Un “goj”*
Il signor Daniele Catellani, mio amico, bella testa ricciuta e nasuta - capelli e naso di razza - ha un brutto vizio: ride nella gola in un certo modo così irritante, che a molti, tante volte, viene la tentazione di tirargli uno schiaffo.
Tanto più che, subito dopo, approva ciò che state a dirgli. Approva col capo; approva con precipitosi:
Già, già! già, già!
Come se poc’anzi non fossero state le vostre parole a provocargli quella dispettosissima risata.
Naturalmente voi restate irritati e sconcertati. Ma badate che è poi certo che il signor Daniele Catellani farà come voi dite. Non c’è caso che s’opponga a un giudizio, a una proposta, a una considerazione degli altri.
Ma prima ride.
Forse perché, preso alla sprovvista, là, in un suo mondo astratto, così diverso da quello a cui voi d’improvviso lo richiamate, prova quella certa impressione per cui alle volte un cavallo arriccia le froge e nitrisce. Della remissione del signor Daniele Catellani e della sua buona volontà d’accostarsi senz’urti al mondo altrui, ci sono del resto non poche prove, della cui sincerità sarebbe, io credo, indizio di soverchia diffidenza dubitare. Cominciamo che per non offendere col suo distintivo semitico, troppo apertamente palesato dal suo primo cognome (Levi), l’ha buttato via e ha invece assunto quello di Catellani.
Ma ha fatto anche di più. S’è imparentato con una famiglia cattolica, nera tra le più nere, contraendo un matrimonio cosiddetto misto, vale a dire a condizione che i figliuoli (e ne ha già cinque) fossero come la madre battezzati, e perciò perduti irremissibilmente per la sua fede. Dicono però che quella risata così irritante del mio amico signor Catellani ha la data appunto di questo suo matrimonio misto.
A quanto pare, non per colpa della moglie, però, bravissima signora, molto buona con lui, ma per colpa del suocero, che è il signor Pietro Ambrini, nipote del defunto cardinale Ambrini, e uomo d’intransigentissimi principii clericali. Come mai, voi dite, il signor Daniele Catellani andò a cacciarsi in una famiglia munita d’un futuro suocero di quella forza? Mah!
Si vede che, concepita l’idea di contrarre un matrimonio misto, volle attuarla senza mezzi termini; e chi sa poi, fors’anche con l’illusione che la scelta stessa della sposa d’una famiglia così notoriamente divota alla santa Chiesa cattolica, dimostrasse a tutti che egli reputava come un accidente involontario, da non doversi tenere in alcun conto, l’esser nato semita.
Lotte acerrime ebbe a sostenere per questo matrimonio. Ma è un fatto che i maggiori stenti che ci avvenga di soffrire nella vita sono sempre quelli che affrontiamo per fabbricarci con le nostre stesse mani la forca. Forse però - almeno a quanto si dice non sarebbe riuscito a impiccarsi il mio amico Catellani, senza l’aiuto non del tutto disinteressato del giovine Millino Ambrini, fratello della signora, fuggito due anni dopo in America per ragioni delicatissime, di cui è meglio non far parola.
Il fatto è che il suocero, cedendo obtorto collo alle nozze, impose alla figlia come condizione imprescindibile di non derogare d’un punto alla sua santa fede e di rispettare col massimo zelo tutti i precetti di essa, senza mai venir meno a nessuna delle pratiche religiose. Pretese inoltre che gli fosse riconosciuto come sacrosanto il diritto di sorvegliare perché precetti e pratiche fossero tutti a uno a uno osservati scrupolosamente, non solo dalla nuova signora Catellani, ma anche e più dai figliuoli che sarebbero nati da lei.
Ancora, dopo nove anni, non ostante la remissione di cui il genero gli ha dato e seguita a dargli le più lampanti prove, il signor Pietro Ambrini non disarma. Freddo, incadaverito e imbellettato, con gli abiti che da anni e anni gli restano sempre nuovi addosso e quel certo odore ambiguo della cipria, che le donne si dànno dopo il bagno, sotto le ascelle e altrove, ha il coraggio d’arricciare il naso, vedendolo passare, come se per le sue nari ultracattoliche il genero non si sia per anche mondato del suo pestilenzialissimo foetor judaicus. Lo so perché spesso ne abbiamo parlato insieme.
Il signor Daniele Catellani ride in quel suo modo nella gola, non tanto perché gli sembri buffa questa vana ostinazione del fiero suocero a vedere in lui per forza un nemico della sua fede, quanto per ciò che avverte in sé da un pezzo a questa parte.
Possibile, via, che in un tempo come il nostro, in un paese come il nostro, debba sul serio esser fatto segno a una persecuzione religiosa uno come lui, sciolto fin dall’infanzia da ogni fede positiva e disposto a rispettar quella degli altri, cinese, indiana, luterana, maomettana?
Eppure, è proprio così. C’è poco da dire: il suocero lo perseguita. Sarà ridicola, ridicolissima, ma una vera e propria persecuzione religiosa, in casa sua, esiste. Sarà da una parte sola e contro un povero inerme, anzi venuto apposta senz’armi per arrendersi; ma una vera e propria guerra religiosa quel benedett’uomo del suocero gliela viene a rinnovare in casa ogni giorno, a tutti i costi, e con animo inflessibilmente e acerrimamente nemico.
Ora, lasciamo andare che - batti oggi e batti domani - a causa della bile che già comincia a muoverglisi dentro, l’homo judaeus prende a poco a poco a rinascere e a ricostituirsi in lui, senza ch’egli per altro voglia riconoscerlo. Lasciamo andare. Ma lo scadere ch’egli fa di giorno in giorno nella considerazione e nel rispetto della gente per tutto quell’eccesso di pratiche religiose della sua famiglia, così deliberatamente ostentato dal suocero, non per sentimento sincero, ma per un dispetto a lui e con l’intenzione manifesta di recare a lui una gratuita offesa, non può non essere avvertito dal mio amico signor Daniele Catellani.
E c’è di più. I figliuoli, quei poveri bambini così vessati dal nonno, cominciano anch’essi ad avvertir confusamente che la cagione di quella vessazione continua che il nonno infligge loro, dov’essere in lui, nel loro papà. Non sanno quale, ma in lui dov’essere di certo. Il buon Dio, il buon Gesù - (ecco, il buon Gesù specialmente!) - ma anche i Santi, oggi questo e domani quel Santo, ch’essi vanno a pregare in chiesa col nonno ogni giorno, è chiaro ormai che hanno bisogno di tutte quelle loro preghiere, perché lui, il papà, deve aver fatto loro, di certo, chi sa che grosso male! Al buon Gesù, specialmente!
E prima d’andare in chiesa, tirati per mano, si voltano, poveri piccini, ad allungargli certi sguardi così densi di perplessa angoscia e di dogliosa rimprovero, che il mio amico signor Daniele Catellani si metterebbe a urlare chi sa quali imprecazioni, se invece... se invece non preferisse buttare indietro la testa ricciuta e nasuta e prorompere in quella sua solita risata nella gola.
Ma sì, via! Dovrebbe ammettere altrimenti sul serio d’aver commesso un’inutile vigliaccheria a voltar le spalle alla fede dei suoi padri, a rinnegare nei suoi figliuoli il suo popolo eletto: ’am olam, come dice il signor Rabbino. E dovrebbe sul serio sentirsi in mezzo alla sua famiglia un goj, uno straniero; e sul serio infine prendere per il petto questo suo signor suocero cristianissimo e imbecille, e costringerlo ad aprir bene gli occhi e a considerare che, via, non è lecito persistere a vedere nel suo genero un deicida, quando in nome di questo Dio ucciso duemil’anni fa dagli ebrei, i cristiani che dovrebbero sentirsi in Cristo tutti quanti fratelli, per cinque anni si sono scannati tra loro allegramente in una guerra che, senza pregiudizio di quelle che verranno, non aveva avuto finora l’eguale nella storia.
No, no, via! Ridere, ridere. Son cose da pensare e da dir sul serio al giorno d’oggi?
Il mio amico signor Daniele Catellani sa bene come va il mondo. Gesù, sissignori. Tutti fratelli. Per poi scannarsi tra loro. E naturale. E tutto a fil di logica, con la ragione che sta da ogni parte: per modo che a mettersi di qua non si può fare a meno d’approvare ciò che s’è negato stando di là.
Approvare, approvare, approvar sempre. Magari, sì, farci sì prima, colti alla sprovvista, una bella risata. Ma poi approvare, approvar sempre, approvar tutto. Anche la guerra, sissignori.
Però (Dio, che risata interminabile, quella volta!) però, ecco, il signor Daniele Catellani volle fare, l’ultimo anno della grande guerra europea, uno scherzo al suo signor suocero Pietro Ambrini, uno scherzo di quelli che non si dimenticano più.
Perché bisogna sapere che, nonostante gran carneficina, con una magnifica faccia tosta il signor Pietro Ambrini, quell’anno, aveva pensato di festeggiare, per i cari nipotini, la ricorrenza del Santo Natale più pomposamente che mai. E s’era fatti fabbricare tanti e tanti pastorelli di terracotta: i pastorelli che portano le loro umili offerte alla grotta di Bethlehem, al Bambinello Gesù appena nato: fiscelle di candida ricotta panieri d’uova e cacio raviggiolo, e anche tanti Franchetti di Soffici pecorelle e somarelli carichi anch’essi d’altre più ricche offerte, seguiti da vecchi massari e da campieri. E sui cammelli, ammantati, incoronati e solenni, i tre re Magi, che vengono col loro seguito da lontano lontano dietro alla stella cometa che s’è fermata su la grotta di sughero, dove su un po’ di paglia vera è il roseo Bambinello di cera tra Maria e San Giuseppe; e San Giuseppe ha in mano il bàcolo fiorito, e dietro sono il bue e l’asinello.
Aveva voluto che fosse ben grande il presepe quell’anno, il caro nonno, e tutto bello in rilievo, con poggi e dirupi, agavi e palme, e sentieri di campagna per cui si dovevano veder venire tutti quei pastorelli ch’eran perciò di varie dimensioni, coi loro branchetti di pecorelle e gli asinelli e i re Magi.
Ci aveva lavorato di nascosto per più d’un mese, con l’aiuto di due manovali che avevan levato il palco in una stanza per sostener la plastica. E aveva voluto che fosse illuminato da lampadine azzurre in ghirlanda; e che venissero dalla Sabina, la notte di Natale, due zampognari a sonar l’acciarino e le ciaramelle. I nipotini non ne dovevano saper nulla.
A Natale, rientrando tutti imbacuccati e infreddoliti dalla messa notturna, avrebbero trovato in casa quella gran sorpresa: il suono delle ciaramelle, l’odore dell’incenso e della mirra, e il presepe là, come un sogno, illuminato da tutte quelle lampadine azzurre in ghirlanda. E tutti i casigliani sarebbero venuti a vedere, insieme coi parenti e gli amici invitati al cenone, questa gran maraviglia ch’era costata a nonno Pietro tante cure e tanti quattrini. Il signor Daniele lo aveva veduto per casa tutto assorto in queste misteriose faccende, e aveva riso; aveva sentito le martellate dei due manovali che piantavano il palco di là, e aveva riso.
Il demonio, che gli s’è domiciliato da tanti anni nella gola, quell’anno, per Natale, non gli aveva voluto dar più requie: giù risate e risate senza fine. Invano, alzando le mani, gli aveva fatto cenno di calmarsi; invano lo avena ammonito di non esagerare, di non eccedere.
Non esagereremo, no! - gli aveva risposto dentro il demonio. - Sta’ pur sicuro che non eccederemo. Codesti pastorelli con le fiscelline di ricotta e i panierini d’uova e il cacio raviggiolo sono un caro scherzo, chi lo può negare? così in cammino tutti verso la grotta di Bethlehem! Ebbene, resteremo nello scherzo anche noi, non dubitare! Sarà uno scherzo anche il nostro, e non meno carino. Vedrai.
Così il signor Daniele s’era lasciato tentare dal suo demonio; vinto sopra tutto da questa capziosa considerazione: che cioè sarebbe restato nello scherzo anche lui.
Venuta la notte di Natale, appena il signor Pietro Ambrini con la figlia e i nipotini e tutta la servitù si recarono in chiesa per la messa di mezzanotte, il signor Daniele Catellani entrò tutto fremente d’una gioia quasi pazzesca nella stanza del presepe: tolse via in fretta e furia i re Magi e i cammelli, le pecorelle e i somarelli, i pastorelli del cacio raviggiolo e dei panieri d’uova e delle fiscelle di ricotta - personaggi e offerte al buon Gesù, che il suo demonio non aveva stimato convenienti al Natale d’un anno di guerra come quello - e al loro posto mise più propriamente, che cosa? niente, altri giocattoli: soldatini di stagno, ma tanti, ma tanti, eserciti di soldatini di stagno, d’ogni nazione, francesi e tedeschi, italiani e austriaci, russi e inglesi, serbi e rumeni, bulgari e turchi, belgi e americani e ungheresi e montenegrini, tutti coi fucili spianati contro la grotta di Bethlehem, e poi, e poi tanti cannoncini di piombo, intere batterie, d’ogni foggia, d’ogni dimensione, puntati anch’essi di sé, di giù, da ogni parte, tutti contro la grotta di Bethlehem, i quali avrebbero fatto veramente un nuovo e graziosissimo spettacolo.
Poi si nascose dietro il presepe.
Lascio immaginare a voi come rise là dietro, quando, alla fine della messa notturna, vennero incontro alla meravigliosa sorpresa il nonno Pietro coi nipotini e la figlia e tutta la folla degli invitati, mentre già l’incenso fumava e i zampognari davano fiato alle loro ciaramelle.
* Luigi PIRANDELLO, Un «goj» [1918], "La rallegrata", Novelle per un anno, Mondadori.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’eucaristia mafiosa. La voce dei preti
di Paola Bisconti (Linkiesta /Blog post del 17/01/2015)
Il mondo mafioso non è fatto solo di omicidi e traffici globalizzati, ma anche di un tipo di cultura che ruota intorno a madonne, santi e riti parareligiosi. Partendo da questa lucida analisi Salvo Ognibene affronta nel suo libro “L’eucaristia mafiosa. La voce dei preti” pubblicato da Navarra Editore, una tematica di fondamentale importanza per addentrarsi nell’esplorazione di quell’universo criminale che si rivela sempre più complesso e per questo da non sottovalutare.
L’aurea religiosa che aleggia in un contesto delinquenziale dettato da regole rigorosissime sorprende, stupisce e indigna. Ci si interroga infatti su come sia possibile la legittimazione del male attraverso l’uso improprio della religione. Questa distorsione messa in atto dall’uomo mafioso in particolare nelle regioni del sud Italia dove è peraltro fortemente sentito il culto religioso tanto da parlare di “questione meridionale cattolica” ci lascia supporre una serie di quesiti disvelati ampiamente nel testo.
Come hanno potuto gli uomini di Chiesa, i servi di Dio, i portatori della parola del Vangelo concedere fastose cerimonie funebri ai boss che in vita hanno seminato odio e violenza? Come hanno potuto lasciare che le più sentite feste religiose diventassero occasione perché i cittadini anche quelli onesti, manifestassero riverenza ai capi clan? Come hanno permesso il ritrovo di affiliati e adepti nei santuari per svolgere dei summit durante i quali si decideva sulla vita e sulla morte delle persone?
Nei cinque capitoli de “L’eucaristia mafiosa” preceduti dalla prefazione di Antonio Nicaso nella quale lo storico ribadisce come la Chiesa sia stata per molto tempo silente e apatica nella lotta contro la mafia e seguiti dalla postfazione di Rosaria Cascio, presidente dell’Associazione P. Pino Puglisi”, che sottolinea la peculiarità del libro in grado di chiarire “il perché dei ritardi di una Chiesa ancora troppo impastata di mondana corruzione, ancora troppo intrisa di errori e peccato”, si colgono molteplici aspetti di connessione tra due mondi che dovrebbero invece essere agli antipodi.
“A me non interessa sapere se Dio esiste” diceva don Peppe Diana “interessa sapere da che parte sta”. È dall’esempio di un prete lungimirante che i fedeli e i loro pastori in primis sono chiamati a mettere in pratica le parole delle Sacre Scritture.
Nel libro di Salvo Ognibene ampio spazio è dedicato a quei sacerdoti che hanno lottato strenuamente contro la mafia schierandosi con la verità come don Pino Puglisi ma anche altri che ogni giorno combattono instancabilmente. Tra le pagine sono ricordati altresì quei preti dimenticati e coloro che attualmente come don Maurizio Patriciello, don Luigi Ciotti, padre Alex Zanotelli e molti altri ancora rappresentano la parte più bella di una Chiesa che non si arrende e non si lascia corrompere.
Mafia e Chiesa quindi sono due poteri che hanno spesso camminato a braccetto ignorando, sottovalutando o peggio ancora ostacolando l’impegno dei pochi che avevano intuito come il dilagare delle organizzazioni criminali rappresentasse “l’inquinamento morale dell’Italia”. Sebbene l’anatema di Giovanni Paolo II pronunciato nella Valle dei Templi, ad Agrigento, nel 1993, abbia contribuito a svegliare le coscienze dei corrotti, c’è ancora tanto da fare per frenare le infiltrazioni mafiose nell’ambito religioso.
Le numerose informazioni presenti nel libro, frutto di un accurato studio e di una meticolosa ricerca da parte dell’autore, sono un’esortazione per tutta quella gente che solo attraverso il coraggio dei loro pastori può ritrovare il proprio. C’è un bisogno urgente di coerenza e credibilità per portare avanti una battaglia in nome di una giustizia che sia divina ma prima ancora terrestre.
Deporre i poveri dalla croce: cristologia della liberazione
di ADISTA *
Importante iniziativa di Adista che ha tradotto e messo a disposizione gratuitamente il libro "Deporre i poveri dalla croce: cristologia della liberazione" edito dalla Commissione Teologica Internazionale della ASETT, Associazione Ecumenica dei Teologi/ghe del Terzo Mondo, in risposta alla notificazione vaticana sulle opere di Jon Sobrino.
Care lettrici, cari lettori,
segnaliamo un’importante novità sul nostro sito. Si può leggere finalmente anche in italiano, scaricandolo gratuitamente dalla home page di www.adista.it, il libro digitale "Bajar de la cruz a los pobres: cristología de la liberación" ("Deporre i poveri dalla croce: cristologia della liberazione") della Commissione Teologica Internazionale della ASETT, Associazione Ecumenica dei Teologi/ghe del Terzo Mondo.
La traduzione italiana, curata da Adista, dell’originale spagnolo (che, insieme alla traduzione in inglese, è disponibile agli indirizzi www.eatwot.org/TheologicalCommission e http://www.servicioskoinonia.org/LibrosDigitales) è presentata dal teologo Carlo Molari e presenta due contributi in più: di Aloysius Pieris e dello stesso Molari (è possibile leggere l’originale )
Il libro della Asett è la risposta di circa 40 teologi della liberazione alla Notificazione vaticana sulle opere di Jon Sobrino (autore dell’epilogo del libro), ma non solo: è una difesa, appassionata e potente, della cristologia della liberazione, quella che Leonardo Boff, nel prologo, definisce "una teologia militante che lotta per ’far scendere dalla croce i poveri’".
È questa voce potente quella che è oggi offerta anche al pubblico italiano, attraverso un nuovo metodo che l’Asett ha voluto sperimentare: quello di un libro digitale, libero e gratuito, che, scrive José María Vigil, coordinatore della Commissione Teologica Internazionale della Asett/Eatwot, "può essere regalato e inviato da chiunque per posta elettronica e che potrà anche essere stampato su carta mediante il procedimento della "stampa digitale", un metodo che permette di stampare su carta quantità minime di esemplari (5, 10, 20...), a un prezzo praticamente uguale a quello di un libro normale".
Per scaricare il libro, clicca qui
* IL DIALOGO, Mercoledì, 06 giugno 2007
La parola ci interpella
Il Vangelo delle chiavi
di Mario Mariotti *
Il discorso delle chiavi del Regno è il fulcro del cristianesimo tradotto in religione, e di conseguenza in potere. Il Signore avrebbe delegato a Pietro il potere di legare o di slegare, di perdono o di non-perdono dei peccati e l’avrebbe costituito Suo vicario in terra, in questo mondo. Da qui anche il potere del Papa, che non può sbagliare perché vicario di Dio in terra. Siccome i cattolici hanno fatto proprie queste convinzioni, che la salvezza della propria anima e resurrezione del proprio corpo passino per la mediazione del Papa e della gerarchia, ecco il grande potere, la grande autorevolezza di S. R. Chiesa, che ha condizionato in senso negativo e condiziona tutt’ora in senso negativo enormi moltitudini di persone, che si autotranssustanziano in pecore credenti e fedeli. Queste, a loro volta, condizionano l’evoluzione della storia umana in senso evolutivo, regressivo, reazionario ed alienante. Non ho bisogno di ribadire il mio pensiero sulla Chiesa e sulla gerarchia che la guida (probabilmente tutte le religioni hanno questi difetti). Essa si è sempre appropriata del soggettivo positivo della base, e l’ha strumentalizzato a vantaggio dei ricchi, dei potenti e di se stessa, diventando ricca e potente.
La simbiosi Tempio-Impero iniziò con Costantino, e prospera tutt’ora. Se oggi non siamo ancora ai tempi di Innocenzo III, non è per merito della evoluzione democratica della gerarchia, ma perché pian piano lo Spirito è riuscito a liberarsi dalle sue ragnatele, si è fatto spazio con l’Illuminismo, la Rivoluzione francese, il marxismo, il socialismo, ed è riuscito ad esplicitare il valore evangelico della laicità, se connotata di solidarietà e condivisione. Questa rivoluzione però, è sempre a rischio: S. R. Chiesa, dopo aver contribuito a sfottere l’utopia della fratellanza, del socialismo, oggi cerca di approfittare della scarsa lucidità dei laici per rimettere in discussione lo stesso Illuminismo. Dato che essa vorrebbe imporsi, dopo la crisi delle ideologie, quale autorità, guida teologica e morale di tutto e di tutti, prima che arrivi anche a mangiarsi anche le scuse le scuse fatte a Galileo, e che torni a condannarlo sempre postumo, sarà opportuno, da parte di coloro che non sono ancora rincoglioniti del tutto, cercare di darsi una mossa.
Ecco il mio piccolo contributo:
È vero che, nel Vangelo c’è il discorso del Signore a Pietro che gli riconosce di essere ispirato da Dio e quindi gli affida le chiavi del Regno dei cieli, ma questo significa che l’affidamento di questo potere dipende dal fatto e dalla condizione di essere ispirati dal Padre, e quindi nella logica dell’Amore, dal Servizio, dalla Condivisione, e non del potere. Se uno, infatti, si prende il disturbo di proseguire la lettura del Vangelo, scoprirà che appena Pietro non fa propria la logica di Dio e ragiona in quella sua propria, (rifiuta la sofferenza per la Verità), il Signore prende le distanze da lui e lo definisce Satana, cioè Divisore. Già questa parola sarebbe più che sufficiente per far capire che il potere delle chiavi è tale se e solo quando non è potere, ma incarnazione dello Spirito, incarnazione della volontà di Dio, che è progetto di amore, servizio, lavoro onesto e professionale per tutti gli altri e condivisione.
Inoltre appare fuori da ogni logica, sia umana che divina, questo messaggio che caratterizzerebbe un Dio che delega i propri poteri all’uomo, il quale si troverebbe nella condizione di essere Dio stesso, ma coi limiti dell’uomo; la qual cosa è semplicemente assurda, dato che l’uomo, pur non potendo conoscere completamente Dio, si troverebbe a gestire il potere, di un Dio che ci è stato rivelato con Amore, e non come potere. Ma quest’ultima considerazione potrebbe venir interpretata come una lettura dell’evento viziata di laicità, e allora a me sembra il caso che il chiarimento definitivo del problema, e quindi il depotenziamento sostanziale dell’enunciato dell’affidamento delle chiavi a Pietro, si possa trovare sempre nella Parola e precisamente in quella che definisce il giudizio finale al quale Dio sottoporrà gli uomini.
La discriminante, il criterio, il fondamentale è la qualità del nostro rapporto col prossimo, con gli altri viventi e con più precisione il nostro rapporto con l’affamato e l’assetato, cioè coi bisogni dei viventi. Dio non ci chiederà se credevamo in Lui, se credevamo nel Papa e nella sua infallibilità, se ubbidivamo ai comandamenti e ai precetti della Chiesa. Saremo giudicati sul tipo di risposta che abbiamo dato alle necessità dell’affamato e dell’assetato, e inoltre anche sulla qualità, sulla trasparenza e sulla gratuità del nostro rapporto positivo col nostro prossimo. Questa Lettura allude ad una gratuità che viene vissuta da soggetti che sono laici o anche atei, i quali esulano da un rapporto di dare-avere con Dio specifico della concezione religiosa di Dio stesso, e saziano e dissetano il loro prossimo semplicemente perchè fanno a lui ciò che vorrebbero ricevere da lui, se essi stessi avessero fame e sete.
Qui il potere delle chiavi va a farsi benedire, come l’assurdità dell’uomo vicario di Dio stesso, la sua infallibilità e tutto l’armamentario liturgico e orante col quale la Chiesa riesce ad alienare i fedeli-credenti, deviandoli dalle proprie responsabilità fondamentali di mani di Dio. Se ci pensiamo bene, anche la necessità della gratuità nel nostro rapporto positivo con gli altri viventi è fondamentale, é strutturale. Essendo noi il "corpus Domini", cioè i terminali di uno Spirito che ci è stato caratterizzato come Amore gratuito e incondizionato (quello del padre per il figliuol prodigo), nel momento che diciamo “si” e amiamo e condividiamo, stiamo materializzando quello Spirito che è Amore gratuito ed incondizionato. Queste qualità sono degli indicatori preziosi della nostra condizione di tralci: stimo agendo come se Dio non ci fosse, possiamo anche pensare di essere atei, ma in quel momento lo Spirito opera attraverso di noi e lavora a costruire il Regno servendosi delle nostre mani.
Voglio fermarmi qui, facendo rilevare come la caratterizzazione del giudizio finale secondo il Vangelo si colloca a distanza siderale da un discorso di potere. Storicamente, purtroppo, gli uomini, invece di fare di sé stessi strumenti di Verità e mani amorose che condividono, si sono determinati come iene della Verità e mani rapaci, per tradurla, la Verità, in potere, in ricchezza, in superbia, in zelante servizio al principe di questo mondo, a sua maestà Mammona.
Dentro a questo peccato S. R. Chiesa ha preso residenza stabile dal tempo di Costantino, prostituendo l’Amore in potere, persiste nella propria simbiosi con l’Impero, bruciando tesori di soggettivo positivo, espressi da tutti coloro che sono in buona fede, a favore dello strutturale maligno, il capitalismo privato, il mercato, la competizione, il beati gli indefinitamente ricchi della cultura occidentale USA-dipendente.
Considerando la cosa da questo punto di vista e guardando ai misfatti del “cristianesimo reale”, appare chiaro che le chiavi hanno sbagliato serratura. Noi le abbiamo adattate alle porte della Geenna, dove sarà pianto e stridore di denti, e dove pavimento e pareti saranno rivestite non dalle pelli delle pecore, ma da quelle dei pastori. Per le pecore però sarà una magrissima consolazione....
Mario Mariotti
* IL DIALOGO, Sabato, 02 giugno 2007
PERCHE’ SONO SCAPPATO DA ROMA
di don Aldo Antonelli
Questa mattina ero a Roma. La città, soprattutto la zona di Viale Libia, era letteralmente fasciata da migliaia di manifesti di benvenuto al Falily Day, firmati da Azione Giovani, gruppo della destra fascista. Non ho accettato nemmeno l’invito a pranzo di mia sorella. Sono scappato. Faccio mio il comunicato stampa di "noi Siamo Chiesa" che vi incollo qui sotto. Aldo
“Noi Siamo Chiesa” non partecipa al Family Day. La Chiesa deve parlare alle coscienze e non organizzarle per premere sulle istituzioni.
Il movimento per la riforma della Chiesa cattolica “Noi Siamo Chiesa” non partecipa al Family Day e condivide il disagio diffuso in una parte del mondo cattolico italiano per questa iniziativa. Essa si presenta, aldilà di qualche affermazione puramente di immagine, come organizzata per contraddire le positive iniziative governative e parlamentari che vogliono dare una ragionevole regolamentazione ad un fenomeno socialmente rilevante, quello delle coppie di fatto di ogni tipo.
Sulla proposta dei DICO i parlamentari cattolici devono decidere con assoluta libertà , consapevoli che essa non intacca i diritti e i ruoli della famiglia tutelati dalla Costituzione, che ovviamente stanno a cuore anche a tutti i cattolici che esprimono posizioni critiche interne alla Chiesa e che si richiamano al Concilio Vaticano II.
“Noi Siamo Chiesa” constata che il manifesto di promozione della manifestazione di domani è del tutto carente di analisi e di proposte sui veri problemi che rendono difficile nel nostro paese la creazione di nuove famiglie e che rendono troppo faticosa la vita di moltissime di quelle esistenti : la precarietà del lavoro, il problema della casa, le pensioni al minimo, la condizione delle famiglie degli extracomunitari ecc..
Come poi non chiedere una esplicita e forte autocritica sulle gravemente insufficienti politiche sociali per la famiglia a chi ha governato l’Italia dal dopoguerra ad oggi ? Non sono stati forse, da allora, cattolici gran parte dei protagonisti della vita politica italiana ?
Inoltre, manifestazioni di massa di questo tipo, che vogliono organizzare le coscienze piuttosto che parlare alle coscienze, fanno nascere nuove ostilità nei confronti della fede, malamente fatta coincidere con l’immagine di tante iniziative mediatiche delle gerarchie della Chiesa cattolica piuttosto che con il Vangelo.
“Noi Siamo Chiesa”
(aderente all’International Movement We Are Church)
Roma, 11 maggio 2007
Famiglia e pretesti
di BARBARA SPINELLI ( La Stampa, 13/5/2007)
Quel che toglie il respiro, nelle parole che Gesù pronuncia nei Vangeli, è il precipizio drammatico in cui getta la famiglia. È vero che l’uomo non può separare quel che Dio unisce, in Matteo la prescrizione è chiara, ma questo è l’unico punto fermo del suo messaggio. Intorno a questo punto ogni cosa trema a cominciare dalla famiglia, vista come tormento sempre imminente: al pari dell’appartenenza etnica, delle tradizioni, dei riti canonici, l’istituto familiare può trasformarsi in gabbia che incatena l’uomo alla natura, alla carne. Quando Nicodemo va a trovarlo, nel Vangelo di Giovanni, per sapere come sia possibile entrare una seconda volta nel grembo della madre e rinascere, Gesù gli dice che non è nel legame di sangue e nella natura che l’uomo rinasce cristiano ma in altro modo: dall’alto, dallo spirito.
Dalla famiglia naturale si deve uscire, per avvicinarsi a Dio. «Che ho da fare con te, o donna?», chiede alla madre. E fin da adolescente risponde ai genitori che lo cercano e s’angosciano: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?». E il giorno che madre e fratelli lo visitano insorge: «Chi è mia madre e chi i miei fratelli?», per poi volgere lo sguardo a chi gli sta intorno e dire: «Ecco mia madre e i miei fratelli». E in Luca: «Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo». Gli è discepolo chi «ascolta la parola di Dio e la mette in azione». Chi «beve il calice». Chi «porta la croce». Gesù è erede di Giobbe. Nella tribolazione nessun parente ama Giobbe, e meno di tutti la sposa che urla: «Rimani ancor fermo nella tua integrità?
Benedici Dio e muori!». Chi evoca le radici cristiane d’Europa non può non ricordare questa rottura profetica con ogni genealogia, che caratterizza il cristianesimo e che non promette a nessuno stabilità, durata naturale. Chi cerca stabilità ha bisogno della politica e di uno Stato autonomi da fedi, privati interessi e insurrezioni del cuore. Non è inutile ricordare le parole bibliche, all’indomani dell’immensa manifestazione cui è stato dato il nome, chissà perché inglese, di Family Day. Una manifestazione aperta ai laici ma che dalla Chiesa è stata suscitata, favorita, in opposizione alla legge che vuol tutelare i conviventi. Una manifestazione che ha difeso nei fatti un interesse privato, mettendo in concorrenza famiglie dette normali e unioni dette anormali, famiglie che s’avvalgono d’un supposto diritto naturale e unioni senza tutele. A Piazza Navona c’erano i laici e i cattolici che chiedevano diritti per tutti, matrimoni e Dico: non potevano vantare il successo numerico d’un Family Day che ha alle spalle la capacità organizzativa dell’associazionismo cattolico. Ma anche i dimostranti del Coraggio Laico erano lì a testimoniare una tradizione antica e forte.
Le parole dei Vangeli aiutano a separare il profondo dalla superficie, il profetico dai calcoli di potere. La famiglia come dramma costante, la predilezione di Gesù per il vincolo che non è quello del sangue e per l’amore del prossimo «messo in azione»: questo linguaggio profetico era assente nel Giorno della Famiglia. C’erano le masse oceaniche che hanno magnificato la famiglia come unica cellula naturale della società, e le masse oceaniche - la storia l’attesta - non sono profetiche. I propugnatori dicono d’aver voluto difendere una famiglia italiana poco protetta, e hanno ragione di dirlo. Ma la polemica contro i Dico era evidente. Come lo era la polemica contro una legge che, secondo gran parte del clero, infrange il sacramento coniugale. Altrimenti non sarebbe stato scelto il 12 maggio, anniversario del referendum sul divorzio.
La maggioranza che governa è divisa su questo punto. Un partito sta nascendo - il partito democratico - che vorrebbe essere egemonico a sinistra ma che non ha trovato un accordo sull’autonomia della politica, cioè sull’essenziale. È stato detto che la sinistra è prigioniera di tradizioni troppo libertarie, allo stesso modo in cui è insensibile ai temi della sicurezza. Cosa solo in parte vera: la famiglia esaltata dai comunisti era un collettivo castigatore di costumi, la sicurezza repressiva fu un fondamento nel comunismo. Non è con la sinistra storica che oggi si regolano i conti ma con le metamorfosi sociali e dei diritti individuali inaugurate dal Sessantotto. È quel che oggi accomuna le destre in Italia e Francia. Queste destre usano la religione e il clero, quando invocano il ritorno a autorità forti e a un ordine naturale. Quando proclamano, come ieri Berlusconi, che «un cattolico non può esser di sinistra». Il dibattito su natura contro cultura, su diritto naturale contro diritto positivo è una trappola per il legislatore. La famiglia non è diritto naturale: è figlia di una tradizione, non della natura. E il matrimonio è un sacramento a partire dal XIII secolo, non è iscritto nella Bibbia e non è condiviso da tutti i cristiani. Dice giustamente Gustavo Zagrebelsky che ci si aggrappa al diritto naturale come a un’assicurazione, che «non c’è nulla di meno produttivo e di più pericoloso che collocare i drammatici problemi dell’esistenza nel nostro tempo sul terreno della natura. A partire dal momento in cui in nome di questa natura e del sacramento si incita a disobbedire alle leggi non solo i cittadini, non solo categorie di esercenti funzioni pubbliche (medici, paramedici, farmacisti) ma addirittura i giudici, cioè proprio i garanti della convivenza civile, la Chiesa diventa elemento di confusione e nei fatti sovversiva, ponendosi unilateralmente al di sopra delle leggi e della Costituzione» (la Repubblica, 4 aprile 2007).
Le divisioni nel governo e la maniera in cui i vertici ecclesiastici ne profittano hanno oscurato quel che sta accadendo nelle nostre società, e che ha portato anche l’Italia - dopo più di dieci Paesi europei - a legiferare sulle unioni di fatto. Non è un estendersi dei mali moderni paventati in Vaticano: del relativismo, dell’edonismo. Quel che vivono i cittadini è una trasformazione e una crisi profonda della famiglia, ed è l’aumento di unioni che si formano fuori dal matrimonio anche perché la famiglia è tanto degradata. Le unioni di fatto oggi non reclamano solo diritti, né sono corrotte da edonismo: nel duro mondo del lavoro precario, delle abitazioni introvabili, dei figli squattrinati costretti a restare in famiglia, c’è una sete immensa di legge, di norme, che rendano salde e durevoli unioni timidamente sperimentate. C’è domanda di diritti, sì, ma anche di doveri: ad esempio il dovere di non lasciare soli in ospedale l’amico o l’amica, o di donar loro un’eredità. Quel diritto-dovere di stare accanto al convivente senza esser cacciati dall’ospedale non distrugge la famiglia classica, e dirlo è molto crudele. I matrimoni si degradano da soli, non per colpa di chi pensa, vive, ama, muore in modo diverso.
L’opposizione ai Dico, compresa l’opposizione alla convivenza fra persone dello stesso sesso, non può pretendere a incarnare una civiltà. Viene presentata come tale, ma quel che esprime è piuttosto spirito del tempo, parere categorico d’una maggioranza, difesa d’un interesse privato fatta propria da una parte della popolazione che si sente minacciata dalla concorrenza di altri interessi. Così come sono ingredienti dello spirito del tempo alcuni valori etici chiamati non negoziabili perché qualcuno, fuori dalla politica, pretende imporli d’autorità. Il mainstream o spirito del tempo è descritto come legge di natura: in realtà è una corrente di pensiero che senza più complessi ignora i patimenti di minoranze. Non ci sono più doveri di solidarietà verso queste ultime, non ci sono errori o offese da riparare. È parte dello spirito del tempo anche l’offensiva, generalizzata, contro la «cultura del pentimento». Nicolas Sarkozy l’ha addirittura messa al centro del proprio programma presidenziale. Un’epoca è finita: quella degli Stati europei che riesaminavano con una certa vergogna la propria storia; quella di Giovanni Paolo II fondata sul mea culpa. Oggi si passa alla controffensiva, il ministro Mastella si proclama fieramente guelfo, e la Chiesa partecipa non senza slancio a questo pentirsi della penitenza, a questo diffuso fascino del risentimento: anche il risentimento verso quel che in passato si è pensato, detto. La Chiesa spagnola che insorge contro i matrimoni omosessuali non ha nulla da rimproverarsi, ma è tanto più cieca: gli anni di connivenza con il familismo oppressivo di Franco non le spiegano nulla. La battaglia sui valori è assertiva e rancorosa, non aspira a spiegare né a capire. In un’intervista a Michel Onfray, Sarkozy dice: «Non ho mai udito una frase assurda come il Conosci te stesso di Socrate». Il Family Day gli fa eco: il suo punto di forza non è la profezia, ma la privatizzazione-confessionalizzazione della politica.
I cammelli al galoppo nella cruna dell’ago
di EUGENIO SCALFARI *
IL FAMILISMO è la base della società italiana, così ha scritto ieri su questo giornale Francesco Merlo e tutti concordiamo con lui. Lo è nel bene e nel male. Tutti siamo figli di mamma - si dice e si sa - e di mamma ce n’è una sola; a lei si ricorre anche nell’età adulta per ritrovare serenità, conforto, ristoro ed anche, con l’avanzare degli anni, per proteggerla e accompagnarla affinché non si senta sola in vista dell’ultimo appuntamento.
Familismo non è necessariamente sinonimo di famiglia. Il primo è un modo d’essere e di sentire, la seconda è un’istituzione convalidata da un contratto che per i cattolici realizza anche un sacramento. Spesso però quei due termini coincidono ibridandosi reciprocamente. Quando questa compenetrazione avviene la micro-istituzione familiare si chiude a riccio, esclude e non include, rischiando di diventare omertosa e di far prevalere la difesa dei propri confini sulla solidarietà civica e perfino sull’amore del prossimo.
Le società profondamente cristiane - se ancora ce ne sono - conoscono questo contrasto che ha le sue radici addirittura nella predicazione di Gesù di Nazareth. Dopo aver incitato i discepoli e il popolo che lo seguiva all’amore e alla carità, egli aggiunse: "Voi credete che io sia venuto a portare la pace ma io ho portato la spada. Io metterò il padre contro il figlio, la figlia contro la madre, il fratello contro il fratello. Chi verrà con me abbandonerà la famiglia. La mia famiglia non sono mio padre e mia madre ma siete voi che credete in me".
È un passo dei Vangeli molto controverso che ha una sola interpretazione possibile: Gesù pone se stesso come simbolo di carità e amor del prossimo e vede i legami familiari e l’egoismo di gruppo che li può intridere come una barriera da abbattere se il cristiano vuole aprirsi al comandamento dell’amore del prossimo. In questa visione la famiglia, luogo di amore, non può che essere aperta e inclusiva. Se non lo è il Maestro esorta i suoi seguaci ad abbattere il muro che la protegge e ad aprire le braccia e il cuore al Dio della misericordia, della tenerezza, del bene.
Noi laici, ma non ghibellini, vorremmo che questa fosse la visione della famiglia che ha radunato ieri, in piazza San Giovanni, una gran folla di persone per iniziativa di molte associazioni cattoliche, dei preti e dei Vescovi italiani. I promotori di quel raduno hanno sostenuto che proprio questa è stata la sua motivazione. E poiché l’istituzione familiare vive nel nostro tempo e deve sopperire ai bisogni e alle sfide quotidiane, gli obiettivi concreti della manifestazione sono stati anche quelli di premere sul governo affinché delinei una politica di sostegno economico alle famiglie per renderle più sicure del loro futuro e indurle anche per questa via a crescere e a moltiplicarsi.
Ebbene, spiace dirlo ma le cose ieri pomeriggio non sono andate così. Né era possibile - ammettetelo - che quella moltitudine non fosse strumentalizzata. Basta aver visto con quale entusiasmo sono stati accolti prima Fini e poi Berlusconi. Basta aver ascoltato le parole pronunciate da quest’ultimo un minuto prima di fare la sua comparsa e incassare l’ovazione che gli è stata tributata dalla piazza di San Giovanni.
"Io sono qui" ha detto "per testimoniare che i veri cattolici non possono stare a sinistra; non possono stare con i comunisti che hanno ridotto la Chiesa al silenzio e ancora vorrebbero ridurre la religione a un fatto privato. Io sono qui per far sì che la Chiesa possa liberamente parlare e affermare la propria verità e i propri valori che sono anche i nostri".
E così è stato servito il buon Pezzotta, organizzatore ufficiale del raduno, affannatosi per settimane a rassicurare che nessun colore politico avrebbe prevalso in quella piazza e in quella moltitudine, che cattolici e non cattolici avrebbero potuto e dovuto affratellarsi in nome della famiglia, dei suoi diritti e dei suoi doveri. Se Pezzotta - come ci ostiniamo a sperare per lui - è un uomo di buona fede, dovrebbe aver passato una pessima nottata nel constatare che i suoi sforzi sono stati ridicolizzati dalla realtà. Oppure - se si rallegrerà per quanto è accaduto - dovremo concludere che ha tentato di prendere in giro gli italiani che la pensano diversamente dalle piazzate berlusconiane.
Che Pezzotta sia un ingenuo si può anche concedere, ma sono altrettanto ingenui i vescovi della Conferenza episcopale? E il papa che anche dal Brasile ha seguito con attenta intenzione la manifestazione romana? (Apprendo ora dal telegiornale che Pezzotta con aria felice ha detto: "Il papa sarà contento di questa giornata". Tanto ingenuo dunque non è).
In realtà il Vaticano e le diocesi italiane stanno assordando da anni gli italiani con lo sventolio dei loro interessi e dei valori usati per ricoprirli. Hanno trasformato la Chiesa italiana nella più potente delle "lobby". Hanno voluto il raduno di Roma per mettere in scena una prova di forza politica e muscolare. Hanno attinto a piene mani ai fondi provenienti dall’8 per mille versato nelle loro casse dallo Stato italiano. Stanno risuscitando il clericalismo e l’anticlericalismo. Sono entrati a gamba tesa nell’agone politico a dispetto della lettera e dello spirito del Concordato.
Questo è accaduto ieri. Non vorremmo usare parole gravi ma la giornata di ieri ha indebolito la democrazia italiana. Non perché tanta gente si sia riunita per far sentire la sua adesione ai valori e agli interessi delle famiglie; ma perché quella stessa gente è stata manipolata dalle destre e dalla Chiesa in perfetta sintonia tra loro. Trono e altare, come ai vecchi tempi. Vengono in mente i farisei denunciati da Gesù come sepolcri imbiancati e viene in mente anche la biografia privata di molti capi della destra a cominciare dal suo leader massimo.
Ho già detto: non siamo ghibellini. Ma sentiamo che forze potenti ci spingono a diventarlo. Siamo contro chi volesse ridurre la Chiesa al silenzio, anche se non c’è nessuno che lo voglia. Ma siamo soprattutto contro chi sta riducendo al silenzio i laici e facendo a pezzi la laicità.
* * *
Da questo punto di vista bene hanno fatto i radicali e quanti ne hanno condiviso l’iniziativa a promuovere il raduno del "coraggio laico" a piazza Navona. La sproporzione delle forze in campo era evidente e proprio per questo è stata usata la parola coraggio. Il grosso del centrosinistra era assente. In ascolto, hanno detto i suoi leader. Ebbene, ora hanno ascoltato. Di incoraggiamenti per una politica di sostegno finanziario alle famiglie non c’era bisogno: una parte delle scarse risorse disponibili è già stata impegnata dal governo in quella direzione; altre provvidenze saranno decise nel convegno di Firenze promosso dal governo e Rosy Bindi.
Resta l’accoppiata tra la Chiesa italiana e la destra, fragorosamente espressa da mesi e culminata nella giornata di ieri. Si spera che i leader del Partito democratico abbiano ascoltato con profitto e che almeno un briciolo di coraggio laico sia penetrato nelle loro menti.
Gesù di Nazareth rovesciò i tavoli dei mercanti e li scacciò a frustate dal Tempio. Gesù di Nazareth predicava la pace ma sapeva usare la spada quando fosse necessario.
Ha detto tante cose Gesù di Nazareth. Forse i laici dovrebbero promuovere un raduno di massa intitolato al suo nome per vedere fino a che punto la Chiesa di oggi abbia ancora il diritto di usarlo e non parli invece sempre di più con lingua biforcuta. Per vedere se il ritorno al nuovo temporalismo sia un fatto positivo o negativo per il sentimento religioso. Per vedere se i papisti di oggi lottino ancora affinché gli ultimi siano i primi. Infine per capire se i cammelli riescano a passare nella cruna dell’ago o se quella cruna non sia diventata una ampia autostrada dove i cammelli transitano al galoppo con tutto il carico delle loro ricche mercanzie.
Sì, bisognerebbe proprio farlo un raduno di massa su Gesù di Nazareth. Non credo che il trono e l’altare uniti insieme siano di suo gusto, figlio dell’Uomo o figlio di Dio che lo si voglia considerare.
* la Repubblica, 13 maggio 2007
MONSIGNORE SI DIA UNA CALMATA
di Chiara Saraceno *
La gerarchia cattolica, come ogni autorità religiosa, ha sicuramente il diritto e persino il dovere di esprimersi sui temi che toccano la morale e il senso della vita. Ciò che dice va ascoltato con rispetto e con attenzione, anche quando non lo si condivide. Ma ci sono occasioni in cui è davvero difficile mantenere un atteggiamento di rispetto e ascolto. Le dichiarazioni di ieri di monsignor Betori, segretario della Conferenza episcopale italiana, a Gubbio sono una di queste - ormai sempre più frequenti - occasioni. Di fatto ha individuato come i peggiori nemici della umanità - «fomentatori di guerre e terrorismo», negatori «del riconoscimento dell’altro» a vantaggio del mantenimento di «situazioni e strutture di ingiustizia sociale» - le donne che abortiscono, le persone che riflettono sul testamento biologico e sul diritto a porre fine ad una vita che ha perso tutte le caratteristiche di vita umana, le coppie eterosessuali che convivono senza sposarsi e gli omosessuali in quanto attenterebbero alla dualità sessuale. Sono loro responsabili dei mali del mondo, non i dittatori politici ed economici, non coloro che fomentano guerre etniche e religiose, non gli sfruttatori di donne e bambini, non i mercanti di uomini e neppure coloro che in nome della morale sessuale si oppongono all’utilizzo di semplici precauzioni per evitare il diffondersi dell’Aids che da solo in alcune parti del mondo fa ancora più stragi delle guerre civili.
È difficile provare rispetto ed avere attenzione per chi confonde terroristi e violenti veri e persone che, assumendosene tutta la responsabilità e talvolta la sofferenza, compiono scelte eticamente motivate, ancorché in modo difforme dalla morale cattolica. Per chi, tra l’altro, non distingue neppure, dal punto di vista della gravità rispetto al suo stesso concetto di morale, tra aborto e convivenza senza matrimonio, tra eutanasia e approvazione dei Dico e ritiene (contro le stesse più recenti acquisizioni della Chiesa) che l’omosessualità sia uno stile di vita, e non una condizione umana in cui ci si trova a nascere e vivere. Perciò teme, un po’ grottescamente, che se si riconoscessero le coppie omosessuali nessuno più farebbe coppie (e matrimoni) eterosessuali. È una visione senza sfumature e senza distinzioni, oltre che senza rispetto. Per questo è intimamente violenta oltre che intellettualmente rozza.
Non credo che così si difenda veramente il cristianesimo. Certamente non è così che si può aspirare a ottenere rispetto e attenzione per le proprie posizioni. Si incoraggia soltanto l’escalation dell’insulto reciproco, dell’abuso del linguaggio, dell’incapacità a distinguere e ad ascoltare, della caccia al diverso. Non è né pedagogia civile né, tantomeno, pedagogia religiosa. È una chiamata alle armi. È questo che la gerarchia cattolica vuole per il suo popolo e per il nostro Paese? Chi sta davvero, per riprendere le parole di Betori, coltivando «sentimenti di arroganza e di violenza»? Un po’ di autocontrollo, per favore.
* La Stampa, 18/05/2007
Ma chi sono i veri terroristi?
di Gianni Rossi Barilli (il manifesto, 17.05.2007)
Stando alla propaganda del Vaticano, è un terrorista chi scrive sui muri «Bagnasco vergogna» con riferimento alle note posizioni del presidente della Cei su Dico e omosessualità. Bisognerebbe perciò chiedersi come definire chi mette all’indice le unioni gay e lesbiche in quanto «nemiche della cristianità», come ha fatto proprio ieri il segretario della Cei Betori. O chi, come don Bagnasco, accosta l’approvazione dei Dico all’accettazione dell’incesto o della pedofilia. O chi, come papa Ratzinger, scaglia con ossessiva frequenza anatemi contro l’omosessualità sostenendo che si tratta di una condizione disordinata, innaturale e pericolosa per la società. O chi, come Savino Pezzotta, promuove una manifestazione oceanica per chiedere «più famiglia e meno gay» partendo dall’erroneo presupposto che i privilegi dell’una siano in contrasto con i diritti degli altri.
L’elenco potrebbe continuare più a lungo di qualsiasi rosario, sgranando le prose calderoliane contro i «culattoni», i deliri omofobici teo-dem e neo-dem, le maledizioni di rabbini e imam e via discorrendo. Ma ci fermiamo qui perché tanto le urla di guerra del post-illuminismo italiano riempiono già a sufficienza le cronache di stampa e tivù. Ciò che più interessa, in occasione della giornata mondiale di lotta all’omofobia, è valutare qualche dato di realtà.
Per esempio che la chiesa e il suo codazzo di oscurantisti per fede o per convenienza stanno al centro dell’attenzione nazionale da mesi nella loro incendiaria campagna contro gli omosessuali. E con tutto questo si protestano oppressi e imbavagliati di fronte a qualunque civile espressione di dissenso. Oppure il fatto che l’accusa di terrorismo pronunciata contro chi se la prende con i preti (anche in modo per niente civile) non ha grazie al cielo prodotto finora nessun ferito né tantomeno nessun morto nelle già esigue file del clero secolare.
La situazione è invece diametralmente opposta per quanto riguarda non solo i diritti familiari ma anche più banalmente umani delle persone gay, lesbiche e transessuali. Già l’idea che si consideri come un’opzione di «sinistra radicale» la loro possibilità di vivere tranquillamente senza doversi nascondere o dover essere puniti per ciò che sono, la dice lunga su come sta messa l’Italia. Ma questo in fondo è il meno, di fronte ai problemi molto più seri che la recrudescenza omofobica provoca nel nostro paese. L’accresciuta visibilità degli omosessuali e delle loro richieste di integrazione civile sta producendo infatti reazioni che vanno ben oltre un dibattito politico sgangherato in cui tengono banco argomenti dialettici del tutto privi di fondamento razionale.
Le cronache degli ultimi tempi parlano a questo proposito molto chiaramente. E dicono di brutali aggressioni ai danni di rappresentanti di associazioni glbt, com’è accaduto a Udine, Viareggio e Milano, colpiti in quanto omosessuali visibili. E di atti vandalici e intimidatori a ripetizione contro sedi politiche glbt in diverse città. E di gesta di cruento bullismo nelle scuole contro ragazzi percepiti come gay e mandati per questo all’ospedale, quando non hanno deciso di togliersi di mezzo da soli suicidandosi come ha fatto Matteo, lo studente torinese sedicenne la cui morte ha per qualche giorno commosso l’Italia senza tuttavia produrre risultati che facciano sperare in futuro di poter prevenire episodi del genere. Senza contare poi l’ordinaria amministrazione, che in conto all’omofobia di marginali frange della popolazione mette alcune decine di omicidi all’anno, maturati come si diceva una volta (e in qualche caso ancora oggi) nello «squallido mondo degli omosessuali». Se non si trattasse «solo» di gay, lesbiche e trans un quadro simile avrebbe già fatto scattare l’emergenza nazionale. Ci si preoccupa invece ben di più di garantire il diritto degli omofobi a rimanere tali. Dove andremo a finire di questo passo?
Appello contro la grande opera: farà tremare la chiesa di Gaudì
Mobilitazione contro il tunnel del collegamento con Madrid
Barcellona, il treno veloce
minaccia la Sagrada Familia
di ALESSANDRO OPPES *
MADRID - Che il rischio sia reale, nessuno è in grado di dimostrarlo con certezza. Però, anche il solo sospetto che il nuovo tunnel sotterraneo del treno ad alta velocità possa mettere in pericolo le fondamenta della Sagrada Familia, ha fatto scattare l’allarme. Prima a Barcellona, ora in tutto il mondo, con la mobilitazione di oltre cento tra architetti e ingegneri di 45 università dei cinque continenti.
E’ l’ultimo capitolo della travagliata storia del capolavoro incompiuto di Antoni Gaudí. Il cantiere della spettacolare basilica (che quando sarà completata, probabilmente entro il 2030, sarà la più grande del mondo) è la principale attrazione turistica non solo di Barcellona ma di tutta la Spagna, più che l’Alhambra di Granada e il Museo del Prado di Madrid. Ma a creare un nuovo intoppo nella travagliata opera dei responsabili del Patronato del tempio, si è aggiunta negli ultimi mesi la decisione del governo spagnolo di far passare proprio a pochi metri dalla Sagrada Familia l’ultimo tratto sotterraneo della linea ferroviaria che entro la fine dell’anno collegherà Madrid a Barcellona in appena due ore e mezza. È vero, il tunnel verrebbe costruito varie decine di metri sotto terra, sotto il livello del mare, ma finirebbe quasi per sfiorare le fondamenta della basilica.
"Non faremmo nulla che potesse mettere in pericolo la basilica", insisteva ancora nei giorni scorsi il ministro delle Infrastrutture, Magdalena Alvarez, che prima di dare il via ai lavori spera di ottenere il beneplacito del Patronato. Ma il timore del governo è che la disputa possa finire in tribunale, dove un giudice potrebbe decidere di bloccare l’opera. I responsabili del progetto per il completamento del tempio sono estremamente determinati.
Jordi Bonet i Armengol, l’architetto ultraottantenne che guida i lavori della basilica, ha respinto fin dall’inizio il piano tecnico varato dal ministero e avallato dalle amministrazioni regionale e comunale. "Crediamo che alla fine il buon senso avrà la meglio sulla temerarietà", dice fiducioso. Bonet teme che il passaggio dei treni possa provocare "vibrazioni, crepe nelle volte di cemento" o che causi "un’instabilità nel sottosuolo". Per questo si batte perché il Ministero delle Infrastrutture accetti un tracciato alternativo. E cerca - e ottiene - sostegno in tutto il mondo: con un annuncio a pagamento pubblicato ieri su un’intera pagina del quotidiano El País, il patronato della Sagrada Familia riporta le firme di oltre cento cattedratici all’appello contro il nuovo tunnel ferroviario.
Dal Giappone al Messico, dalla Russia alla Nuova Zelanda, dagli Stati Uniti alla Germania, decine di architetti e ingegneri lanciano l’allarme. "Nessuno potrebbe immaginare la costruzione di un tunnel che passasse accanto all’Alhambra di Granada", scrive Tokutoshi Torii, professore dell’università di Kanagawa, in Giappone. "Mettere in pericolo un monumento catalogato come patrimonio dell’umanità - rincara Mark Schuster, del Massachusetts Institute of Technology - è un atto di vandalismo sconsiderato".
* la Repubblica, 12 maggio 2007