono ormai concetti che "stanno scomparendo dal lessico corrente" per assumere una "sfumatura arcaica". Eppure, sono "caratteri distintivi della natura umana e del cristiano, guidato dal sentimento di compassione".
di MARCO TOSATTI (La Stampa, 4/5/2010)
Carità e beneficenza sono ormai concetti che "stanno scomparendo dal lessico corrente" per assumere una "sfumatura arcaica". Eppure, sono "caratteri distintivi della natura umana e del cristiano, guidato dal sentimento di compassione". E’ quanto ha sostenuto il metropolita di Minsk e Sluck ed esarca patriarcale della Bielorussia Filaret, intervenendo al convegno ’I poveri sono il tesoro prezioso della Chiesa. Cattolici e ortodossi nella via della carità’, tenutosi oggi presso la Comunità di Sant’Egidio.
Secondo il metropolita ortodosso, esistono due forme di carità, "una individuale, l’altra comunitaria. Si dovrebbe preferire la prima, perché senza regole e più sincera", ma dato che "molti abusano della carità abbandonandosi all’ozio" nella società di oggi "sono preferibili" forme di beneficenza comunitarie.
L’importante - ha evidenziato Filaret - è "che la carità sia gratuita, fatta senza pomposità e pubblicità". Inoltre, chi fa beneficenza "non fa preferenza di persone, deve abbracciare tutti, inclusi i nemici, a dispetto delle differenze di religione e cultura", ha aggiunto il metropolita.
Nel corso del convegno è intervenuto anche il vice decano del Collegio cardinalizio Roger Etchegaray, che ha sottolineato come "carità e beneficenza debbano diventare la giustizia di domani". Mentre il fondatore della Comunità di Sant’Egidio Andrea Riccardi ha esortato ad assumere la carità "come visione per il XXI secolo", nel segno "di un universalismo cristiano".
Sul tema, nel sito, si cfr.:
MEMORIA FILOLOGICA E TEOLOGICA. GESU’, IL FIGLIO DELLA GRAZIA EVANGELICA ("CHARITAS") O IL "TESORO" DI "MAMMONA" ("CARITAS") E DI "MAMMASANTISSIMA" DEI FARAONI ?!!:
"CHARITAS" ACCUSATIVO PLURALE DEL NOME GRECO "CHARIS".
"Carissimi, non prestate fede a ogni spirito (...) Dio è Amore" (1 Gv., 4, 1-8)
(Gesù disse ai suoi discepoli:)
«Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. Chi non mi ama, non osserva le mie parole (...)» (Gv: 14,23-24).
Il dialogo: una cura per l’Italia stretta tra paura e indifferenza
di Giampiero Comolli (l’Unità, 16 giugno 2010)
Dialogo: fino a non molto tempo fa pareva un valore accettato volentieri dalle forze politiche, dalle istituzioni religiose, dalla società civile. Dialogo come disponibilità a comprendere le ragioni dell’altro e a discutere assieme per delineare un orizzonte comune, un insieme di regole condivise, destinate a favorire la convivenza e lo sviluppo di un armonico tessuto sociale. Come non essere d’accordo con un simile ideale?
Eppure, da qualche anno a questa parte, la tela di relazioni, intessute proprio dalla pratica del dialogo, pare slabbrata, strappata in più punti. E la parola «dialogo», utilizzata prima da tutti come una moneta corrente, si trova oggi sotto attacco. Si levano infatti da più parti, sempre più aspre per non dire proterve, le voci di coloro che il dialogo non lo vogliono affatto, lo rifiutano in nome di una rivendicazione prepotente e sfacciata dei propri interessi, da difendere senza cedimenti, senza più quelle aperture all’altro che il buon uso del dialogo necessariamente richiede.
Ma come mai è finita la bella primavera di questa parola dalle connotazioni così ospitali? E cosa comporta invece il nuovo autunno della chiusura su di sé, nel quale oggi siamo essere entrati?
Se lo chiedono Vincenzo Paglia e Franco Scaglia in un libro nobile e appassionato, significativamente concepito proprio come un dialogo, una conversazione a due, sui tanti problemi che oggi affliggono il nostro Paese: dalla crisi della politica e della società civile, al dramma della precarietà lavorativa, all’enorme, irrisolta questione dell’immigrazione, fino alle ingiustizie determinate da un mercato sempre più globale e sganciato da ogni prospettiva etica.
Come molti già sapranno, Vincenzo Paglia è vescovo di Terni e consigliere spirituale della Comunità di Sant’Egidio; mentre Franco Scaglia è uno scrittore cattolico, autore di saggi, romanzi e reportage, spesso ambientati in Terra Santa. Evidente dunque, anzi dichiarata con franchezza, è l’appartenenza di entrambi alla Chiesa di Roma, così come con passione viene testimoniata dai due autori la fede cristiana e la Parola evangelica, accolta non solo quale scelta di vita ma anche quale visione interpretativa, attraverso cui comprendere lo sconsolante processo di inaridimento che affligge oggi il nostro Paese: un’Italia sempre meno disponibile alle buone usanze del dialogo, ma che proprio per questo ha smarrito se stessa e deve quindi mettersi In cerca dell’anima (come recita il titolo del libro, appena edito da Piemme).
La diagnosi dei due amici scrittori è al tempo stesso severa e accorata. «Inerzia» si chiama «l’epidemia che ha colpito il Belpaese afferrandone le coscienze. Un’inerzia che infiacchisce l’anima nel profondo e offre il terreno alle derive violente»: priva di ambizioni e svuotata del proprio futuro, l’Italia vive una «caduta etica», oscilla fra l’indifferenza e la paura nei confronti degli altri, «chiude gli occhi agli ideali e alla speranza», perché coltiva oggi solo una «parvenza di passione», quella di chi è ripiegato nella difesa del proprio immediato interesse.
Le ragioni di questo generale immiserimento vanno individuate, secondo i due autori, non solo nell’inadeguatezza della nostra politica, ma prima ancora nel processo di una globalizzazione governata dalle pure logiche finanziarie di un mercato a propria volta svincolato dal controllo di una buona politica. Proprio in quanto globale e spietato, il nuovo mercato è divenuto così fonte di spaesamento generale: lungi dall’allargare le coscienze, ha creato precarietà e paure, «ha spinto a rinchiudersi ancor più nel privato, e questo ha prodotto inerzia, immobilità».
Al posto di quella «cultura dell’accoglienza che ha segnato profondamente la nostra storia», si è diffusa allora la propensione perniciosa alla «ricerca del capro espiatorio», di quell’estraneo (per religione, etnia, cultura) su cui scaricare di volta in volta le proprie ansie, le proprie colpe, «il veleno del disprezzo». Immersi come siamo «nel grigio della rassegnazione», abbiamo però di fronte a noi una strada maestra per edificare di nuovo «un paese saldo e robusto».
Questa via di salvezza sta appunto in un’«arte del dialogo», da praticare a ogni livello: fra cattolici e laici, fra religioni diverse, fra fede e scienza, fra italiani e immigrati, tutti chiamati a operare insieme nella ricerca delle nuove regole per una pacifica e fruttifera convivenza. Regole la cui definizione deve appunto risultare dal generoso contributo di tutti: infatti «in questa società nessun ceto e nessuna singola istituzione è addetta o arbitra del bene comune, che deve essere, invece, misura dell’operato di ciascun individuo e di ciascun gruppo. La Chiesa stessa non può arrogarsi il compito della sintesi».
Occorre leggere con attenzione e con favore questo libro che idealmente si rivolge a chiunque, anche a chi cattolico non è. È facile oggi considerare la Chiesa di Roma come un’istituzione chiusa su se stessa, ripiegata nella difesa del proprio ordinamento gerarchico.
Ma la prospettiva aperta da Vincenzo Paglia e Franco Scaglia ci presenta invece il volto di una Chiesa come «comunione dei fedeli», aperta al mondo, schierata innanzitutto dalla parte dei più deboli, dei poveri. Così, se la generosa sollecitazione al dialogo che ci viene dai due autori deve essere accolta con gioia da chiunque abbia a cuore le sorti del nostro Paese, il loro libro si rivela importante anche per un altro motivo: esso ci fa conoscere quello che potremmo forse definire «il volto più bello del cattolicesimo», un volto che in questi tempi di passioni tristi tende a rimanere oscurato.
Vincenzo Paglia, Franco Scaglia,
«Incerca dell’anima- Dialogo su un’Italia che ha smarrito se stessa», Edizioni Piemme, Milano,
2010, pagine. 290, euro 19,00
WALL STREET E LA POTENZA DELLA PAROLA: «M»ILLION, NON «B»ILLION. Per l’errore di scrittura di una lettera, crollo dell’Indice Dow Jones - con chiusura a -3,26%!!!
(...) mentre il panico si scatenava tra gli operatori, qualcuno è riuscito a capire che quella folle corsa a vendere era stata causata da un «refuso», un errore di scrittura di un trader nell’ordine di vendita. Lo spiega la Cnbc, secondo cui l’operatore distratto avrebbe digitato una «b» di billion al posto di una «m» di million mandando in tilt il sistema ma, soprattutto, facendo scattare il panico sui mercati di tutto il mondo
Ecumenismo la via della carità
«I poveri, tesoro dei cristiani»
DA ROMA GIANNI CARDINALE (Avvenire, 05.05.2010)
Una giornata di studio all’insegna dell’ecumenismo della carità. L’ha ospitata ieri a Roma la Comunità di Sant’Egidio con un Convegno internazionale dal titolo suggestivo «I poveri sono il tesoro della Chiesa». Nel cuore di Trastevere si sono ritrovati a discuterne rappresentanti della Chiesa cattolica, come il cardinale Roger Etchegaray e i vescovi Vincenzo Paglia e Ambrogio Spreafico ed esponenti delle comunità ortodosse, come il metropolita Filarete di Minsk in Bielorussia, l’arcivescovo di Borispol’ in Ucraina Antonij e i metropoliti romeni Iosif e Laurentiu.
All’inizio della giornata monsignor Paglia ha ribadito che la carità «non è un sentimento vago e superficiale», ma «tocca l’essenza stessa del messaggio cristiano». E il dialogo ecumenico, ha sottolineato, «si attiva proprio nel campo della carità». Nel suo intervento intessuto di citazioni bibliche e dei grandi padri orientali, come san Giovanni Crisostomo, san Basilio il Grande, san Gregorio Nazianzeno, il metropolita Filarete ha constatato che «carità e beneficenza stanno ormai scomparendo dal lessico corrente per assumere una sfumatura arcaica». E ha ribadito, al contrario, l’importanza della carità come «carattere distintivo della natura umana, che forma l’uomo e lo rende saggio». Filarete ha spiegato che anche durante il regime sovietico l’opera caritativa dei singoli sacerdoti e fedeli dell’Esarcato non è mai venuto meno, dopo l’acquisizione della libertà c’è stato una vera e propria «esplosione di attivismo» con la nascita, ad esempio, di un centinaio di fraternità femminili di carità e la creazione di tre Centri specializzati per l’assistenza dei più deboli, i malati psichici, i portatori di handicap, i carcerati.
Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio, da parte sua, ha rilevato che nel «tempo difficile» che viviamo «il problema è quello di difendersi dai poveri piuttosto che difendere i poveri. I mendicanti vengono allontanati dai centri delle città perché imbruttiscono l’ambiente e si vieta loro di chiedere l’elemosina. Perché in una società dove l’economia diventa un criterio di giudizio, il povero non vale niente, non fa notizia. E i media dimenticano presto la povertà: come è stato per Haiti, abbandonata dopo la concentrazione mediatica dei primi giorni del terremoto ». Per Riccardi «siamo in un tempo di globalizzazione estrema in cui tutto si compra e tutto si vende e in cui ha valore ciò che ha prezzo. Così ogni gratuità è assediata e corrosa dalla mentalità di questo tempomercato ». E «alla globalizzazione del mercato - ha aggiunto - si accompagna quella dei media con immagini e notizie comunicate in tempo reale. Tutto si può vedere. Ma illuminando e vedendo si crede di conoscere con chiarezza. C’è tanta luce dei media, quindi si sa tutto, ma non si sa dove andare. Ed è una caratteristica della nostra Europa occidentale quella di non avere una visione del futuro e della propria missione». E per Riccardi la «carità unisce, anzi costituisce una tensione unitiva in questo mondo economicamente unificato», anche se «tanto frammentato». Riferendosi alla analoga prospettiva della Chiesa cattolica - con l’enciclica «Deus Caritas est» di Benedetto XVI - e di quella ortodossa russa di «rinverdire » la dottrina sociale, il fondatore di Sant’Egidio, ha ricordato che «in una stagione in cui si discute sulla difficoltà dell’ecumenismo, noi cristiani di confessioni diverse siamo già uniti nell’amore per i poveri». Insomma: «Più i poveri saranno nel cuore della Chiesa, più i cristiani saranno uniti».
Nella sua appassionata meditazione il cardinale Etchegaray, vice-decano del Collegio cardinalizio, ha ricordato all’uditorio che «la carità è a fianco della giustizia, esige la giustizia e genera la giustizia» e, citando il decreto conciliare «Apostolicam actuositatem » sull’apostolato dei laici, ha ribadito: «Siano anzitutto adempiuti gli obblighi di giustizia, perché non avvenga che offra come dono di carità ciò che è già dovuto a titolo di giustizia». L’anziano porporato ha anche messo in guardia verso le «caricature » e le «contraffazioni» della carità e ha concluso con l’’Inno’ alla carità contenuto nella prima Lettera di san Paolo ai Corinzi.
PROGRAMMA
I lavori suddivisi in quattro sessioni
Il Convegno internazionale su «I poveri sono il tesoro della Chiesa» è stato organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio con la collaborazione della Konrad Adenauer Stiftung e dell’opera Renovabis. La giornata si è articolata in quattro sessioni. Alla prima, dedicata a «La carità fondamento spirituale del futuro», hanno parlato il metropolita Filarete di Minsk, Andrea Riccardi e il cardinale Roger Etchegaray.
Alla seconda, su «Chi ama Dio, ama i poveri», hanno partecipato il vescovo di Frosinone-Veroli-Ferentino Ambrogio Spreafico - che ha parlato su «Parola di Dio e carità» -, l’arcivescovo ortodosso ucraino Antonij, il priore Innocenzo Gargano, il metropolita romeno Iosif. La terza sessione, dedicata a «La vita nella carità», ha visto partecipare il metropolita Laurentiu di Ardeal in Romania, Maria Cristina Marazzi della Comunità di Sant’Egidio, il vescovo di Terni-Narni-Amelia Vincenzo Paglia e Zoran Nedeljkovic, direttore della biblioteca patriarcale serba. All’ultima sessione, presieduta dal presidente della Comunità di Sant’Egidio Marco Impagliazzo, hanno infine preso parte il russo Arkadij Satov, monsignor Marco Gnavi, il professor Werner Gumpel e il romeno Nicolae Dima. (G.Card.)
Note sparse
di Paolo Farinella, Prete
Note sulla tomba di Padre Pio, sulla Sindone, sui moralizzatori *
[...]
Una tomba per i sepolcri imbiancati
Genova 5-9 maggio 2010. Una mia amica di Facebook ha creato una pagina contro la nuova cripta di padre Pio da Pietralcina. Mi era sfuggita la notizia che fosse inaugurata, ma ancora di più mi era sfuggita la notizia che il nuovo «loculo» (si fa per dire) di 2.000 metri quadrati (sì, sic!), cioè l’equivalente di 25 appartamenti di 80 metri quadri. Non c’è che dire, come inno alla povertà francescana e alla supposta semplicità del festeggiato, era il minimo che si potesse fare. 2000 metri quadrati non si negano a nessuno e se poi questo loculo così discreto è tutto ricoperto d’oro massiccio e di mosaici, siamo pari e patta. Tutto è logico e tutto si tiene: il vangelo che lascia in eredità i poveri (li avrete sempre con voi), che chiede di non portare due tuniche e borse con denaro, tutto è coerente, anzi l’oro scintillante servirà da specchio per le coscienze dei frati perché vedano il nero che le copre.
I frati hanno angariato p. Pio quando era in vita, lo hanno spiato, lo hanno tradito, lo hanno esiliato, lo hanno fatto soffrire e ora gli stessi lo onorano, lo celebrano e lo seppelliscono sotto una montagna di oro massiccio che grida vendetta al cospetto di Dio. La gerarchia cattolica che ha perseguitato p. Pio imponendogli ogni sorta di sopruso e di umiliazione, fino alla proibizione della Messa, oggi come se niente fosse lo additano come modello di santità e di umiltà e di povertà. Veramente non c’è più religione!
La mia impressione è che dietro quest’uomo mite e anche strano, vi sia oggi più che mai un enorme processo di marketing, una macchina per fare soldi facili facili per ingannare chi si lascia drogare da una religione che è la negazione della santità e del buon senso. Lasciamo stare il vangelo da parte che non c’entra nulla in questo come in tanti altri affari della bottega religiosa a buon mercato, anzi a peso d’oro.
Io mi chiedo come possa venire voglia di pregare in una cripta d’oro massiccio e chi è quell’imbecille che possa pensare che una cosa simile possa dare «gloria a Dio». Chi ha pensato una cosa del genere, chi crede che un simile delitto possa confondere Dio, si sbaglia di grosso perché quell’oro poteva e doveva essere impegnato per alleviare le sofferenze, nella ricerca medica, nell’aiuto ai poveri.
Nell’anno di grazia 2010, mentre migliaia di famiglie sono sul lastrico per mancanza di lavoro e altre migliaia perdono la casa per impossibilità di onorare gli impegni ipotecari; mentre una miriade di miriade di giovani sono senza lavoro e senza futuro, mentre bambini, uomini e donne muoiono di fame, letteralmente anemici e disidratati, mentre la chiesa cattolica manda gli spot per la raccolta dell’8x1000, mettere su una cripta d’oro massiccio per onorare un morto, già decomposto visto che è deceduto nel 1968, è un insulto a Dio, alla fede, alla dignità dei poveri, a San Francesco e allo stesso p. Pio.
Un nuovo vitello d’oro è nato e così chi è aduso a fare orge di religione a buon mercato, può andare con tranquilla coscienza a farsi fotografare nella cripta d’oro di p. Pio, stando attento però a che tutto quell’oro non gli accechi l’anima. Quando la religione si trasforma in mercato delle vacche, tutto è possibile, anche che Dio non esiste, come afferma lo stolto del salmo. Personalmente prendo un impegno per la vita: non sono mai stato a San Giovanni Rotondo e mai andrò perché non credo in quei fenomeni che vogliono fare passare per straordinari e non credo nelle apparizioni. Mi basta e avanza Gesù Cristo e credetemi, ne avanza anche tanto.
Pace e Bene a tutti!
[...]
* Il Dialogo, Mercoledì 5 Maggio 2010 - ripresa parziale.
La carità che uccide. Come gli aiuti dell’Occidente stanno devastando il Terzo mondo
di Moyo Dambisa *
Il 13 luglio 1985 va in scena il concerto "Live Aid", con un miliardo e mezzo di spettatori in diretta: l’apice glamour del programma di aiuti dei Paesi occidentali benestanti alle disastrate economie dell’Africa subsahariana, oltre mille miliardi di dollari elargiti a partire dagli anni Cinquanta.
Venticinque anni dopo, la situazione è ancora rovinosa: cosa impedisce al continente di affrancarsi da una condizione di povertà cronica? Secondo l’economista africana Dambisa Moyo, la colpa è proprio degli aiuti, un’elemosina che, nella migliore delle ipotesi, costringe l’Africa a una perenne adolescenza economica, rendendola dipendente come da una droga. E nella peggiore, contribuisce a diffondere le pestilenze della corruzione e del peculato, grazie a massicce iniezioni di credito nelle vene di Paesi privi di una governance solida e trasparente, e di un ceto medio capace di potersi reinventare in chiave imprenditoriale.
L’alternativa è chiara: seguire la Cina, che negli ultimi anni ha sviluppato una partnership efficiente con molti Paesi della zona subsahariana. Definita l’anti-Bono per lo spietato pragmatismo delle sue posizioni, in questo libro Dambisa Moyo pone l’Occidente intero di fronte ai pregiudizi intrisi di sensi di colpa che sono alla base delle sue "buone azioni", e lo invita a liberarsene. Allo stesso tempo invita l’Africa a liberarsi dell’Occidente, e del paradosso dei suoi cosiddetti "aiuti" che costituiscono il virus di una malattia curabile: la povertà.
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Titolo: La carità che uccide. Come gli aiuti dell’Occidente stanno devastando il Terzo mondo
Autore: Moyo Dambisa
Traduttori: Lanza L., Vicentini P.
Editore: Rizzoli
Collana: Saggi stranieri