don Luigi Ciotti |
Una memoria da ritrovare
Sarà in libreria a giorni il volume di Rosario Giuè, «Il costo della memoria. Don Peppe Diana il prete ucciso dalla camorra», edito dalle Paoline (pp. 208, euro 12). L’autore, già parroco di Brancaccio a Palermo e insegnante presso la Scuola di formazione etico-politica Giovanni Falcone, ci restituisce una memoria da condividere e attualizzare nelle scelte, individuali e collettive, civili ed ecclesiali. Dal volume pubblichiamo un estratto della prefazione di don Luigi Ciotti *
Il prete anticamorra
Era parroco a Casal di Principe e quattro proiettili lo colpirono mentre si stava preparando alla Messa. Aveva paragonato la camorra al terrorismo. Fu l’espressione di una Chiesa che si schiera e sceglie di non tacere per difendere una comunità assediata dalla violenza. A costo del martirio
di Luigi Ciotti *
Don Giuseppe Diana è morto, ucciso dalla camorra il 19 marzo 1994 nella sacrestia della chiesa di cui era parroco, a Casal di Principe, nell’Agro aversano. Si stava preparando a celebrare la Messa, quando quattro proiettili ne hanno spento per sempre la voce terrena. Una voce che predicava e denunciava, che ammoniva ma sapeva anche sostenere. Che sapeva uscire dalla sacrestia e scendere dall’altare per andare incontro alle persone, rinnovando un’autentica comunione.
Era entrato in seminario giovanissimo a qualificare i suoi studi e a verificare la sua vocazione. Un percorso non scontato e non lineare, a tratti sofferto e dunque tanto più vero. Un prete di quella Chiesa campana che nel giugno 1982 aveva avuto il coraggio di dire forte «basta!», con un documento dal titolo eloquentemente ispirato al profeta Isaia: Per amore del mio popolo non tacerò. Un grido di dolore, oltre che di amore. Elevato senza animosità, ma con molta nettezza. Un implicito punto di non ritorno rispetto a pezzi di Chiesa tradizionalmente attenti a non addentrarsi nei temi relativi a mafia e criminalità organizzata.
In quel fondamentale testo c’era un invito alla coerenza ineludibile. Lo stesso che ci viene dalle Scritture, che è testimoniato nel Vangelo. Quando un popolo soffre, quando una comunità è ferita, quando la dignità umana è schiacciata e messa a rischio non ci si può voltare dall’altra parte. Occorre ascoltare l’invocazione di giustizia e farla propria. «Sentirla» propria... Come ha scritto, al solito profetico, don Tonino Bello: «È una Chiesa che, pentita dei troppo prudenti silenzi, passa il guado. Si schiera. Si colloca dall’altra parte del potere. Rischia la pelle. Forse non è lontano il tempo in cui sperimenterà il martirio». Era il 1992. L’anno successivo, a Palermo, veniva ucciso don Puglisi, parroco di Brancaccio; sei mesi dopo don Diana.
Eppure, don Peppino, non era un tipo coraggioso: «Aveva paura come tutti. Era un uomo normale, il coraggio gli veniva dalla decisione di essere coerente nella vita». Il prezzo della coerenza può essere grave e pesante, sino alla perdita della vita, come tragicamente dimostra la vicenda di don Diana. Un rischio e un prezzo che naturalmente può incutere timore, provocare esitazioni e magari spingere a permanere nella «diffusa rassegnazione». Come non capirlo? È una reazione profondamente umana. Ma anche scarsamente capace di guardare per davvero a quelli che sono i valori e significati che danno pienezza a quella vita cui tutti, naturalmente, teniamo. Il prezzo dell’incoerenza, infatti, è molto più salato: è lo smarrimento di sé. Che vita è mai quella in cui un uomo non è in grado di riconoscersi, di discernere vero da falso, bene da male? Che vita è quella che per preservare l’involucro si lascia depredare del contenuto?
Le mafie questo fanno: tolgono diritti, dignità, vita. Non solo con le armi, uccidendo e violentando i corpi, ma svuotando le anime e assassinando la speranza. La rassegnazione dello spirito, l’umiliazione della dignità, la costrizione a rinunciare alla propria coerenza sono una morte altrettanto dolorosa e ancor più irrimediabile della fine fisica. Uccidono non solo i singoli ma la collettività: «La camorra ha assassinato il nostro paese, noi lo si deve far risorgere, bisogna risalire sui tetti e riannunciare la "Parola di Vita"», annotava in un articolo don Peppino.
È in quel «noi» la risposta: nella comunità che si riconosce tale, che include e, così facendo, si realizza e si rafforza. Un «noi» che significa unione e collaborazione tra uomini e donne di buona volontà e tra società e istituzioni. E anche questo aspetto è significativo nell’esperienza del sacerdote di Casal di Principe. Una cultura che nel Mezzogiorno, troppo spesso abbandonato e svilito dallo Stato, è ancora più difficile da affermare. Ma da cui non si può prescindere, se ci si vuole liberare dal tallone di ferro della criminalità e se si vuole consegnare ai giovani un sogno di reale e conc reto cambiamento... «La camorra è una forma di terrorismo», ha scritto nel Natale 1991 don Diana, assieme ad altri sei sacerdoti campani. Una definizione importante, su cui probabilmente non si è riflettuto abbastanza.
Quello di Peppino Diana è stato un tragitto purtroppo spezzato e interrotto, ma comunque capace di restare preziosa e perenne testimonianza: di coerenza e di fede, di impegno e di ricerca. Capace di fruttificare, e questo è ciò che rende la vita vera, per quanto breve essa sia stata. Sono calzanti le parole scritte sulla pietra dietro cui riposa don Peppino: «Dal seme che muore fiorisce una messe nuova di giustizia e di pace».
* Avvenire, 16.02.2007
ITALIA: NAPOLI ... UNA "GOMORRA", UN INFERNO!!!
Un ’resoconto’ e una denuncia di Roberto SAVIANO
"GOMORRA", IL LIBRO SULLA TOMBA DI DON PEPPINO DIANA
Su gli altri temi, nel sito, cfr.:
CHIESA, POLITICA, E ... "MAMMASANTISSIMA". INTERVISTA AL CARDINALE PAPPALARDO
MAFIA: LA CHIESA, L’ITALIA.... e W O ITALY. L’URLO DI KAROL J. WOJTYLA AD AGRIGENTO (1993)
IN NOME DELLA FAMIGLIA DI "MAMMASANTISSIMA" E DI "MAMMONA"
Il cattolicesimo-romano e i suoi scheletri nell’armadio.
Don Diana: ucciso dalla camorra, dimenticato dalla Chiesa
di Raffaele Sardo *
Il presidente della commissione antimafia, Francesco Forgione, arriva puntuale alle 9,20 alla casa paterna di don Giuseppe Diana, attraversando le strade interne del paese, che tagliano in due gli sterminati campi di broccoli, tutti spigati, con i loro bellissimi fiori gialli. La campagna sembra un quadro di Van Gogh. Sullo sfondo, si perdono alla vista dell’occhio i campi di pesco con i loro fiori rosa. In fondo annunciano che la primavera è qui. Il paesaggio ha lo stesso aspetto di 13 anni fa, quando alle 7,20 del mattino un killer della camorra uccideva nella sua parrocchia con quattro colpi di pistola, don Giuseppe Diana, un prete che aveva lanciato una sfida alla camorra, con un documento dal titolo eloquente: «Per amore del mio popolo non tacerò».
«Il mio Peppe - racconta la mamma Iolanda - me l’hanno portato via proprio nel giorno del suo onomastico. Sono passati tredici e anni e non riesco a rassegnarmi». Forgione assicura l’impegno della Commissione Antimafia a seguire ancora con più assiduità questi territori. Ma anche a lui viene spiegato che il clima che si respira, tra gli stessi sacerdoti della Foranìa di Casal di Principe, non è quello che vide nascere una resistenza civile allo strapotere della camorra. «È un anniversario amaro - dice il fratello di don Diana, Emilio - Ma si può dire che ci siamo abituati all’indifferenza del mondo della chiesa».
Il riferimento non è casuale. Infatti le iniziative che il comitato «Don Peppe Diana» ha promosso per l’intera settimana, sono state di fatto boicottate dalla diocesi di Aversa, a capo della quale c’è il vescovo Mario Milano. Il pomo della discordia è un libro scritto da un sacerdote siciliano, Rosario Giuè, «Il costo della memoria», e pubblicato dalle edizioni Paoline. La curia aversana ha messo all’indice il libro, ritenendolo critico nei confronti della chiesa, tanto che la presentazione prevista nella parrocchia di San Nicola di Bari, che fu di don Diana, è saltata, ed è stata fatta presso la sala consiliare del Comune. La Curia ha di fatto boicottato anche la manifestazione «Io C’ero», del 17 marzo scorso, al Santuario della madonna di Briano, dove era prevista, tra gli altri, la presenza del vescovo di Caserta, Raffaele Nogaro, amico di don Diana, ma che il vescovo di Aversa, Mario Milano, non ha voluto più invitare. Alla fine non si è presentato nemmeno monsignor Milano, nonostante avesse già aderito alla manifestazione.
«Si può essere non d’accordo sui libri - dice Valerio Taglione - referente provinciale di Libera e portavoce del Comitato don Peppe Diana - ma la chiesa locale, nella sua interezza, rinunciando ad una iniziativa così importante, non ha giustificazioni di sorta, e si allontana dalla strada tracciata da don Diana». La mamma Iolanda Di Tella, è severa nei confronti dei sacerdoti locali e del vescovo di Aversa: «Hanno sempre avuto un atteggiamento distante dalla vicenda di mio figlio che è continuato nel tempo». E di «incomprensibile boicottaggio nei confronti delle iniziative per ricordare don Diana» hanno parlato apertamente don Luigi Ciotti, presidente di Libera e il magistrato Donato Ceglie, durante la manifestazione del 17 marzo. Ma il più duro è proprio il fratello di don Diana, Emilio: «La chiesa si scandalizza di un libro, ma non si scandalizza quando nella parrocchia di San Cipriano d’Aversa si intitola un centro diocesano giovanile ad una persona coinvolta in un processo di camorra».
* l’Unità, Pubblicato il: 19.03.07, Modificato il: 20.03.07 alle ore 12.57
Ammalato grave.
A casa il mandante dell’omicidio di don Diana, restiamo umani
di Maurizio Patriciello (Avvenire, venerdì 30 luglio 2021)
Innanzitutto un grande, sincero, commosso abbraccio a Marisa ed Emilio, sorella e fratello di don Peppe Diana. Il loro sconcerto, il loro rinnovato dolore alla notizia che a Nunzio De Falco, detto o lupo, mandante del feroce assassinio del loro caro congiunto, siano stati concessi gli arresti domiciliari per gravi motivi di salute, sono del tutto comprensibili. A loro, agli amici di sempre di Peppino, agli onesti cittadini di Casal di Principe, la vicinanza sincera mia e di tutti coloro che sul nostro territorio lottano per vedere l’alba del giorno in cui l’infame e vigliacca camorra venga del tutto debellata.
«Per quello che ha fatto, quell’uomo doveva morire in carcere. Io non ho potuto abbracciare negli ultimi istanti mio fratello; don Peppe non è morto circondato dall’affetto dei propri cari», dice Marisa. Vero. Chi potrebbe darti torto, cara amica? Da quel lontano 19 marzo del 1994, però, Peppino Diana, sacerdote tosto e coraggioso, smette di essere un semplice prete della diocesi di Aversa per diventare patrimonio della Chiesa sparsa in ogni angolo del mondo.
Oltre che un vero eroe per la società laica. Da quel giorno, don Peppe è di tutti. Appartiene a tutti. La sua orribile morte ha segnato la rinascita del nostro territorio, delle nostre coscienze, della nostra cultura, del nostro clero. Dal suo sangue versato per amore - e sottolineo: per amore - è scaturita una sorgente di acqua pura che zampilla per la vita eterna. Per tutti. Anche, e credo, soprattutto, per coloro che di lui e della sua inerme forza evangelica, hanno avuto il terrore di essere azzerati. Il sacrificio di Peppino è troppo grande per portare frutti solo in qualche aiuola del giardino di Dio. La sua offerta, come quella di Gesù, abbraccia - deve abbracciare - tutti. Peppino è la fontana del villaggio alla quale tutti hanno il diritto di correre a dissetarsi. Tutti, compresi i camorristi che gli rapinarono la vita. Questa è la più bella vendetta cui, noi, suoi confratelli e amici, possiamo aspirare.
La Chiesa di Aversa non ha mai smesso di chiedere giustizia per questo suo figlio prediletto, senza mai cedere al desiderio di vendetta. Per rimanere fedele al suo Signore e a don Peppino. I figli delle tenebre, illuminati da Cristo e dai suoi degnissimi testimoni, possono sempre accedere al regno della luce. Soprattutto quando il carcere, la solitudine, la sofferenza, la malattia, hanno minato il loro fisico, il loro stupido orgoglio e quello sciocco delirio di onnipotenza. Quando hanno compreso la grandezza e la fragilità di ogni essere umano.
Se la magistratura ha ritenuto che "nostro fratello" Nunzio potesse tornare a casa, perché ormai incapace di incidere sul maledetto meccanismo di quella organizzazione malefica che va sotto il nome di camorra, noi - seppure con sconcertante dolore - accogliamo la decisione presa. Credo che la punizione più dura che De Falco continuerà a scontare, fuori o dentro il carcere, sia il rimorso della sua coscienza per aver decretato la morte di un innocente sacerdote.
Peppino non ha mai smesso di amare la nostra terra e i suoi abitanti. Al contrario, da quando è entrato nell’eternità, la sua intercessione presso il trono di Dio è diventata incessante. Credo che proprio per i camorristi della sua zona, tanti dei quali suoi vecchi amici di scuola e di giochi, o suoi vicini di casa, che si sono lasciati ammaliare dalla sete di denaro e di potere, non ha mai smesso di pregare.
A Nunzio De Falco, e a quelli come lui che tanto male e tanta paura hanno fatto alle nostre vite, l’invito sincero da parte dei confratelli di don Diana ad accogliere nel loro cuore quel Gesù di cui Peppino era innamorato. Lui è la Via, la Verità, la Vita. Lui è la nostra forza, la nostra gioia, la nostra speranza.
No, la scarcerazione di De Falco non dice la debolezza e la negligenza dello Stato, ma la sua capacità di rimanere umano anche di fronte alla disumanità dei camorristi. E proprio come avrebbe fatto Peppino, noi suoi confratelli, ci rendiamo disponibili a correre da De Falco qualora volesse confessarsi e ricevere i santi Sacramenti.
Anniversario.
La memoria di don Peppe Diana, ucciso dalla camorra, corre sui social
E domenica si celebrerà la Giornata per le vittime di mafia, quest’anno intitolata «A ricordare e riveder le stelle»
di Antonio Maria Mira (Avvenire, venerdì 19 marzo 2021)
Il Covid non blocca la memoria. Oggi, 27° anniversario della morte, si ricorda don Peppe Diana, il parroco di Casal di Principe ucciso dalla camorra il 19 marzo 1994.
Domani e domenica è invece la 26ª Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie, promossa da Libera e Avviso pubblico.
Già lo scorso anno il lockdown aveva impedito i tradizionali eventi, i cortei con migliaia di persone, le manifestazioni, i convegni. E la memoria aveva viaggiato sui social. Quest’anno si userà ancora molto la Rete, ma con alcuni piccoli eventi in presenza, rispettando rigorosamente le norme anticovid.
Stamattina alle 7,30, ora dell’uccisione di don Peppe, nella sua parrocchia di San Nicola a Casal di Principe ci sarà come ogni anno la messa che il sacerdote non poté celebrare: i killer lo colpirono mentre, coi paramenti sacri, andava all’altare. Era il giorno del suo onomastico. A presiedere la celebrazione, trasmessa in diretta da TeleclubItalia, sarà il vescovo di Aversa monsignor Angelo Spinillo. Al termine, con partecipanti contingentati, la deposizione di fiori sulla tomba di don Peppe.
Sarà poi la musica a fare memoria del giovane parroco: alle 16, sulle pagine social del Comitato don Peppe Diana e di Libera Caserta, con il contributo della Fondazione Polis, verrà trasmesso il concerto «I Partigiani del bene. Un Canto Libero per don Peppe Diana» a cura di Carlo Faiello, tra i più noti cantanti e autori napoletani; parteciperanno, in forma gratuita, artisti come Peppe Barra, Ambrogio Sparagna, Gianni Aversano, Marcello Colasurdo, Antonella Morea. Le musiche saranno alternate ai contributi del procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho, del presidente di Libera don Luigi Ciotti, del vescovo Spinillo, di Marisa Diana, sorella di don Peppe.
E la cultura è il tema centrale anche della Giornata della memoria, quest’anno intitolata «A ricordare e riveder le stelle». Non ci sarà il grande corteo nazionale ma tante piccole iniziative in spazi culturali locali, dove sabato mattina saranno letti i più di mille nomi delle vittime innocenti. È stata scelta la cultura, spiegano i promotori, «che in quest’anno di pandemia è stata spesso penalizzata, ritenuta non essenziale, ma che è capace di svegliare le coscienze, seminare responsabilità e generare partecipazione. La cultura quale ingrediente fondamentale per la lotta alle mafie e alla corruzione, scintilla di memoria e impegno sociale».
A Roma l’iniziativa si svolgerà all’Auditorium Parco della Musica, a Palermo nel Teatro Massimo, a Milano davanti a Palazzo Marino, a Locri presso il Teatro Greco di Portigliolo. A sera saranno proiettati i nomi delle vittime sulle facciate di vari monumenti: la Mole Antonelliana di Torino, l’Arco San Nicolò a Firenze, il Campanile di San Marco a Venezia. Anche il mondo dello sport scende in campo grazie al Coni: federazioni e realtà sportive di promozione sociale vestiranno la maglia «Lo sport non vi dimentica».
Religiosità e criminalità.
Liberare la Madonna dalle mafie. Messaggio di papa Francesco
di Filippo Rizzi ed Enrico Lenzi (Avvenire, giovedì 20 agosto 2020)
La devozione mariana va salvaguardata da una religiosità fuorviata. Nel mirino «gli inchini» delle statue ai boss nelle processioni e la presenza dei clan nelle feste patronali
Liberare la Madonna dalla mafia. È il senso del nuovo intervento che papa Francesco ha voluto fare inviando un messaggio al francescano minore padre Stefano Cecchin presidente della Pontificia accademia mariana internazionale (Pami), che ha deciso di porre il tema «religiosità e criminalità» al centro del proprio lavoro, dando vita a un Dipartimento di analisi, studio e monitoraggio, a cui sono stati chiamati anche esperti esterni, rappresentati da magistrati, esponenti delle forze dell’ordine e della società civile. È a loro che si rivolge il Papa nel messaggio inviato in vista del convegno che la Pami realizzerà il 18 settembre prossimo.
«La devozione mariana è un patrimonio religioso-culturale da salvaguardare nella sua originaria purezza - scrive Francesco nel suo messaggio datato significativamente 15 agosto, festa dell’Assunzione -, liberandolo da sovrastrutture, poteri o condizionamenti che non rispondono ai criteri evangelici di giustizia, libertà, onestà e solidarietà».
Il riferimento, neppure troppo velato, è all’uso che le varie mafie fanno degli eventi religiosi - processioni e feste patronali in particolare - per mostrare la propria presenza sul territorio e anche per creare consenso facendo proprio leva attraverso la fede popolare. Negli anni passati accadeva spesso di leggere degli “inchini” che le statue della Madonna o del santo patrono, facevano verso la casa del boss locale, segno di omaggio e, nello stesso tempo, di riaffermazione del potere in quel territorio. Leggi anche
E il Pontefice, che già in passato ha fatto sentire la propria voce contro il crimine organizzato e le varie mafie, ribadisce con forza come sia «necessario che lo stile delle manifestazioni mariane sia conforme al messaggio del Vangelo e agli insegnamenti della Chiesa».
Ecco allora che uno «dei criteri per verificare ciò, è l’esempio di vita dei partecipanti a tali manifestazioni, i quali sono chiamati a rendere dappertutto una valida testimonianza cristiana mediante una sempre più salda adesione a Cristo e una generosa donazione ai fratelli, specialmente i più poveri». Insomma le comunità locali vigilino sulle feste patronali e soprattutto su coloro che in quelle occasioni si presentano come devoti, nascondendo intenti tutt’altro che devozionali. E ai fedeli, quelli veri, papa Francesco chiede di «assumere atteggiamenti che escludono una religiosità fuorviata e rispondano invece a una religiosità rettamente intesa e vissuta».
Invito che il Pontefice estende anche ai Santuari mariani, affinché «diventino sempre più cittadelle della preghiera, centri di azione del Vangelo, luoghi di conversioni, caposaldi di pietà mariana, a cui guardano con fede quanti sono alla ricerca della verità che salva». Dunque, conclude il Papa, ben venga questo lavoro che la Pontificia accademia mariana internazionale (Pami) intende avviare con la creazione del Dipartimento.
Un passo nuovo, che coinvolge anche le realtà del territorio non solo legate alle parrocchie o alle diocesi. Del resto queste ultime, in particolare nelle regioni con la maggior presenza delle organizzazioni di stampo mafioso, già da tempo sono intervenute con documenti e anche decisioni che hanno portato alla rottura con il passato.
Lo stesso papa Francesco, come abbiamo detto, ha espresso con forza l’impossibilità di far convivere una fede religiosa autentica e l’appartenenza alla mafia. Nella spianata di Sibari, durante la sua visita alla diocesi di Cassano all’Jonio il 21 giugno 2014, papa Bergoglio nell’omelia della Messa arrivò a dire che «coloro che seguono nella loro vita questa strada del male, come sono i mafiosi, non sono in comunione con Dio: sono scomunicati».
Concetto ribadito nell’omelia della Messa celebrata poco più di quattro anni dopo (il 15 settembre 2018) a Palermo in ricordo del beato don Pino Puglisi, sacerdote ucciso dalla mafia: «Non si può credere in Dio ed essere mafiosi. Chi è mafioso non vive da cristiano, perché bestemmia con la vita il nome di Dio-amore».
Per questo «ai mafiosi dico: cambiate fratelli e sorelle. Smettete di pensare a voi stessi e ai vostri soldi. Convertitevi al vero Dio di Gesù Cristo, cari fratelli e sorelle. Io dico a voi mafiosi: se non fate questo, la vostra stessa vita andrà persa e sarà la peggiore delle sconfitte».
E se, come disse nella visita a Napoli il 21 marzo 2015, «un cristiano che lascia entrare dentro di sé la corruzione non è cristiano, puzza», papa Francesco richiama tutti i credenti a essere vigilanti contro le distorsioni che della devozione mariana viene fatta. Un compito che richiama le coscienze di tutti all’impegno. E a non voltare le spalle quando si manifestano lungo i borghi della nostra Penisola queste deviate devozioni religiose.
Pami.
Culto mariano, un laboratorio per difendere la devozione dalla criminalità
Teologi, ma anche magistrati e giudici, nel Dipartimento creato nella Pontificia accademia Padre Roggio: studiare le cause delle deviazioni. Il criminologo Iadeluca: riti per odio e omertà Filippo Rizzi (Avvenire, giovedì 20 agosto 2020)
Un dipartimento ad hoc all’interno della Pontificia accademia mariana internazionale (Pami) per studiare i fenomeni criminali e mafiosi e così «liberare la figura della Madonna dall’influsso delle organizzazioni malavitose». È quanto è allo studio di questa Istituzione pontificia per evitare di strumentalizzare la figura della Vergine da parte dei boss e dei clan criminali presenti nel nostro Paese: dalla Lombardia alla Calabria. Un centro studi sorto soprattutto sulla scorta dei recenti interventi di papa Francesco a questo riguardo: tra questi in particolare quello pronunciato, il 21 giugno del 2014, dove il Vescovo di Roma nella piana di Sibari in Calabria pronunciò parole inequivocabili: «La Chiesa deve dire di no alla ‘ndrangheta. I mafiosi sono scomunicati».
E il prossimo 18 settembre a Roma la Pami nel corso di un convegno traccerà le linee guida di questo nuovo Dipartimento che coinvolge (una trentina di persone): non solo teologi e mariologi ma anche magistrati (molto di loro della Dda, Direzione distrettuale antimafia), criminologi, avvocati, membri delle Forze dell’Ordine e sindaci di importanti città.
«Persone che ogni giorno - spiega il mariologo padre Gian Matteo Roggio, appartenente alla Congregazione dei missionari di Nostra Signora della Salette e tra i principali ispiratori di questa nuova sezione della Pami - si confrontano con il fenomeno mafioso, lo contrastano all’insegna della cultura della legalità. In un certo senso come recita il documento programmatico di questo nuovo dipartimento siamo chiamati tutti a un autentica “teologia della liberazione” dalle mafie».
Un evento assicurano gli organizzatori che ha anche il sostegno di papa Francesco. «Per il Convegno - racconta padre Roggio - il Papa ha inviato un messaggio chiaro e forte che porta la data del 15 agosto scorso. E caso singolare il documento reca la firma di Francesco dal palazzo del Laterano il luogo adiacente alla Cattedrale di Roma. In questo testo Francesco chiede a chi si professa autenticamente cristiano di salvaguardare la devozione mariana nella sua originaria purezza».
L’auspicio di questa task force di esperti è proprio quella di liberare anche idealmente luoghi simbolo come alcuni Santuari mariani del nostro Meridione - basti pensare - a quello della “Madonna di Polsi” nel cuore dell’Aspromonte dall’uso distorto di devozioni che ne fanno oggi le mafie odierne. «Il rito dell’iniziazione è la liturgia che accompagna l’ingresso del neofita nell’organizzazione.
È simile al “Battesimo” e deve essere considerata una “sorta di rinascita”, ovvero la nascita a nuova vita - spiega il criminologo Fabio Iadeluca -. Nella ’ndrangheta, in modo particolare rispetto a cosa nostra, alla camorra, alla sacra corona unita ed altre forme associative mafiose pugliesi, le forme rituali rappresentano l’essenza stessa dell’organizzazione e ne disciplina la vita dei suoi affiliati».
E aggiunge un dettaglio: «Monitorando questi episodi e intercettazioni ambientali a preoccuparci è stata l’adulterazione delle tradizionali venerazioni alla Madonna o ad importanti santi del Sud, penso in particolare a san Michele Arcangelo che con queste pratiche si trasformano in figure vendicatrici e cariche di odio; si tratta di usanze che servono a tutelare tutta una rete di omertà su cui si reggono queste realtà. Sono quasi sempre riti di iniziazione violenti con l’uso di santini e immagini sacre provenienti dal nostro patrimonio di fede cattolica».
Agli occhi di padre Roggio l’appuntamento di settembre servirà a fare chiarezza su quanto il magistero ecclesiale dice a riguardo. «Non è in discussione quanto da tempi non sospetti la Chiesa - è l’osservazione - si sia pronunciata per dire no a questi fenomeni e ribadire che tutto questo non appartiene alla corretta dottrina e spiritualità. Ma lo sforzo ulteriore che il nostro osservatorio vuole offrire è di andare alle radici culturali e antropologiche che fanno scaturire queste deviazioni religiose». Una sfida dunque di lungo termine.
«Penso che gli esempi di don Diana e don Puglisi e di come la Chiesa abbia mostrato proprio ai boss - è la riflessione finale - che questi miti sacerdoti erano dei modelli da imitare e non il contrario. Spesso viene usata dalla “cultura mafiosa” la figura della Vergine come un modello di obbedienza passiva di fronte al potere dominante. Essa viene raffigurata come una donna capace “oleograficamente” solo di piangere per la morte di un figlio. Bisogna dire basta a questo uso distorto dell’immagine della Madonna e ricordare attraverso la voce di tutti che ogni atto compiuto nella sua vita terrena e celeste è stato quello di essere in ascolto di tutti e in comunione fraterna con tutti gli uomini di buona volontà proprio come ci mostra il Vangelo quando ci parla di Lei a cominciare dal suo “fiat” all’arcangelo Gabriele».
Casal di Principe. La marcia dei 10mila scout per don Peppe Diana
Un fiume di persone hanno preso parte all’annuale marcia organizzata dall’Agesci per ricordare il sacerdote ucciso dalla camorra
di Antonio Maria Mira. Inviato a Casal di Principe (Caserta) *
Una fiume di camicie azzurre e fazzolettoni ha attraversato domenica le vie e le piazze di Casal di Principe nel nome di don Peppe Diana. Diecimila scout arrivati da tutta la Campania e anche da altre regioni per ricordare il parroco e capo scout ucciso dalla camorra 25 anni fa, il 19 marzo 1994. È la marcia "Il tuo sogno la nostra frontiera", organizzato da Agesci, Masci e Foulard blanche. Punto di partenza lo stadio, luogo simbolo del cambiamento, perchè qui anche la squadra di calcio era finita in mano al "clan dei casalesi". Ora, invece, è pieno dei canti, delle animazioni, dei colori, dell’allegria degli scout, dai lupetti e coccinelle, agli esploratori e guide, e ai rover e scolte. Da qui il fiume azzurro si mette in cammino. Tanti gli striscioni coloratissimi.
"Don Peppe era coraggioso, la mafia ’na schifosa", "Di pizzo vogliamo solo l’abito da sposa", "Seguiremo il tuo esempio", "Peppino siamo noi". In testa quello con la scritta "Scout in cammino" è retto dai responsabili nazionali delle tre associazioni, dai fratelli di don Peppe, Marisa e Emilio, da Augusto Di Meo, testimone coraggioso dell’omicidio, dal sindaco di Casal di Principe, Renato Natale, amico del sacerdote. Prima tappa sotto casa della famiglia Diana. Dal balcone si affaccia mamma Iolanda. Indossa il fazzolettone del figlio. "Grazie, grazie. Quando vedo le camicie blu è come se vedessi Peppino", dice al microfono tra le lacrime.
Molti scout indossano in quel momento una maglietta bianca con la data del proprio battesimo. Poi tutti roteano sulla testa il fazzolettone ritmando il grido "Don Peppe uno di noi", e anche mamma Iolanda risponde facendo girare il fazzolettone del figlio. Seconda tappa è alla parrocchia di San Nicola di Bari, dove don Peppe venne ucciso. Suonano le campane. Ad accogliere gli scout il parroco e successore di don Peppe, don Franco Picone, e tanti fedeli. Davanti all’ingresso della chiesa una grande croce abbracciata dalla stola bianca di don Peppe e da una rossa. Il simbolo del martirio, come i cartoncini rossi che tutti gli scout alzano passando davanti in silenzio.
E si giunge all’ultima tappa, il cimitero dove è sepolto il sacerdote. Il grande piazzale diventa la navata di un’enorme chiesa all’aperto per la messa celebrata dal cardinale di Napoli, Crescenzio Sepe, assieme al vescovo di Aversa, Angelo Spinillo, e a quaranta sacerdoti, molti assistenti di gruppi scout col fazzolettone al collo. "Siamo qui - dice il cardinale introducendo la celebrazione - per ricordare don Peppe, ucciso tragicamente dalla violenza camorrista".
Poi nell’omelia definisce don Peppe "un profeta che ha incarnato nella sua vita la verità della giustizia e della carità. Non ha avuto paura a testimoniare e annunciare il Vangelo, anticipando i tempi di una Chiesa non sempre attenta". Ma non è solo un ricordo. "Non onoriamo un morto ammazzato - avverte il cardinale - ma un vivo che ancora continua a testimoniare a tutti il suo messaggio di giustizia". Anche attraverso le opere di cambiamento come "le tante cooperative sociali, le tante case tolte ai camorristi e utilizzate per il bene comune". E allora davvero, conclude, "Casal di Principe non è la terra dei camorristi ma la terra di don Peppe Diana".
Una celebrazione intensa e colorata, tra canti, simboli, preghiere e le interminabili file per la comunione. Alla fine alcune testimonianze toccanti. Renato Natale, sindaco nel 1994 e oggi, amico di don Peppe, chiede perdono "perché quel giorno non ho avuto il coraggio di portare le condoglianze alla famiglia. Non potevo guardarli in faccia perché lui era morto perché era stato davanti a noi per proteggerci. Questa è la mia colpa che vi chiedo di perdonare e che metto insieme alle colpe di oggi di chi continua a uccidere e di chi in silenzio permette tante morti nei nostri mari".
La sorella Marisa riflette sul crocifisso che era davanti alla parrocchia. "Ho visto lo sguardo di mio fratello che ha dato la vita per la giustizia. Continuiamo il cammino di don Peppe - aggiunge alzando la voce -, grande sacerdote, grande uomo, grande fratello!". A chiudere, prima della benedizione, sono le parole dell’assistente ecclesiastico generale dell’Agesci, padre Roberto Del Riccio. Parole pronunciate con voce commossa. "Don Peppe è morto perchè voleva lasciare il mondo migliore di come lo aveva trovato in nome di Gesù". Parole che evocano il testamento lasciato ai suoi scout dal fondatore del movimento, Robert Baden Powell. Che padre Roberto ripete come impegno per tutti i 10mila ragazzi col fazzolettone. "Andiamo sulle strade per fare del nostro meglio, a non tacere, a cambiare il mondo per onorare la nostra promessa". Una promessa che tutti ripetono insieme, per poi intonarne il canto. La messa è finita, si ammainano le bandiere. Poi tutti in fila, nel cimitero a salutare don Peppe, sacerdote e fratello scout.
* Avvenire, lunedì 18 marzo 2019 (ripresa parziale - senza immagini).
Aversa.
Don Peppe Diana ucciso dalla camorra 25 anni fa, «un esempio profetico»
Dedicata al prete la Lettera pastorale. Un pastore che Che «per amore denunciava ma anche indicava un cammino per il cambiamento»
di Antonio Maria Mira, inviato ad Aversa (Caserta) (Avvenire, sabato 24 novembre 2018)
Don Peppe Diana, profeta e sentinella. Che «per amore denunciava ma anche indicava un cammino per il cambiamento». Così sarà ricordato il parroco di Casal di Principe, in occasione del 25esimo anniversario della sua uccisione, per mano dei killer della camorra il 19 marzo 1994. Nella giornata di sabato, nella Curia Vescovile di Aversa, è stato presentato il logo dell’evento e illustrato il percorso comune che, attraverso tante tappe, condurrà tutta la comunità, ecclesiale e civile, verso l’appuntamento, spiega don Francesco Riccio, direttore dell’Ufficio Comunicazioni Sociali.
Un impegno che vede assieme chi ha raccolto il testimone del sacerdote e che vuole però coinvolgere tutto il Paese, con un progetto di iniziative in 250 piazze italiane. E poi incontri nelle scuole, un corso di formazione per insegnanti della provincia, gli incontri con grandi scrittori nella biblioteca comunale di Casal di Principe (il primo con Erri De Luca), una raccolta di "mini racconti" su don Peppe, la Messa solenne in Cattedrale il 14 marzo, giorno della sua ordinazione.
Un impegno forte di Chiesa, a cominciare dal suo pastore, il vescovo di Aversa, Angelo Spinillo, che sempre questo sabato ha presentato la Lettera pastorale da lui redatta proprio per il 25esimo, intitolata "Per amore, Sentinelle e Profeti", che riprende il titolo "Per amore del mio popolo non tacerò" del documento del Natale 1991 scritto da don Peppe e dagli altri parroci di Casal di Principe. «Profeta - spiega Spinillo - è colui che vede il male e invita all’attenzione. Non parla solo per condannare, denunciare, ma indica un cammino che chiama a qualcosa di più grande, più pieno e vero. Una méta verso cui andare. Una vita nuova uscendo dalla schiavitù, qualunque schiavitù».
Anche quella della camorra. E qui citando ancora don Peppe, Spinillo avverte che «anche noi dobbiamo essere preoccupati perché il male della camorra rischia di diventare endemico, sempre in agguato in mezzo a noi. Serpeggia nel vissuto quotidiano». Anche perché, denuncia il vescovo, «l’illegalità è l’anticamera della criminalità: prepotenza, bullismo, femminicidio, la piaga del lavoro nero, sfruttamento, corruzione, lavoro come elargizione. E l’abitudine all’illecito ci abitua alla sottomissione. Anche nella Chiesa».
Per questo, è il suo invito, «dobbiamo guardare all’amore sempre inquieto di un cuore sacerdotale di don Peppe. Perché l’amore non è mai tranquillo». «Per questo non deve essere solo una celebrazione - sottolinea Renato Natale, sindaco di Casal di Principe e amico di don Peppe - ma un percorso di cambiamento nel quale stiamo coinvolgendo tutta la comunità, chiedendo ai sindaci della provincia di organizzare iniziative di riflessione. Perché - avverte anche lui - il percorso di riscatto non è finito, c’è ancora una lotta in corso. C’è ancora una mentalità camorrista, ma è rintanata negli angoli. Dobbiamo fare in modo che non riesca fuori».
Proprio per questo il 25esimo «sarà un momento di riflessione, verifica e rilancio - si associa Valerio Taglione, presidente del Comitato don Diana -. La marcia che faremo il 19 marzo per le vie di Casal di Principe non è solo muovere le gambe, ma muovere le menti, con nuove chiavi di lettura nel nome di don Peppe. Non solo per la nostra comunità, ma per tutta l’Italia». È la riflessione che fa anche Gianni Solino, referente di Libera per il Casertano. «È stato un cammino lungo e accidentato, ma pieno di successi e ora è il momento di indicare don Peppe come esempio per tutto il Paese». Ne sono convinti da sempre gli scout dell’Agesci, che non hanno mai dimenticato il loro don Peppe col fazzolettone, capo scout e foulard blanc a Lourdes.
Per due giorni assieme al Masci colereranno di azzurro piazze e strade del paese. «Ma ogni gruppo in tutt’Italia lo ricorderà e costruirà degli impegni concreti per la propria comunità», spiega Pasquale Leone dell’Agesci, mentre Marino Pezzullo dei foulard blanc annuncia che nell’area sacra del santuario mariano sarà posto un albero in ricordo di don Peppe. Sarà davvero «un importante momento di memoria e di percorso. In spirito di condivisione e in una prospettiva di continuità» sottolinea Giovanni Del Villano della Consulta Diocesana delle Aggregazioni Laicali. «Dobbiamo riconoscere e sostenere la profezia di don Peppe - è allora l’appello del vescovo -. La sua morte ha rappresentato un discrimine per questo territorio: era possibile il cambiamento. Da allora ci sono stati tanti segni che annunciano il nuovo e che vanno sostenuti».
Un fuoco chiamato Peppino
Peppino Impastato, assassinato il 9 maggio 1978, come Roberto Mancini, Rita Atria, Ilaria Alpi e tantissimi altri e altre, non è rimasto mai alla finestra. La commemorazione che non è accompagnata dalla stessa determinazione del gridare contro tutte le mafie e nel costruire ogni giorno un mondo diverso è solo un mantello di ipocrita complicità. Smettiamola con l’antimafia da parata, l’antimafia da salotto, l’antimafia vuota e retorica. Peppino Impastato non è un laico santino per un giorno ma è un fuoco che ci deve ardere dentro
di Alessio Di Florio (Comune-info, 7 maggio 2016)
“È successa la stessa cosa con Falcone e Borsellino, le persone che hanno lavorato per questo Paese sono riconosciute dopo la morte”. Questa le amare parole di Monica Dobrowolska, la vedova di Roberto Mancini, nell’intervista a Il Fatto Quotidiano Tv del 28 febbraio di quest’anno, mentre ribadiva che l’unico vero rispetto alla memoria del marito è sconfiggere le ecocamorre e “salvare” la Terra dei Fuochi. Un’intervista dura e intensa che ricorda le parole del fratello di Paolo Borsellino, Salvatore, ormai nove anni fa. “È ora di smettere di piangere per Paolo, è ora di finirla con le commemorazioni, fatte spesso da chi ha contribuito a farlo morire, è l’ora invece di dimenticare le lacrime, è l’ora di lottare per Paolo, lottare fino alla fine delle nostre forze, fino a che Paolo e i suoi ragazzi non saranno vendicati e gridare, gridare, gridare finché avremo voce per pretendere la verità, costringere a ricordare chi non ricorda”.
Ogni ricordo, ogni commemorazione, ogni anniversario, lo si è scritto tante volte in questi anni, nasconde la più insidiosa delle trappole: la retorica vuota e buona solo per sfilate e cerimonie piene di belle parole e la creazione di laici santini. E poi tornare alla vita di sempre. Ma Peppino Impastato, Roberto Mancini, Rita Atria e tanti altri non sono vissuti per alimentare annuali prefiche. Hanno pagato l’altissimo prezzo di un fuoco ardente dentro, di una tensione etica, politica, civile fortissima. Hanno aperto gli occhi sul mondo che li circondava, non si sono accontentati di lamentarsi ma hanno speso le loro esistenze per lasciarlo migliore di come l’avevano trovato.
Monica Dobrowolska fu intervistata in occasione dell’uscita del libro “Io morto per dovere”, sulla storia di Roberto e il suo impegno per la “Terra dei Fuochi”, insieme all’autore Nello Trocchia. Nello è un cronista che da anni segue e insegue fatti, crimini, documenta, denuncia. È un giornalista con la schiena dritta e che mai è rimasto in silenzio per convenienza o connivenza. E il suo omaggio, col libro scritto insieme a Luca Ferrari, è tappa di questo percorso d’impegno, si ricollega con un fortissimo filo rosso a tutto quanto ha realizzato in questi anni. Infatti il libro non descrive un santino, non fa un’agiografia strappalacrime. Riporta trame, nomi, cognomi, circostanze. Chiede giustizia per chi ha denunciato anni e anni prima quel che accadeva nella “Terra dei Fuochi”, per quel silenzio e quelle denunce rimaste inevase.
Il sistema che ha impedito a Roberto Mancini di salvare la “terra dei fuochi” e di combattere le eco camorre è lo stesso nel quale s’imbatterono Ilaria Alpi, Mauro Rostagno e tantissimi altri. E non rimasero in silenzio, si ribellarono, denunciarono, si posero contro le trame di mafiosi, imprenditori senza scrupoli, politici collusi e conniventi, massoneria più o meno deviata (si rilegga a questo proposito quanto riportato nella relazione finale della “Commissione Parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia e delle altre associazioni criminali similari” del 1994). Quel sistema è ancora in piedi, vive e prolifera nei silenzi, nelle complicità, nelle finestre affollate mentre la coscienza chiama. In Campania, in Sicilia, nel Lazio e altrove. Anche nell’Abruzzo da dove sto scrivendo. Dove ci sono piccole e grandi “terre dei fuochi” conosciute o sconosciute, dove la camorra è arrivata a stoccare i suoi rifiuti, tra Abruzzo e Molise, nelle cave dell’interno e in altri posti. Ma molti girano la testa dall’altra parte, fanno finta di non sapere.
Le commemorazioni degli occhi chiusi e delle bocche cucite sono le commemorazioni delle tre scimmiette, sono inutili, offensive, sono ipocrite complicità. Lamentarsi che è tutto uno schifo, che siamo circondati da un mondo marcio e rimanere inerti è accettarlo. Un’accettazione che diventa reale ogni volta che si sceglie la prevaricazione, la raccomandazione, la clientela, la legge del più forte, che si piega la testa di fronte al “padrone” feudale. Si chiama complicità, è il brodo di coltura della mafiosità, del marcio che Peppino Impastato, Roberto Mancini, Rita Atria hanno ripudiato e combattuto. Le mafie non sono organizzazioni isolate che violano banalmente e soltanto una formale legalità. Perché, lo si è già accennato poc’anzi, si può essere mafiosi senza violare un solo articolo di legge. E le mafie sono immerse e si alimento in ben precisi contesti sociali, politici, culturali.
Rita Atria si ribellò alla sua famiglia, ai suoi codici, all’omertà e alla complicità ai boss. Un medioevo familista e borghese, ipocrita e perbenista. Peppino Impastato non fu un “bel giovine” scapestrato. Peppino era marxista, si era reso conto che la mafia e le classi dominanti sono un blocco unico, espressione del padrone oppressore, apriva gli occhi quotidianamente e documentava, denunciava, ricostruiva. Non era antico quel mondo che Peppino ripudiò e denunciò, era mafioso, omertoso, connivente, servo. E lui capì che le uniche catene dell’oppressione che non si spezzano sono quelle che si accettano. E lo spezzare di quelle catene, di quel sistema borghese e oppressivo, di quella cultura ipocrita e servile continua. È un altro inganno sempre dietro l’angolo: guardare al passato, pensare che tutto sia finito in anni ormai lontani. Non è così. Perché le trame continuano, prosperano, infettano. Per dirla con Pippo Fava, ancora “i mafiosi stanno in Parlamento, i mafiosi a volte sono ministri, i mafiosi sono banchieri, i mafiosi sono quelli che in questo momento sono ai vertici della nazione”. E c’è chi documenta, denuncia, si ribella.
Commemorare chi non c’è più e dimenticarsi dei vivi è “rimanere alla finestra” ed è già, parafrasando Pavese, essere mafioso. Esiste l’antimafia da parata, l’antimafia da salotto, l’antimafia vuota e retorica, l’antimafia di chi in realtà si amalgama (per dirla con le parole di Roberto Mancini) al sistema. E c’è chi quotidianamente rifiuta favori e clientele feudali, chi ripudia il sistema marcio e lo documenta, denuncia, facendo nomi, cognomi, atti, trame. Senza fare sconti e pagando prezzi altissimi, senza mai farsi comprare.
L’elenco potrebbe essere lunghissimo. Così come potrebbe essere lunghissimo l’elenco delle trame, delle connivenze, dell’oppressione mafiosa e criminale. Chi veramente vuol realizzare commemor-azione, chi vuol aprire gli occhi nomi, cognomi, atti e fatti li conosce e li trova facilmente. Per gli altri c’è poco, anzi nulla, da fare. Non ne ho fatti di nomi in quest’articolo (a partire da chi fu denunciato da Rita, ed ha complicità in altissimo, da chi tentò di “silenziare” le inchieste di Ilaria Alpi e Roberto Mancini, di chi per decenni depistò le indagini sulla morte di Peppino e così via, da chi quotidianamente è puparo o pupazzo di sistemi intrisi di mafiosità) per questo.
Chi non vuol vedere non vede. Chi sente il peso della propria schiena troppo esagerato per alzarsi, chi non si vuol muovere ed è addirittura infastidito da chi lo fa, non si smuove. Sono i complici più ipocriti e servili del Sistema, del padrone e del feudatario. E sono falsi. Perché non vogliono ammettere la realtà. Che la mafia la vogliono non perché ne hanno paura ma perché la loro sopravvivenza è all’insegna del fascistissimo “me ne frego”, perché è comodo girarsi dall’altra parte, perché una raccomandazione, una “leccata”, un prostarsi può sempre essere utile. Perché è tanto, troppo facile puntare il dito giudicando chi lotta perché “tanto si è tutto uguali” (ma chi paga il prezzo della coscienza e chi si fa pagare quello del “materasso di piume” non saranno mai uguali!), credere che Peppino Impastato era un terrorista, che Pippo Fava e don Peppe Diana andavano per “fimmine”, che Ilaria Alpi fu vittima di una rapina, che nulla potrà mai cambiare, che chi rifiuta la raccomandazione è uno che non vuol lavorare, che la difesa del territorio è un inutile e dannoso fastidio burocratico.
Ma Peppino Impastato, Pippo Fava, Rita Atria, Roberto Mancini sono molto più vivi di lor signori, perche è ancora possibile lottare, non arrendersi, impegnarsi perché - come scrisse Rita Atria - “se ognuno di noi prova a cambiare forse ce la faremo”. Perché Peppino Impastato non è un laico santino per un giorno ma è un fuoco che ci deve ardere dentro, imponendoci di non rassegnarci, di non essere complici, di mettere a nudo ogni mafia e mafiosetta piccola o grande che sia. Un fuoco che dobbiamo far ardere anche per chi non sa neanche che esiste, per chi lo ha spento. E se a qualcuno darà fastidio, se qualche borghese in poltrona e alla finestra sarà infastidito, se i moralisti a basso prezzo ci sentono come minaccia e li turbiamo, è una soddisfazione in più.
Le accuse del comboniano
Missionario anticamorra
Padre Alex Zanotelli torna a denunciare i mali della criminalità organizzata a Napoli e i troppi silenzi. Anche della Chiesa. Un’esposizione pubblica che ha indotto i missionari comboniani, riuniti a Roma per l’Assemblea generale, a scrivergli un messaggio di solidarietà “per il delicato momento che stai vivendo”.
di NIGRIZIA, 17 settembre 2015
Napoli e la camorra. Infuocano le polemiche sulle parole della presidente della Commissione antimafia, Rosy Bindi, che ha definito «la camorra un dato costitutivo della città». Un’affermazione che ha acceso un aspro dibattito è nel quale è intervenuto anche padre Alex Zanotelli, che ha la sua missione nel quartiere Sanità di Napoli: «Il presidente Bindi non ha mai parlato di “dna”. Ma ha veramente ragione; non si può capire la storia di Napoli senza fare la storia della camorra. La sua frase potrà essere percepita come un pugno nello stomaco, lo è. Ma mi auguro che questa affermazione aiuti tutti noi a reagire».
Anche le parole del comboniano - pronunciate in occasione del funerale di Genny Cesarano, il 17 enne ucciso a colpi di arma da fuoco la notte del 5 settembre - avevano sollevato polveroni polemici. «La gravità di questo momento - aveva dichiarato dall’altare - è il sangue versato sulle nostre strade. In una città dove c’è violenza, discordia, frode e oppressione, il risultato è la morte. Le nostre mani grondano sangue e tutti noi, Chiesa compresa, dobbiamo assumerci le nostre responsabilità». «Questa è una città - aveva proseguito - spaccata in due. C’è una Napoli bene e una Napoli che vive malamente. Non possiamo accettare una città sventrata, fatta di Scampia, Rione Traiano e Soccavo e un’altra città fatta di Vomero». Ha infine chiesto alle istituzioni che «il popolo della Sanità sia messo in condizione di rialzare la testa. Tutte le istituzioni devono darci una mano, perché così, e solo così, possiamo vivere e non morire».
Una riflessione che padre Alex - insieme a don Antonio Loffredo e don Giuseppe Rinaldi, parroci di Santa Maria alla Sanità-Napoli - ha poi approfondito in una lettera aperta, nella quale torna a puntare il dito contro la Chiesa che deve diventare «sempre più comunità attiva sul territorio, che diventi popolo di Dio, capace di alzare la testa. Questo è un dovere di noi preti. Noi stiamo provando da anni, fra mille difficoltà, a camminare con questo nostro popolo. Al di là di una povertà diffusa, c’è un consumismo che azzera le coscienze nella formazione dei nostri figli più giovani, e una violenza che serpeggia sulle strade di questo rione.
Parole che hanno esposto pubblicamente padre Zanotelli, da anni impegnato in lotte sociali contro le ineguaglianze, le ingiustizie, la povertà e per il diritto all’acqua. Il comboniano ha comunque trovato, in questi giorni, il conforto e la solidarietà dei membri della sua congregazione. Riuniti a Roma in assemblea per il Capitolo generale della congregazione, i 62 rappresentanti dei missionari comboniani provenienti da venti nazionalità e operanti in vari paesi d’Africa, America, Asia e Europa si sono esposti sostenendo le battaglie di Zanotelli, per la rinascita del quartiere Sanità e apprezzando le parole di denuncia contro la camorra. «Caro Alex - scrivono i missionari - desideriamo esprimere il pieno sostegno al tuo impegno nel Rione Sanità di Napoli per la valorizzazione della vita e della dignità umana in una realtà marcata dalla cultura della violenza e dominata dalla criminalità organizzata».
«Abbiamo apprezzato il coraggio delle tue parole nella denuncia della camorra durante i funerali del minorenne Jenny, ennesima vittima della violenza criminale, e il tuo invito alla comunità del Rione Sanità a non rassegnarsi, ad alzare la testa e darsi da fare per costruire un’altra Napoli capace di guardare al futuro con speranza».
«Consapevoli del delicato momento che stai vivendo ti assicuriamo la nostra vicinanza e il ricordo nella preghiera perché il Signore ti accompagni e ti protegga nel fare “causa comune” con donne e uomini di buona volontà per la rinascita del quartiere della Sanità».
L’eucaristia mafiosa. La voce dei preti
di Paola Bisconti (Linkiesta /Blog post del 17/01/2015)
Il mondo mafioso non è fatto solo di omicidi e traffici globalizzati, ma anche di un tipo di cultura che ruota intorno a madonne, santi e riti parareligiosi. Partendo da questa lucida analisi Salvo Ognibene affronta nel suo libro “L’eucaristia mafiosa. La voce dei preti” pubblicato da Navarra Editore, una tematica di fondamentale importanza per addentrarsi nell’esplorazione di quell’universo criminale che si rivela sempre più complesso e per questo da non sottovalutare.
L’aurea religiosa che aleggia in un contesto delinquenziale dettato da regole rigorosissime sorprende, stupisce e indigna. Ci si interroga infatti su come sia possibile la legittimazione del male attraverso l’uso improprio della religione. Questa distorsione messa in atto dall’uomo mafioso in particolare nelle regioni del sud Italia dove è peraltro fortemente sentito il culto religioso tanto da parlare di “questione meridionale cattolica” ci lascia supporre una serie di quesiti disvelati ampiamente nel testo.
Come hanno potuto gli uomini di Chiesa, i servi di Dio, i portatori della parola del Vangelo concedere fastose cerimonie funebri ai boss che in vita hanno seminato odio e violenza? Come hanno potuto lasciare che le più sentite feste religiose diventassero occasione perché i cittadini anche quelli onesti, manifestassero riverenza ai capi clan? Come hanno permesso il ritrovo di affiliati e adepti nei santuari per svolgere dei summit durante i quali si decideva sulla vita e sulla morte delle persone?
Nei cinque capitoli de “L’eucaristia mafiosa” preceduti dalla prefazione di Antonio Nicaso nella quale lo storico ribadisce come la Chiesa sia stata per molto tempo silente e apatica nella lotta contro la mafia e seguiti dalla postfazione di Rosaria Cascio, presidente dell’Associazione P. Pino Puglisi”, che sottolinea la peculiarità del libro in grado di chiarire “il perché dei ritardi di una Chiesa ancora troppo impastata di mondana corruzione, ancora troppo intrisa di errori e peccato”, si colgono molteplici aspetti di connessione tra due mondi che dovrebbero invece essere agli antipodi.
“A me non interessa sapere se Dio esiste” diceva don Peppe Diana “interessa sapere da che parte sta”. È dall’esempio di un prete lungimirante che i fedeli e i loro pastori in primis sono chiamati a mettere in pratica le parole delle Sacre Scritture.
Nel libro di Salvo Ognibene ampio spazio è dedicato a quei sacerdoti che hanno lottato strenuamente contro la mafia schierandosi con la verità come don Pino Puglisi ma anche altri che ogni giorno combattono instancabilmente. Tra le pagine sono ricordati altresì quei preti dimenticati e coloro che attualmente come don Maurizio Patriciello, don Luigi Ciotti, padre Alex Zanotelli e molti altri ancora rappresentano la parte più bella di una Chiesa che non si arrende e non si lascia corrompere.
Mafia e Chiesa quindi sono due poteri che hanno spesso camminato a braccetto ignorando, sottovalutando o peggio ancora ostacolando l’impegno dei pochi che avevano intuito come il dilagare delle organizzazioni criminali rappresentasse “l’inquinamento morale dell’Italia”. Sebbene l’anatema di Giovanni Paolo II pronunciato nella Valle dei Templi, ad Agrigento, nel 1993, abbia contribuito a svegliare le coscienze dei corrotti, c’è ancora tanto da fare per frenare le infiltrazioni mafiose nell’ambito religioso.
Le numerose informazioni presenti nel libro, frutto di un accurato studio e di una meticolosa ricerca da parte dell’autore, sono un’esortazione per tutta quella gente che solo attraverso il coraggio dei loro pastori può ritrovare il proprio. C’è un bisogno urgente di coerenza e credibilità per portare avanti una battaglia in nome di una giustizia che sia divina ma prima ancora terrestre.
Casal di Principe nel ricordo di don Diana
di Antonio M. Mira (Avvenire, 9 giugno 2014)
"Ho avuto lo sfortuna di vederlo morto quella mattina di 20 anni fa. Oggi è risorto, sta qui, sta insieme a noi, siete tutti voi don Peppe Diana". Queste le prime parole del nuovo sindaco di Casal di Principe, Renato Natale, amico del parroco ucciso dalla camorra il 19 marzo 1994, e già allora primo cittadino del paese simbolo del potere camorristico.
Sindaco per appena dieci mesi, anche lui nel mirino del clan che aveva progettato l’omicidio, poi costretto a dimettersi dalla sua stessa maggioranza. Per tutti questi anni è stato il medico degli immigrati, impegnato sul territorio con Libera e il Comitato don Peppe Diana.
Ora il ritorno nel municipio dopo la vittoria al ballottaggio con più del 68% dei voti alla guida di due liste civiche, trasversali (nel 1994 vinse col Pci), fatte soprattuto di giovani provenienti dalle associazioni e dalle professioni. Un elezione che guarda al passato e anche al futuro.
Memoria e impegno. "La nuova identità di questa città - dice ancora Natale - si deve basare proprio sul ricordo di chi ci ha lasciato per combattere contro la camorra, dando la vita per tutti noi. Questa è la nuova immagine di Casal di Principe. Ma ora - aggiunge - bisognerà dare risposte a tante attese e non sarà facile". Intanto è festa. Compare un cartello con la scritta "Casal di Principe: qui la Camorra ha perso!".
Renato indossa la fascia tricolore dopo averla baciata. Poi tutti per le strade. La gente si affaccia, applaude. C’è chi apparecchia davanti casa i "tavolini" come in occasione dei matrimoni. Ma Renato ha un’ultima tappa da raggiungere. È San Nicola, la chiesa di don Peppe. Si brinda davanti alla targa che ricorda quella frase per la quale il sacerdote pagò con la vita: "In nome del mio popolo non tacerò". Un popolo che domenica ha scelto di cambiare. "Dopo 20 anni il tuo popolo siamo noi". E non solo qui. Anche in un altre paese simbolo della camorra, Castel Volturno, vince un sindaco del cambiamento, sostenuto dal mondo dell’antimafia, Dimitri Russo. E allora, come recita un altro cartello che cita la canzone di Rocco Hunt, davvero "oggi è nu juorn buon!".
I preti e i boss
di Roberto Saviano (la Repubblica, 22 marzo 2014)
Le parole pronunciate dal Papa sono parole definitive. Tuonano forti non a San Pietro dove saranno risultate naturali, persino ovvie. Tuonano epocali a Locri, Casal di Principe, Natile di Careri, San Luca, Secondigliano, Gela.
E in quelle terre dove l’azione mafiosa si è sempre accompagnata ad atteggiamenti religiosi ostentati in pubblico. Chi non conosce i rapporti tra cosche e Chiesa potrà credere che sia evidente la contraddizione tra la parola di Cristo e il potere mafioso. Non è così. Per i capi delle organizzazioni criminali il loro comportamento è cristiano e cristiana è l’azione degli affiliati. In nome di Cristo e della Madonna si svolge la loro vita e la Santa Romana Chiesa è il riferimento dell’organizzazione.
Per quanto assurdo possa apparire il boss - come mi è capitato di scrivere già diverse volte - considera la propria azione paragonabile al calvario di Cristo, perché assume sulla propria coscienza il dolore e la colpa del peccato per il benessere degli uomini su cui comanda. Il “bene” è ottenuto quando le decisioni del boss sono a vantaggio di tutti gli affiliati del territorio su cui comanda. Il potere è espressione di un ordine provvidenziale: anche uccidere diventa un atto giusto e necessario, che Dio perdonerà, se la vittima metteva a rischio la tranquillità, la pace, la sicurezza della “famiglia”.
C’è tutta una ritualità distorta di provenienza religiosa che regola la cultura delle cosche. L’affiliazione alla ‘ndrangheta avviene attraverso la “santina”, l’effigie di un santo su carta, con una preghiera. San Michele Arcangelo è il santo che protegge le ‘ndrine: sulla sua figura si fa colare il sangue dell’affiliato nel rito dell’iniziazione. Padre Pio è il santo la cui icona è in ogni cella di camorrista, in ogni casa di camorrista, in ogni portafoglio di affiliato.
Nicola, ex appartenente al clan Cesarano ha raccontato: “Mi sono salvato una volta, quando ero giovane, perché un proiettile è stato deviato. I medici mi hanno detto che è stata una costola a evitare che il colpo fosse mortale. Ma io non ci credo. Quello che mi ha sparato mi ha sparato al cuore, non è stata la costola, è stata la Madonna”.
La Madonna, oggetto di preghiere: è a lei che ci si rivolge per sovrintendere gli omicidi. In quanto donna e madre di Cristo sopporta il dolore del sangue e perdona. Rosetta Cutolo veniva trovata in chiesa nelle ore delle mattanze ordinate da don Raffaele: pregava la Madonna di intercedere presso Cristo per far comprendere che la condanna a morte e la violenza era necessaria.
A Pignataro Maggiore esiste “la madonna della camorra” che il defunto boss Raffaele Lubrano ucciso in un agguato nel 2002, fece restaurare a sue spese, nella sala Moscati attigua alla chiesa madre. Anche Giovanni Paolo II aveva pronunciato - il 9 maggio del 1993 ad Agrigento - un attacco durissimo alla mafia: “convertitevi una volta verrà il giudizio di Dio”. Due mesi dopo i corleonesi misero una bomba a San Giovanni in Laterano.
Ma Francesco I non parla solo a chi spara: ha abbracciato i parenti delle vittime della mafia, ha abbracciato don Luigi Ciotti, un sacerdote che non era mai stato accolto da un pontefice in Vaticano e con Libera è diventato l’emblema di una chiesa di strada, che si impegna contro il potere criminale. La chiesa di don Diana, che fu lasciato solo a combattere la sua battaglia.
Oggi Francesco invita a stare a fianco dei don Diana. Le sue parole rompono l’ambiguità in cui vivono quelle parti di chiesa che da sempre fanno finta di non vedere, che sono accondiscendenti verso le mafie, e che si giustificano in nome di una “vicinanza alle anime perdute”.
Gli affiliati non temono l’inferno promesso dal Papa: lo conoscono in vita. Temono invece una chiesa che diventa prassi antimafiosa. Le parole di Francesco I potranno cambiare qualcosa davvero se la borghesia mafiosa sarà messa in crisi da questa presa di posizione, se l’opera pastorale della chiesa davvero inizierà a isolare il danaro criminale, il potere politico condizionato dai loro voti. Insomma se tutta la chiesa - e non solo pochi coraggiosi sacerdoti - sarà davvero parte attiva nella lotta ai capitali criminali. Dopo queste parole o sarà così o non sarà più Chiesa.
Don Ciotti al papa: anche la Chiesa ha colpe
di Luca Kocci (il manifesto, 22 marzo 2014)
Ascoltando il lungo elenco dei nomi delle donne e degli uomini uccisi dalle mafie che è stato letto ieri pomeriggio durante la veglia in memoria delle vittime promossa dall’associazione Libera e a cui ha partecipato anche papa Francesco - che ha rinnovato l’appello di Wojtyla ai mafiosi nella valle templi di Agrigento nel maggio 1993: «Convertitevi!» - si ha l’impressione di attraversare un pezzo oscuro della storia d’Italia.
C’è Emanuele Notarbartolo, politico palermitano ucciso nel 1893, il primo delitto “eccellente” di mafia, quando c’era ancora il Regno d’Italia e già i primi scandali bancari. Poi Placido Rizzotto, il sindacalista della Cgil ammazzato a Corleone nel 1948, sul cui omicidio indagò anche un giovanissimo Carlo Alberto Dalla Chiesa, destinato ad essere ucciso anche lui, insieme alla moglie, quando era prefetto di Palermo, nel 1982. Peppino Impastato e Radio Aut, dai cui microfoni il giovane miliante di Democrazia proletaria denunciava gli affari di Tano Badalamenti, dei mafiosi e dei democristiani di Cinisi. Giorgio Ambrosoli e i misteri del Banco Ambrosiano e dello Ior. Poi Falcone, Borsellino, e tanti altri, fino ad Angelo Vassallo, il sindaco di Pollica ammazzato 4 anni fa e su cui la magistratura ancora sta indagando.
Bergoglio prende la parola subito dopo aver ascoltato gli 842 nomi letti da alcuni dei famigliari delle vittime, ma anche da Tareke Brhane, rifugiato e mediatore culturale a Lampedusa, e dall’ex procuratore generale di Torino Giancarlo Caselli, che chiude l’elenco. «Cambiate vita, fermatevi di fare il male, convertitevi per non finire all’inferno», dice il papa nel suo breve discorso, rivolgendosi «agli uomini e alle donne delle mafie». «Il potere e il denaro che avete è frutto di affari sporchi e crimini, è insanguinato». E ai familiari delle vittime: «Voglio condividere con voi la speranza che il senso di responsabilità piano piano vinca sulla corruzione, deve partire dalle coscienze e risanare le relazioni, le scelte, il tessuto sociale cosicché la giustizia prenda il posto dell’iniquità».
Nella chiesa di San Gregorio VII, a due passi dal Vaticano, i familiari delle vittime innocenti uccise dalle mafie sono 900, insieme ai ragazzi di Libera, al presidente del Senato Pietro Grasso, alla presidente della Commissione antimafia Rosy Bindi e al procuratore nazionale antimafia Franco Roberti. La chiesa è piena, ci sono anziani che hanno perso figlie e figli, ci sono i giovani e anche qualche bambino che hanno avuto le loro madri e i loro padri uccisi. Volti conosciuti, come quello di Maria Falcone - la sorella del magistrato fatto saltare in aria insieme alla moglie Francesca Morvillo e agli uomini della scorta -, i fratelli di don Puglisi e don Diana, il figlio di Pio La Torre.
E poi tante storie meno note ma ugualmente drammatiche, come quella del crotonese Giovanni Gabriele, il padre di Domenico, morto il 20 settembre 2009, dopo 85 giorni di coma, colpito insieme ad altri ragazzi, mentre giocavano a calcio, dai killer della ‘ndrangheta che erano andati lì per uccidere Gabriele Marrazzo. Da qualche anno Giovanni Gabriele gira l’Italia ed entra nelle scuole a parlare di legalità e di giustizia agli adolescenti. E partecipa alla Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime delle mafie promossa da Libera e da Avviso pubblico, «perché è importante tenere viva la memoria», ci dice prima di entrare in chiesa.
Oggi, insieme agli altri 900 familiari, sarà a Latina per le manifestazioni della Giornata e sfilerà per le strade del capoluogo pontino con la foto di suo figlio appesa al collo, come facevano e fanno le madres dei desaparecidos argentini. «Le persone che sono qui hanno storie e riferimenti diversi. Ma sono accomunate dal bisogno di verità e di giustizia, un bisogno che per molti è ancora vivo e lacerante», dice don Ciotti durante il suo intervento in cui ricorda non solo i morti di mafia. «Vogliamo ricordare anche le vittime del lavoro, perché un lavoro non tutelato, svolto senza le necessarie garanzie di sicurezza, è una violazione della dignità umana. E così pure le vittime degli affari sporchi delle mafie. Le persone colpite da tumori in territori avvelenati dai rifiuti tossici. Quelle che hanno perso la vita per l’uso delle droghe spacciate dai mercanti di morte. Le migliaia d’immigrati annegati nei mari o caduti nei deserti. Le donne e le ragazze vittime della tratta e della prostituzione». Ma «il problema delle mafie non è un problema solo criminale. Se così fosse, basterebbero le forze di polizia, basterebbe la magistratura - aggiunge -. È un problema sociale e culturale, che chiama in causa responsabilità pubbliche, spesso degenerate in poteri privati, e responsabilità sociali accantonate in nome dell’individualismo». Allora servono «politiche sociali, posti di lavoro, investimenti sulla scuola» e soprattutto «una politica che torni a essere servizio del bene comune».
Anche la Chiesa ha delle responsabilità, lo dice don Ciotti. «In passato, e purtroppo ancora oggi, non sempre la Chiesa ha mostrato attenzione a un problema di così enormi risvolti umani e sociali. Silenzi, resistenze, sottovalutazioni, eccessi di prudenza, parole di circostanza». Ma anche numerosi esempi e testimonianza positive, come quella don Peppe Diana, parroco di Casal di Principe, ucciso dalla camorra 20 anni fa, il 19 marzo 1994. E la sua stola viene regalata da don Ciotti a Bergoglio. Oggi la Giornata continua con la manifestazione a Latina, dove sono attese 50mila persone da tutta Italia
La mia strada con don Diana
di Renato Natale (il Fatto Quotidiano, 20 marzo 2014)
Giusto oggi mi ha mandato una foto mio fratello su Whats App. Lui era nel salotto di casa nostra, a Casal di Principe. E di fianco c’era un ragazzino: don Peppe. Credo di averla scattata io quella foto, ma è passato tanto di quel tempo. Don Peppe Diana aveva qualche anno meno di me, ma ci siamo conosciuti giovanissimi. Successivamente non ci siamo frequentati molto, perché lui stava in seminario.
Ci siamo poi ritrovati, all’inizio degli anni 70, durante un pellegrinaggio a Lourdes, entrambi barellieri. E poi ancora, nel 1983, dopo un eccidio di camorra, organizziamo a Casal di Principe una prima iniziativa contro la camorra; producemmo un volantino che si intitolava “BASTA CON LA PAURA”; avevamo costituito un comitato per la pace contro la criminalità organizzata, e don Peppe, allora segretario del Vescovo di Aversa, ci diede una mano nell’organizzazione. Io, all’epoca, guidavo la sezione del Pci che giusto l’anno prima avevamo intitolato a Pio La Torre, ammazzato dalla mafia in Sicilia.
Era successo che, verso la fine del 1982, dal paese erano spariti tre ragazzi. Erano stati ritrovati carbonizzati in una macchina all’inizio dell’83. Così quella nostra manifestazione si caricò di significati pesanti. Tanto che il proprietario del cinematografo Olimpo, che doveva ospitarci, alla fine decise che non fosse il caso. Ci spostammo nella sala del consiglio comunale. Erano presenti don Riboldi, Abdon Alinovi, presidente della commissione antimafia, Di Donato, vicesindaco a Napoli nell’amministrazione di Maurizio Valenzi. Quella manifestazione si svolse in un clima di accerchiamento, e con poche persone in sala, ma fu un primo esempio di resistenza che cominciava a svilupparsi in questa terra.
Ci ritrovammo ancora, con don Peppe, nell’88, quando all’indomani dell’assalto della caserma dei carabinieri a San Cipriano d’Aversa, costituimmo un coordinamento anticamorra dell’agro aversano; ci riunivamo presso un club di jazz di una qualche fama: il Lenni Tristano; producemmo un documento dal titolo Liberiamo il futuro, con analisi e denunce di straordinario valore. Fu sottoscritto da parroci, partiti politici e associazioni. In quell’occasione a Casale organizzammo, io e don Peppe nel frattempo diventato viceparroco della Chiesa del SS. Salvatore, un’altra grande manifestazione, questa volta con una fiaccolata che attraversò il centro della città. Attorno c’era qualche guaglione che ti guardava storto o sputava per terra mentre passavi. Eppure la gente ci seguì numerosa: erano centinaia.
Già da allora Peppe non era uno che rimaneva in sacrestia: andava in giro, recuperava i ragazzi e aveva iniziato a interessarsi anche della nuova e grande questione dell’immigrazione. Alla camorra non piaceva quella chiesa così attiva sul territorio. E non dimentichiamoci che erano organizzati. Se entravi in un bar non era impossibile che trovassi il ragazzetto del clan che diceva a mezza bocca: “Chissà quello che ci guadagna”. Anche la calunnia diventa un’arma di questa guerra. Ma certo è difficile calunniare un prete che parla dall’altare. E così qualcuno esplose diversi colpi contro la canonica (non lontano dalla stanza dove dormiva don Peppe), e altri rubarono l’altare maggiore del ‘600 della Chiesa dello Spirito Santo, dove la nostra fiaccolata si era conclusa.
Dopo la morte dell’ennesimo innocente (un giovane testimone di Jeovha ucciso per sbaglio), Don Peppe fa della lotta alla camorra un impegno costante e continuo. E non solo a Casale: va in giro per scuole e associazioni a Caserta e a Napoli; il tutto culmina con la pubblicazione di quello straordinario documento di denuncia ed impegno che fu Per amore del mio popolo distribuito nella notte di Natale del ‘91.
IL 19 MARZO DEL 1994, ero sindaco della città da quattro mesi, ricordo che stavo preparando il caffè in cucina quando mi chiama qualcuno per dirmi che avevano sparato a un prete. Chiedo chi è. Mi dice che è don Peppe. Stacco il telefono. Mia moglie arriva e mi chiede che è successo. Le dico: “Prendi le valigie e andiamo via di qua. Qua non si può vivere”. Ma è solo un attimo. Sono il sindaco, mica posso andare via. Mi precipito verso quella chiesa alla periferia del paese. Non ricordo nemmeno come arrivai.
L’immagine che ho in testa è quella di un carabiniere che apre la porta. Vedo in terra quel corpo senza vita. Provo paura, rabbia, desiderio di vendetta. Poi mi dico che quella non deve essere una morte inutile. Per anni io e con me sempre più compagni di viaggio, ci siamo battuti per ricordare la sua figura, e nel suo nome far crescere una comunità alternativa a quella criminale, e liberare le nostre terre dalla dittatura militare che ha tenuto sotto scacco la nostra gente per trent’anni. Oggi, quelle migliaia di persone in piazza a Casale per ricordarlo, ci dicono che un pezzetto di quella guerra l’abbiamo vinta.
Il papa accoglie Libera e «benedice» l’antimafia
di Luca Kocci (il manifesto, 16 marzo 2014)
Papa Bergoglio incontrerà i familiari delle vittime delle mafie venerdì prossimo, nella parrocchia romana di San Gregorio VII, a due passi dal Vaticano, durante una veglia di preghiera organizzata dall’associazione Libera, fondata da don Ciotti, in occasione della XIX Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime delle mafie.
Ci saranno circa 700 parenti di donne e uomini uccisi dalle organizzazioni mafiose. Insieme a loro don Ciotti, i referenti regionali di Libera ed alcuni rappresentanti delle 1.500 associazioni che vi aderiscono.
Il giorno dopo - ma qui Bergoglio non sarà presente - a Latina si svolgerà la manifestazione per le vittime, con la consueta lettura dal palco dei nomi di tutti i morti ammazzati per mano mafiosa, da Emanuele Notarbartolo (politico palermitano ucciso nel 1893, il primo delitto “eccellente” di mafia), fino a Nicola Campolongo, il bambino di 3 anni ucciso e bruciato a Cassano allo Ionio nello scorso gennaio.
La decisione di papa Francesco di accettare l’invito di don Ciotti - che a gennaio aveva già incontrato il papa a Santa Marta - a partecipare alla Giornata per le vittime ha un forte valore simbolico che, dopo la beatificazione di don Puglisi, proclamato martire vincendo non poche resistenze curiali lo scorso 25 maggio (sotto il pontificato di Bergoglio, sebbene la decisione sia stata di Ratzinger nel giugno 2012), amplia il solco che la Chiesa sta cercando di scavare per distanziarsi dalle organizzazioni mafiose, dopo decenni di silenzi, omissioni e, in qualche caso, vere e proprie collusioni.
Basti ricordare, fra gli episodi più eclatanti, quello del cardinale di Palermo Ernesto Ruffini, che all’indomani della strage di Ciaculli dell’estate 1963 respinse l’invito della Segreteria di Stato vaticana (era papa Paolo VI) di prendere un’iniziativa pubblica contro la mafia - come aveva fatto il pastore valdese della città, Pietro Valdo Panascia - scrivendo che associare la «cosiddetta mafia» alla Chiesa «è una supposizione calunniosa messa in giro dai socialcomunisti» che, per interessi propri, «accusano la Democrazia cristiana di essere appoggiata dalla mafia». Insomma meglio la mafia del comunismo, tanto più che, riteneva il cardinale, «trattasi di delinquenza comune e non di associazione a largo raggio».
Oppure, secondo le testimonianze del pentito Francesco Marino Mannoia (rilanciate in questi giorni dalla riedizione, da parte di Chiarelettere, dell’inchiesta di Maria Antonietta Calabrò, Le mani della mafia ), il riciclaggio dei capitali di Cosa Nostra attraverso lo Ior di Marcinkus.
E poi, a livelli più bassi, la partecipazione in prima fila dei boss alle cerimonie - dai battesimi ai matrimoni - e alle processioni religiose, utilizzate come occasioni per rafforzare il proprio consenso sociale e quindi il proprio potere, con la benedizione del clero; i santuari trasformati in luoghi di incontro delle famiglie mafiose, come quello della Madonna di Polsi in Aspromonte; fino alla ritualità dei codici mafiosi, tratta direttamente dalla simbologia cattolica.
È un dato però che negli ultimi anni ci sia stato un cambio di direzione da parte della Chiesa, perlomeno in certi settori: lo storico anatema contro i mafiosi di papa Wojtyla nella Valle dei templi di Agrigento nel maggio del ’93; l’azione di alcuni vescovi “di frontiera”, da Riboldi ad Acerra, a Nogaro a Caserta, a Bregantini a Locri; ma soprattutto gli omicidi di don Puglisi per mano di Cosa Nostra nel settembre ’93 e di don Diana, il parroco di Casal di Principe ucciso dalla Camorra il 19 marzo 1994, esattamente 20 anni fa.
E se una parte di Chiesa ha proseguito a mantenere una condotta omissiva o connivente - perché spesso i boss continuano a guidare le processioni o fare i padrini di battesimo - altri hanno marcato le distanze: dal vescovo di Acireale, Raspanti, che ha vietato nella diocesi i funerali religiosi ai condannati per mafia, ai diversi preti oggetto di intimidazioni e attentati per la loro azione antimafia, soprattutto in Calabria. La decisione di Bergoglio di partecipare alla Giornata per le vittime di mafia rafforza queste scelte.
Don Diana, Francesco e terra dei fuochi
Sacrificio e custodia
di Maurizio Patriciello (Avvenire, 20 marzo 2013)
Sono passati diciannove anni da quando don Peppe Diana, a pochi passi dall’Altare, cadeva sotto i colpi esplosi da una vile mano assassina armata dalla camorra. Don Peppino. Il suo nome rimane in benedizione nella Chiesa di Aversa, fiera di annoverarlo tra i suoi figli migliori. Il suo sacrificio ha dato al nostro territorio martoriato nuovo slancio e nuovo vigore per continuare a combattere la battaglia contro il non-amore che è illegalità, sopraffazione, sopruso. Il sangue innocente di questo testimone della fede ha fatto germogliare in questi anni una schiera di persone e associazioni che, senza più paura, alzano testa e voce contro la camorra e contro tutte le mafie, palesi o occulte, che rubano spazio, libertà, respiro, dignità agli uomini creati a immagine di Dio. Per divina disposizione, papa Francesco ha celebrato la Messa di inaugurazione del suo pontificato nella solennità di san Giuseppe, anniversario della morte del giovane parroco di Casale.
Ascoltare la sua omelia è stato come bere un sorso di acqua fresca in una torrida giornata estiva. Un incanto. Sull’esempio di san Giuseppe, custode di Maria e del piccolo Gesù, il Papa ci ha invitato a riscoprire l’arte del custodire. «Giuseppe - ha detto - è custode perché sa ascoltare Dio». Custodire, dunque. Amori, amicizie. Custodire il Creato senza dimenticare la custodia di noi stessi. Il Papa si è fatto portavoce della intera umanità allorché ha chiesto, con voce ferma e dolce, ai grandi della Terra di avere a cuore il Creato. Qualche giorno fa, rammaricato, disse che «non sempre abbiamo un buon rapporto con esso». È risuonato forte, poi, il richiamo a non aver paura. A essere dunque coraggiosi. «Non abbiate paura della bontà e nemmeno della tenerezza, che non è virtù dei deboli. Al contrario...».
Apprendiamo la lezione. Impariamo a dire a chi ci tiene compagnia a casa, a scuola, sul posto di lavoro: «Tu mi sei caro. Tengo tanto alla tua amicizia. Aiutiamoci a farci del bene...». Non basta infatti solo pensarlo e nemmeno lasciarlo immaginare. Occorre dirlo e ripeterlo. Magari accompagnando le parole con piccoli gesti giusti. Proprio come sta facendo papa Francesco. Al figlio che esce la mattina i genitori, benedicendolo, ricorderanno: «Tu ci sei prezioso più dell’oro... la nostra gioia dipende anche dalla tua. Abbiamo bisogno di te, delle tue parole, delle tue smorfie, dei tuoi silenzi, dei tuoi capricci...». E imitando il gesto del Papa: «Figlio, benedicici per primo...».
La giornata sotto il segno della benedizione, della preghiera e dell’amore manifestato comincia sotto i migliori auspici. «Odio, invidia, superbia sporcano la vita», ha continuato il Papa. Perciò occorre vigilare sul nostro cuore. Chiedere, come insegna sant’Ignazio, a ogni pensiero a ogni fantasia che si affacciano nell’animo: «Chi sei? Da dove vieni? Chi ti manda?». Per essere pronti a spalancar loro la porta se vengono da Dio o a sbarrargliela senza indugio se il mandante è il nemico delle anime nostre. Discernimento, dunque. Magari sotto la guida di un buon padre spirituale. Non occorre aver paura nemmeno del potere ricordando, però, che «non c’è vero potere che non sia servizio». Innanzitutto, ai più poveri, ai più deboli.
Anche noi uomini e donne campani della "terra dei fuochi" abbiamo gioito per ogni parola di papa Francesco, accogliendo con particolare speranza quelle espresse sulla salvaguardia del Creato. Noi che paghiamo un prezzo altissimo in vite umane per l’avvelenamento continuo del nostro territorio con rifiuti e roghi tossici sentiamo di avere nel vescovo di Roma una guida e un amico che ci aiuterà a uscire dalla trappola in cui siamo stati cacciati da chi ancora non riesce a comprendere che maltrattare la terra, avvelenare l’acqua, rendere sporca l’aria vuol dire uccidere anche l’uomo.
Maurizio Patriciello
“Signora a chi?”.E il prefetto umilia il prete anti-roghi
di Stefano Caselli (il Fatto Quotidiano, 21 ottobre 2012)
Non sembra aver capito nulla il prefetto di Napoli Andrea Di Martino, che venerdì ha pubblicamente umiliato il parroco di Caivano, don Maurizio Patriciello, “reo” di essersi rivolto al prefetto di Caserta Carmela Pagano chiamandola “signora”: “Ho dovuto evidenziare - insiste De Martino - che per il rispetto istituzionale quell’appellativo non era giusto”. Tralasciando il passaggio in cui il prefetto tuona contro don Maurizio chiedendogli “se io la chiamerei signore lei cosa penserebbe”, vien da chiedersi a cosa pensi De Martino quando parla di istituzioni. Per rendersene conto, forse, potrebbe passare un intero pomeriggio in compagnia di don Maurizio nella sua parrocchia del quartiere “città verde” (sembra una presa in giro, ma si chiama davvero così) di Caivano, grande periferia nord di Napoli.
Vedrebbe meglio le ceneri dei roghi di rifiuti tossici smaltiti illegalmente dovunque, scoprirebbe i cumuli di copertoni - chiaro avvertimento della criminalità organizzata - pronti a bruciare anche di fronte alla chiesa. Respirerebbe meglio l’odore acre della diossina che la gente di Caivano e di decine di altri comuni è costretta a respirare ogni giorno.
Vedrebbe don Maurizio passarsi un fazzoletto bianco sulla fronte sudata per ritrovarselo annerito tra le mani. Vedrebbe la gente della sua parrocchia in fila per un pacco di pasta e qualche altro genere alimentare, ascolterebbe le loro storie raccontate con discrezione dal sacerdote (“A volte - raccontava quest’estate don Patriciello al Fatto Quotidiano - non ho nemmeno il coraggio di guardarli in faccia. Nel Vangelo c’è scritto di dare da mangiare agli affamati e da bere agli assetati. Questo forse lo facciamo ancora, ma l’aria? Senza cibo si può resistere anche per giorni, ma senza aria si muore ogni minuto”). Ma soprattutto il prefetto, così ligio al decoro istituzionale, capirebbe che quel parroco di periferia, per quella gente, è la sola istituzione esistente. Il resto è solo fumo nero di roghi e di assenza; di bellezza, di responsabilità, di Stato.
Don Maurizio Patriciello è la voce pulita della città verde di Caivano, una zona in cui uno studio commissionato nel 2008 dalla Marina militare degli Stati Uniti proibisce (proibisce) ai cittadini americani di risiedere perché gravemente insalubre. Una voce che don Patriciello porta continuamente in giro dovunque, perché non è possibile rassegnarsi a vivere in una discarica a cielo aperto. Lo ha fatto anche in Prefettura ed è stato umiliato. Una scena da film di Totò. Ci sarebbe poco da sorridere, ma non è detto.
L’avvilente performance prefettizia è ora un video cliccato da migliaia di persone. Da oggi sarà più difficile ignorare la voce della “terra dei fuochi”, quelli che a ogni tramonto accendono il cielo di Caivano e uccidono lentamente i polmoni. A nord di Napoli è la norma. E meno male che le istituzioni tengono al decoro, altrimenti chissà che disastro.
“Quel prefetto mi ha tolto il diritto alla parola è su queste prepotenze che prosperano i clan”
intervista a don Maurizio Patriciello,
a cura di Stella Cervasio (la Repubblica, 22 ottobre 2012)
Don Maurizio, non sappiamo come chiamarla ...
«Basta anche solo il nome proprio ». È circondato da una folla plaudente, il parroco di Caivano Maurizio Patriciello, nella chiesa dove ha finito ora di dire la messa delle 20. Una conclusione tra gli applausi, dopo che ha commentato ancora il rimprovero del prefetto di Napoli, Andrea De Martino, nel corso di una riunione sui rifiuti tossici: «La mia collega lei deve chiamarla “prefetto”, non “signora”, perché così offende anche me».
IL sacerdote in serata ha voluto inviare una lettera al prefetto, ribadendogli di non aver voluto offendere Carmela Pagano, prefetto di Caserta, e di essere stato «in quella sede senza spirito polemico, solo per rappresentare una situazione di disagio». Il prefetto si è detto pronto ad incontrarlo.
E don Patriciello, dopo: «Mi dispiace per tanto clamore. Ora bisognerà continuare a lavorare insieme, come fatto finora». Perché sullo sfondo resta la protesta del prete-ecologista contro i roghi di rifiuti e la difesa della salute dei cittadini: «Meno male che una volontaria dell’associazione “La terra dei fuochi” ha fatto le riprese: una grazia di Dio».
Perché? «Sono anni che cerchiamo di far conoscere il problema del territorio a nord di Napoli, un posto avvelenato dove vengono bruciate e seppellite tonnellate di rifiuti industriali e tossici. Il prefetto ha cercato di non farmi parlare davanti a 70 persone, ma io lo devo ringraziare, perché questa storia ora la sanno dieci milioni di persone».
Perché un fenomeno così grave è poco conosciuto?
«Non interessa a nessuno. In quella riunione volevo raccontare di aver accompagnato un giornalista a fare foto a Succivo, nel casertano, dove da anni c’è amianto ormai sbriciolato e ora si sono aggiunte lastre di eternit. Il giorno dopo sono andato dal prefetto di Caserta, Carmela Pagano, senza appuntamento e non mi hanno fatto entrare. Ma io ho insistito, sono rimasto lì mezza giornata, e alla fine mi ha ricevuto. Ha tentato di tranquillizzarmi: “È tutto sotto controllo”».
Non ha pensato di offenderla omettendo il titolo?
«Ero convinto che fosse più elegante chiamarla “signora”. Ma non era quello il problema. Fino ad allora la riunione si era incentrata sui meriti delle forze dell’ordine. Mi sono adirato quando il prefetto ha detto che lo scempio avviene per l’inciviltà. Dietro i rifiuti tossici ci sono reati gravi, come l’evasione fiscale. Le donne malate di cancro sono aumentate del 47%. Quando ho visto che tutto veniva ridimensionato, ho chiesto la parola, e il prefetto non ha voluto darmela. Evidentemente voleva sminuire i fatti».
Ha parlato poi con il prefetto di Caserta?
«Le ho chiesto se si era sentita offesa, e lei ha risposto: “Reverendo, ma che dice...”. Però prima nessuno aveva aperto bocca. Ho scritto subito una lettera al prefetto di Napoli, in cui ho detto che su questo tipo di prepotenze, che possono verificarsi a tutti i livelli, si rischia di far nascere la malapianta della camorra che esagera e va oltre. Non si tolgono i diritti e la parola alle persone. Lui sapeva bene di che cosa ci occupiamo qui ogni giorno. E pensate che quando sono andati via, i nostri volontari hanno trovato anche la multa sul parabrezza dell’auto».
Don Diana, 20 anni dopo La denuncia e la speranza
di Antonio Maria Mira (Avvenire, 20 marzo 2012)
«In nome del mio popolo non tacerò». «Poiché il cielo rosseggia». Due citazioni della Bibbia, due titoli, due documenti. Denuncia e speranza. In mezzo venti anni. Dalla morte di don Peppe Diana, parroco di Casal di Principe ucciso dai killer della camorra il 19 marzo 1994, giorno del suo onomastico, e che nel Natale 1991 aveva presentato, assieme agli altri parroci della Forania, un forte documento di denuncia della camorra («Una forma di terrorismo che incute paura ») e di invito all’impegno («Le nostre comunità hanno bisogno di nuovi modelli di comportamento »).
Parole e sacrificio non vani. Oggi (ieri per chi legge, ndr) la sua chiesa, San Nicola, è stracolma di casalesi. Per la messa di ricordo presieduta dal vescovo di Aversa, Angelo Spinillo e concelebrata da decine di sacerdoti. Ma anche per la successiva presentazione di un documento, firmato dal vescovo e dai parroci, che rilancia le parole di don Peppe, «per continuare il cammino iniziato allora» alla luce di quanto accaduto in questi anni.
Sacrificio, dunque, perché è tale, sottolinea il vescovo, «la violenza con cui si toglie la vita a un sacerdote». «Una violenza disperata», la definisce monsignor Spinillo, contro «don Peppino», per «prevalere sulla vita degli altri, su chi è visto come ostacolo. E un sacerdote - afferma con nettezza il vescovo - è sempre un ostacolo per le logiche dell’interesse e del profitto». Don Peppe ostacolo per il potere camorrista.
Perché, come si legge nel nuovo documento, la gente «accolse positivamente», quanto scritto allora dal parroco e «pensò che finalmente si potesse parlare senza paura, cominciando davvero a sfatare la reticenza fino ad allora avuta nel pronunziare la parola camorra». Ma altri storcevano il naso. «Alcuni intellettuali, professionisti e qualche politico, esortarono noi sacerdoti a ritrattarlo, perché negli ambienti della camorra la cosa non era piaciuta». Non solo loro... Così con netta autocritica il documento ricorda anche come «i confratelli sacerdoti della Diocesi, pur condividendo in pieno l’iniziativa, erano preoccupati ed espressamente dicevano che eravamo stati eccessivamente coraggiosi».
Da allora molto è cambiato. «È mutata, soprattutto, la coscienza, da parte dello Stato e dei singoli cittadini circa la pericolosità, vastità e pervasività della criminalità organizzata». Così, proprio «la presa di coscienza, iniziata con l’assassinio di don Peppino Diana, ha aperto un impegnativo dibattito nella società civile: scuola, Chiesa e associazioni hanno promosso tante iniziative positive per il ripristino della legalità». Ma «non è stato e non è facile lottare contro una mentalità così insidiosa e radicata».
Da questo discendono alcune «legittime preoccupazioni». In primo luogo «talvolta i rappresentanti delle istituzioni pubbliche sono risultati coinvolti in azioni illegali smentendo, nei fatti, quanto affermato con le parole». In secondo luogo, per quanto riguarda il ruolo dello Stato, «una mera repressione» si può rivelare «insufficiente nello sconfiggere le cause del fenomeno criminale ». Bisogna «investire di più sull’educazione e sullo sviluppo» e «debellare le piaghe dell’ignoranza, della mancanza di senso civico e il disinteresse per il bene comune che tanta parte hanno avuto nell’affermazione ed espansione della camorra in queste zone». C’è poi da intervenire sulla «drammatica situazione occupazionale» che apre «spazi ad attività illegali». Anzi, denuncia il documento, i disoccupati «giungono a rimpiangere pericolosamente i tempi in cui “la camorra dava loro da vivere”».
Bisogna «ridare fiducia ai nostri giovani» che «non riescono a scrollarsi di dosso il marchio che ormai caratterizza l’essere casalese». Anche perché i mezzi di informazione «continuano a non dare la giusta importanza agli eventi positivi presenti nei nostri territori».
Ma come Gesù che invitava a vedere nel rosseggiare del cielo il segno del bel tempo, i sacerdoti casalesi e il loro vescovo, invitano a guardare «i segni del rinascere della nostra terra, delle nostre comunità nelle quali vogliamo essere partecipi di una nuova primavera di vita».
Così, concludono, «vogliamo essere vicini ai tanti che si impegnano nel servizio della società e cooperano al bene comune; ai tanti che tendono a sostenere chi non ha alcun sostegno o tutela alla propria vita; ai tanti che testimoniano e propongono un’appassionata attenzione alla pulizia da ogni inquinamento; ai tanti che mostrano coerenza nel vivere con onesto senso della giustizia il proprio impegno di cittadini». Perché «il sacrificio di don Peppino Diana è annunzio che genera desiderio di vera libertà, è speranza di veder nascere nuovi rapporti di amicizia tra uomini veri».
TESTIMONI. La morte del sacerdote ucciso nel 1994 dalla camorra costrinse molti a guardare in faccia il male: anche Roberto Saviano
Don Peppino profeta di Gomorra
«Il disfacimento delle istituzioni civili ha consentito l’infiltrazione del potere camorristico a tutti i livelli» scriveva nel ’91
La sua morte ci insegna a essere più diffidenti nei confronti di chi parla e non fa, più coerenti a commisurare meglio parole e azioni
DI GOFFREDO FOFI (Avvenire, 16.10.2010) *
Don Peppino Diana venne ucciso dalla camorra all’alba del 19 marzo 1994, festa di San Giuseppe, nella sagrestia della sua parrocchia in Casal di Principe. Il libro che mettemmo insieme per ricordarlo, Per amore del mio popolo, vide la luce a dicembre dello stesso anno, quando del suo sacrificio si parlava poco o pochissimo, e nell’aversano si erano messe in giro voci inquietanti sulle cause della sua morte che tendevano a sminuirne la gravità riducendole a fatto privato.
Non ricordo se fu poco tempo prima o poco tempo dopo che mi trovai a passare in macchina da Aversa, con Nicola Alfiero, e fummo bloccati dalla polizia: in mezzo alla strada c’era un morto ammazzato da poco, in una di quelle ’guerre di camorra’ che continuavano - che continuano - a insanguinare quel territorio la più cruenta delle quali fu la cosiddetta ’guerra di Scampia’ di pochi anni fa. Dal giorno in cui don Peppino fu ucciso sono passati sedici anni, e in mezzo c’è stato il libro di Roberto Saviano, Gomorra, che ha minuziosamente indagato e narrato, con i modi di un giornalismo letterario originale e generoso, le particolarità di quella parte d’Italia, le vicende delle organizzazioni criminali della zona, la loro natura economica, i loro legami con la politica, la loro influenza sui modi di vivere e sentire della popolazione. Uno dei capitoli più belli del libro ricostruisce vita e azioni di don Diana, e ha procurato una nuova e dovuta attenzione alla sua storia, ampiamente citando dai suoi scritti, che vennero raccolti e pubblicati per la prima volta nel volume del ’94.
Dopo di allora, si sono moltiplicate le iniziative per ricordare don Diana, dei tipi più diversi, e alcune di esse hanno rasentato il folklore para-televisivo o vi sono implacabilmente cadute. La schiera dei ’professionisti dell’antimafia’ è in continuo aumento, ed è questa una delle forme più insidiose della falsa coscienza nazionale nei confronti di una malavita che è espressione di una floridissima economia criminale. Denunciare è facile, meno facile intervenire, sul posto e nei modi utili e giusti, che possono cambiare i modi di vivere consolidati, accettati. Questo succede spesso, in Italia, ed è doveroso continuare a scandalizzarne, ma così è, e ci si è fatta l’abitudine. Non ha molti scrupoli, la ’società dello spettacolo’ - anzi ’dell’avanspettacolo’, come ha detto qualcuno pensando ai finali disastri che essa sembra annunciare, e forse invocare.
Il sangue di don Diana ha smosso qualche coscienza, ha sollecitato qualche giusta riflessione, ha costretto molti a guardare in faccia la realtà. Ma non possiamo farci illusioni: la camorra e le mafie sono un male inestirpabile, in una società come la nostra. Nel mondo in cui viviamo l’economia è strettamente legata al crimine (si calcola che l’economia criminale in senso stretto incida per il 12% per cento sulla nostra economia complessiva, ma questi calcoli non tengono conto, per esempio, del mercato ufficiale delle armi, considerato parte dell’economia legale, ’giusta’, ’normale’) e la concorrenza è l’anima dell’economia, di ogni economia. Le guerre di camorra non finiranno facilmente, e quando ci si trova di fronte a un’apparente pace sociale (come è il caso, oggi, della Sicilia), bisognerebbe interrogarsi sulle sue ragioni, e dubitare dell’accordo transitorio tra le parti (le ’famiglie’ tra loro, le famiglie e la società in cui operano, il ’gioco’ degli interessi e degli scambi...). Le ’guerre di camorra’ sono un aspetto inevitabile dell’economia attuale, mondiale? Esse sono in ogni caso un ’incidente’ ripetibile, sono una componente inevitabile del capitalismo contemporaneo. Ed è di qui che bisognerebbe partire per affrontare degnamente i problemi connessi al crimine organizzato nel nostro Paese - e sia dunque lode a chi ha insistito su questo aspetto, il più ipocritamente taciuto dai nostri media e dai nostri ’buoni’ per mestiere, dai nostri denunciatori di professione.
Della raccolta di scritti di don Diana, di scritti su di lui e sul suo sacrificio, di scritti sulle condizioni della zona in cui egli operava e sulle organizzazioni criminali dell’aversano che mettemmo insieme nel lontano 1994, si sono serviti in molti, Saviano compreso per il bel capitolo di Gomorra
su don Peppino, la cui vicenda è stata all’origine della sua prima comprensione critica della realtà in cui è cresciuto, ma quasi tutti si sono dimenticati di citarla. Ci siamo allora chiesti, i promotori e redattori di quella modesta e doverosa impresa, se non valesse la pena di riproporla, come documento ancora valido di una vicenda che ci sconvolse e commosse e di un’esperienza umana, civile e religiosa da non dimenticare; abbiamo letto quel che avevamo scritto e raccolto alla luce dell’oggi, cercando di allontanare qualsiasi tipo di compiacimento, e ne abbiamo concluso che ne valesse la pena, anche se sta al lettore il giudizio definitivo.
Nel documento del Natale 1991 che dà il titolo al nostro libro, stilato da don Diana con gli altri sacerdoti di Casal di Principe e che ci è sembrato attuale oggi quanto ci sembrò esserlo ieri, si ricordava come fosse «ormai chiaro che il disfacimento delle istituzioni civili ha consentito l’infiltrazione del potere camorristico a tutti i livelli» e si auspicavano anzitutto «nuovi modelli di comportamento ». La constatazione e l’invito non hanno perso di valore. Le denunce senza l’azione servono a niente, il sacrificio di don Diana ci richiama prima di ogni altra cosa al nostro dovere di essere insieme più acuti e lucidi sulle contraddizioni di un sistema economico, politico e sociale anche nelle sue ricadute antropologiche e culturali, più diffidenti nei confronti di chi parla e non fa, più coerenti nel commisurare le parole e le azioni, nel tradurre nella pratica le nostre persuasioni.
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IL LIBRO
Tornano gli scritti che hanno ispirato alcuni scrittori
Quando don Diana venne ucciso alcuni amici vollero ricordarlo raccogliendo i suoi scritti e aggiungendovi testimonianze e saggi di giornalisti, politici, volontari, magistrati, sociologi sul suo operato e sulla zona in cui egli operava. Il libro uscì pochi mesi dopo, a spese di quei pochi amici, presso l’editore napoletano Pironti con i contributi di Nicola Alfiero, Donato Ceglie, Goffredo Fofi, Amato Lamberti, mons. Raffaele Nogaro, Isaia Sales e Conchita Sannino. Ora le edizioni dell’Asino ripropongono il testo (pagine 194, euro 12,00). Qui ripubblichiamo un estratto dall’introduzione di Goffredo Fofi.
“Scampia? non la lascerò, qui c’è la mia gente”: parola di don Aniello
di Enrico Fierro (il Fatto Quotidiano, 7 luglio 2010)
“Io Scampia non la voglio lasciare. Non lascio questa gente, la mia gente”. Lui è Aniello Manganiello, il prete del Bronx napoletano: Miano, Secondigliano, Scampia. Qui vive da sedici anni don Aniello, o semplicemente - per i guaglioni che ha strappato alla strada, per le famiglie che ha aiutato, per gli ex pusher che ha salvato - Aniello, il prete del don Guanella che oggi i suoi superiori vogliono trasferire altrove. A Roma, in un quartiere che al confronto è la Svezia, Prati Trionfale, famiglie tranquille, stipendi che a fine mese arrivano puntuali. “E invece qui manca il necessario”, dice il prete. I suoi superiori non chiariscono i motivi del trasferimento, si appellano all’obbedienza alla quale è tenuto ogni sacerdote, dicono che si tratta di un normale avvicendamento, ma la gente, il popolo di don Aniello, non vuole sentire ragioni e ieri sera è scesa in piazza. Una fiaccolata per il quartiere, una via Crucis nel dolore di questa periferia che si perde tra Vele e Case di Puffi, dove anche le pietre portano impressi i segni della varie guerre di camorra.
I guaglioni del clan Di Lauro, Ciruzzo ‘o milionario, contro gli “spagnoli”, una guerra di pochi anni fa, decine di morti, una bestialità senza limiti. Tutto per i danari della droga. In questo inferno don Aniello ha tirato su il suo centro Don Guanella, una zattera in mezzo al mare dove accoglie centinaia di ragazzi. Buona parte in semi-convitto, qui mangiano, studiano, fanno teatro e giocano a calcio.
C’è la squadra, il campo verde, e posto per tutti quelli che vogliono salvarsi. “Abbiamo costruito questa realtà, ed è un merito dei tanti volontari che hanno lavorato con me - dice don Aniello - mandarmi via ora è qualcosa che vivo come una violenza psicologica inaccettabile”. Fabio Esposito, 27 anni, disoccupato, è uno dei volontari che lavorano con il prete. “Qui arrivano ragazzi da tutti i quartieri, finanche da Giugliano. Alla scuola di calcio vengono anche tanti figli di camorristi”.
Don Aniello non ama l’etichetta di prete anticamorra, eppure il tumore che uccide Napoli lui l’ha preso sempre di petto. Ai boss che a Scampia e Secondigliano riempivano le strade di cappelle votive e immagini di Padre Pio (spesso usate per nascondere pacchi di droga e armi), rispose a muso duro. “Queste statue vengono costruite con i soldi dello spaccio di droga, è una religiosità popolare abietta e sconcertante. Questa non è fede, ma solo superstizione”. I boss capirono e una sera gli mandarono un messaggio chiaro: ’Omm’e niente, la pagherai, gli gridarono due malvissuti a cavalcioni su una moto. Lui se ne curò poco e andò avanti. “Il mio obiettivo? Dimostrare che si può battere il male, anche quando si chiama camorra, che si può vivere nella legalità, si possono riportare uomini sulla strada della felicità e della libertà”.
Di camorra, don Aniello ha parlato più volte anche con Gianfranco Fini, suo amico personale. Per alcuni forse troppo. Con il presidente della Camera aprì la campagna elettorale nel 2006 salendo sul palco e denunciando “le collusioni tra politica e camorra”. Poi, però, le simpatie di buona parte della destra si sono affievolite quando il prete, commentando le avventure di Berlusconi a Casoria, disse che “un uomo delle istituzioni deve essere di esempio ed evitare certi comportamenti e certe frequentazioni”.
Don Aniello è così, un prete scomodo, che raccoglie solidarietà e apprezzamenti bipartisan. “Io so solo che è un punto di riferimento della gente che vive tra Scampia e Secondigliano, credo che il suo trasferimento sia una sorta di punizione”, è il commento di Corrado Gabriele, consigliere regionale del Pd.
Politica a parte, don Aniello non ha dubbi: “Non lascio Scampia, questa gente mi ha aperto il cuore, sono uno di loro”. Tonino Torre una volta era un boss di camorra. Oggi, barba bianca, volto scavato e crocefisso di legno al collo, racconta la sua personale redenzione. “Io ero un grande camorrista, rispettato da tutti. Mi temevano, nel senso che... io ero ‘nu strunz. Avevo soldi, auto di lusso, belle femmine, ma la mia non era vita, era un guerra contro il mondo”. Oggi Tonino ‘o boss vive con poco, un lavoro tramite il centro di assistenza per gli ex detenuti della Curia, qualche vecchio mobile strappato dai cumuli di monnezza e restaurato. E sta sempre a fianco di don Aniello, il prete anticamorra che vogliono cacciare da Napoli.
Un prete scomodo
di Luca Kocci (il manifesto, 30 gennaio 2010)
Lascia Castel Volturno, nel casertano, dopo 15 anni di intensa attività pastorale e sociale soprattutto a fianco degli immigrati, il missionario comboniano Giorgio Poletti: i superiori della sua congregazione lo hanno trasferito a Venegono Superiore, vicino Varese, in attesa di assegnargli una nuova destinazione. «La mia presenza a Castel Volturno non è mai stata semplice», spiega padre Poletti. «Fin quando fai beneficenza tutti ti applaudono; se inizi a lavorare per i diritti e non ti allinei all’autorità, civile o ecclesiastica, diventi fastidioso».
Del resto già dom Hélder Câmara, il vescovo brasiliano che aprì il palazzo residenziale ai poveri, diceva: «Se do da mangiare ai poveri mi chiamano santo, ma se chiedo perché i poveri hanno fame dicono che sono un comunista». «Comunista», a padre Giorgio, non l’hanno detto, ma di allontanarlo da Castel Volturno lo hanno chiesto in tanti, uomini di Chiesa e di Stato. La prima volta nel 2003, durante le proteste contro la legge Bossi-Fini e le retate anti-immigrati della polizia: il vescovo di Capua, monsignor Bruno Schettino - da poco promosso presidente della Commissione episcopale per le migrazioni e quindi membro del Consiglio permanente della Cei - propose invano al Consiglio presbiterale della diocesi di chiedere ai comboniani l’allontanamento di Poletti e del suo confratello Franco Nascimbene, principali animatori delle iniziative di quei mesi; poi, l’allora sindaco di Castel Volturno, il forzista Antonio Scalzone - probabile candidato sindaco del centrodestra anche alle elezioni della prossima primavera al grido «siamo pronti anche noi a fare la guerriglia per difendere il nostro territorio, come a Rosarno» - denunciò alla procura il missionario e chiese al ministro dell’Interno Beppe Pisanu di «prendere provvedimenti per garantire ordine e sicurezza pubblica messa a rischio da padre Poletti». Richieste rispedite sempre al mittente, fino a qualche settimana fa. «Per molti anni l’ex generale dei comboniani mi ha sostenuto - spiega - ora sono cambiati alcuni equilibri interni alla congregazione, le pressioni esterne sono aumentate, quindi vado via. Del resto - aggiunge - sono rimasto 15 anni, per noi religiosi è tanto».
Emiliano, missionario in Mozambico, quando torna in Italia padre Giorgio chiede di lavorare tra gli immigrati e nel 1995 arriva a Castel Volturno dove fonda la comunità dei comboniani che diventerà una delle più attive in Italia, come lo è oggi: distribuzione di vestiti e generi alimentari ai poveri, accoglienza di donne straniere in difficoltà e vittime della tratta, asilo per i bambini, doposcuola, pastorale per gli immigrati. E azione di denuncia delle collusioni camorra-criminalità-imprenditoria, battaglie per i diritti dei migranti che dalla periferia di Castel Volturno assumono un rilievo nazionale.
Come nell’estate del 2003, quando Poletti, insieme a Nascimbene, si incatena per 10 giorni davanti alla Questura di Caserta per protestare contro l’operazione «Alto impatto»: una serie di retate contro gli immigrati che, spiega padre Giorgio, hanno portato alla «criminalizzazione di tutti gli immigrati con rastrellamenti spesso ingiustificati da parte delle forze dell’ordine in applicazione della legge Bossi-Fini». Vescovo e sindaco si infuriano, ma la protesta continua e anzi si espande: in tutta Italia si organizzano manifestazioni di fronte alle prefetture contro la Bossi-Fini e Poletti coinvolge gruppi, preti, religiosi e una dozzina di vescovi, fra cui Tettamanzi di Milano e Nogaro di Caserta, per chiedere la revisione della legge e la chiusura degli allora Cpt, ma anche il riconoscimento del diritto d’asilo, la velocizzazione delle procedure di regolarizzazione e di ricongiungimento familiare.
Immigrazione e guerra: un legame evidente. «L’emigrazione - spiega Poletti - è la conseguenza della pessima distribuzione delle ricchezze» e delle guerre che si fanno per conservare tale ingiustizia planetaria. E allora, insieme ai comboniani del sud Italia, nel 2004 scrive ai vescovi perché dicano «una parola forte contro tutte le guerre: quella contro i poveri, quelle fatte con le armi e quella contro il nostro pianeta». Poi, con don Ciotti, don Bizzotto, don Gallo e padre Zanotelli, un’altra lettera alla Cei perché, all’indomani del massacro di Falluja, in Iraq, ritirino i cappellani militari «che in questo momento sono, assieme ai soldati, di fatto parte della coalizione responsabile di quanto sta avvenendo».
18 settembre 2008: davanti la sartoria Ob Ob Exotic Fashion di Castel Volturno, i killer della camorra sparano 130 colpi di pistola e di kalashnikov e uccidono sei immigrati dal Togo, dalla Liberia e dal Ghana che si guadagnavano da vivere nei campi e nei cantieri edili per 20-25 euro al giorno. Il giorno dopo scoppia la rivolta degli immigrati, subito sedata da padre Giorgio e da Fabio Basile, del centro sociale Ex Canapificio di Caserta, che mediano con il questore Carmelo Casabona. Il ministro Maroni manda i militari a presidiare il territorio, la stampa parla di regolamento di conti fra bande rivali - ma nessuna delle vittime era collegata ai clan - mentre Poletti, e anche Roberto Saviano, avanza altre ipotesi, legate ai progetti di riqualificazione del litorale domizio: «Arriveranno tanti soldi che fanno gola a molti - spiega - Il traffico e lo spaccio di droga muovono molto denaro, ma anche questi programmi sono un grande affare per la criminalità e per i potentati economici. Se la camorra e alcuni imprenditori puntano alla riqualificazione della Domiziana per fare soldi e gli immigrati sono considerati un ostacolo, allora i soldati dei clan sparano e uccidono per intimidirli e farli allontanare».
Ancora un intreccio: camorra, politica e imprenditoria. «Chi comanda a Castel Volturno? La camorra, l’amministrazione comunale, o i Coppola?» - la potente famiglia di costruttori edili (la cui rampolla, Cristiana, è ora vicepresidente di Confindustria), che a Castel Volturno costruirono un mega complesso residenziale abusivo, il Villaggio Coppola Pinetamare, ora demolito: 8 palazzoni a pochi passi dal mare su una superficie di 800mila metri quadrati prima occupata da una bellissima pineta -, chiedeva la prima domanda di un provocatorio questionario distribuito anni fa ai cittadini insieme a Black and White, il giornale dei comboniani di Castel Volturno. Poco più di un anno fa, il violento sgombero dell’American Palace, dove vivevano un centinaio di immigrati. «Un’operazione spinta, probabilmente, dagli interessi tesi a ridurre la presenza degli immigrati, magari per lasciare il posto ad una nuova speculazione edilizia», denunciano i centri sociali. E Poletti, insieme ai sacramentini di Caserta: gli immigrati «sono neri, poveri e cercano di sopravvivere in un mondo dove li si vuole ’buttare a mare’. È una storia vecchia che si ripete quando si intravede il denaro, e in futuro ne arriverà molto per la realizzazione delle opere dell’accordo di programma», ovvero «il nuovo impero dei Coppola, che dopo aver distrutto l’ambiente, ora dovrebbero ricostruirlo».
Sei mesi fa l’iniziativa contro il pacchetto sicurezza partita da Castel Volturno e realizzata in tutta Italia: la distribuzione nelle piazze dei «permessi di soggiorno in nome di Dio». «In un mondo che non riconosce dignità e possibilità di vita agli immigrati che vengono a chiedere le briciole al lauto banchetto dell’Europa», spiega Poletti, «noi diciamo che Dio è dalla loro parte e chiama noi alla conversione, all’accoglienza e alla condivisione. Il Vangelo, che troppo spesso abbiamo anestetizzato e reso insignificante, ci porta a questa scelta». «Nel Paese è in atto una vera e propria offensiva contro gli immigrati, basta vedere quello che è successo a Rosarno pochi giorni fa - aggiunge - Le forze dell’ordine (guidate ancora dal questore Casabona, trasferito a Reggio, ndr), che hanno difeso gli immigrati, in realtà li hanno mandati via da Rosarno: significa difendere i loro diritti? Il punto di partenza di questa aggressione generale è l’approvazione del pacchetto sicurezza: l’immigrazione clandestina è diventata un reato, e vogliono portare avanti questa politica».
Da Rosarno, molti sono tornati a Castel Volturno, da dove erano partiti alla volta della Calabria alla ricerca di lavoro. «A Castel Volturno non c’è nessuna emergenza dovuta al sovraffollamento, sono solo tornati quelli che già c’erano», dicono oggi i comboniani che, anche senza padre Giorgio, continuano le attività e le battaglia per i diritti: bisogna «estendere la regolarizzazione a tutti i lavoratori a cominciare dai braccianti agricoli, recepire la direttiva europea che consente al lavoratore sfruttato e senza permesso di soggiorno di denunciare il suo datore di lavoro e ottenere così il documento» e «smettere di rinchiudere nei Cie lavoratori senza permesso di soggiorno». E Poletti, che farà? «Starò fermo per un periodo, poi vedremo. Vorrei continuare a lavorare con gli immigrati, anche se non più a Castel Volturno».
Monsignor Mariano Crociata ha illustrato il documento che i vescovi riuniti ad Assisi
sono chiamati oggi pomeriggio ad approvare. "Occorre l’impegno di tutti"
Cei: "I mafiosi sono fuori dalla Chiesa
non c’è bisogno di scomuniche esplicite"
"Esagerato parlare di declino della democrazia. Ci sono difficiltà ma anche molte potenzialità"
ASSISI - I mafiosi e coloro che fanno parte della criminalità organizzata sono automaticamente esclusi dalla Chiesa cattolica, non c’è bisogno di scomuniche esplicite. Lo ha detto il segretario generale della Cei, monsignor Mariano Crociata, in una conferenza stampa ad Assisi, rispondendo ad una domanda sul documento Chiesa e Mezzogiorno, anche in relazione alle recenti inchieste che hanno coinvolto uomini politici.
I presuli, riuniti nella loro sessantesima assemblea generale nella città di San Francesco, sono chiamati oggi pomeriggio ad approvare. "E’ evidente - spiega - che il tema della criminalità organizzata è ben presente nel documento; una realtà drammatica ma non disperata e non invincibile".
Per quanto riguarda i mafiosi o gli affiliati alle organizzazioni criminali, il segretario della Cei ricorda quanto già disse Giovanni Paolo II in una visita ad Agrigento nel 1993 sul giudizio di Dio che si sarebbe abbattuto sui criminali. "Non c’è bisogno - ha aggiunto Crociata - di comminare esplicite scomuniche perché chi vive nelle organizzazioni criminali è fuori dalla comunione anche se si ammanta di religiosità".
"Piuttosto - ha aggiunto il segretario Cei - non si risolve questo dramma sociale che si estende a tutta l’Italia, e non solo al Sud, solo richiamando l’esclusione dalla Chiesa, ma si risolve con un impegno di tutti, della istituzioni, della magistratura".
Politica. "La nostra prospettiva non è quella apocalittica: dobbiamo tutti valorizzare le risorse del Paese, sottolineare e fare emergere questi aspetti positivi, guardando con onestà alle difficoltà. Ma non serve a nulla guardare ad esse unilateralmente", afferma monsignor Mariano Crociata. "Parlare di declino della democrazia - spiega il presule - mi sembra esagerato, nel senso che la nostra situazione presenta difficoltà ma ci sono molte potenzialità di ordine materiale e valori morali e culturali: il punto non è emettere pronunciamenti senza appello sulla situazione. Questo non è utile, non va a vantaggio del Paese nè è rispondente alla realtà".
* la Repubblica, 10 novembre 2009
INTERVISTA
Saviano: il mio Dio «debole» a Gomorra
di Gianni Ballerini (Avvenire, 16 Settembre 2009)
Roberto Saviano è diventato l’architrave della ribellione civile in Italia dopo l’uscita di Gomorra, libro che ha finito per odiare. L’incontro con lo scrittore dalla vita blindata si trasforma, inevitabilmente, in una riflessione sul ruolo della Chiesa in quelle terre del Sud, schiacciate tra l’arroganza dei forti e la codardia dei deboli; sul rapporto di Saviano con Dio e con la fede; sulla sua sfrenata ambizione, un peccato mortale che gli consente, però, di resistere. Riflessioni prive di embargo ai pensieri più scomodi.
Saviano, lei si è spesso rivolto alla sua terra, nella speranza di un gesto di ribellione. È cambiato qualcosa in questi anni? La scomparsa di Castel Volturno o della camorra dalle prime pagine dei giornali è figlia del successo della militarizzazione del territorio? O è il silenzio di sempre che accompagna le vite di scarto, che si possono dimenticare, dopo le emergenze contingenti?
«La militarizzazione del territorio è stata la risposta immediata dello Stato, forse inevitabile. Ha abbassato, in alcuni casi, la conflittualità tra clan; in altri momenti, ha aiutato qualche inchiesta. Ma siamo ancora lontani dallo sconfiggere la camorra. Purtroppo, la ciclicità mediatica impone sempre, dopo una fase di attenzione, un lunghissimo momento di disattenzione. Cosa che mi dispiace, perché queste storie hanno appassionato e appassionano i lettori. È evidente che non si può chiedere al giornale di dare una notizia solo per impegno morale o di orientare una linea editoriale solo in nome dei principi di giustizia. Ma queste notizie, in realtà, facevano vendere il giornale. Perché le persone vogliono sapere».
Anche di recente, lei ha difeso la memoria di don Peppe Diana, il parroco di Casal di Principe, ucciso per mano camorristica nel 1994. Al di là di alcune figure di martiri, qual è il ruolo della Chiesa locale nel combattere la camorra o la mafia?
«Non ci si può rapportare alla Chiesa come a un monolite. D’istinto, mi verrebbe da dire che se c’è stata resistenza nella mia terra e se io, nel corso degli anni, sono riuscito ad avere una qualche coscienza antimafia, lo devo ad alcune figure di Chiesa. Il vescovo emerito di Caserta, Raffaele Nogaro, è stato per decenni un riferimento in Campania, non solo nella lotta alla camorra, ma nel prendere le distanze dalla borghesia imprenditrice camorristica. A Napoli, poi, c’è il cardinale Sepe, figura di peso in un momento difficilissimo per la città, con la politica che ha perso autorevolezza, con la camorra che è tornata a sparare in modo indiscriminato, con gli arresti di importanti imprenditori. Devo dire che questa è la Chiesa in prima linea. Poi, purtroppo, c’è anche tutto il resto. La Chiesa, cioè, che preferisce girarsi dall’altra parte, che ogni volta che si parla di camorra pensa che sia un modo per spaventare i fedeli. Quando Nogaro arrivò nel casertano da Udine e nelle sue omelie citava la camorra, alcuni preti locali gli chiedevano espressamente di non pronunciare quella parola. Perché così s’infangava la povera gente».
E le ragioni di questa «posizione morbida»?
«Sono tante. Un prete che decide d’intraprendere una lotta del genere deve, ad esempio, essere disposto a subire anche l’oltraggio della diffamazione. Don Peppe Diana, ancora prima di essere ucciso, per il solo fatto che s’impegnava, che girava nelle scuole e scriveva documenti, veniva sistematicamente diffamato. Perché un prete che non sta nella sua stanzetta a confessare le vecchiette o a dare le caramelle ai bambini, è un sacerdote che viene visto con sospetto. Se indirizza la sua autorevolezza e la sua parola verso altro, mette paura. Soprattutto se quell’altro detiene il potere. Mi ricordo che don Peppe cominciò a denunciare il voto di scambio. Padre Puglisi, ucciso a Palermo, lo stesso. Non è un caso che, dal giorno dopo l’assassinio di questi due preti del Sud d’Italia, iniziò una campagna di diffamazione. Molto forte nei confronti di don Peppe; un po’ meno contro don Puglisi. Ma solo perché l’antimafia siciliana è molto più sviluppata di quella della mia terra. Impegnarsi vuol dire soprattutto rischiare. Non solo la vita, ma la propria serenità. Spesso è questa la ragione che spinge un sacerdote a non agire in questi territori. Perché è molto difficile vedere d’improvviso la propria vita in bocca a moltissime persone e la propria credibilità e onestà insultate da gomiti e venticelli della camorra. Per chi decide di combattere, il primo scoglio è questo. Poi, sul campo, si riesce a ottenere anche autorevolezza. Ma è un lavoro molto lungo».
Il fatto che la sua sia una terra di missione pastorale, come una qualsiasi parrocchia africana, che riflessione le suscita?
«Castel Volturno, dove c’è la missione dei padri comboniani, è davvero una città africana. Della diaspora africana, come ebbi modo di ricordare in occasione della morte della sudafricana Miriam Makeba, venuta a cantare e a morire a Castel Volturno in un concerto in onore dei ragazzi africani ammazzati e anche per me. Quello che fanno i comboniani in quella realtà - uso una parola che potrebbe apparire altisonante, ma non lo è - ha del miracoloso».
Lei ha detto: chi vive male diventa un uomo peggiore. Lei cova odio e grande voglia di vendetta verso chi la costringe a vivere nella sua gabbia. Non trova un po’ paradossale diventare una persona cattiva per il suo senso etico e di giustizia? Ha la percezione di quale potrebbe essere l’approdo di questo percorso?
«No. La mia è una vita abbastanza schizofrenica. Sul piano pubblico, riesco a essere sempre molto controllato; sul piano privato, sono spezzato. Ecco perché dico che chi vive male diventa male. Sei ossessionato da te stesso. L’opinione pubblica commenta ogni cosa che fai e la commenta con superficialità. Questo succede a tutti, lo so. Ma almeno gli altri possono passeggiare, avere una vita normale con cui ammortizzare il peso delle difficoltà. Invece, non solo la mia condizione mi pesa molto, ma mi pesa doverla farla condividere a chi mi sta vicino, il quale deve cambiare sempre casa e subire la scorta, una pressione forte, l’attenzione dell’opinione pubblica. E questo è molto difficile. Mi ha dato molto dolore, anche se adesso l’ho elaborato, vedere il deserto attorno a me nella mia terra d’origine. Sentire le parole più feroci partire da lì. L’indifferenza più forte, la rabbia, l’invidia. Mi sono spesso chiesto: ma davvero posso essere invidiato da qualcuno? E la risposta è sì: chiunque ha la possibilità di emergere crea un senso di rancore, perché, se tu parli, mi ricordi che io non ho parlato. Vedere l’atteggiamento che hanno avuto i miei amici è stata una delle cose più dolorose della mia vita. Quando ho ricevuto la scorta, nessuno è andato da mia madre a chiedere se aveva bisogno di qualcosa. Delle due l’una: o ho meritato di ricevere questo comportamento, o queste persone hanno talmente fatto il callo sul cuore, sull’anima circa queste vicende, che ormai non si accorgono più di niente. E la mia storia è una delle tante che vedono passare davanti a loro».
Qual è il suo rapporto con Dio? Problematico, inesistente, accantonato?
«Ho un rapporto costante con le letture religiose. Il mio rapporto con Dio passa attraverso i testi sacri. Soprattutto la Torah e i Vangeli. Mi è sempre piaciuta l’idea che ha Hans Jonas, filosofo di origine ebraica, di un Dio da aiutare. Di un Dio non onnipotente e che quindi si trova, come l’uomo, a doversi scontrare con un male. Un Dio non onnipotente è un Dio che mi è molto simpatico. Negli ultimi anni è aumentata esponenzialmente la riflessione religiosa. Che in gran parte della mia vita non ho avuto. E le persone che hanno creduto nel mio dolore e non hanno risposto con cinismo, con la solita tiritera che la mia era tutta un’operazione di marketing, sono state le persone religiose, con fede. Nel tempo, ho iniziato a percepire che la fede, spesso, è stato il vero motore delle persone di buona volontà che nelle zone più difficili del Sud han cercato di trasformare le cose».
Gianni Ballerini
Saviano: perché Pecorella infanga don Peppe Diana?
di ROBERTO SAVIANO *
MI è capitato nella vita di fare pochissimi giuramenti a me stesso. Uno di questi, che non riuscirei a tradire se non vergognandomi profondamente, è difendere la memoria di chi nella mia terra è morto per combattere i clan. Ho giurato a me stesso sulla tomba di Don Peppe Diana il giorno in cui alcuni cronisti locali, alcuni politici e diversa parte di quella che qualcuno chiama opinione pubblica iniziarono un lento e subdolo tentativo di delegittimarlo.
Il venticello classico di certe parti d’Italia che calunnia ogni cosa che la smaschera; il tentativo di salvare se stessi dalla scottante domanda "perché io non ho mai detto o fatto niente?". Ho letto in questi giorni sulla rivista Antimafia Duemila che due ragazzi, Dario Parazzoli e Alessandro Didoni, hanno chiesto durante una trasmissione Tv a Gaetano Pecorella come mai, quando era presidente della commissione giustizia, difendeva al contempo il boss casalese egemone in Spagna Nunzio De Falco, poi condannato come mandante dell’omicidio di Don Peppe Diana. Mi ha colpito e ferito sentire alcune dichiarazioni dell’Onorevole Pecorella in merito all’assassinio di Don Peppe Diana. In una intervista al giornalista Nello Trocchia per il sito Articolo 21, Pecorella dichiara: "Io dico che tra i moventi indicati, agli atti del processo, ce ne sono tra i più diversi. Nel processo qualcuno ha parlato di una vendetta per gelosia, altri hanno riferito che sarebbe stato ucciso perché si volevano deviare le indagini che erano in corso su un altro gruppo criminale. E altri hanno riferito anche il fatto che conservasse le armi del clan. Nessuno ha mai detto perché è avvenuto questo omicidio, visto che non c’erano precedenti per ricostruire i fatti. Se uno conosce le carte del processo, conosce che ci sono indicate da diverse fonti, diversi moventi".
Proprio leggendo le carte si evince chiaramente che non è così, Onorevole Pecorella. Perché dice questo? È vero esattamente il contrario. Dalle carte del processo emerge invece che è tutto chiaro. E pure la sentenza della Corte di Cassazione del 4 marzo 2004 conferma che Don Peppe è stato ucciso per il suo impegno antimafia e per nessun’altra ragione. Che De Falco (di cui lei, Onorevole, ha assunto la difesa) ha ordinato l’uccisione di Don Peppe per dimostrare, uccidendo un nemico in tonaca, un nemico senza armi, che il suo gruppo era più forte e coraggioso di quello di Sandokan. E anche per deviare la pressione dello Stato proprio sul clan Schiavone. Quelli che lei definisce più volte "moventi indicati" furono, come dimostrano le sentenze, delle calunnie che alcuni camorristi portarono per lungo tempo in sede processuale per discolparsi. Calunnie nate dal fatto che persino loro cercavano di lavarsi le mani, in buona o cattiva fede, del sangue innocente che avevano versato. Ne avevano vergogna. Questo è quel che dicono gli iter conclusi della giustizia italiana. Ed è per questo che la risposta che l’Onorevole Pecorella ha dato appena qualche giorno fa alla domanda se Don Diana, a suo avviso, non fosse stato ucciso per il suo impegno contro i clan lascia basiti.
L’onorevole dice: "Io non ho avvisi. Io riporto quello che è emerso nel processo e nulla più. Ci sono diversi moventi, c’è anche quello, che all’inizio non era emerso, che faceva attività anticamorra. Per la verità nel processo non è venuto fuori molto chiaro neanche questo come movente. È inutile che costruiamo delle fantasie sulle ipotesi. Quella dell’impegno anticamorra è tra le ipotesi. Ma nel processo non è emerso in modo clamoroso, non è mai venuta fuori un’attività di trascinamento, di gente in piazza. Non è che c’erano state manifestazioni pubbliche, documenti. Qualcuno ha detto anche questa ragione. Come vede ci sono tanti moventi. Certamente è stato ucciso dalla camorra. Chi viene ucciso dalla camorra è una vittima della camorra. Ora se è un martire bisogna capirlo dal movente che non è stato chiarito".
È stato chiarito. Lo Stato Italiano considera Don Peppe un martire della battaglia antimafia, migliaia di persone hanno sfilato in sua difesa. E i documenti che non ci sarebbero, ci sono eccome. Hanno non solo un nome, ma anche un titolo: "Per amore del mio popolo non tacerò". È il documento stilato da Don Peppe insieme ad altri preti della forania di Casal di Principe in cui viene annunciata una battaglia pacifica, ma priva di compromessi alle logiche dei clan, al loro predominio, alla loro mentalità, alla loro cultura, alla loro falsa aderenza alla fede cristiana. Persino Papa Giovanni Paolo II, dopo la morte di Don Peppino Diana, pronunciò nell’Angelus: "Voglia il signore far sì che il sacrificio di questo suo ministro [...] produca frutti [..]di solidarietà e di pace". Per Giovanni Paolo non ci furono dubbi, fu un martire. Per Lei, Onorevole Pecorella, invece ce ne sono. Perché, mi chiedo?
Le chiedo inoltre se considera legittimo rivestire il ruolo di Presidente della Commissione Giustizia del Parlamento Italiano e portare avanti la difesa del boss Nunzio De Falco? Lei immagino mi risponderà di sì, che anche il peggiore dei presunti criminali, ne ha il diritto. Ma questo principio di garanzia vale soltanto fino al verdetto finale. Tale verdetto di colpevolezza del suo mandante è stato emesso e confermato. Quindi la prego di non diffondere falsi dubbi sulla condanna a morte di Don Diana. Chi ha ucciso Don Peppe Diana è uno dei clan più potenti e feroci d’Italia che ha ancora due latitanti, Iovine e Zagaria, liberi di investire, costruire, e portare avanti i loro affari.
Oggi, Onorevole Pecorella, lei è presidente della commissione d’inchiesta sui rifiuti, e i Casalesi, come saprà, sono i maggiori affaristi nel traffico di rifiuti tossici e legali. Loro quindi dovrebbero essere i suoi maggiori nemici anche se in passato ha difeso in sedi processuali i loro capi. La prego di avere rispetto per Don Peppe e non dare nuovamente credito a calunnie che negli anni passati killer e mandanti hanno cercato di riversare su una loro vittima innocente. Questa mia domanda non è questione di destra o di sinistra. La legalità è la premessa del dibattito politico, o almeno dovrebbe esserlo. La premessa e non il risultato. Quando iniziai a trascrivere delle parole che Don Peppe aveva detto nel Casertano ho ricevuto lettere commosse da molti lettori conservatori, da cattolici di Comunione e Liberazione sino ai ragazzi della Comunità di Sant’Egidio, dalla comunità ebraica romana e da tante altre.
La battaglia alle organizzazioni criminali, l’ho vista fare da persone di ogni estrazione politica e sociale. Ho visto, quando ero bambino, manifestazioni nei paesi assediati dalla camorra in cui sfilavano insieme militanti missini, democristiani, comunisti e repubblicani. L’onestà non ha colore, spesso così come non ne ha l’illegalità. Per questo, il mio non è un appello che possa essere ascritto a una parte politica. Non permetterò mai a nessuno, e come dicevo me lo sono giurato, che la memoria di Don Peppe sia oltraggiata da accuse false, demolite dai Tribunali, che ebbero il solo scopo di screditare le sue parole, emettendo nel silenzio il ronzio malefico "quello che dice non è vero". Questo non lo permetterò. Lei mi dirà che questa mia è una battaglia troppo personale. Io le ribadirei che, sì, lo è, è vero. Tutto ciò che riguarda la mia terra, ormai riguarda la mia vita stessa e quindi non può che essere personale. Difendere la memoria di Don Peppe Diana è una questione personale anche per un’altra ragione: è una questione di onore. Onore è una parola che spesso hanno abusivamente monopolizzato le cosche facendola diventare sinonimo del loro codice mafioso. Ma è il tempo di sottrarla alle loro grammatiche. Onore è il sentire violata la propria dignità umana dinanzi a un’ingiustizia grave, è il seguire dei comportamenti indipendentemente dai vantaggi e dagli svantaggi, è agire per difendere ciò che merita di essere difeso. E io l’onore, l’ho imparato qui a Sud. Per meglio spiegarmi, mi sovvengono le parole di Faulkner: "Tu non puoi capirlo dovresti esserci nato. In realtà essere del Sud è una cosa complessa. Comporta un’eredità di grandezza e di miseria, di conflitti interiori e di fatalità, è un privilegio e una maledizione. Vi è il senso aristocratico dell’onore e dell’orgoglio". Mi piacerebbe poter mettere una parola definitiva su questo. Su quanto accaduto a don Peppe. Permettere di farlo riposare in pace. Riposare in pace significa non chiamarlo in causa laddove non può difendersi. A volte, come accade a molti miei compaesani per cui conserva il suo valore, mi viene di rivolgermi a lui. Don Peppe se è vero che tu hai visto la fine della guerra, perché, come dice Platone, solo i morti hanno visto la fine della guerra, sta a noi vivi il compito di continuare a combatterla. E non ci daremo pace. (Published by arrangement with Roberto Santachiara Literary Agency)
* la Repubblica, 1 agosto 2009
il gesto
All’inizio della celebrazione l’arcivescovo di Napoli indossa la stola di don Giuseppe Diana, il sacerdote assassinato 15 anni fa per la sua opposizione ai clan
Applausi e pianti tra i fedeli che affollavano il duomo
«Fare memoria dovere di riconoscenza verso chi ha testimoniato con il proprio sangue»
LA CAMPANIA CHE DICE NO
I temi della speranza nella seconda giornata dell’iniziativa voluta da «Libera» per ricordare i caduti nella lotta contro i clan. Oggi la marcia dei familiari attraverserà il capoluogo campano
Sepe: «Non arrendersi mai Camorra, male senza confini»
A Napoli veglia di preghiera per le vittime della criminalità
-DAL NOSTRO INVIATO A NAPOLI ANTONIO MARIA MIRA (Avvenire, 21.03.2009)
Un signore anziano, viso da contadino, sale la scalinata che porta all’altare del Duomo. Tra le mani callose porta, stringendola delicatamente, una stola viola. La stola di don Peppe Diana, il parroco di Casal di Principe ucciso dalla camorra quindici anni fa. Lui è Gennaro Diana, il papà. Si avvicina al cardinale Crescenzio Sepe, gli porge la stola e il cardinale, togliendo la sua, la indossa. Un lungo, forte, commosso applauso sale, invade, riempie la grande chiesa. «Grazie eminenza - dice don Tonino Palmese, responsabile di Libera per la Campania - per aver voluto mettere sulle sue spalle il ricordo, la memoria, la vita di don Peppe Diana». Un altro applauso percorre il Duomo mentre il cardinale fa accomodare Gennaro, sorridente, al suo fianco, tra i sacerdoti che stanno partecipando alla veglia di preghiera in occasione della «Giornata della memoria e dell’impegno» in ricordo delle vittime di tutte le mafie che oggi attraverserà la città. È il momento più commovente di una veglia che ha toccato soprattutto i temi della sparanza e dell’impegno. «Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi e io vi ristorerò», recita una delle letture scelte dal Vangelo di Matteo. Una scelta non casuale.
Metà della chiesa è occupata da più di 500 familiari delle vittime delle mafie. Si prega. «Signore, Dio dell’universo, perdonaci per quelle volte in cui gli atteggiamenti di indifferenza hanno dato alle mafie la forza necessaria per imporre terrore, disperazione e morte». Al momento dello scambio del segno della pace salgono all’altare quattro familiari: Lorenzo Clemente, Stefania Grasso, Viviana Matrangola, e la mamma di Gelsomina Verde. Poi, proprio sul tema, si prega ancora.
«Dio della pace, non ti può comprendere chi semina discordia, non ti può accogliere chi ama la violenza; dona a chi edifica la pace di perseverare nel suo proposito e a chi la ostacola di essere sanato dall’odio che lo tormenta, perché tutti si ritrovino in te, che sei la vera pace». Poi si alza il canto. «Tu sei la mia vita, altro io non ho. Tu sei la mia strada, la mia verità. Nella tua parola io camminerò, finché avrò respiro, fino a quando tu vorrai. Non avrò paura, sai, se tu sei con me: io ti prego, resta con me».
Parole che ricordano tanto la vita di don Peppe. E del parroco ucciso dalla camorra parla il cardinale di Napoli. «Quindici anni fa fu ucciso dalla barbarie criminosa, ma oggi è più vivo che mai. La sua testimonanza continua a scuotere le coscienze, a dare coraggio a chi vuole combattere la battaglia del buono e del bello ». Parole chiare, quelle del cardinale. «Fare memoria - dice rivolgendosi proprio ai familiari delle vittime - è innanzitutto un dovere di riconoscenza verso chi ha seminato col proprio sangue una testimonianza che non ci può essere rubata da nessuno. Loro hanno testimoniato e ci hanno passato una fiaccola perché continui a illuminare la nostra vita».
Parole di speranza. «Sembra che il male non abbia confini ma noi non ci arrendiamo perché Dio è con noi, perché Cristo ha vinto il male, perché noi agiamo con la forza dei nostri ideali, perché siamo pronti a offrire la nostra vita perché il bene prevalga». Invece, aggiunge con toni che evocano il grido di Giovanni Paolo II nella Valle dei Templi di Agrigento, «i mafiosi devono nascondersi, non ritrovano un momento di pace perché il male li avvinghia. La loro è una vita di peccato. Seminano sangue e vivono nel sangue».
Dunque non bisogna arrendersi, torna a ripetere Sepe, «noi saremo i vincitori». Lo ringrazia don Luigi Ciotti e anche lui invita alla speranza. «Napoli è una città forte e amara, coraggiosa e non saranno alcuni gruppi criminali a togliere quella speranza che questa terra invoca. Ma dobbiamo tutti fare di più, tutti insieme». Sepe riprende il microfono. «Napoli applaudi don Luigi. Noi ti accogliamo, ti abbracciamo e ti ringraziamo per tutto quello che fai e che farai».
Un parco giochi nelle terre dei boss
Sull’area confiscata al capo dei casalesi, sorgerà un campo di calcetto. L’intesa è tra il consorzio Agrorinasce e le parrocchie della zona. «Da cosa loro diverrà casa nostra»
DAL NOSTRO INVIATO A CASAL DI PRINCIPE
Gli operai colano il cemento dei muretti, installano staccionate, posano pietrisco. Stanno nascendo un parco giochi e un campo di calcetto. Proprio a fianco del santuario della Madonna di Briano, a servizio di questo luogo di culto, tra i più amati e frequantati della provincia di Caserta. Una bella iniziativa. Ma è ancora più bella perchè nasce su un terreno confiscato a Francesco Schiavone ’ Sandokan’, il capo del clan dei casalesi. Quattromila metri quadri strappati al boss ma anche al degrado in cui erano finiti, portati via alla camorra e poi abbandonati, quasi una discarica. Ora si cambia. Dal male al bene, dal silenzio imposto dal piombo dei killer camorristi al vociare allegro e gioioso dei bambini. Che su un bel cartello potranno presto leggere che questo luogo di gioco è stato portato via alle cosche ed è ora della gente per bene: da « cosa loro » a « casa nostra » . Lo leggeranno i piccoli, lo leggeranno i genitori che forse per anni hanno abbassato la testa davanti alla violenza camorrista, accettando condizionamenti e convenienze. Accade anche questo in questa terra che, a fatica, ha imboccato il cammino del cambiamento e della speranza. Accade proprio nella zona più martoriata dalla camorra, tra i comuni di Casal di Principe e Villa di Briano, regno e dominio dei casalesi. Accade nella terra di don Peppe Diana, il parroco di Casal di Principe ucciso dai casalesi il 19 marzo 1994. Questa bella iniziativa è il frutto della collaborazione tra Agrorinasce, il consorzio tra i comuni dell’Agro Aversano nato proprio per la gestione dei beni confiscati, e la Forania di Casal di Principe che unisce le parrocchie della zona e che quindici anni fa era guidata proprio da don Peppe.
Come ci spiega Giovanni Allucci, amministratore delegato di Agrorinasce, l’area verrà dedicata alla Madonna di Briano e ad una vittima innocente della camorra. Il costo dei lavori è di 190.000 euro, in parte coperti da un contributo di 60.500 euro della Regione Campania. L’opera sarà pronta entro aprile e verrà concessa in comodato d’uso gratuito al Santuario, con la possibilità che tutte le parrocchie di Casal di Principe possano utilizzarlo.
Non è la prima realizzazione a favore della Chiesa locale e, soprattutto, dei giovani. Sempre Agrorinasce, in collaborazione con l’amministrazione comunale, ha infatti realizzato un campetto sportivo polifunzionale nella chiesa di S. Nicola, a Casal di Principe, la parrocchia di don Peppe, grazie anche al finanziamento di 25.000 euro concesso dalla Regione Campania. I lavori sono stati realizzati nel 2008 e ora il campetto è frequentato da tanti ragazzi.
Iniziative importanti. Lo sport, in realtà di degrado e ad alta presenza mafiosa, è fondamentale per il recupero dei giovani. Strumento educativo. Lo faceva a Brancaccio don Pino Puglisi, lo faceva a Casal di Principe don Peppe Diana, tifosissimo del Napoli. Anche pensando a lui mercoledì sera sul campetto della parrocchia hanno giocato don Luigi Ciotti, i sindaci della zona che avevano appena firmato un documento comune contro la camorra, e tanti ragazzi di Casal di Principe. Ed anche questo è un segno importante.
Antonio Maria Mira
Centocinquantamila in marcia contro la mafia
E a sorpresa anche Saviano sul palco
Una folla enorme ha sfilato in via Caracciolo insieme a Libera e ai familiari di 500 vittime della criminalità organizzata. Sono arrivati da trenta Paesi del mondo e da tutte le regioni italiane. A sorpresa sul palco anche Roberto Saviano.
È cominciata con l’inno d’Italia ed è finita, a sorpresa, con Roberto Saviano. A Napoli si è tenuta la marcia per la quattordicesima giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime delle mafia. Secondo l’associazione Libera, promotrice di una tre giorni dedicata all’impegno antimafia, al corteo hanno partecipato 150 mila persone. La presenza dello scrittore è stata tenuta nascosta fino all’ultimo minuto. Poi è salito sul palco e ha letto alcuni nomi delle vittime della criminalità organizzata: quello di Anna Politkovskaja, di sei immigrati africani uccisi a Castelvolturno, delle vittime della faida di Scampia e di Annalisa Durante, uccisa a Forcella a soli 14 anni. Saviano ha chiuso la lettura destinando un pensiero "anche a tutte le vittima di mafia che non conosciamo ancora".
LE FOTO La marcia dei centomila nel lungomare
I familiari delle vittime aprono il corteo. La marcia è cominciata con i 480 familiari delle vittime della criminalità organizzata che hanno cantato l’inno di Mameli esponendo le fotografie dei loro cari scomparsi. Sono state proprio le famiglie delle vittime della mafia ad aprire il corteo che ha raggiunto piazza del Plebiscito. Migliaia di persone hanno affollato il lungomare napoletano. Quando la testa del corteo arriva a Piazza Plebiscito, la coda è ancora alla Rotonda Diaz: un serpentone di 2 chilometri e mezzo, composto, allegro, colorato ma silenzioso.
Tanti striscioni da tutta Italia e da 30 paesi del mondo. Al centro del lungo corteo uno striscione nero con scritta bianca "Tu potrai dirmi che sono un sognatore ma non sono l’unico" di un liceo di Marano e quello degli immigrati della provincia di Caserta "Contro la camorra e il razzismo". A Napoli sono arrivate persone da trenta paesi del mondo e da tutte le regioni italiane. Dal Piemonte sono arrivati in 1500, mille dalla Sicilia, a bordo di due navi, 300 dalla Toscana, 800 autobus di studenti delle scuole di tutto il Paese. Negli alberghi partenopei sono stati ospitati la notte scorsa 480 familiari delle vittime.
La lettura dei nomi delle vittime. La manifestazione si è conclusa sul palco di piazza Plebiscito dove i famigliari delle vittime e i rappresentanti delle istituzioni cittadine si sono alternate a leggere i nomi delle quasi 500 persone che hanno perso la vita a causa della criminalità. La lettura è stata conclusa da Roberto Saviano, salito a sorpresa sul palco.
Don Ciotti: "Meno parole e più fatti". "Migliaia e migliaia di persone sono qui oggi per un abbraccio alla città - dice don Luigi Ciotti, presidente nazionale dell’associazione Libera che ha promosso la tre giorni dedicata all’antimafia - è un segno di attenzione a chi si impegna tutti i giorni contro la criminalità organizzata. Oggi siamo qui per ripetere che occorrono meno parole e più fatti".
"Trasformiamo la rabbia in qualcosa di positivo". Un lungo applauso ha accompagnato anche il discorso di Alessandra Clemente, figlia di Silvia Ruotolo, giovane mamma uccisa dalla camorra mentre accompagnava i figli a scuola. "Aveva 39 anni - ha detto la ragazza tra la commozione dei presenti sul palco - è stata uccisa senza alcuna logica e spiegazione. Occorre trasformare la rabbia in qualcosa di positivo. Quello che abbiamo vissuto non deve capitare più a nessuno. Impegnarsi per la memoria non è né stupido né inutile. Voglio ringraziare tutti e finalmente lo posso dire grazie a Napoli".
* la Repubblica-NAPOLI, 21 marzo 2009 - per vedere foto e video, clicca sul rosso.
In 40mila nella terra dei clan. Ciotti: «Fuori dalla Chiesa i mafiosi»
di Enrico Fierro *
Un Paese in guerra. Con eserciti che si combattono, le battaglie vinte e quelle perse, i morti e i feriti, gli eroi e i vigliacchi. Sì, una guerra. Lunga e interminabile. È questa l’immagine che ti si fissa nella mente qui, a Casal Di Principe, lembo devastato della “Campania ferox”. Monnezza, veleni, guappi, killer, onesti e disonesti, e gli sfregi della devastazione sui paesi, sulle terre, finanche sulla vita della gente. E come in ogni guerra ci sono i sopravvissuti, le vedove, gli orfani, i fratelli e i genitori dei caduti. Per loro ci sono anche le medaglie del capo dello Stato. Alla memoria, quella che da quattordici anni, ormai, “Libera” e don Luigi Ciotti, prete e coscienza critica dell’Italia smemorata e rassegnata, coltivano con ossessione. “Non ne posso più!. Ogni anno la lista dei morti di mafia, camorra e ’ndrangheta si allunga”, dice dal palco ai 40mila che sono venuti in questo pezzo di Sud da tutta Italia. Anche dal Nord. Per non dimenticare, ma anche per urlare che “L’etica libera la bellezza”.
Slogan bellissimo
Slogan bellissimo e ingenuo in queste lande offese da politici che blaterano di legalità senza mai pronunciare la parola camorra, quaquaraquà che prendono voti e ordini dai boss. Ma lo slogan piace ad un vecchio uomo. La sua faccia è di quelle che incontravi nel Sud di una volta. Larga, sincera, con le rughe di un tempo scandito da fatica e sacrifici. E’quella di Gennaro Diana. Suo figlio si chiamava Giuseppe, don Peppino, il prete di Casale che la camorra uccise il 19 marzo di quindici anni fa. Questa giornata è intitolata a lui, il suo giovane volto è una effige stampata su manifesti, magliette, un grande striscione che occupa tutto il palco. Un “Guevara” cattolico per scout, studenti, ragazzini delle medie e bambini delle elementari col cappellino giallo. Il vecchio Gennaro si guarda intorno e sorride. “Hanno ucciso mio figlio, ma da allora è iniziata la loro sconfitta. La camorra non ha vinto”. Accanto ha sua moglie Iolanda, il nero addosso e la medaglietta col volto di Pinuccio al collo, e un altro figlio, Emilio. “La sera prima di essere ucciso Peppino aveva chiesto di comprare le zeppole per la festa di San Giuseppe. Da noi usa così”. La mattina del 19 marzo 1994, erano le sette , quando un commando della camorra casalese entrò nella sagrestia della chiesa del paese. C’erano pochi fedeli a quell’ora, don Peppino era senza protezione. I killer spararono. Uccisero davanti all’altare e al volto santo del Cristo, come nel Salvador di monsignor Romero.
Dal palco enormi casse diffondono una canzone di Vasco Rossi, “voglio trovare un senso a questa storia”, dicono le parole. Già, qual è il senso di questa storia di guerra che ci racconta la morte di un prete? “E’ la forza bestiale della camorra”, risponde Emilio Diana. “I boss, non potevano sopportare che un prete parlasse in chiesa contro di loro, gli intoccabili”. “Per amore del mio popolo non tacerò”, diceva don Peppino, il prete-profeta. Che aveva idee chiarissime sui mali della sua terra. “Il disfacimento delle istituzioni civili ha consentito l’infiltrazione del potere camorristico a tutti i livelli. La camorra riempie un vuoto dello Stato che nelle amministrazioni è caratterizzato da corruzione, lungaggini e favoritismi. Così la camorra diventa uno Stato deviante e parallelo rispetto a quello ufficiale”.
Ieri come oggi
Ieri come oggi. Tutto uguale in queste terre del Sud dove i boss eleggono sindaci e deputati, dove un sottosegretario potente del governo Berlusconi, Nicola Cosentino, è indicato da cinque pentiti come referente dei clan, dove i boss si sono infiltrati nel grande business dei rifiuti e dei centri commerciali, dell’edilizia e dello sfruttamento dei fondi europei. Li chiamano i casalesi. “Casalese non è il nome di un clan, ma quello di un intero popolo”, avverte uno striscione. “Anche mio padre era un casalese”. Parlano i figli di Federico Del Prete. Di mestiere faceva il venditore ambulante, per passione il sindacalista, per rabbia e senso civico denunciò imbrogli e estorsioni. Lo uccisero il 18 febbraio 2002. “Papà fu lasciato solo, aveva scoperto il racket delle buste di plastica imposte dalla camorra agli ambulanti, un affare da 5 milioni di euro. Aveva denunciato tutto e gli avevano assegnato una scorta saltuaria”. Quando salgono sul palco a prendere la medaglia d’oro concessa dalla Presidenza della Repubblica, i figli di Federico Del Prete si tengono per mano. Con loro i familiari di Domenico Noviello, anche lui faceva l’imprenditore, anche lui aveva denunciato il racket del pizzo. Anche lui era solo e fu ucciso per il suo coraggio. “E allora basta - urla don Ciotti dal palco - la Chiesa dica con chiarezza che gli uomini e le donne della mafia, i complici e i conniventi sono fuori”. E’una guerra che va combattuta con atti concreti, “lavoro, giustizia sociale, sicurezza”. Perché la mafia più pericolosa è quella delle parole”. “E a parole ci siamo tutti, sempre”, dice con malinconia don Luigi Ciotti.
* l’Unità, 20 marzo 2009
Quarantamila in corteo a Gomorra
Don Ciotti: "La chiesa non sia ambigua"
Dalla Lombardia alla Sicilia in tanti hanno raggiunto il comune di Casale, nel casertano, per ricordare il sacerdote ucciso dai sicari della camorra il 19 marzo 1994 nella sua parrocchia. Don Luigi Ciotti, fondatore di Libera e Gruppo Abele: "La Chiesa respinga le ambiguità. Deve parlar chiaro, non deve fare sconti"
Un fiume di persone. Quarantimila, dicono gli addetti ai lavori. Ma forse, addirittura di più, nelle terre di Gomorra per ricordare don Peppino Diana, prete coraggio ucciso dai clan. Ma quella di Casal di Principe non è solo una celebrazione. Lo fa capire subito don Luigi Ciotti, fondatore di Libera e Gruppo Abele, che accusa la chiesa. Don Luigi chiede risposte e impegno a tutti nella lotta ai clan: alla gente, alla politica ma anche alla stessa chiesa che, in merito alla lotta alla criminalità organizzata "deve parlar chiaro, non deve fare sconti", dice scandendo bene le parole.
LE FOTO | I VIDEO
Don Ciotti chiede "meno parole e più fatti" e aggiunge riguardo alla chiesa: "Serve una linea di fermezza, bisogna ribadire sempre l’incompatibilità tra l’azione criminale e il Vangelo"."Fuori dalla chiesa - urla dal palco don Ciotti - uomini e donne di mafia. E’ incredibile che al matrimonio di Totò Riina c’erano tre preti che celebravano la messa". Quindi l’appello finale: "La chiesa, tutta la chiesa respinga le ambiguità".
Uomini, donne, bambini e anziani si sono incontrate nelle terre di Gomorra per ricordare il prete coraggio, don Peppino Diana, ucciso dai sicari della camorra il 19 marzo 1994 nella sua parrocchia di Casale. Molti pullman hanno viaggiato per tutta la notte da nord a sud per raggiungere il comune casertano. Altri sono arrivati in aereo e poi in auto, in treno. In corteo gonfaloni e scritte colorate di intere scolaresche dalla Lombardia alla Sicilia.
Al corteo ha partecipato anche il padre del sacerdote coraggioso, Gennaro Diana, che ripete con un sorriso velato da malinconia: "Ma la camorra si può battere". Il personaggio più ricercato è proprio il padre di don Peppino, emozionato ma attivissimo, dice a tutti: "La camorra bisogna combatterla sempre, soprattutto ora che i casalesi stanno fallendo". E aggiunge: "Loro, i camorristi, stanno peggio dei morti. Uccidendo mio figlio si erano illusi di aver conquistato la libertà e invece è iniziata la loro fine. Sai quante volte si sono pentiti di avere ucciso mio figlio, sì don Peppe è morto ma loro stanno anche peggio di lui".
* la Repubblica, 19 marzo 2009 - per le FOTO E IL VIDEO, clicca sul rosso
IL DOCUMENTO
È la camorra il nuovo terrorismo
don GIUSEPPE DIANA
ASSISTIAMO impotenti al dolore di tante famiglie che vedono i loro figli finire miseramente vittime o mandanti delle organizzazioni della camorra (...) La Camorra oggi é una forma di terrorismo che incute paura, impone le sue leggi e tenta di diventare componente endemica nella società campana.
I camorristi impongono con la violenza, armi in pugno, regole inaccettabili: estorsioni che hanno visto le nostre zone diventare sempre più aree sussidiate, assistite senza alcuna autonoma capacità di sviluppo; tangenti al venti per cento e oltre sui lavori edili, che scoraggerebbero l’imprenditore più temerario; traffici illeciti per l’acquisto e lo spaccio delle sostanze stupefacenti il cui uso produce a schiere giovani emarginati, e manovalanza a disposizione delle organizzazioni criminali; scontri tra diverse fazioni che si abbattono come veri flagelli devastatori sulle famiglie delle nostre zone; esempi negativi per tutta la fascia adolescenziale della popolazione, veri e propri laboratori di violenza e del crimine organizzato.
E’ oramai chiaro che il disfacimento delle istituzioni civili ha consentito l’infiltrazione del potere camorristico a tutti i livelli. La Camorra riempie un vuoto di potere dello Stato che nelle amministrazioni periferiche é caratterizzato da corruzione, lungaggini e favoritismi.
La Camorra rappresenta uno Stato deviante parallelo rispetto a quello ufficiale, privo però di burocrazia e d’intermediari che sono la piaga dello Stato legale. L’inefficienza delle politiche occupazionali, della sanità, ecc; non possono che creare sfiducia negli abitanti dei nostri paesi; un preoccupato senso di rischio che si va facendo più forte ogni giorno che passa, l’inadeguata tutela dei legittimi interessi e diritti dei liberi cittadini; le carenze anche della nostra azione pastorale ci devono convincere che l’Azione di tutta la Chiesa deve farsi più tagliente e meno neutrale per permettere alle parrocchie di riscoprire quegli spazi per una "ministerialità" di liberazione, di promozione umana e di servizio.
Forse le nostre comunità avranno bisogno di nuovi modelli di comportamento: certamente di realtà, di testimonianze, di esempi, per essere credibili. Il nostro impegno profetico di denuncia non deve e non può venire meno. Dio ci chiama ad essere profeti (...) Ai preti nostri pastori e confratelli chiediamo di parlare chiaro nelle omelie ed in tutte quelle occasioni in cui si richiede una testimonianza coraggiosa; alla Chiesa che non rinunci al suo ruolo "profetico" affinché gli strumenti della denuncia e dell’annuncio si concretizzino nella capacità di produrre nuova coscienza nel segno della giustizia, della solidarietà, dei valori etici e civili.
Tra qualche anno, non vorremmo batterci il petto colpevoli e dire con Geremia: "Siamo rimasti lontani dalla pace... abbiamo dimenticato il benessere... La continua esperienza del nostro incerto vagare, in alto ed in basso,... dal nostro penoso disorientamento circa quello che bisogna decidere e fare... sono come assenzio e veleno".
* la Repubblica, 18 marzo 2009
La mattina del 19 marzo ’94, quindici anni fa, Giuseppe Diana fu ammazzato
dai killer a Casal di Principe. Aveva preso posizione esplicita contro lo strapotere della famiglia
Don Peppino, eroe in tonaca
ucciso dal Sistema dei clan
Le cosche tentarono di diffamarlo spargendo veleni dopo la morte
Rifondò la missione pastorale: denuncia e testimonianza contro le violenze e le sopraffazioni
di ROBERTO SAVIANO *
LA mattina del 19 marzo del 1994 don Peppino era nella chiesa di San Nicola, a Casal di Principe. Era il suo onomastico. Non si era ancora vestito con gli abiti talari, stava nella sala riunioni vicino allo studio. Entrarono in chiesa, senza far rimbombare i passi nella navata, non vedendo un uomo vestito da prete, titubarono.
Chi è Don Peppino?
Sono io...
Poi gli puntarono la pistola semiautomatica in faccia. Cinque colpi: due lo colpirono al volto, gli altri bucarono la testa, il collo e la mano. Don Peppino Diana aveva 36 anni. Io ne avevo 15 e la morte di quel prete mi sembrava riguardare il mondo degli adulti. Mi ferì ma come qualcosa che con me non aveva relazione. Oggi mi ritrovo ad essere quasi un suo coetaneo. Per la prima volta vedo don Peppino come un uomo che aveva deciso di rimanere fermo dinanzi a quel che vedeva, che voleva resistere e opporsi, perché non sarebbe stato in grado di fare un’altra scelta.
Dopo la sua morte si tentò in ogni modo di infangarlo. Accuse inverosimili, risibili, per non farne un martire, non diffondere i suoi scritti, non mostrarlo come vittima della camorra ma come un soldato dei clan. Appena muori in terra di camorra, l’innocenza è un’ipotesi lontana, l’ultima possibile. Sei colpevole sino a prova contraria. Persino quando ti ammazzano, basta un sospetto, una voce diffamatoria, che le agenzie di stampa non battono neanche la notizia dell’esecuzione. Così distruggere l’immagine di don Peppino Diana è stata una strategia fondamentale. Don Diana era un camorrista titolò il Corriere di Caserta. Pochi giorni dopo un altro titolo diffamatorio: Don Diana a letto con due donne.
Il messaggio era chiaro: nessuno è veramente schierato contro il sistema. Chi lo fa ha sempre un interesse personale, una bega, una questione privata avvolta nello stesso lerciume. Don Peppino fu difeso da pochi cronisti coraggiosi, da Raffaele Sardo a Conchita Sannino, da Rosaria Capacchione, Gigi Di Fiore, Enzo Palmesano e pochi altri. Ricordarlo oggi - a 15 anni dalla morte - significa quindi aver sconfitto una coltre di persone e gruppi che pretendevano di avere il monopolio sulle informazioni di camorra, in modo da poterle controllare. Ricordarlo è la dimostrazione che anche questa terra può essere raccontata in modo diverso da come è successo per lungo tempo. Come dice Renato Natale, ex sindaco di Casal di Principe e amico di don Peppe, "è sempre complicato accettare l’eroismo di chi ci sta vicino, perché questo sottolineerebbe la nostra ignavia". Don Peppino fu ucciso nel momento in cui Francesco Schiavone Sandokan era latitante, mentre i grandi gruppi dei Casalesi erano in guerra e i grandi affari del cemento e dei rifiuti divenivano le nuove frontiere dei loro imperi. Don Peppino non voleva fare il prete che accompagna le bare dei ragazzi soldato massacrati dicendo "fatevi coraggio" alle madri in nero.
A condannarlo fu ciò che aveva scritto e predicato. In chiesa, la domenica, tra le persone, in piazza, tra gli scout, durante i matrimoni. E soprattutto il documento scritto assieme ad altri sacerdoti: "Per amore del mio popolo non tacerò". Distribuì quel documento il giorno di Natale del 1991. Bisognava riformare le anime della terra in cui gli era toccato nascere, cercare di aprire una strada trasversale ai poteri, l’unica in grado di mettere in crisi l’autorità economica e criminale delle famiglie di camorra.
"Assistiamo impotenti al dolore di tante famiglie che vedono i loro figli finire miseramente vittime o mandanti delle organizzazioni della Camorra. - scriveva - La Camorra oggi è una forma di terrorismo che incute paura, impone con violenza, armi in pugno, regole inaccettabili: estorsioni; tangenti al venti per cento e oltre sui lavori edili, che scoraggerebbero l’imprenditore più temerario, traffici illeciti per l’acquisto e lo spaccio delle sostanze stupefacenti... ".
La cosa incredibile è che quel prete ucciso, malgrado tutto, continuò a far paura anche da morto. Le fazioni in lotta di Sandokan e di Nunzio di Falco cominciarono a rinfacciarsi reciprocamente la colpa del suo sangue, proponendo di testimoniare la loro estraneità a modo loro: impegnandosi a fare a pezzi i presunti esecutori della banda avversaria. Oltre a cercare di diffamare Don Peppino, dovevano cercare di lanciarsi dei messaggi scritti con la carne, per togliersi di dosso il peso dell’uccisione di quell’uomo. Così come era stato difficile trovare i killer disposti a farlo fuori. Uno si ritirò dicendo che a Casale lo conoscevano in troppi, un altro accettò ma a condizione partecipasse pure un suo amico, come un bambino che non ha il coraggio di fare da solo una bravata.
Nel corso della notte prima dell’agguato, uno dei killer tormentati riuscì a convincere un altro a rimpiazzarlo, ma il sostituto, l’unico che non sembrava volersi tirare indietro, era l’esecutore meno adatto. Soffriva di epilessia e dopo aver sparato rischiava cadere a terra in convulsioni, crisi, bava alla bocca. Con questi uomini, con questi mezzi, con queste armi fu ucciso Don Peppino, un uomo che aveva lottato solo con la sua parola e che rivoluzionò il metodo della missione pastorale. Girava per il paese in jeans, non orecchiava le beghe delle famiglie, non disciplinava le scappatelle dei maschi né andava confortando donne tradite. Aveva compreso che non poteva che interessarsi delle dinamiche di potere. Non voleva solo confortare gli afflitti, ma soprattutto affliggere i confortati. Voleva fare chiarezza sulle parole, sui significati, sui perimetri dei valori.
Scrisse: "La camorra chiama "famiglia" un clan organizzato per scopi delittuosi, in cui è legge la fedeltà assoluta, è esclusa qualunque espressione di autonomia, è considerata tradimento, degno di morte, non solo la defezione, ma anche la conversione all’onestà; la camorra usa tutti i mezzi per estendere e consolidare tale tipo di "famiglia", strumentalizzando persino i sacramenti. Per il cristiano, formato alla scuola della Parola di Dio, per "famiglia" si intende soltanto un insieme di persone unite tra loro da una comunione di amore, in cui l’amore è servizio disinteressato e premuroso, in cui il servizio esalta chi lo offre e chi lo riceve. La camorra pretende di avere una sua religiosità, riuscendo, a volte, ad ingannare, oltre che i fedeli, anche sprovveduti o ingenui pastori di anime (...) Non permettere che la funzione di "padrino", nei sacramenti che lo richiedono, sia esercitata da persone di cui non sia notoria l’onestà della vita privata e pubblica e la maturità cristiana. Non ammettere ai sacramenti chiunque tenti di esercitare indebite pressioni in carenza della necessaria iniziazione sacramentale...".
Questo è il lascito di Don Peppino Diana, un lascito che ancora oggi resta difficile accogliere e onorare. La speranza è nelle nuove generazioni di figli di immigrati, e nuovi figli di questo meridione, persone che torneranno dalla diaspora dell’emigrazione, emorragia inarrestabile. Il pensiero e il ricordo di Don Peppino sarà per loro quello di un giovane uomo che ha voluto far bene le cose. E si è comportato semplicemente come chi non ha paura e dà battaglia con le armi di cui dispone, di cui possono disporre tutti. E riconosceranno quanto fosse davvero incredibilmente nuova e potente la volontà di porre la parola al centro di una lotta contro i meccanismi di potere. Parole davanti a betoniere e fucili. Realmente, non come metafore. Una parola che è sentinella, testimone, così vera e aderente e lucida che puoi cercare di eliminarla solo ammazzando. E che malgrado tutto è riuscita a sopravvivere. E io a Don Peppino vorrei dedicare quasi una preghiera, una preghiera laica rivolta a qualunque cosa aiuti me e altri a trovare la forza per andare avanti, per non tradire il suo esempio, offrendogli le parole di un rap napoletano. "Dio, non so bene se tu ci sei, né se mai mi aiuterai, so da quale parte stai".
* la Repubblica, 18 marzo 2009
Italiani brava gente
di Barbara Spinelli (La Stampa, 21/12/2008)
Forse è per le cose che ha detto Gianfranco Fini il 16 dicembre - la società italiana consentì passivamente alle leggi razziali di Mussolini nel ’38; anche la Chiesa s’adattò, nonostante «luminose eccezioni» - che le parole in Italia si pervertono così facilmente e ciclicamente. Non scottano quando dovrebbero scottare, infuocano quando descrivono fatti accertati. Quel che è normale viene esagerato, quel che è irregolare o illegale vien vissuto e presentato come normalità. Quando nel mondo delle parole si crea sì vasta confusione vuol dire che s’è smarrita la via, che si va in giro come ciechi di notte, che vero e falso si mischiano. Le parole sono un luogo: perdi le coordinate, quando non corrispondono più a nulla. Se i profeti biblici faticano tanto a dirle, se spesso addirittura le fuggono, è perché le vogliono puntuali, attendibili, non manipolabili da chi tende a «proseguire la sua corsa senza voltarsi» (Geremia 8,6).
Non dovrebbe troppo stupirsi, Fini, per l’impermalimento che ha suscitato.
Non dovrebbe neppure tranquillizzarsi troppo, come se la patologia non riguardasse anche lui, anche l’oggi, anche i commentatori facili a scrutare i cedimenti passati, meno facili a scrutare i cedimenti presenti. La «propensione al conformismo» di cui ha parlato, la «vocazione all’indifferenza più o meno diffusa», la complicità «sotterranea e oscura, negata ma presente»: sono vizi del passato che sopravvivono. Lo «stereotipo autoassolutorio e consolatorio degli italiani brava gente, smontato dal Presidente della Camera, intorpidì le menti nel ’38 e ancor oggi. È quello che più colpisce, nel 2008 che si conclude riaprendo d’un tratto, a destra e sinistra, la questione morale. Se la gente continua a correre senza voltarsi, come priva di bussola, è perché l’Italia non sa guardare dentro di sé e capire quel che ognuno fa, tacendo o restando indifferente. I tedeschi, che hanno lavorato sulla memoria, sono divenuti eminentemente circospetti, toccano i vocaboli quasi fossero oggetti puntuti e bollenti. Ci hanno messo circa quarant’anni per riavvicinarsi alla parola Vaterland, patria, memori dell’infamia che la sporcò. Tutti gli aggettivi legati a Volk, popolo, li imbarazzano. Non usano l’aggettivo sovversivo, se non in casi limite. Esitano anche davanti ai termini bellici: durante il terrorismo il figlio di Thomas Mann, Golo, parlò di guerra contro lo Stato. La classe politica si ribellò: quella non era guerra ma crimine che non giustificava, come avviene in guerra, stravolgimenti delle leggi repubblicane.
Non così in Italia, dove proprio queste parole - eversione, guerra - s’insediano come ineludibili lasciapassare che creano connivenze di gruppo e son condivise da chi ignora i disastri nati in passato da conformismo o indifferenza. Non sembra esserci ricordo né del fascismo né del terrorismo, quando ci fu eversione contro lo Stato di diritto. Eversivo e sedizioso è chi si ribella all’ordine costituzionale, sovvertendolo. Quest’aggettivo, lo sentiamo quasi ogni giorno ai telegiornali, proferito dai governanti a proposito del modo di opporsi di Di Pietro, senza che nessuno obietti: Berlusconi non fu criticato con tanta frequenza, quando prese il potere. Di Pietro è confutabile - ogni politico lo è - ma in altre democrazie sarebbe giudicato del tutto regolare. Molto più di chi, pochi anni fa, prometteva di abolire il mercato. Si distinguono per faccia tosta soprattutto gli ex craxiani, che non furono così severi quando auspicarono il negoziato con le Brigate Rosse durante l’affare Moro.
Lo stesso accade con la parola guerra. Quando si parla di guerra tra procure, o tra magistratura e politica, si confondono e oscurano i fatti. Si dimentica quel che spetta ai vari poteri dello Stato. Si ignora che tra procure non c’è stata ultimamente guerra (allo stesso modo in cui non ci fu guerra tra etnie jugoslave, ma aggressione serba contro altre etnie): c’è stata azione legale di una procura chiamata a indagare sia su De Magistris sia su chi a Catanzaro ostacolava De Magistris (i magistrati di Catanzaro, per legge, possono esser indagati solo da quelli di Salerno da cui dipendono). Il Consiglio superiore della magistratura e lo stesso Quirinale avrebbero potuto ascoltare quel che la procura di Salerno riferì due volte al Csm, invece di chiudersi per un anno nella passività.
Il peccato di conformismo è di ritorno perché son rari coloro che in Di Pietro scorgono un politico normale: ben più normale della Lega che ha non solo vilipendiato l’unità nazionale ma sprezzato, minacciando l’uso dei fucili, il monopolio legale della violenza. Sono rarissimi coloro che magari hanno dubbi sull’inchiesta di De Magistris e tuttavia non ritengono che essa dovesse essergli sottratta. Quel che conformismo e passività fanno con le parole è letale: l’illegale diventa la norma, la norma desta sospetto. Nichilismo è il suo nome, nella storia d’Europa: lo denuncia l’appello del 12 dicembre di Marco Travaglio e Massimo Fini, anche se il loro giudizio sul fascismo è, a mio parere, troppo indulgente. Lo denuncia Roberto Saviano, ieri su Repubblica, quando descrive la corruzione inconsapevole di destra e sinistra; l’assenza nei coinvolti delle inchieste napoletane o abruzzesi della percezione dell’errore e tanto meno del crimine; lo scambio di favori banalizzato; il «triste cinismo» di chi dice: «Tutto è comunque marcio. Non esistono innocenti perché in un modo o nell’altro tutti sono colpevoli».
All’origine di simili vizi c’è una confusione di compiti che spiega il caos linguistico, il discredito della giustizia, infine la concentrazione dei poteri. Non si sopporta che giudici e pm agiscano in autonomia. Sentendosi assediati, essi finiscono spesso col vedere solo i propri problemi. Si vorrebbe che i magistrati non fossero più obbligati a prendere in considerazione qualsiasi denuncia: secondo il ministro Alfano, le priorità date ai procedimenti più urgenti vanno «scelte dal legislatore (cioè dalla politica, ndr) e raccolte direttamente dalla sensibilità dei cittadini». Non si sopporta che l’opposizione faccia l’opposizione, se non collabora col governo. La confusione s’estende alla scienza, alla medicina, alle vite private. Alla fine non si sopporta neppure che una persona ridotta a stato vegetativo muoia come ha deciso. Se la magistratura ne approva le scelte, l’esecutivo cancella la separazione di competenze e anche qui accentra i poteri. Gli stessi che denunciano lo Stato etico prediletto dai totalitari oggi lo ripropongono. Il sottosegretario alla Salute Eugenia Roccella fa questo, quando difende i veti del ministro Sacconi all’alimentazione interrotta e la violazione di una sentenza esecutiva della Corte d’appello di Milano: il morente in stato vegetativo non ha una sua volontà. È «affidato all’altro anche se avesse testimoniato volontà diverse, anche se l’avesse lasciato scritto». Il giurista Michele Ainis vede un pericolo grande: lo Stato invadente è in realtà vacillante, cede a Antistati (lobby, Chiesa) che lo disfano e su cui il cittadino non ha più influenza.
Riprendersi le parole, rimetterle al loro posto: comincia così l’uscita dalla crisi, probabilmente. È Saviano a ricordarlo, in Gomorra a pagina 258, quando evoca don Peppino Diana, ucciso dalla camorra nel ’94: «Pensavo ancora una volta alla battaglia di don Peppino, alla priorità della parola. A quanto fosse davvero incredibilmente nuova e potente la volontà di porre la parola al centro di una lotta contro i meccanismi di potere. Parole davanti a betoniere e fucili. E non metaforicamente. Realmente. Lì a denunciare, testimoniare, esserci. La parola con l’unica sua armatura: pronunciarsi. Una parola che è sentinella, testimone: vera a patto di non smettere mai di tracciare. Una parola orientata in tal senso la puoi eliminare solo ammazzando».
Raffaele Cantone, napoletano, diventa magistrato per amore del diritto
Assegnato alla Direzione distrettuale antimafia, combatte contro la camorra casalese
Giustizia, la società con lo Stato
L’uomo della legge nella terra dei boss
Vive da anni sotto scorta. Adesso racconta in un libro la sua vita in prima linea
di ROBERTO SAVIANO *
QUALCHE volta, quando non ne posso più della mia vita blindata, sento Raffaele Cantone perché vive costantemente sotto scorta non da due anni, ma da molti di più. Cantone ha scritto un libro che racconta il suo periodo alla Dda di Napoli, intitolato Solo per giustizia. Diviene magistrato quasi per caso, dopo aver cominciato a fare pratica come avvocato penalista. Diviene magistrato per amore del diritto. Ed è proprio quel percorso che lo porta a divenire un nemico giurato dei clan. Non lo muove nessuna idea di redimere il mondo, nessuna vocazione missionaria a voler estirpare il cancro della criminalità organizzata. Lo guidano invece la conoscenza del diritto, la volontà di far bene il proprio lavoro, e anche il desiderio di capire un fenomeno vicino al quale era cresciuto. A Giugliano. Un territorio attraversato da guerre di camorra che ricorda sin da quando era ragazzo.
"C’erano periodi in cui i morti si contavano anche quotidianamente, spesso ammazzati in pieno giorno e in presenza di passanti terrorizzati. Le nostre famiglie avevano paura. Per timore che potessimo andarci di mezzo anche noi, ci raccomandavano di non andare in giro per il paese, di uscire solo quando era necessario. Quindi gran parte del tempo libero la si trascorreva a casa di qualcuno dei ragazzi della comitiva. Ma quando si spargeva la voce di un omicidio, anche noi "bravi ragazzi" spesso non resistevamo alla tentazione di andare nei paraggi per sentire chi era la vittima, a che gruppo apparteneva e soprattutto se era qualcuno che conoscevamo. Perché capita così, nella provincia: anche se si appartiene a mondi diversi, finisce che ci si conosce almeno di vista o di fama. E fu proprio un ragazzo conosciuto solo di vista una delle vittime innocenti di quella faida che sembrava eterna. Era un po’ più grande di me e i sicari lo avevano scambiato per un affiliato della parte avversa, perché gli somigliava vagamente e soprattutto perché aveva un’auto di colore molto simile. Solo dopo avergli sparato si erano accorti dell’errore e si erano fermati. Ma alcuni colpi avevano raggiunto la colonna vertebrale e paralizzandolo in tutta la parte inferiore, avevano reso il giovane invalido per il resto della vita. Ancora oggi mi capita talvolta di incontrarlo, spinto sulla sua sedia a rotelle dalla moglie che all’epoca era la sua giovanissima fidanzata".
Un uomo che si forma in una situazione del genere comprende che il diritto diviene uno strumento fondamentale per concedere dignità di vita. Una dignità basilare, quella di vivere, di lavorare, di amare. Dove la regola non soffoca l’uomo ma anzi è l’unico strumento per concedergli libertà. Poco prima era stata uccisa una ragazza di poco più di diciotto anni, figlia di un collega di suo padre. L’unica sua colpa era stata quella di essere uscita di casa nel momento sbagliato. Morì al posto di un delinquente in soggiorno obbligato che più tardi sarebbe diventato uno dei capi del clan dei Casalesi, uno dei più feroci: Francesco Bidognetti, detto "Cicciott’ ’e mezzanotte".
Quel caso non ha mai avuto soluzione giudiziaria. E lentamente il ricordo si è sbiadito. I genitori sono morti entrambi di crepacuore. Anche il penultimo omicidio dei Casalesi è avvenuto proprio a Giugliano, non lontano da dove Cantone è tornato ad abitare con la sua famiglia. Quando si sono trasferiti nella casa nuova, i vicini e i negozianti hanno organizzato una raccolta di firme per mandarli via. Qualcuno ha persino lasciato una valigia al posto dove sosta la pattuglia di vigilanza: era vuota, ma doveva simulare un ordigno.
Il libro è la storia di questa quotidianità, la quotidianità di un magistrato in terra di camorra e delle ripercussioni pesantissime che questo pone anche sulla vita dei suoi famigliari. Come quando un maresciallo che in quel periodo faceva il capo scorta vuole portarlo a vedere la partita del Napoli. Cantone, sempre attentissimo a non accettare favori, continua a rimandare sino a quando l’invito viene espresso quando c’è pure suo figlio di cinque anni che è già tifosissimo. ""Papà, mi ci porti? Andiamo a vedere la partita? Ti prego!". E allora accettai, a condizione che non piovesse". La domenica il maresciallo si presenta con una persona sconosciuta che a sua volta ha portato il figlio. "Questa sorpresa mi seccò a tal punto che fui tentato di dire che avevo cambiato idea. Ma come facevo con Enrico? Non avrebbe più smesso di piangere per la delusione".
Il giorno dopo, in Procura, chiamano Cantone chiedendogli con imbarazzo se è stato allo stadio e con chi. Perché l’amico del maresciallo è stato intercettato nell’ambito di un’inchiesta sugli affari dei Casalesi mentre assicurava uno degli indagati che a questo punto il pm sarebbe stato "avvicinabile". Non ne consegue nessun danno all’indagine, ma Cantone è furioso e sconvolto. L’unica volta che per amore di suo figlio si è sforzato di abbandonare la diffidenza che il mestiere gli ha fatto divenire seconda natura, scopre che la passione innocente di un bambino è stata strumentalizzata e abusata.
La diffidenza ha dovuto impararla presto, anni prima di entrare in antimafia. È una lezione che si iscrive nella sua carne e dentro la sua anima. "Un giorno d’inverno stavo tornando a casa nel primo pomeriggio, con l’intenzione di chiudermi nello studio e guardare con calma alcune carte. Come al solito, prima di salire, mi fermai alla cassetta delle lettere per prendere la posta. Quella volta ci trovai soltanto un foglio piegato, senza busta. E ancora adesso, quando penso al gesto automatico con cui lo aprii e vidi cosa c’era scritto, risento i brividi che mi assalirono in quel momento. Era una sorta di volantino, composto da ben due pagine. In alto c’era una mia fotografia [...] Il testo era spaventoso. Un congegno osceno orchestrato con dati reali della mia vita e con calunnie gigantesche [...] Nel volantino c’era posto per tutti i miei familiari".
Cantone corre a metterne al corrente il procuratore Agostino Cordova, capendo che l’attacco è gravissimo. Però non riesce ad immaginare la portata di quella campagna di diffamazione. Il giorno dopo il volantino arriva a tutti i colleghi, a carabinieri e polizia, a molti avvocati e politici campani, a tutte le redazioni dei giornali, al Csm, persino a Giancarlo Caselli e Saverio Borrelli. Migliaia di volantini mandati ovunque. Per distruggere un semplice sostituto procuratore che stava svolgendo un’indagine su un’immensa truffa assicurativa, seguendone le tracce per mezza Europa.
Sono pagine impressionanti perché evidenziano con estrema limpidezza come funziona la diffamazione. Non ti si attacca frontalmente, a viso aperto. Cercano di isolarti mettendo in circolazione il virus della calunnia, certi che da qualche parte l’infezione attecchisca e il contagio si propaghi. E che a quel punto il danno sarà irreparabile. ""Meglio una calunnia che un proiettile in testa" era una frase che mi fu detta come sincero incoraggiamento da più di un collega. Ma di questo, sebbene sia un’affermazione di buon senso, non ero e non sono tanto certo. Io mi sentivo come se cercassero di farmi una cosa anche peggiore che eliminarmi fisicamente. Perché si può distruggere un uomo, annientarlo, senza nemmeno torcergli un capello. E paradossalmente è molto difficile che questo accada quando si uccide veramente".
È questo uno dei punti più dolenti. La diffamazione ti lascia vivo fisicamente, ma annienta tutto quello che hai fatto. Come una sorta di bomba a neutrone che lascia intatte le cose mentre cancella ogni forma di vita. La vita morale di un uomo non può mai essere distrutta così radicalmente come dalla calunnia. Per questo anche chi è abituato a uccidere spesso la preferisce al piombo.
Quando entra alla Direzione distrettuale antimafia e gli viene assegnato il Casertano, c’è chi commenta: "Come al solito, Raffae’, t’hanno fatto?". Il che in italiano si tradurrebbe con "fregato" o forse ancora meglio con "ti hanno rifilato un pacco". "La camorra casalese veniva vista come qualcosa di molto feroce e impegnativo e al tempo stesso provinciale, di scarso prestigio".
Ma il processo Spartacus aveva segnato una svolta e il libro è un omaggio a tutti i magistrati che l’avevano istruito e a tutti quelli che, come Cantone stesso, hanno successivamente portato avanti un impegno difficilissimo: Di Pietro, Cafiero de Raho, Greco, Visconti, Curcio, Ardituro, Conzo, Del Gaudio, Falcone, Maresca, Milita, Sirignano e Roberti.
Perché in certi territori la lotta per la legalità e la giustizia è una battaglia combattuta ad armi terribilmente impari. I clan hanno danaro, armi, uomini, coperture e collusioni a non finire. Dall’altra parte i mezzi sono limitati, la mole di lavoro è talmente enorme che bisogna essere disposti a fare straordinari che per molti non sono nemmeno pagati. Tutto il successo è sulle spalle di chi continua a voler far bene il proprio lavoro: magistrati, carabinieri, poliziotti, finanzieri. Uomini che rischiano la vita per senso del dovere e magari anche per lealtà verso i superiori che hanno saputo conquistarsi la loro fiducia, una lealtà primaria da soldati in trincea, e che non vengono ricordati quasi mai. E invece il libro di Cantone gli rende omaggio e gli concede visibilità. Uomini che spesso in territori marci sono il vero argine per contrastare lo strapotere delle mafie. Cantone si sente uno di loro: non un eroe, semplicemente un magistrato che ama il suo lavoro perché ama il diritto, crede nell’accertamento della verità.
Questo per i boss è incomprensibile. Non riescono a concepire che un magistrato persegua solo la giustizia, non personalmente loro. Che non tutti gli uomini sono uguali a loro. I boss sanno che non tutti ammazzano e che non tutti resistono al carcere. Ma sono certi che tutti vogliono danaro, fama, donne e potere. E chi non lo ammette, sta dissimulando, mentendo, imbrogliando. Così la pensa Augusto La Torre, il ferocissimo quanto intelligente capo del clan di Mondragone che l’impegno di Cantone ha messo in ginocchio. È il primo a pianificare un attentato contro di lui ed è anche uno dei primi a pentirsi. Durante gli interrogatori indulge con particolare precisione sui dettagli degli omicidi che ha commesso: la prima strage di extracomunitari a Pescopagano, il gesto con cui tappa col dito lo zampillo di sangue che esce dal buco sulla fronte dell’autista di un capozona dei Casalesi, lo strangolamento con un filo della luce di un piccolo affiliato soltanto sospettato di essere un "infame", mentre il boss continua a ripetergli "non ti faccio niente, non ti faccio niente".
Eppure, ragiona Raffaele Cantone con amarezza, il clan che pareva sconfitto si riforma. Meno potente, ma il territorio riprende a sottomettersi. La camorra non è possibile sconfiggerla soltanto con indagini e processi, sequestri e arresti. Raffaele Cantone oggi non lavora più alla Dda, è diventato giudice al massimario della Cassazione. Ma ha voluto dare un altro strumento per sconfiggere le mafie. Un libro in cui si racconta come si arriva a diventare uno dei principali nemici dei clan e come è fatta la vita di chi li combatte: solo per giustizia.
(2008 by Published by arrangement with Roberto Santachiara Literary Agency)
* la Repubblica, 26 ottobre 2008.
Anche Riboldi si schiera per Saviano
Monsignor Antonio Riboldi, a lungo nel mirino della camorra, invita lo scrittore Roberto Saviano a non fuggire e a mettere mano insieme a lui ad un progetto che faccia emergere i «segnali positivi di Napoli». Un progetto di cui, come racconta il vescovo emerito di Acerra, hanno parlato di recente. «Io e Saviano - racconta monsignor Riboldi - non molto tempo fa ci siamo incontrati. Ci lega una stima reciproca e, in quell’occasione, si era pensato di lavorare ad un progetto anticamorra. Oggi è diventato difficile rintracciare Saviano ma la proposta è più che mai valida: uniamo le nostre esperienze per creare qualcosa di positivo». Don Riboldi non parla solo da uomo di Chiesa, ma da chi ha visto «la morte in faccia varie volte. Per quindici anni - racconta - ho vissuto con la scorta. La mia pena era che non potevo vedere nulla del mondo esterno. Ero recluso da libero».
* Avvenire, 22.10.2008.
Su Repubblica.it oltre 150mila firme aderiscono altri premi Nobel
"Ringrazio chi in questi giorni ha sentito che il mio dolore era anche il suo dolore"
Saviano: "Ogni voce che resiste mi rende meno solo" di ROBERTO SAVIANO *
GRAZIE per tutto quanto state facendo. È difficile dimostrare quanto sia importante per me quello che è successo in questi giorni. Quanto mi abbia colpito e rincuorato, commosso e sbalordito sino a lasciarmi quasi senza parole. Non avrei mai immaginato che potesse accadere niente di simile, mai mi sarei sognato una tale reazione a catena di affetto e solidarietà.
Grazie al Presidente della Repubblica, che, come già in passato, mi ha espresso una vicinanza in cui non ho sentito solo l’appoggio della più alta carica di questo paese, ma la sincera partecipazione di un uomo che viene dalla mia terra.
Grazie al presidente del Consiglio e a quei ministri che hanno voluto dimostrarmi la loro solidarietà sottolineando che la mia lotta non dev’essere vista disgiunta dall’operato delle forze che rappresentano lo Stato e anche dall’impegno di tutti coloro che hanno il coraggio di non piegarsi al predominio della criminalità organizzata. Grazie allo sforzo intensificato nel territorio del clan dei Casalesi, con la speranza che si vada avanti sino a quando i due latitanti Michele Zagaria e Antonio Iovine - i boss-manager che investono a Roma come a Parma e Milano - possano essere finalmente arrestati.
Grazie all’opposizione e ai ministri ombra che hanno appoggiato il mio impegno e quanto il governo ha fatto per la mia sicurezza. Scorgendo nella mia lotta una lotta al di là di ogni parte.
Le letture delle mie parole che sono state fatte in questi giorni nelle piazze mi hanno fatto un piacere immenso. Come avrei voluto essere lì, in ogni piazza, ad ascoltare. A vedere ogni viso. A ringraziare ogni persona, a dirgli quanto era importante per me il suo gesto.
Perché ora quelle parole non sono più le mie parole. Hanno smesso di avere un autore, sono divenute la voce di tutti. Un grande, infinito coro che risuona da ogni parte d’Italia. Un libro che ha smesso di essere fatto di carta e di simboli stampati nero su bianco ed è divenuto voce e carne. Grazie a chi ha sentito che il mio dolore era il suo dolore e ha provato a immaginare i morsi della solitudine.
Grazie a tutti coloro che hanno ricordato le persone che vivono nella mia stessa condizione rendendole così un po’ meno sole, un po’ meno invisibili e dimenticate. Grazie a tutti coloro che mi hanno difeso dalle accuse di aver offeso e diffamato la mia terra e a tutti coloro che mi hanno offerto una casa non facendomi sentire come uno che si è messo nei guai da solo e ora è giusto che si arrangi.
Grazie a chi mi ha difeso dall’accusa di essere un fenomeno mediatico, mostrando che i media possono essere utilizzati come strumento per mutare la consapevolezza delle persone e non solo per intrattenere telespettatori.
Grazie alle trasmissioni televisive che hanno dato spazio alla mia vicenda, che hanno fatto luce su quel che accade, grazie ai telegiornali che hanno seguito momento per momento mutando spesso la scaletta solita dando attenzione a storie prima ignorate.
Grazie alle radio che hanno aperto i loro microfoni a dibattiti e commenti, grazie specialmente a Fahrenheit (Radio 3) che ha organizzato una maratona di letture di Gomorra in cui si sono alternati personaggi della cultura, dell’informazione, dello spettacolo e della società civile. Voci che si suturano ad altre voci.
Grazie a chi, in questi giorni, dai quotidiani, alle agenzie stampa, alle testate online, ai blog, ha diffuso notizie e dato spazio a riflessioni e approfondimenti. Da questo Sud spesso dimenticato si può vedere meglio che altrove quanto i media possano avere talora un ruolo davvero determinante. Grazie per aver permesso, nonostante il solito cinismo degli scettici, che si formasse una nuova sensibilità verso tematiche per troppo tempo relegate ai margini. Perché raccontare significa resistere e resistere significa preparare le condizioni per un cambiamento.
Grazie ai social network Facebook e Myspace, da cui ho ricevuto migliaia di messaggi e gesti di vicinanza, che hanno creato una comunity dove la virtualità era il preludio più immediato per le iniziative poi organizzate in piazza da persone in carne e ossa.
Grazie ai professori delle scuole che hanno parlato con i ragazzi, grazie a tutti coloro che hanno fatto leggere e commentare brani del mio libro in classe. Grazie alle scuole che hanno sentito queste storie le loro storie.
Grazie a tutte le città che mi hanno offerto la cittadinanza onoraria, a queste chiedo di avere altrettanta attenzione a chi concedono gli appalti e a non considerare estranei i loro imprenditori e i loro affari dagli intrecci della criminalità organizzata.
E grazie al mio quotidiano e ai premi Nobel e ai colleghi scrittori di tante nazionalità che hanno scritto e firmato un appello in mio appoggio, scorgendo nella vicenda che mi ha riguardato qualcosa che travalica le problematiche di questo paese e facendomi sentire a pieno titolo un cittadino del mondo.
Eppure Cesare Pavese scrive che "un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti".
Io spesso in questi anni ho pensato che la cosa più dura era che nessuno fosse lì ad aspettarmi. Ora so, grazie alle firme di migliaia di cittadini, che non è più così, che qualcosa di mio è diventato qualcosa di nostro. E che paese non è più - dopo questa esperienza - un’entità geografica, ma che il mio paese è quell’insieme di donne e uomini che hanno deciso di resistere, di mutare e di partecipare, ciascuno facendo bene le cose che sa fare. Grazie.
* la Repubblica, 22 ottobre 2008
Tra i «maestri» di Saviano c’è stato pure don Peppino Diana; e non a caso sulla sua tomba lo scrittore ha portato una copia del libro
Credenti uniti contro Gomorra
di GENNARO MATINO (Avvenire, 21.10.2008)
Ho incontrato Roberto Saviano prima che diventasse famoso, quando Gomorra non era ancora in libreria. Lo conobbi una sera a cena in una pizzeria di Forcella a Napoli: ero con Erri De Luca, Nives Meroi - una delle poche donne che ha scalato le vette più alte del mondo - e Antonio Franchini. Mai persone tanto diverse furono sedute alla stessa tavola e mai barriere e frontiere furono abbattute con tanta semplicità. Intorno a una pizza, anche la differenza rende compagni. Ricordo con piacere quella serata, soprattutto ricordo il volto di Roberto, illuminato di speranza, perché convinto di aver reso con la sua professione un servizio alla sua città, alla giustizia, alla verità. Ci raccontò come avesse fatto mille ricerche e quanto lavoro gli fosse costato scrivere Gomorra, ma nessuno quella sera, tanto meno lui, né Antonio che aveva scoperto il suo talento, poteva immaginare che avrebbe avuto tanto successo.
Sono convinto che, al di là delle indubbie qualità del libro, il successo di Saviano sia dovuto, più che alla carta stampata, alla sua testimonianza, al coraggio del martirio che non necessariamente è quello cruento, ma quello di chi, giorno dopo giorno, rischia la vita per annunciare la verità in cui crede. E Roberto lo ha fatto, tornando a Casal di Principe, tempo dopo la pubblicazione di Gomorra, per partecipare a una manifestazione contro la camorra, sfidando le cosche del malaffare, dichiarando pubblicamente il suo nome e facendo i nomi dei potenti dei clan. Li chiamò per nome, uno ad uno, ad alta voce, perché sapeva che la carta stampata da sola non parla, ma acquista il potere della denuncia solo a condizione di rischiare fino in fondo, fino al martirio, assumendosi la responsabilità di quanto si è scritto. Paolo VI affermò che «l’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri ». In un tempo di parole vuote, carente di autentiche testimonianze, l’appello al mondo di Papa Montini risuona oggi più che mai come un monito per la coscienza di quanti si nascondono dietro parole dette o scritte, senza avere il coraggio di uscire a viso scoperto per gridare dai tetti il proprio credo. Saviano ha avuto invece il coraggio della testimonianza, non si è addormentato sugli allori di un successo inaspettato.
È sceso in piazza, da subito, per continuare a scrivere Gomorra con la forza della verità, nonostante il martirio di una vita blindata, sotto scorta, che toglie il respiro. Nonostante la paura. Sì, la paura, perché Roberto sa bene di essere nel mirino della camorra, come Falcone e Borsellino sapevano di essere bersagli della mafia, ma il coraggio è di chi ha paura e Saviano di coraggio ne ha.
Non è un temerario, che ignaro del pericolo non teme nulla e sfida la morte; è un testimone coraggioso che, convinto dei propri ideali, mette in gioco la sua stessa vita. Il successo di un libro tramonta, la testimonianza rimane, contagia, e Saviano questa differenza l’ha capita bene, l’ha imparata dai suoi maestri, da don Peppino Diana, che nel silenzio gli ha insegnato il coraggio della verità e al quale non a caso ha voluto donare Gomorra, portandone una copia sulla sua tomba. Un gesto significativo che ha fatto poco rumore, un segno importante che purtroppo non è stato raccolto, anzi, tradito dai media, perché si sa che per far continuare il fenomeno Saviano era preferibile passare l’immagine più che il contenuto.
Ma Roberto non si è arreso, è andato oltre il meritato successo del suo libro, ha portato avanti la sua testimonianza perché sa che i contenuti passano attraverso la condivisione e non con l’immagine di una copertina ormai nota a tutti. La condivisione dei valori è indispensabile per gridare la verità e per non far sentire solo chi con coraggio ha scelto la via della testimonianza per fare giustizia e smantellare un sistema che sta uccidendo la nostra terra. Tuttavia, se vogliamo davvero rendere omaggio al coraggio di Saviano, dobbiamo assumere la verità come criterio di giudizio, senza infingimenti, e avere anche noi il coraggio di ammettere che se Roberto per aver scritto un libro sulla camorra è prigioniero in casa sua, il suo successo e la sua prigionia dichiarano soprattutto una sconfitta, perché descrivono un’eccezione. È drammatico che dei ragazzi delle scuole napoletane abbiano dichiarato che ha fatto più guai all’immagine di Napoli il libro di Saviano, che l’azione della camorra. Se tutti, invece, fossero Saviano, se tutti avessimo il coraggio della verità, non sarebbe scoppiato il fenomeno Gomorra.
Certamente Roberto non è il primo e non è il solo a combattere la camorra, certamente sono in tanti a rischiare la vita contro la malavita. Penso ai magistrati, alle forze dell’ordine, ma anche ai tanti preti di frontiera e ai tanti uomini di buona volontà, forse ancora troppo pochi, che continuano a lottare perché credono in un possibile riscatto. Ma se Saviano è diventato il simbolo, e non uno dei simboli, della lotta alla camorra, se altri non hanno avuto la stessa attenzione, è perché mentre guardie e ladri si dividono da sempre il territorio, dalla voce di Saviano, le vittime della camorra, forse per la prima volta, hanno preso coscienza del loro essere vittime. I veri martiri della camorra sono coloro che, avendo scoperto le fila del sistema malavitoso, lo rendono comprensibile ad altri. Chi non ricorda il grido indimenticabile di Giovanni Paolo II contro la mafia dalla collina di Agrigento: «Un giorno verrà il giudizio di Dio!», parole che, come ha affermato lo stesso Roberto, avrebbero dovuto crescere nelle coscienze.
Oggi si legge Gomorra nelle piazze: non è solo una testimonianza di solidarietà a Saviano e a quanti combattono la camorra, ma è trasformare la lotta al malaffare in un vocabolario condiviso. È comprendere, finalmente, che l’ignoranza genera paura. È capire dalle pagine di un libro che solo la conoscenza è premessa di libertà.
Così ho avvelenato Napoli
Le confessioni di Gaetano Vassallo, il boss che per 20 anni ha nascosto rifiuti tossici in Campania pagando politici e funzionari
di Gianluca Di Feo e Emiliano Fittipaldi *
Temo per la mia vita e per questo ho deciso di collaborare con la giustizia e dire tutto quello che mi riguarda, anche reati da me commessi. In particolare, intendo riferire sullo smaltimento illegale dei rifiuti speciali, tossici e nocivi, a partire dal 1987-88 fino all’anno 2005. Smaltimenti realizzati in cave, in terreni vergini, in discariche non autorizzate e in siti che posso materialmente indicare, avendo anche io contribuito... Comincia così il più sconvolgente racconto della devastazione di una regione: venti anni di veleni nascosti ovunque, che hanno contaminato il suolo, l’acqua e l’aria della Campania. Venti anni di denaro facile che hanno consolidato il potere dei casalesi, diventati praticamente i monopolisti di questo business sporco e redditizio. La testimonianza choc di una follia collettiva, che dalla fine degli anni Ottanta ha spinto sindaci, boss e contadini a seminare scorie tossiche nelle campagne tra Napoli e Caserta. Con il Commissariato di governo che in nome dell’emergenza ha poi legalizzato questo inferno.
Gaetano Vassallo è stato l’inventore del traffico: l’imprenditore che ha aperto la rotta dei rifiuti tossici alle aziende del Nord. E ha amministrato il grande affare per conto della famiglia Bidognetti, seguendone ascesa e declino nell’impero di Gomorra.
I primi clienti li ha raccolti in Toscana, in quelle aziende fiorentine dove la massoneria di Licio Gelli continua ad avere un peso. I controlli non sono mai stati un problema: dichiara di avere avuto a libro paga i responsabili. Anche con la politica ha curato rapporti e investimenti, prendendo la tessera di Forza Italia e puntando sul partito di Berlusconi.
La rete di protezione
Quando Vassallo si presenta ai magistrati dell’Antimafia di Napoli è il primo aprile. Mancano due settimane alle elezioni, tante cose dovevano ancora accadere. Due mesi esatti dopo, Michele Orsi, uno dei protagonisti delle sue rivelazioni è stato assassinato da un commando di killer casalesi. E 42 giorni dopo Nicola Cosentino, il più importante parlamentare da lui chiamato in causa, è diventato sottosegretario del governo Berlusconi.
Vassallo non si è preoccupato. Ha continuato a riempire decine di verbali di accuse, che vengono vagliati da un pool di pm della direzione distrettuale antimafia napoletana e da squadre specializzate delle forze dell’ordine: poliziotti, finanzieri, carabinieri e Dia. Finora i riscontri alle sue testimonianze sono stati numerosi: per gli inquirenti è altamente attendibile.
Anche perché ha conservato pacchi di documenti per dare forza alle sue parole. Che aprono un abisso sulla devastazione dei suoli campani e poi, attraverso i roghi e la commercializzazione dei prodotti agro-alimentari, sulla minaccia alla salute di tutti i cittadini. Come è stato possibile?
"Nel corso degli anni, quanto meno fino al 2002, ho proseguito nella sfruttamento della ex discarica di Giugliano, insieme ai miei fratelli, corrompendo l’architetto Bovier del Commissariato di governo e l’ingegner Avallone dell’Arpac (l’agenzia regionale dell’ambiente). Il primo è stato remunerato continuativamente perché consentiva, falsificando i certificati o i verbali di accertamento, di far apparire conforme al materiale di bonifica i rifiuti che venivano smaltiti illecitamente. Ha ricevuto in tutto somme prossime ai 70 milioni di lire. L’ingegner Avallone era praticamente ’stipendiato’ con tre milioni di lire al mese, essendo lo stesso incaricato anche di predisporre il progetto di bonifica della nostra discarica, progetto che ci consentiva la copertura formale per poter smaltire illecitamente i rifiuti".
Il gran pentito dei veleni parla anche di uomini delle forze dell’ordine ’a disposizione’ e di decine di sindaci prezzolati. Ci sono persino funzionari della provincia di Caserta che firmano licenze per siti che sono fuori dai loro territori. Una lista sterminata di tangenti, versate attraverso i canali più diversi: si parte dalle fidejussioni affidate negli anni Ottanta alla moglie di Rosario Gava, fratello del patriarca dc, fino alla partecipazione occulta dell’ultima leva politica alle società dell’immondizia.
L’età dell’oro
Vassallo sa tutto. Perché per venti anni è stato il ministro dei rifiuti di Francesco Bidognetti, l’uomo che assieme a Francesco ’Sandokan’ Schiavone domina il clan dei casalesi. All’inizio i veleni finivano in una discarica autorizzata, quella di Giugliano, legalmente gestita. Le scorie arrivavano soprattutto dalle concerie della Toscana, sui camion della ditta di Elio e Generoso Roma. C’era poi un giro campano con tutti i rifiuti speciali provenienti dalla rottamazione di veicoli: fiumi di olii nocivi.
I protagonisti sono colletti bianchi, che fanno da prestanome per i padrini latitanti, li nascondono nelle loro ville e trasmettono gli ordini dal carcere dei boss detenuti. In pratica, accusa tutte le aziende campane che hanno operato nel settore, citando minuziosamente coperture e referenti. C’è l’avvocato Cipriano Chianese. C’è Gaetano Cerci "che peraltro è in contatto con Licio Gelli e con il suo vice così come mi ha riferito dieci giorni fa".
Il racconto è agghiacciante. Sembra che la zona tra Napoli e Caserta venga colpita dalla nuova febbre dell’oro. Tutti corrono a sversare liquidi tossici, improvvisandosi riciclatori. "Verso la fine degli Ottanta ogni clan si era organizzato autonomamente per interrare i carichi in discariche abusive. Finora è stato scoperto solo uno dei gruppi, ma vi erano sistemi paralleli gestiti anche da altre famiglie".
Ci sono trafficanti fai-dai-te che buttano liquidi fetidi nei campi coltivati in pieno giorno. Contadini che offrono i loro frutteti alle autobotti della morte. E se qualcuno protesta, intervengono i camorristi con la mitraglietta in pugno.
La banalità del male
Chi, come Vassallo, possiede una discarica lecita, la sfrutta all’infinito. Il sistema è terribilmente banale: nei permessi non viene indicata l’esatta posizione dell’invaso, né il suo perimetro. Così le voragini vengono triplicate. "Tutte le discariche campane con tale espediente hanno continuato a smaltire in modo abusivo, sfruttando autorizzazioni meramente cartolari. Ovviamente, nel creare nuovi invasi mi sono disinteressato di attrezzare quegli spazi in modo da impermeabilizzare i terreni; non fu realizzato nessun sistema di controllo del percolato e nessuna vasca di raccolta, sicché mai si è provveduto a controllare quella discarica ed a sanarla". In uno di questi ’buchi’ semilegali Vassallo fa seppellire un milione di metri cubi di detriti pericolosi.
L’aspetto più assurdo è che durante le emergenze che si sono accavallate, tutte queste discariche - quelle lecite e i satelliti abusivi - vengono espropriate dal Commissariato di governo per fare spazio all’immondizia di Napoli città. All’imprenditore della camorra Vassallo, pluri-inquisito, lo Stato concede ricchi risarcimenti: quasi due milioni e mezzo di euro. E altra monnezza seppellisce così il sarcofago dei veleni, creando un danno ancora più grave.
"I rifiuti del Commissariato furono collocati in sopra-elevazione; la zone è stata poi ’sistemata’, anche se sono rimasti sotterrati rifiuti speciali (includendo anche i tossici), senza che fosse stata realizzata alcuna impermeabilizzazione. Non è mai stato fatto uno studio serio in ordine alla qualità dell’acqua della falda. E quella zona è ad alta vocazione agricola".
L’import di scorie pericolose fruttava al clan 10 lire al chilo. "In quel periodo solo da me guadagnarono due miliardi". Il calcolo è semplice: furono nascoste 200 mila tonnellate di sostanze tossiche. Questo soltanto per l’asse Vassallo-casalesi, senza contare gli altri i boss napoletani che si erano lanciati nell’affare, a partire dai Mallardo.
"Una volta colmate le discariche, i rifiuti venivano interrati ovunque. In questi casi gli imprenditori venivano sostanzialmente by-passati, ma talora ci veniva richiesto di concedere l’uso dei nostri timbri, in modo da ’coprire’ e giustificare lo smaltimento dei produttori di rifiuti, del Nord Italia... Ricordo i rifiuti dell’Acna di Cengio, che furono smaltiti nella mia discarica per 6.000 quintali. Ma carichi ben superiori dall’Acna furono gestiti dall’avvocato Chianese: trattava 70 o 80 autotreni al giorno. La fila di autotreni era tale che formava una fila di circa un chilometro e mezzo".
Un’altra misteriosa ondata di piena arriva tra la fine del 2001 e l’inizio del 2002: "Si trattava di un composto umido derivante dalla lavorazione dei rifiuti solidi urbani triturati, contenente molta plastica e vetro". Decine di camion provenienti da un impianto pubblico: a Vassallo dicono che partono da Milano e vanno fatti scomparire in fretta.
Il patto con la politica Uno dei capitoli più importanti riguarda la società mista che curava la nettezza urbana a Mondragone e in altri centri del casertano. È lì che parla dei fratelli Michele e Sergio Orsi, imprenditori con forti agganci nei palazzi del potere: il primo è stato ammazzato a giugno. I due, arrestati nel 2006, si erano difesi descrivendo le pressioni di boss e di politici.
Ma Vassallo va molto oltre: "Confesso che ho agito per conto della famiglia Bidognetti quale loro referente nel controllo della società Eco4 gestita dai fratelli Orsi. Ai fratelli Orsi era stata fissata una tangente mensile di 50 mila euro... Posso dire che la società Eco4 era controllata dall’onorevole Nicola Cosentino e anche l’onorevole Mario Landoldi (An) vi aveva svariati interessi. Presenziai personalmente alla consegna di 50 mila euro in contanti da parte di Sergio Orsi a Cosentino, incontro avvenuto a casa di quest’ultimo a Casal di Principe. Ricordo che Cosentino ebbe a ricevere la somma in una busta gialla e Sergio mi informò del suo contenuto".
Rapporti antichi, quelli con il politico che la scorsa settimana ha accompagnato Berlusconi nell’ultimo bagno di folla napoletano: "La mia conoscenza con Cosentino risale agli anni ’80, quando lo stesso era appena uscito dal Psdi e si era candidato alla provincia. Ricordo che in quella occasione fui contattato da Bernardo Cirillo, il quale mi disse che dovevamo organizzare un incontro elettorale per il Cosentino che era uno dei ’nostri’ candidati ossia un candidato del clan Bidognetti. In particolare il Cirillo specificò che era stato proprio ’lo zio’ a far arrivare questo messaggio".
Lo ’zio’, spiega, è Francesco Bidognetti: condannato all’ergastolo in appello nel processo Spartacus e, su ordine del ministro Alfano, sottoposto allo stesso regime carcerario di Totò Riina e Bernardo Provenzano. L’elezione alla provincia di Caserta è stata invece il secondo gradino della carriera di Cosentino, l’avvocato di Casal di Principe oggi leader campano della Pdl e sottosegretario all’Economia. "Faccio presente che sono tesserato ’Forza Italia’ e grazie a me sono state tesserate numerose persone presso la sezione di Cesa. Mi è capitato in due occasioni di sponsorizzare la campagna elettorale di Cosentino offrendogli cene presso il ristorante di mio fratello, cene costose con centinaia di invitati. L’ho sostenuto nel 2001 e incontrato spesso dopo l’elezione in Parlamento".
Ma quando si presenta a chiedere un intervento per rientrare nel gioco grande della spazzatura, gli assetti criminali sono cambiati. Il progetto più importante è stato spostato nel territorio di ’Sandokan’ Schiavone. Il parlamentare lo riceve a casa e può offrirgli solo una soluzione di ripiego: "Cosentino mi disse che si era adeguato alle scelte fatte ’a monte’ dai casalesi che avevano deciso di realizzare il termovalorizzatore a Santa Maria La Fossa. Egli, pertanto, aveva dovuto seguire tale linea ed avvantaggiare solo il gruppo Schiavone nella gestione dell’affare e, di conseguenza, tenere fuori il gruppo Bidognetti e quindi anche me".
Vassallo non se la prende. È abituato a cadere e rialzarsi. Negli ultimi venti anni è stato arrestato tre volte. Dal 1993 in poi, ad ogni retata seguiva un periodo di stallo. Poi nel giro di due anni un’emergenza che gli riapriva le porte delle discariche. "Fui condannato in primo grado e prosciolto in appello. Ma io ero colpevole". Una situazione paradossale: anche mentre sta confessando reati odiosi, ottiene dallo Stato un indennizzo di un milione 200 mila euro. E avverte: "Conviene che li blocchiate prima che i miei fratelli li facciano sparire...".
IL RITRATTO/ Bregantini trasferito a Campobasso
Il vescovo che voleva
svuotare la ’ndrangheta
di GIUSEPPE BALDESSARRO *
REGGIO CALABRIA - "La ’ndrangheta è una società apparentemente forte, ma all’interno è fragilissima per cui la si deve svuotare agendo tra la gente in maniera da dimostrare quanto è ridicola e stupida". Giancarlo Maria Bregantini, vescovo di Locri , da oggi nuovo "pastore" di Campobasso, conosce bene le dinamiche del fenomeno mafioso calabrese.
Le ha imparate nei 13 anni passati nella provincia di Reggio Calabria. In uno dei territori più violenti e depressi d’Italia. Le ha studiate a fondo e capite, nella loro essenza. Comprendere e operare è stato per oltre un decennio un tutt’uno, su ogni fronte. "Facendo quello che c’era da fare e dicendo quello che c’era da dire. Quotidianamente". E più il "vescovo operaio" della Locride andava avanti, più diventava punto di riferimento di tanti, tantissimi. Per questo alla notizia del suo trasferimento in Calabria è scoppiata la rivolta. Un moto istintivo di gente comune soprattutto, a cui si sono accodati parlamentari, rappresentanti istituzionali, sindaci, intellettuali e associazioni.
Oggi, a Santa Maria del Mastro, sede della Curia vescovile di Locri-Gerace sono arrivati in tanti a salutare il prete "anti ’ndrangheta". Una raccolta di firme "per attestare la gratitudine dei calabresi" e tante lacrime di commozione. Perché ora, dice un cartello, "i locresi si sentono ancora più soli". Vorrebbero che restasse, che la decisione fosse rivista, revocata. Ma sanno che non sarà possibile e che "Bregantini quella promozione a vescovo metropolita la merita". Il religioso obbedirà al Vaticano, "anche se a volte è faticoso", e lo stesso faranno i fedeli che lo hanno ascoltato e seguito nel suo percorso ti uomo del Trentino capace di parlare al sud.
Un uomo di Chiesa che ha saputo "sporcarsi le mani", parlando di lotta alla mafia in maniera concreta. Lo si incontrava spesso in giro per la Diocesi. Amava partecipare alla vita delle parrocchie, sapere e conoscere. I familiari delle vittime della mafia erano di casa nei suoi uffici, come pure lo erano le tante madri e sorelle di mafiosi. "Nessun escluso mai", amava dire.
E lo diceva con i fatti. Partendo dai bisogni della gente, aveva dato vita alle cooperative di lavoro in Aspromonte. Nelle Serre della cooperativa del Bomanico, a pochi chilometri da San Luca, lavoravano anche alcuni ragazzi parenti di mafiosi, e quando qualcuno glielo faceva notare, a fronte dei tanti disoccupati calabresi con lo stesso bisogno di un impiego, lui replicava duramente: "E’ così che si combatte la ’ndrangheta, levandogli la terra attorno". Prete tosto Bregantini, aveva invitato i parroci a non cresimare le persone che si presentavano all’altare con un padrino mafioso. E dopo la strage di Duisburg era stato nelle case di San Luca a dire alle donne di ribellarsi "perché quelli che finiscono ammazzati sono i vostri figli, mariti e fratelli"
Dopo l’eccidio di Ferragosto in Germania chiese ed ottenne per quelle sei vittime della faida i funerali pubblici. Poi un mese dopo è andato a Duisburg e si è inginocchiato davanti la pizzeria teatro della strage. Senza clamori. Parlava alla gente della pochezza e della miseria della mafia. Parlava pubblicamente della "massoneria e dei colletti bianchi che nutrono e si nutrono di ’ndrangheta". Ed erano frustate anche contro i governi ed i politici: "Inadeguati a rappresentare i bisogni della gente". Prete fastidioso Giancarlo Maria Bregantini. Scomodo per i pochi forti, indispensabile per i molti deboli.
* la Repubblica, 8 novembre 2007
Destò scalpore la scomunica dei mafiosi e dei violenti da lui pronunciata
Via da Locri Bregantini, il vescovo antimafia
Benedetto XVI lo ha nominato nuovo arcivescovo di Campobasso. L’annunciato trasferimento dalla diocesi calabrese dopo 13 anni ha provocato reazioni negative e proteste in tutta la regione. Il presule: ’’Per obbedienza sono venuto e per obbedienza parto’’
Città del Vaticano, 8 nov. (Adnkronos) - Benedetto XVI ha nominato questa mattina come nuovo arcivescovo metropolita di Campobasso-Boiano mons. Giancarlo Maria Bregantini (nella foto). Lo spostamento, annunciato ufficiosamente già da qualche giorno, è stato confermato oggi ufficialmente dalla Sala Stampa vaticana. Bregantini, che è stato anche nominato amministratore diocesano in attesa di prendere ufficialmente possesso della nuova sede entro il prossimo mese di gennaio, lascia dopo 13 anni la diocesi di Locri prendendo il posto di mons. Armando Dini
Lo spostamento di Bregantini da Locri ha provocato reazioni negative e proteste in tutta la Calabria per il noto impegno del presule contro la criminalità organizzata e la ’ndrangheta calabrese in particolare. Fu lui ad animare un movimento di contestazione dell’oppressione mafiosa e a dar vita, insieme alla Conferenza episcopale italiana, a diverse iniziative sociali in favore dei giovani per combattere concretamente il disagio, la povertà di lavoro, l’arretratezza economica della regione. In particolare destò scalpore la scomunica dei mafiosi e dei violenti pronunciata latae sententiae, cioè immediatamente, dal vescovo. Ancora forte è stata la sua presa di posizione dopo il gravissimo episodio di sangue e di mafia di Duisburg in Germania.
’’Accolgo questa nomina con ogni obbedienza: per obbedienza sono venuto e per obbedienza parto’’. Con queste parole mons. Giancarlo Maria Bregantini ha accolto la sua nomina. All’obbedienza che oggi mi chiede il Papa, spiega l’ex vescovo di Locri in un’intervista a ’Radio vaticana’ anticipata oggi dalla Sala stampa vaticana, ’’rispondo con questa disponibilità e, anche se con tanta sofferenza nel cuore, saluto la mia diocesi e mi avvio a un’altra’’. ’’Voglio però dire, cercando di rasserenare gli animi, che molto di quello che ho insegnato loro è stato maturato insieme, con i giovani e con i collaboratori, cresciuti orami fisicamente e spiritualmente’’. ’’Tocca ora a loro raccogliere il testimone e so che sono in grado di farlo. Io sono certo che il Signore li accompagnerà e renderà forti, anche se in questo momento sono in lacrime’’, ha aggiunto.
Il presule fa inoltre il punto su quanto ancora resta da fare in Calabria per combattere in modo sempre più convincente la ’ndrangheta. ’’Mancano tre cose - ha spiegato Bregantini - Anzitutto, che tutte le istituzioni facciano al loro parte, in maniera piena e leale, qualitativa e quantitativa. Manca poi, in secondo luogo, il collegamento fra tutte le realtà positive e, quindi, una coordinazione attuata in miglior modo. E, infine, la Calabria è trattata ancora come terra dimenticata, basta vedere la questione dei treni, dei trasporti. Soltanto con fatica si riuscirà a innestare un processo di consapevolezza reale e visibile sul piano sociale, politico ed economico’’.
E’ fra l’altro probabile che nei prossimi mesi l’arcivescovo di Campobasso entri a far parte del Consiglio permanente della Cei, l’organo di governo dei vescovi italiani. Un modo, questo, per valorizzare da parte della Conferenza episcopale italiana, la sua esperienza e il suo ruolo. Fra l’altro nei mesi scorsi il presidente dei vescovi italiani, mons. Angelo Bagnasco, ha annunciato che la Cei pubblicherà un documento sulla situazione del Mezzogiorno con riferimenti espliciti ai problemi legati alla criminalità organizzata.
Il presidente della Regione Calabria Agazio Loiero non nasconde il proprio ’’sconcerto’’ spiegando tra l’altro che ’’la sua permanenza nella nostra terra era vitale". "Chiederemo al Vaticano di ripensare la scelta di trasferire mons. Giancarlo Maria Bregantini ad altra sede. Egli sicuramente è stato e rimane un punto fermo di riferimento per tutte le comunità della locride", ha detto il sindaco di Locri Francesco Macrì.
FONDAZIONE “DON PEPPINO DIANA” - ISTITUTO DI SCIENZE RELIGIOSE “SAN PIETRO” * A scuola di antimafia
Venerdì 23 marzo - ore 17.00 - Episcopio - Salone Sant’Augusto Caserta
a cura di Augusto Cavadi con la partecipazione di UMBERTO SANTINO (presid. Centro siciliano document.” Giuseppe Impastato”- Palermo)
Introduce: SERGIO TANZARELLA (Fondazione “don Peppino Diana”)
Intervengono: UMBERTO SANTINO (presid. Centro siciliano document.”Giuseppe Impastato”- Palermo)
MARILENA LUCENTE (I:T:C: “Cesare Pavese”- Caserta)
TITTI MALORNI (S.M. “Giuseppe Mazzini”- S. Nicola la Strada)
FRANCO ROBERTI (coordinatore Direzione Distr.Antimafia- Napoli)
PEPPE VOZZA (I.S.I.S.S. “Michelangelo Buonarroti”- Caserta)
Il Centro siciliano di documentazione “Giuseppe Impastato” si occupa, sin dall’inizio della sua attività (1997), di condurre ricerche scientifiche sul fenomeno mafioso nonché di diffondere -nelle scuole e nelle facoltà universitarie- le acquisizioni specialistiche con modalità accessibili anche alle giovani generazioni.
Da scuole, associazioni e movimenti perviene la richiesta di materiali e di suggerimenti metodologici per impostare in maniera critica e organica l’educazione antimafia e,più ampiamente, ad una cittadinanza attiva.
A scuola di Antimafia si propone come risposta a tale richiesta.
I destinatari principali di questo volume sono gli insegnanti e gli alunni delle classi terminali della secondaria superiore.
In occasione della presentazione - grazie al sostegno dell’editore - il volume sarà in vendita per Scuole, insegnanti e studenti con un particolare sconto.
* IL DIALOGO, Sabato, 17 marzo 2007
Oggi è la Giornata della memoria per i caduti sotto i colpi della criminalità. In tanti al corteo organizzato da Libera. Messaggi di Prodi e Bertinotti
Migliaia di persone a Polistena
per ricordare le vittime di mafia *
POLISTENA (Reggio Calabria) - Comincia con grande solennità e insieme con semplicità - scandendo i nomi delle 700 vittime delle mafie - il corteo in corso a Polistena, nel reggino, per celebrare la Giornata della memoria e dell’impegno, promossa da Libera. Una celebrazione dedicata ai tantissimi che, nel nostro Paese, in tutti questi anni, sono caduti sotto i colpi della criminalità organizzata.
Molte migliaia le persone presenti alla manifestazione, giunte da tutte le parti d’Italia. Lungo il percorso del corteo sono stati anche affissi, in ogni stradina adiacente a quella del corteo, dei manifesti con i nomi delle persone uccise. Il corteo poi si conclude nella piazza principale di Polistena, con gli interventi di don Luigi Ciotti, responsabile di Libera, e delle autorità.
"Siamo Polistena - spiega Ciotti - perchè qui anni fa è nata la prima cooperativa su terreni confiscati alla criminalità organizzata, una cooperativa che da occupazione a molti giovani e che rappresenta una speranza concreta: è giunto il momento di passare dal dire al fare, dalle parole ai fatti. Oggi è la giornata dello stop: del dire basta alla carneficina, alle vittime di mafia".
"E’ una giornata importante per l’Italia": queste le parole di Fausto Bertinotti, nel messaggio inviato al don Ciotti. Il presidente della Camera avrebbe dovuto prender parte alle manifestazioni in programma oggi, ma è stato trattenuto a Roma da una serie di improvvisi impegni legati all’attività parlamentare.
"E’ una giornata che ha un valore fondamentale - scrive Bertinotti - innanzitutto per chi l’ha promossa e per chi la anima. E’ soprattutto l’entusiasmo del popolo dei giovani che rappresenta il dato di maggiore forza che segna la manifestazione odierna: quei giovani che in questi anni, in più riprese ed in forme diverse, hanno capito in tanta parte del Mezzogiorno che conquistare il proprio futuro significa soprattutto liberarsi dal gioco di sopraffazione e di intimidazione".
E anche il premier ha inviato un messaggio. ’’Cari amici - scrive Romano Prodi - la giornata che oggi, idealmente insieme, celebriamo, ci riporta alla mente, prima di ogni altra cosa, il nome e il volto delle tante vittime innocenti delle mafie e della criminalita’ organizzata. Tante storie di uomini, di donne e persino di bambini, diventano cosi’ memoria di comunita’. E’ con rispetto e con gratitudine che al loro sacrificio ci inchiniamo promettendoci reciprocamente di non dimenticarli mai’’.
* la Repubblica, 21 marzo 2007
L’INCHIESTA.
Tornano in Sicilia i figli dei boss scappati negli Usa per sfuggire ai Corleonesi. E si riprendono il potere perduto
La riscoperta dell’America
nuovo fronte di Cosa Nostra
di ATTILIO BOLZONI e GIUSEPPE D’AVANZO *
PALERMO - Chi è Frank Calì, e perché tutti lo cercano? Quel nome - il nome di un siculo-americano - ritorna ossessivamente nelle "parlate" degli uomini di Cosa Nostra. Lo fanno a Palermo, lo ripetono nel New Jersey, lo bisbigliano a Corleone. Di Frank sentiremo ancora parlare, giurateci. Eppure, al Dipartimento di Giustizia, Calì non appare mai nei report sulle cinque "grandi famiglie" di New York, i Gambino, i Bonanno, i Lucchese, i Genovese e i Colombo. Soltanto poche, quasi distratte, righe in un dossier dell’Fbi. Più o meno un "signor nessuno" che deve avere però un potere invisibile o ancora sconosciuto, se negli ultimi tre anni per lo meno una mezza dozzina di "delegazioni" di mafiosi siciliani lo hanno raggiunto dall’altra parte dell’Oceano per discutere di "affari". Ma di quali affari? E, soprattutto, di quale portata e per quali progetti?
Questa è la storia, o meglio il primo paragrafo di una storia che soltanto il tempo potrà scrivere. Vi si rintracciano indizi di un prepotente risveglio di Cosa Nostra dopo un muto decennio di ibernazione. La mafia sembra volersi liberare dall’arcaicità violenta dei Corleonesi per ritrovare dalla Sicilia - come in un passato glorioso - ruolo e protagonismo sulla scena internazionale. Nelle loro casseforti ci vogliono mettere soldi, molti soldi. Non vogliono più cadaveri per le strade o "picciotti" nelle galere. A che cosa sono serviti il sangue, le bombe contro lo Stato, gli ergastoli che hanno umiliato le famiglie? A niente. Ecco perché adesso tutti cercano Frank Calì.
Del "signor nessuno" si può dire subito - per quel pochissimo che se ne sa - che è un uomo di rispetto della Famiglia Gambino designato per trattare, con i Siciliani, la nuova avventura. Se sono buone le intuizioni degli investigatori, i mafiosi vogliono ritornare ad essere brokers nel mercato illegale/legale mondiale. Frank Calì serve a tutto questo. È "l’ambasciatore" americano.
Frank Calì ufficialmente è un imprenditore della Italian Food Distribution a New York. Da almeno tre anni, gli agenti dell’Fbi lo vedono intrattenersi con vecchi trafficanti della "Pizza Connection".
E con giovani rampolli delle Famiglie palermitane, nati però negli Stati Uniti. E con gli emissari di Bernardo Provenzano e Totò Riina, i Corleonesi. Un’agenda di incontri che mette insieme amici e nemici di antiche guerre e di mai dimenticati stermini, tutti a far la fila da Frank Calì. L’elenco è lungo. Da lui vanno in più occasioni Nicola Mandalà e Nicola Notaro della Famiglia di Villabate, Gianni Nicchi della Famiglia di Pagliarelli, Vincenzo Brusca della Famiglia di Torretta. Ma forse la traccia più rilevante per capire che cosa sta accadendo è nelle triangolazioni telefoniche tra le utenze di Calì e i cellulari degli uomini di Salvatore Lo Piccolo, ricercato da 27 anni, oggi al primo posto della lista dei latitanti dopo la cattura di Bernardo Provenzano.
Il suo "scacchiere diplomatico" non è stretto alla Sicilia. Un rapporto congiunto dell’Fbi e della Royal Canadian Mounted Police svela "i legami tra Frank Calì, Pietro Inzerillo e i membri del cartello criminale "Siderno" della ’ndrangheta". Alla sua corte ci sono proprio tutti, dunque. È la circostanza che spinge Fbi e Polizia criminale italiana a lavorare insieme, a scambiarsi informazioni e analisi come negli Anni Ottanta, quando Giovanni Falcone faceva squadra con il procuratore distrettuale Rudolph Giuliani. Si preparano a fronteggiare il nuovo piano di Cosa Nostra: la riscoperta dell’America. Con inaspettati protagonisti. Con nomi che, soltanto fino a qualche anno fa, a Palermo non si potevano nemmeno pronunciare.
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Sono tornati gli Inzerillo. Erano stati massacrati dall’aprile del 1981 all’ottobre del 1983 dai Corleonesi. "Di questi qua - disse Totò Riina - non deve rimanere sulla faccia della terra nemmeno il seme". Morì Totuccio, il rispettato capo di Passo Rigano, e poi morì suo figlio Giuseppe. Morirono in ventuno. Fratelli e zii e nipoti e cugini. Molti scomparvero afferrati dalla "lupara bianca", un impero di 27 società di riciclaggio rimase senza padroni. La scia di sangue si interruppe soltanto con l’intercessione dei parenti di Cherry Hill. Uomini potenti. Allora i più potenti d’America come Charles Gambino. Trattarono una resa senza onore. La Commissione siciliana pretese che gli Inzerillo avrebbero avuta salva la vita a condizione che non tornassero più nell’Isola. Mai più. E’ la regola che dettò la Cosa Nostra di Totò Riina. Allora fu nominato, e lo è ancora oggi, un "responsabile" del rispetto di quel patto. Si chiama Saruzzo Naimo. Ma le regole, in Cosa Nostra, esistono per essere violate e interpretate per gli amici e applicate per i nemici. Così alla spicciolata gli Inzerillo sono rientrati a Palermo. Abitano tutti nella loro borgata di nascita, a Passo di Rigano.
E’ tornato Francesco Inzerillo, figlio di quel Pietro che l’Fbi e la polizia canadese "vedono" sempre con Frank Calì. E poi Tommaso Inzerillo, cugino di Totuccio e cognato di John Gambino, il figlio del vecchio Charles. E un altro Francesco, fratello di Totuccio. Espulso come "indesiderato" dagli Stati Uniti è tornato Rosario, un altro fratello di Totuccio. E’ rientrato Giuseppe, figlio di Santo, ucciso e dissolto nell’acido solforico. Soprattutto è tornato l’unico figlio ancora vivo di Totuccio, Giovanni, nato a New York nel 1972, cittadino americano. A lui è toccato riaprire dopo venticinque anni la casa di via Castellana 346. Insieme a loro, sono riapparsi in città gli Spatola dell’Uditore, i Di Maggio di Torretta, i Bosco, i Di Maio, qualche Gambino. Insomma, quell’aristocrazia mafiosa che i contadini di Corleone avevano spazzato via con "tragedie", tradimenti, agguati. A Palermo gli Inzerillo hanno ricostituito la loro Famiglia. Con quale "autorizzazione"? Con quali appoggi? Con quali garanzie e impegni?
Se la questione è un enigma per gli investigatori, impensierisce ancora di più alcuni alleati palermitani dei Corleonesi che erano stati in prima fila, nella strage degli Inzerillo. La preoccupazione diventa apprensione quando, nei viaggi in America, scoprono che accanto a Frank Calì c’è sempre un Inzerillo. A New York come a Palermo, per uscire dall’isolamento e pensare finalmente alla grande, bisogna fare necessariamente i conti con "quelli là" e le loro influenti parentele d’Oltreoceano.
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Nelle ultime intercettazioni ambientali - una vera miniera di inaspettate informazioni - "il discorso dell’America" è un tormentone tra i mafiosi. Riserva un punto di vista inedito su Cosa Nostra. Liquida ogni lettura convenzionale. Cosa Nostra non è il quieto monolite governato con i "pizzini" dalla furbizia contadina del vecchio Provenzano né è attraversata, come pure si è sostenuto, da una frattura territoriale e culturale. Da un lato, i contadini e i paesi di campagna. Dall’altra, i cittadini, la grande città, le borgate. E’ invece un mondo smarrito e, al tempo stesso, eccitato dalle nuove opportunità. Ora, come per un riflesso condizionato, tentato di mettere mano alla pistola per eliminare ogni irritante contraddizione; ora convinto di dover cercare, senza sparare un colpo, compromessi per far valere la sola ragione che tutti può entusiasmare: fare i piccioli. Fare i soldi. Gli esiti della contesa sono del tutto imprevedibili. Nei prossimi mesi, la guerra ha la stessa possibilità di scoppiare quanto la pace. Chi lavora, con ostinazione paranoide, a una nuova contrapposizione si chiama Antonino Rotolo. E’ il capomandamento di Pagliarelli. Basta ascoltare quali erano i suoi argomenti qualche giorno prima di finire in galera.
"Questi Inzerillo - dice Rotolo ai suoi - erano bambini e poi sono cresciuti, questi ora hanno trent’anni. Come possiamo, noi, stare sereni... Se ne devono andare. E poi uno, e poi l’altro e poi l’altro ancora... Devono starsene in America. Si devono rivolgere a Saruzzo (Naimo) e se vengono in Italia li ammazziamo tutti. Come possiamo stare, noi, sereni quando io per esempio - l’ho detto e lo ripeto - so di un tizio che dice a uno dei figli di Inzerillo: "Non ti preoccupare tempo e buon tempo non dura sempre un tempo"... Noialtri non è che possiamo dormire a sonno pieno perché nel momento che noi ci addormentiamo a sonno pieno, può essere pure che non ci risvegliamo più. Alzando la testa questi, le prime revolverate sono per noi. Vero è... Picciotti, non è finito niente. Gli Inzerillo, i morti, li hanno sempre davanti. Ci sono sempre le ricorrenze. Si siedono a tavola e manca questo e manca quello. Queste cose non le possiamo scordare. Questi se ne devono andare, punto e basta, non c’è Dio che li può aiutare... Ce ne dobbiamo liberare e così ci leviamo il pensiero... Per il bene di tutti, noi questo dobbiamo fare. L’avete capito o no che quello, Lo Piccolo, li utilizza già gli Inzerillo? Questa storia non finisce, non finirà mai...". Antonino Rotolo affronta con Alessandro Mannino, nipote prediletto di Totuccio Inzerillo, "il discorso dell’America". Senza giri di parole, in modo brusco.
Gli dice: "Tu sei il nipote di Totuccio Inzerillo il quale, con altri, senza ragione alcuna sono venuti a cercarci per ammazzarci, ma a loro nessuno gli aveva fatto niente. Ci hanno cercato e ci hanno trovato. Peggio per loro. Non siamo stati noi a cercarli. Così si è creata questa situazione di lutti e di carceri. La responsabilità è di tuo zio e compagni, se ci sono morti e se ci sono carcerati. Quindi io ti dico che non c’è differenza tra voi, che avete i morti, e le famiglie che hanno la gente in galera per sempre, perché sono morti vivi. Quindi, i tuoi parenti devono rimanere all’America, devono rimanere sempre reperibili. Ai tuoi parenti garanzie non ne può dare nessuno. I tuoi parenti se ne devono andare e ci devono fare solo sapere dove vanno perché noi li dobbiamo tenere sempre sotto controllo".
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Anche Antonino Rotolo ha spedito a New York il suo fidato "messaggero", Gianni Nicchi, giovane e "sperto". Al rientro dalla missione, si fa raccontare e quel che ascolta non gli piace. Rotolo, se sono sincere le sue parole, non si fida delle promesse di Frank Calì. Crede che siano soltanto "chiacchiere" per restituire Palermo agli Inzerillo. I suoi sospetti lo isolano dentro Cosa Nostra. Salvatore Lo Piccolo - il suo competitore nelle borgate - ha già chiuso l’accordo con gli Americani. L’ago della bilancia è Provenzano. Però anche a Provenzano fa gola riallacciare i rapporti con i suoi antichi nemici e ritrovarseli dopo un quarto di secolo al suo fianco. Negli ultimi mesi della sua latitanza, finita l’11 aprile del 2006, mette in moto tutta la sua sapienza ambigua. In un rosario di "pizzini" inviati ai suoi, finge di non sapere che gli Inzerillo sono già tutti a Palermo. Minimizza la rilevanza di quel ritorno. Quando gli capita, consiglia di accoglierli "se vogliono passare il Natale con i loro parenti" o se devono scontare scampoli di pena in Italia, una volta espulsi dagli Stati Uniti. E’ l’abituale inganno "corleonese". In realtà, il lavorio di mediazione con gli Americani è l’ultima grande fatica del Padrino di Corleone.
Da due anni, "il vecchio" si adopera per il recupero totale alle fortune di Cosa Nostra degli Inzerillo, soprattutto dei loro legami con la mafia americana. Nicola Mandalà è l’uomo più fidato dell’inner circle di Bernardo Provenzano. Lo aiuta a farsi operare alla prostata in una clinica di Marsiglia. Fa due viaggi a New York per incontrare Frank Calì e Pietro Inzerillo. E’ possibile che Mandalà, generosamente finanziato con 40 mila dollari a trasferta, abbia fatto tutto questo senza un mandato di Provenzano? Un altro "contadino" di Corleone va in America. E’ quel Bernardo Riina che sarà poi arrestato come "ultimo anello" che conduce i poliziotti nel rifugio di Montagna dei Cavalli. Bernardo Riina costituisce una società a New York insieme a suo figlio nel gennaio del 2006. Appena cento giorni prima della cattura del suo Padrino. E’ il ponte lanciato dalla Sicilia all’America. E’ un capovolgimento di schemi e di logiche dove i Corleonesi - dati per spacciati dopo l’arresto dei suoi rappresentanti più famosi - non solo non stanno abbandonando i posti di comando di Cosa Nostra ma, al contrario, provano a penetrare un altro mondo: gli Stati Uniti. Il personaggio chiave è, dunque, il nostro misteriosissimo Frank Calì che distribuisce Italian Food su tutta la costa atlantica. Ancora più misteriose, al momento, sono le occasioni economiche e finanziarie che le due mafie prevedono di cogliere insieme. Tempo e buon tempo non dura sempre un tempo. Cosa Nostra si prepara alla sua nuova stagione.
* la Repubblica, 12 luglio 2007
LIBRI
I sacrilegi delle mafie
Padrini e picciotti ostentano la loro devozione, che in realtà più che fede è superstizione. E quando i preti oppongono alla cultura omertosa la vera religione, sparano: da don Peppino Diana a don Puglisi
Il saggio di Alessandra Dino evidenzia il processo di maturazione della Chiesa nei confronti della mentalità mafiosa, verso un sempre maggior impegno nell’educazione dei giovani
DI GOFFREDO FOFI (Avvenire, 15.11.2008)
La mafia devota di Alessandra Dino, antropologa palermitana, è uno dei testi più significativi usciti sulla questione mafiosa ( intendendo con mafia anche le associazioni criminali di altre regioni come camorra, ’ ndrangheta, Sacra corona unita). Affrontando l’argomento da un punto di vista trascurato, procedendo a molte interviste con magistrati, preti, pentiti, vedendo della questione gli aspetti più specificamente religiosi ma anche collocandoli sullo sfondo di una più generale questione civile, la Dino aiuta a comprendere un ambiente, una cultura, distinguendo nettamente tra gli aspetti esteriori - quelli, diciamo, di una ritualità di facciata, che serve al mafioso per affermare il suo potere all’interno di una comunità, o quelli di una devozione deviata - e quelli più intimi del dilemma morale che può investire, come è ben noto o come si vorrebbe che fosse, anche il criminale più incallito.
Hanno sconcertato molti, le professioni e le espressioni di fede di alcuni noti mafiosi ( per esempio Provenzano), e la “ lettura” dei comportamenti religiosi di altri - o di un pentitismo sulle cui motivazioni alcuni sacerdoti hanno espresso dei dubbi, perché spesso causato soltanto dall’interesse alla riduzione della pena e dunque moralmente inautentico. Tra i preti che la Dino ha accostato ci sono quelli che sembrano partecipare ( ma più ieri che oggi) di una cultura ambientale coinvolgente, quelli che molto più seriamente distinguono tra il ruolo della Chiesa e il ruolo dello Stato e rivendicano la netta differenza dello sguardo, della posizione, dei doveri nei confronti di chi pecca ( e delinque), e quelli infine che insistono sulla “questione morale” vedendone gli aspetti più latamente etici, civili, sociali. Se di cultura-ambiente si tratta, è su questa che essi pensano di dover intervenire, e lo hanno fatto a volte (don Peppino Diana a Casal di Principe, don Puglisi a Palermo) lasciandoci la vita.
Oggi che molti libri ( non ultimo Gomorra) hanno messo in rilievo la profondità dei legami e degli interessi mafiosi in settori molto importanti dell’economia e della finanza e ben oltre i territori tradizionali, in tutto il Paese e altrove, in Europa come in America; oggi che le classi dirigenti di molti Paesi ( la stessa grande Russia) trattano con le mafie e se le fanno alleate, ovviamente a caro prezzo; oggi che il disordine morale della post- modernità abbassa enormemente il livello di difesa della morale dei singoli, occorrerebbe affrontare anche la questione mafiosa da presupposti assai vasti, che mettano in discussione l’intero assetto di società la cui prosperità deriva in parte dal crimine. Se è vero che, secondo le stime, il Pil italiano è prodotto per il dieci-dodici per cento dall’economia criminale ( e non vengono considerati in questi calcoli, per esempio, la produzione e lo smercio di armi) ne deriva che le risposte alle attività mafiose dovrebbero essere ben più radicali che quelle esclusivamente giudiziarie. E, di fatto, come si sconfiggono le mafie? Non credo, personalmente, che i “professionisti dell’antimafia” riescano sempre a incidere in profondità nel concreto delle culture mafiose, né che la denuncia sia di per sé sufficiente ( in un Paese come il nostro dove la denuncia sembra spesso un’arte e un mestiere, una retorica e un alibi: milioni di denunce giornalistiche, cinematografiche, letterarie, ma anche di buona propaganda sul territorio, hanno cambiato relativamente poco, anche se hanno costretto le mafie a inventare nuovi modi di agire).
La risposta viene da molte delle interviste e delle considerazioni che ne ricava la Dino, e sintetizzando si può dire che sono tre i modi necessari: l’intervento nell’economia, che è il fondamentale perché se non cambia l’economia non scema il potere che le organizzazioni mafiose possono avere su un ambiente sociale, l’attrazione che possono esercitare sui più deboli - per esempio i giovani, i precari, i disoccupati; quello giudiziario, del rispetto delle leggi, il cui vero limite consiste nella constatazione che le leggi non tutti le rispettano, nelle nostre classi dirigenti; e infine l’educazione, l’intervento assiduo e radicato in un territorio soprattutto nei confronti dei più giovani, per allargare la loro visione e dar loro solide fondamenta etiche. È in questo settore, dice la Dino, che la Chiesa può intervenire con efficacia, oltre che sul terreno che le è proprio della cura delle anime.
Sipario sul processo ai Casalesi
Carcere a vita per Sandokan e gli altri boss
La Cassazione conferma 16 ergastoli
A Gomorra la rivincita della giustizia
di ROBERTO SAVIANO *
SULL’ultimo foglio riposto in cima ai faldoni degli inquisiti che subiscono una condanna appare la seguente dicitura: Fine pena. E dopo due punti, l’anno in cui verranno scarcerati. Per i boss storici dei Casalesi, Francesco "Sandokan" Schiavone, Francesco Bidognetti ci sarà scritto: fine pena mai. La camorra non è imbattibile. La Corte di Cassazione ha confermato le condanne. Dopo 11 anni si è chiuso il più grande processo di mafia, paragonabile solo al maxiprocesso di Palermo istruito da Falcone e Borsellino negli anni ’80. Per lo Stato italiano ora è definitivo: esiste il clan dei Casalesi, esistono i loro affari i boss. È una vittoria. Tre gradi di giudizio, la parola dei pentiti è confermata dalle indagini. Fino alla fine i boss e i loro collegi difensivi hanno sperato che la Cassazione annullasse il secondo grado, ma non è andata così.
Quando è arrivata la notizia, è come se vent’anni mi fossero d’immediato passati negli occhi. Nel corpo un’emozione strana, come di rabbia e di amaro sollievo al contempo. Il pensiero va a coloro che quando parlavi di camorra dicevano che esageravi. Agli imprenditori che hanno fatto affari con il clan. Ai politici che hanno acquisito caratura nazionale grazie al potere e ai favori del clan, ai giornalisti che flirtavano con le organizzazioni divenendone portavoce. Il pensiero va a quando pronunciare la parola camorra era impossibile, a quando nessuno voleva saperne della realtà mafiosa del casertano. Ma il pensiero va anche a tutti coloro che hanno resistito. Il pensiero va ai giudici che hanno lavorato contro i casalesi, dai pm Federico Cafiero De Raho a Franco Roberti, da Lucio Di Pietro, Francesco Greco, Carlo Visconti, Francesco Curcio e poi Raffaele Cantone, Raffaello Falcone, Antonello Ardituro e Lello Magi.
Ma soprattutto il pensiero va a tutti i morti innocenti che sono caduti per mano casalese. Non riesco a non pensare a don Peppe Diana ammazzato per essersi messo contro i clan per aver detto e scritto "per amore del mio popolo non tacerò". A Salvatore Nuvoletta, carabiniere ucciso per vendicare morte del nipote di Sandokan. A Federico Del Prete, ucciso per aver fondato un sindacato contro i clan. Ad Antonio Cangiano sparato alla spina dorsale perché si era opposto da vice sindaco a dare un appalto senza gara regolare. A tutti i morti per cancro, uccisi dai rifiuti tossici sotterrati nelle terre, nelle cave, tra le bufale e le coltivazioni di mele. Una storia lunga. Che i clan avevano mantenuto al buio, solo pochi coraggiosi cronisti locali in grado di raccontare e poi una enorme indifferenza. Il primo grado si era chiuso senza nemmeno un cenno sui giornali nazionali.
Questo processo riguarda vicende che vanno dalla morte del capo dei capi Antonio Bardellino sino al 1996. E ci sono voluti dieci anni quasi per accertare quei fatti, e per chiudere il primo grado di questo processo. Nel 2005 un processo con circa 1300 inquisiti avviata dalla Direzione distrettuale antimafia nel 1993, partendo dalle dichiarazioni di Carmine Schiavone. Un processo durato seicentoventisei udienze complessive, 508 testimoni sentiti oltre ai 24 collaboratori di giustizia, di cui 6 imputati. Acquisiti 90 faldoni di atti. Una inchiesta-madre che durante questi anni ha generato decine di processi paralleli: omicidi, appalti, droga, truffe allo Stato. Dopo quasi un anno dal blitz del 1995, nacque Spartacus 2, Regi Lagni, ossia il recupero dei canali borbonici che bonificarono nel diciottesimo secolo i territori casertani dalle paludi ma che dall’epoca di Carlo III non ricevevano ristrutturazione adeguata. Il recupero dei Regi Lagni fu per anni pilotato dai clan che generarono per loro appalti miliardari inutilizzati per ristrutturare le vecchie strutture borboniche ma a dislocare miliardi di lire negli anni ’90 verso le loro imprese edili che sarebbero divenute vincenti in tutt’Italia gli anni successivi.
Per la prima volta furono sequestrate come beni della camorra anche due società di calcio: l’Albanova e il Casal di Principe. 21 gli ergastoli, oltre 750 anni di galera inflitti. Persino le carte processuali da trasmettere ai giudici d’appello, i 550 faldoni contenenti gli atti del procedimento nel novembre 2006, hanno avuto bisogno di un camion blindato e scortato dai carabinieri che portò i documenti da Santa Maria Capua Vetere a Napoli. Tutto questo era accaduto con una sostanziale indifferenza dei media nazionali ed internazionali. Questo secondo grado non sarà così. I nomi dei boss, delle loro aziende, i nomi dei loro delitti non passeranno solo sulla stampa locale, non avranno solo vita d’inchiostro nei documenti processuali. Verranno conosciuti, saranno resi noti.
Per chi viene dal casertano e ha sentito parlare di onore rivolti a questi personaggi leggendo le carte del processo capirà che non hanno nulla di onorevole, che sono in grado di non rispettare nessun patto. Antonio Bardellino aveva cresciuto Sandokan e tutti gli altri capi dell’organizzazione e i suoi delfini gli fingevano rispetto. Sandokan usò le spigolosità della diplomazia camorristica per raggiungere il suo scopo che avrebbe potuto realizzasi solo facendo scoppiare una guerra interna al sodalizio. Come racconta il pentito Carmine Schiavone, i due boss pressarono Antonio Bardellino per farlo ritornare in Italia e cercare di eliminare Mimì Iovine, fratello del boss Mario Iovine, che aveva un mobilificio ed era formalmente estraneo alle dinamiche di camorra, ma che secondo i due boss aveva per troppe volte svolto il ruolo di confidente dei carabinieri. Per convincere il boss gli avevano raccontato che persino Mario Iovine era disposto a sacrificare suo fratello pur di mantenere ben salto il potere del clan. Bardellino si lasciò convincere e fece ammazzare Mimì mentre stava andando a lavoro nel suo mobilificio. Immediatamente dopo l’agguato, Sandokan e i suoi fecero pressione su Mario Iovine per eliminare Bardellino dicendogli che aveva osato uccidere suo fratello per un pretesto, soltanto per una voce. Un doppio gioco che sarebbe riuscito a mettere contro Mario Iovine il più maturo tra i delfini del boss e il boss stesso, Antonio Bardellino.
I casalesi iniziarono ad organizzarsi. Schiavone avrebbe dato l’appoggio totale per l’eliminazione di ogni residuo bardelliniano. Erano tutti d’accordo i suoi delfini per eliminare il capo dei capi, l’uomo che più di tutti in Campania aveva creato un sistema di potere criminal-imprenditoriale. Il boss fu convinto a spostarsi da Santo Domingo nella villa brasiliana, gli raccontarono la balla che aveva l’Interpol alle costole. In Brasile lo andò a trovare Mario Iovine con il pretesto di mettere a punto i loro affari circa l’impresa di import-export di farina di pesce-coca. Un pomeriggio, Iovine non trovandosi più nei calzoni la pistola, prese una mazzuola, sfondò il cranio di don Antonio e seppellì il corpo in una buca scavata sulla spiaggia brasiliana. Il corpo però non fu mai ritrovato. Eseguita l’operazione, il boss telefonò immediatamente a Vincenzo De Falco per comunicare la notizia e dare inizio alla mattanza di tutti i bardelliniani. Paride Salzillo nipote di don Antonio Bardellino, venne invitato ad un summit tra tutti i dirigenti del cartello casalese.
Racconta sempre il pentito Carmine Schiavone che lo fecero sedere al tavolo e poi d’improvviso Sandokan gi disse: "Guarda tuo zio è morto in Brasile e mo’ farai la stessa fine pure tu". Ammazzano persone solo perché hanno relazioni con personaggi collegabili ai clan: come Liliano Diana che si era fidanzato con una figlia di un boss, oppure Genovese Pagliuca che era fidanzato con una ragazza di cui si era innamorata in modo saffico una amante di Bidognetti. E hanno fatto vivere nel terrore questo territorio come in una guerra civile. In una telefonata presente nelle carte processuali è scritto: "Poi dicono che a Casale stanno facendo tutti le porte di ferro, pure le botteghelle, le bancarelle, stanno tutti a fare le porte di ferro, dicono che Pucci il fabbro ha fatto seicento milioni di ferro". In questi territori, gran parte di coloro che sono vicini agli affari dei clan non lo dichiara pubblicamente ma porta avanti la tesi che la camorra sono solo coloro che sparano, solo il segmento militare.
Restano fuori dal carcere Michele Zagaria e Antonio Iovine. I due capi. Anche loro condannati in via definitiva, ma ancora latitanti da oltre tredici anni. E’ Michele Zagaria il capo che con Sandokan, ora condannato definitivamente, smetterà di essere vicerè e diventerà re, almeno fin quando resterà libero. L’uomo del cemento. Il clan Zagaria infatti - secondo le accuse - è riuscito persino a lavorare per il Patto Atlantico edificando la centrale radar posta nei pressi del Lago Patria, punto fondamentale per le attività militari Nato nel Mediterraneo. Michele Zagaria che non vuole sia sparso sangue nel suo paese natale di Casapesenna, che ha pagato le feste patronali riuscendo a far venire artisti di caratura nazionale, che gestisce il ciclo del cemento in molte zone d’Italia- dall’Emilia Romagna all’Umbria sino alla Toscana- ha fatto consegnare in galera in fratelli Pasquale, Carmine e Antonio. Hanno piccole pene da scontare, tutte sotto i dieci anni e una solida strategia: una volta scontata la pena comanderanno loro i Casalesi, facendo soprattutto affari legali e internazionali. E se nel frattempo qualcuno ucciderà o penserà di ostacolare Michele, i suoi fratelli in galera saranno la sua assicurazione sulla vita. Appena gli accadrà qualcosa, hanno l’ordine di pentirsi riuscendo a far immediatamente incarcerare i loro rivali.
Per evitare di essere beccato, Michele Zagaria non ha messo su famiglia, visto che i capi che lo hanno preceduto sono stati arrestati usando il punto debole di mogli e figli. Ha fatto la latitanza persino in una chiesa, un posto dove i poliziotti non andrebbero mai a controllare. Lo Stato cerca Zagaria e Iovine (o li dovrebbe cercare) da molto tempo. Eppure difficilmente i capi operativi possono stare troppo lontano dal loro territorio. Zagaria e Iovine continuano a vivere in una manciata di chilometri, nei loro paesi di non più di 20mila abitanti, con una rete di appoggio che rende impossibile che vengano arrestati. Antonio Iovine, detto o’Ninno per il suo viso da bambino e per essere divenuto capo già da ragazzino, è l’altro reggente, legato a doppio filo a Sandokan. Quindi il suo ruolo potrebbe essere messo in crisi dall’uscita degli Schiavone dal vertice del clan. Il Ninno è potente sulla piazza di Roma, è stato proprietario della discoteca più prestigiosa della capitale e inserito nel settore dell’edilizia e del turismo. Il suo clan aveva escogitato uno strumento infallibile per trasportare coca: usavano le macchine dei vigili urbani di San Cipriano d’Aversa e i vigili stessi come corrieri.
Il ruolo dei reggenti latitanti è fondamentale per il nuovo asse cemento, rifiuti, centri commerciali, investimenti all’estero e la loro libertà permette al clan di dimostrare un’impunità continuativa per le nuove generazioni di affiliati. La chiusura del processo è anche il successo autentico di quei magistrati e quegli uomini della polizia, dei carabinieri, della guardia di finanza che in uno dei territori più inquinati e infiltrati, sono riusciti a non farsi corrompere. Che hanno creduto nel loro dovere e mestiere fosse necessario in un contesto dove tutti sono amici di tutti, dove i parenti divengono il vincolo per fare qualsiasi cosa, per avere carriere spianate o distrutte, dove il sangue viene prima di ogni scelta e di ogni coscienza. Dove dalle farmacie ai centri commerciali, dalle squadre di pallone ai giornali, dalle cave ai ristoranti, la presenza dei clan è oppressiva. In situazioni simili, fare bene il proprio mestiere è qualcosa che sa di resistenza, non solo di deontologia.
Qui si va oltre le ore di lavoro, si sente che attraverso il proprio impegno si gioca il destino di un paese. Non bisogna mai dimenticare che non si tratta solo di imprenditori senza regole, furbi e di talento, ma soprattutto di uomini feroci e spietati. Spesso pensano di ammazzare per niente, come racconta il pentito Dario de Simone: "Walter Schiavone voleva ammazzare Zagaria perché avrebbe detto che Walter non sa sparare" oppure Di Bona, altro pentito: "Michele Zagaria con il kalashnikov aveva dato tanti di quei colpi alla testa di De Falco che schizzavano in alto e fuori dal finestrino dall’abitacolo della macchina pezzi del cuoio capelluto di De Falco".
Spartacus: un nome che non è stato scelto a caso ma si riferisce proprio a Spartaco, il gladiatore tracio che nel 73 avanti Cristo insorse con un pugno di uomini contro Roma, riuscendo, partendo dalla scuola gladiatoria di Capua, a raccogliere nella sua insurrezione schiavi, liberti, gladiatori d’ogni parte del meridione. Non era mai successo nella storia giudiziaria internazionale che un processo avesse il nome di un ribelle gladiatore, di un uomo che sfidò quella che nel mito del diritto mondiale è l’assoluta capitale e simbolo: Roma. Spartacus è stato chiamato questo processo, con l’idea che il diritto potesse liberare queste terre schiave del potere dei clan e dell’imprenditoria criminale. Con il sogno che un processo potesse divenire la sollevazione legale di un territorio laddove la vera insurrezione, la vera rivoluzione in questo territorio è la possibilità di agire legalmente, senza sotterfugi, alleanze, parenti, appalti truccati e aziende dopate dal mercato illegale. In questi momenti viene voglia di parlare, a rischio di esser presi per matti, romantici, o mistici, con chi è morto. Solo i morti, dice Platone, hanno visto la fine della guerra. Ma noi, che morti non siamo, non ci daremo pace, convinti che sia possibile combattere e sconfiggere l’economia criminale.
© 2009 Roberto Saviano
Published by arrangement with Roberto Santachiara Literary Agency
© la Repubblica, 16.01.2010