Mostra del libro antico con furto
Nel corso della diciannovesima edizione alla «Permanente».
Si tratta di due volumi stampati nella seconda metà del 1400
MILANO - Sono due rari volumi, entrambi stampati nella seconda metà del 1400, i libri rubati stamattina poco dopo l’apertura al pubblico della diciannovesima mostra del libro antico in corso alla «Permanente» di via Turati a Milano. Da due stand peraltro vicini all’ingresso sono spariti due preziosi volumi di piccole dimensioni: il primo è un testo di medicina di Marsilio Officino, «De Triplici vita» stampato a Parigi nel 1506 per il quale era richiesto un prezzo di 6 mila euro. Secondo il catalogo della mostra il volume (10 cm x 15) è il quarto esemplare completo al mondo dei sette esistenti in totale. Stampato in carattere romano su una sola colonna, senza illustrazioni, e scritto in latino con copertina in pelle scura e incisione in oro di aquila su piatti.
IL SECONDO VOLUME - Ventiquattromila euro era invece il prezzo richiesto per una raccolta di scritti di Philippus Barberiis, professore di teologia e monaco domenicano. L’Incunabolo (18 cm per 12,5) è datato 1 dicembre 1481. Il volume, restaurato nell’800, è completo di illustrazioni e rilegato con una copertina di pelle nocciola. Era esposto, insieme ad altri libri antichi, nella vetrina dello stand della Libreria Antiquaria Philobiblon di Milano.
LA DINAMICA - I ladri hanno approfittato della grande affluenza di pubblico e hanno prelevato i volumi dalle vetrine aperte all’interno degli stand. «Purtroppo - ha spiegato uno dei titolari dello stand 10 lo studio bibliografico Ozzano dell’Emilia, Giuseppe Solmi - non è possibile custodire meglio i volumi perché i compratori devono poterli toccare e osservare da vicino». I ladri, tra le 11 e le 11.30, in rapida successione hanno quindi prelevato i due piccoli volumi dai due stand e si sono allontanati senza problemi. Secondo quanto si è appreso le opere rubate sono comunque coperte da assicurazione. La mostra, che ospita 38 stand, resterà aperta fino al 16 marzo.
* Corriere della Sera, 14 marzo 2008
****************************************
Sul "Poema" rinascimentale ... ritrovato a Contursi, si cfr., in fondo, il pdf - cliccare sull’icona.
***********************************************
Il prof La Sala è "la Voce di Fiore", ne è il teorico, avendo inventato il gioco (comunicativo) dello spostamento delle date degli articoli e l’uso inverosimile, in queste pagine, dell’ipertesto, il post, il riferimento, la citazione. Tutti elementi che concorrono a un arricchimento del giornale, così al centro tra informazione e formazione.
Ma, il nostro prof, è anche l’emblema del meridionalismo che distingue "la Voce"; inteso, però, come sguardo costantemente proteso al Sud planetario e italiano, alla sua energia, alla sua cultura, alla sua identità.
Per terzo, il prof. La Sala è un profeta, un gioachimista. Quasi sempre capita che sue intuizioni, sue previsioni, si rintraccino dopo mesi, con spiazzante sorpresa, nella realtà nazionale o globale.
Il suo lavoro filosofico, che va molto oltre "la Voce di Fiore", è complesso: La Sala è dotato della capacità specultativa dei pensatori meridionali. Grande Sud.
Sentendo che, in qualche modo, il furto riferito nell’articolo di sopra è un furto a La Sala e a tutti noi, che ci meravigliamo per "Della terra, il brillante colore" (F. LA SALA, Edizioni Ripostes, Roma-Salerno 1996), libro in cui sono riprodotte le xilografie del Barberi, invito i lettori a procurarsi copia del gran testo del nostro professore.
E lo faccio senza stupidi intenti pubblicitari. Leggendo il libro di La Sala, si intende molto dello spirito (filosofico) del nostro Mezzogiorno e della vastissima portata dell’opera del Maestro campano. Votato alla ricerca minuziosa su un tempo; curioso La Sala, proteso all’indagine e alla ricostruzione per immagini che escono dalle pagine e prendono forma davanti agli occhi. Catturabili liberamente. Ma è impossibile rubarle: sono per tutti.
Emiliano Morrone
_______________________________________________________
LA TAVOLA LXXII DALL’OPERA "ANATOMIA DEL CORPO UMANO" DI JUAN VALVERDE DE AMUSCO E LA MEMORIA DI MICHELANGELO E DIELL’APOSTOLO BARTOLOMEO (24 AGOSTO 2023).
The flayed man*
La visita alla Mostra del Libro antico al Palazzo della Permanente a Milano mi ha permesso di sfogliare la preziosa copia dell’ “Anatomia del corpo umano” di Juan Valverde de Amusco esposto da una libreria antiquaria di Verona. Mi ha consentito l’osservazione della tavola relativa all” Uomo scorticato che porta in mano la daga e la sua pelle” ritratto di fonte ignota che facilmente e’ paragonato al martire San Bartolomeo che regge la sua pelle, il cui viso e’ verosimilmente un autoritratto di Michelangelo dipinto dallo stesso nel Giudizio Universale nella Cappella Sistina. Se anche la tavola di Valverde rappresenta San Bartolomeo di certo la lama del tagliente che reca nelle mani allude piu’ probabilmente al martirio che ad un atto di scorticamento.
E’ d’altronde significativo che l’autore delle tavole del Valverde sia stato un artista,Gaspare Becerra, nato a Baera in Andalusia nel 1520 e morto a Madrid nel 1570. Spagnolo anch’egli ma di educazione italiana, in quanto fu allievo di Michelangelo e di Raffaello. Questa tavola (la LXXII dell’opera) e’ stata oggetto di varie interpretazioni : tra le altre quella del Cushing secondo cui il motivo dello scorticato e’ tratto dalla statua di Marco d’ Agrate presente nel duomo di Milano.
Senz’altro questo motivo dello scorticato ripreso da altri nell’iconografia anatomica fa del ”flayed man“ tema di confine tra l’elaborazione artistica e la riproduzione in Atlanti anatomici, che si sovrappongono in un intreccio virtuoso ed epistemiologicamente affascinante.
*
Fonte: https://fabricacorporis.wordpress.com/2007/05/16/23/
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
UNA QUESTIONE DI GIUSTIZIA E DI BILANCIA (di una "statera" non di una "statua").
Ipotesi per una rilettura della "Pesatrice di perle" di Johannes van der Meer *
NASCITA E "GIUDIZIO DI SALOMONE". Del dipinto Pesatrice di perle (o Donna con una bilancia) di Jan Vermeer (databile al 1664 e conservato nella National Gallery of Art di Washington), anche alla luce del fatto che dentro il quadro c’è rappresentato un altro quadro - un dipinto con un Giudizio Universale - c’è da pensare, probabilmente, che la figura della donna in avanzato stato di gravidanza rimandi alla figura della Sibilla Libica (raffigurata da tantissimi artisti e anche da Michelangelo nella Cappella Sistina) e al suo specifico annuncio del messaggio evangelico, e comunichi il rapporto che esiste tra la bilancia (la giustizia e l’equilibrio), il grembo (il concepimento), e la nascita di un bambino, una bambina - una maestra, un maestro di umanità...
A quanto pare, anche Jan Vermeer (1632- 1675), conosceva bene il tema delle Sibille e della Giustizia (di Astrea, della Virgo della IV Ecloga di Virgilio, Dante, e Michelangelo) e della bilancia (la parola esatta della profezia della Sibilla Libica)... ed è riuscito a dare un bel quadro del tema della nascita del Bambino, dell’implicito riferimento all’esemplare giudizio di Salomone sul comportamento delle due madri e, infine, allo stesso Giudizio Universale.!
Della Sibilla Libica, infatti, questo è il suo messaggio: «Uterus Matris erit statera cunctorum. L’utero della Madre sarà la bilancia di tutti gli esseri umani». Una bilancia ("statera"), non una "statua"!
Che re-fuso - e che confusione filologica e antropologica!
*
Federico La Sala
LA BILANCIA E LA NASCITA...
DIRITTO, DOVERE, E COSTITUZIONE: UNA QUESTIONE DI FILOLOGIA E DI ANTROPOLOGIA (DA PORRE ALL’ORDINE DEL GIORNO, PER EVITARE... UN ARROSSIMENTO GENERALE).
La #bilancia della #giustizia e l’urgenza epocale di una #equilibrazione del #rapporto sociale di ri-#produzione: "un’operazione #matematica ritenuta abitualmente sbagliata: un uomo più una donna ha prodotto, per secoli, un uomo" (Franca Ongaro Basaglia, 1978).
#SAPEREAUDE! (#KANT2024). LIBERARE la #Giustizia dalla benda (v. allegato) è un programma di uscita dallo "stato di minorità" (#Kant, 1784), una sollecitazione antropologica a servirsi della propria facoltà di giudizio, di avere il coraggio di #apriregliocchi (ricordare la difficoltà di #Freud, a riguardo) e di non #giudicare né con gli occhi chiusi né con un solo occhio.
Riconoscere l’#identità e la #differenza di sé con sé, di sé con l’altro da sé, di sé con l’altra da sé, l’#uguaglianza e la #diversità, è proprio una questione di "equilibrazione", di bilancia: ne va della nostra stessa #nascita e della nostra stessa #vita.
SCHEDA...*
VENEZIA:
LA CHIESA DI SANTA MARIA DI NAZARETH, O DEGLI SCALZI (E LA PRESENZA DI 12 SIBILLE).
La chiesa di Santa Maria di Nazareth, o chiesa degli Scalzi, è un edificio religioso della città di Venezia dei primi del XVIII secolo. Opera di Baldassarre Longhena ma con la facciata di Giuseppe Sardi, è situata nel sestiere di Cannaregio in prossimità della stazione ferroviaria di Venezia Santa Lucia.
La chiesa di Santa Maria di Nazareth deve la sua origine all’insediamento dei Carmelitani scalzi nella città lagunare.
Fu edificata da Baldassarre Longhena in un’unica navata, con due cappelle laterali, ognuna a sua volta affiancata da due cappelle minori. Dopo l’arco trionfale, l’aula si immette nel presbiterio, rialzato e dotato di una cupola. Nell’abside, si nota il coro dei frati.
Venne consacrata nel 1705, ma subì un importante restauro fra il 1853 e il 1862 da parte del governo austriaco. Al suo interno l’11 febbraio 1723 venne tumulato Ferdinando II Gonzaga, quinto e ultimo principe di Castiglione[1].
Oggi è monumento nazionale. Al suo interno marmi colorati e sfarzosi corinzi danno una sensazione di opulenza e di meraviglia al visitatore.
Presbiterio
L’altare maggiore è opera di Jacopo Antonio Pozzo (ovvero fra Giuseppe Pozzo) come anche il parato ligneo della sacrestia.[4] Il presbiterio è sovrastato da un baldacchino sorretto da colonne tortili. Il fastoso tabernacolo della mensa, vede la statua della Madonna con putto e profeti, proveniente dall’isola di Santa Maria di Nazareth, poi Lazzaretto.
Le statue di dodici Sibille, opera di Giuseppe Torretto, Giovanni Marchiori, Pietro Baratta, Giuseppe e Paolo Groppelli, stanno distribuite, cinque per parte, sulle pareti laterali e due giacenti sull’arco del baldacchino[5].
* Chiesa di Santa Maria di Nazareth (Venezia) (Wikipedia).
Giovanni Francesco Barbieri detto il Guercino (Cento, 1591, Bologna, 1666) *
Come scalare il Guercino
di Silvia Tomasi **
Conquistare una meta con fatica, la rende ancora più bella e apprezzata. Ecco: si può applicare questa piccola perla di saggezza per l’arrancata di 160 gradini, una vera salita in quota, nella Cattedrale di Santa Maria Assunta a Piacenza per godere a 27 metri di altezza il piacere di avere a distanza di pochi metri gli affreschi del Guercino, il pittore emiliano che, al culmine della fama, arriva a Piacenza nel 1626 per lasciare la straordinaria sequenza pittorica “a buono fresco” negli spicchi della cupola.
Per tutta la durata di Guercino tra sacro e profano, la rassegna piacentina dedicata al pittore centese aperta fino al 4 giugno (sito www.guercinopiacenza.com), i visitatori potranno inoltrarsi a piccoli gruppi negli stretti cunicoli di questa ascesa fra salite ardite e un arrotolarsi di scale a chiocciola con scalini larghi sì e no mezza suola di scarpa. Sembra quasi di trovarsi fra budella e diverticoli d’una colonscopia virtuale all’interno delle mura medievali della cattedrale, per approdare grazie a passerelle in legno, camminamenti provvisori ricavati nei sottotetti, a una “stazione” con una postazione multimediale. Finalmente poi si sguscia da un bassissimo ingresso, attenti alla testa, sul tamburo della cupola. Lì, in una regia di luci dovuta a Davide Groppi, si illuminano prima solo alcune vele della cupola e poi il flash con la visione globale di tutto il ciclo guercinesco, accompagnata in dissolvenza, per maggior coinvolgimento emozionale, dalla regale marcia musicale della Sarabande di Haendel. Poi il buio.
Ce n’è abbastanza per sentirsi in un piccolo Paradiso, o più profanamente in una full immersion percettiva di bellezza.
A portata d’occhio nerboruti profeti muscolari, Sibille curiose e sontuose, e poi gli episodi dell’infanzia di Cristo: nella lunetta della Fuga in Egitto, Giuseppe fra apprensione e affetto allunga il Bambin Gesù alla madre. Con tenerezza Maria porta la mano verso il seno come per dire: ma vuoi proprio la mamma?
Tutto ha un così caldo rispetto della dignità naturale... Anche se certo non manca il gusto teatrale: in Guercino si avverte una sorta di “recitar cantando” secondo le inflessioni del nuovo melodramma che avrebbe trionfato nel Settecento, «è un teatro dei sentimenti o degli affetti come si sarebbe detto allora» ribadisce Daniele Benati, curatore della mostra con Antonella Gigli (catalogo Skira). E prosegue: «Guercino è mal inquadrabile nelle comode griglie di naturalismo, classicismo o barocco: troppo naturale negli anni in cui andava affermandosi la pittura sbilanciata alla ricerca del bello ideale; troppo composto e recitato quando serviva l’estroversione barocca». È anche per questo che John Ruskin, dandy e raffinato critico, lo straccia senza appello nel 1846.
Ma un altro grande britannico, Denis Mahon, collezionista e critico d’arte, ci ha ridato nel Novecento il Guercino dopo secoli di oscuramento, dedicandogli studi per tutto l’arco della sua vita. È proprio a lui e al suo metodo di analisi che Benati dedica la mostra di Piacenza, rispettando nelle partiture della sezione di Palazzo Farnese, che fa da pendant all’incontro ravvicinato col Guercino della cupola, quello sviluppo di diverse “maniere” pittoriche che hanno caratterizzato il lungo percorso dell’artista. Gli «anni degli esordi», gli «anni della fama» e gli «anni della gloria» sono le tre sezioni allestite all’interno della Cappella ducale dello storico palazzo con un «numero di opere ridottissimo, appena una ventina, ma selezionatissime», spiegano i curatori Gigli e Benati.
A Guercino basta una gamma essenziale di colori come il bianco e il porpora, che stempera in tutte le delicate nuances del rosa e del latte, per creare La morte di Cleopatra del 1648, così umana nella sua bellezza ideale: si nota perfino il lieve flettersi del materasso sotto il corpo della regina d’Egitto che si abbandona alla morte.
E a Maria luccicano gli occhi mentre, china, tocca quel figlio risorto che abbassa lo sguardo su di lei nella tela Cristo risorto appare alla Madre del 1628.
Per mantenere le stimmate del mondo terreno - e qui siamo alla Immacolata concezione del 1656 - Guercino elimina dalla figura sacra di Maria gli attributi usuali, dalla corona di stelle alla mandorla in cui veniva racchiusa la sua figura sacra. La Madonna si staglia su un paesaggio marino al chiaro di luna, un ultimo spicchio su cui si eleva pudicissima in un’aurora quasi crepuscolare, mentre una lieve brezza increspa le onde. C’è un sentimento lancinante del luogo e del paesaggio. Un nuovo modello vivo di pittura perché, affermava un esperto come Cesare Gnudi, «il Guercino cercava la bellezza nella realtà».
* * THE LIVINGSTONE, 19/03/2017
*
SUL TEMA, IN RETE E NEL SITO, SI CFR.:
FILIPPO BARBERI o BARBIERI (Philippus de Barberis o Philippus Siculus),"Discordantiae Sanctorum doctorum Hieronymi et Augustini, et alia opuscola", Roma, 1481: La Sibilla Tiburtina.
PROFETI E SIBILLE. Storia delle immagini... Filippo Barberi, "Discordantiae sanctorum doctorum Hieronymi et Augustini", 1481
Giovanni Francesco Barbieri detto il Guercino (Cento, 1591, Bologna, 1666)
Federico La Sala
UNA SORPRESA CHE SORPRENDE ....
Le Sibille: l’antico filo artistico che lega Contursi Terme a Serravalle di Chienti: “[...] in due piccole località italiane tra loro distanti di soli 500 chilometri, a seguito di restauri occasionati da eventi sismici in entrambi i casi, esistono straordinarie immagini di queste divine creature che sembrano essere tra loro collegate da un filo magico e invisibile: le Sibille del Rinascimento” (cfr. Laura Vasselli e Italo Mastrolia, "inLibertà", 31 Maggio 2020)... E CHE SOLLECITA AD ULTERIORI COLLEGAMENTI, a cominciare dalle Sibille degli affreschi di Lorenzo Lotto (maestro di Simone De Magistris) nella Cappella Suardi di Trescore Balneario in provincia di Bergamo e, passando da Ascoli Piceno per ammirare la novecentesca “Sibilla Appenninica” di Adolfo De Carolis, e arrivare alle Sibille presenti negli affreschi di Santa Maria di Casole a Copertino in provincia di Lecce. L’occasione potrebbe essere una ottima sollecitazione a compilare, finalmente, un “atlante” della loro presenza in tutto il territorio nazionale (e, possibilmente, in tutta l’Europa). Se non ora, quando?!
“Le muse ermetiche. Esoterismo e occultismo nella letteratura italiana tra fin de siècle e avanguardia” di Mauro Ruggiero
Intervista *
Dott. Mauro Ruggiero, Lei è autore del libro Le muse ermetiche. Esoterismo e occultismo nella letteratura italiana tra fin de siècle e avanguardia pubblicato da Jouvence: quale valore culturale riveste nelle società occidentali l’esoterismo? L’esoterismo riveste nella società occidentale un valore considerevole, e questo è stato ampiamente dimostrato da vari e importanti studiosi come Antoine Faivre; Frances Amelia Yates; Brian J. Gibbons; Nicholas Goodrick-Clarke, Marco Pasi ecc. che ormai da qualche decennio si stanno occupando o si sono occupati in modo scientifico di questo argomento che troppo a lungo è stato considerato non scientifico e, in Italia, addirittura un tabù.
Ma per rendere l’idea di quanto importante e fondante sia la presenza del pensiero esoterico nella nostra società, basti citare come esempio gli studi di Wouter Jacobus Hanegraaff, professore presso l’Università di Amsterdam di “Storia della Filosofia Ermetica e Correnti Affini”, che ha affermato che accanto ai tre pilastri dell’identità culturale europea, e cioè la tradizione religiosa giudaico-cristiana, la filosofia razionalista e la scienza moderna, ve ne è un altro che, molto spesso, viene quasi completamente ignorato. Questo quarto pilastro sarebbe proprio il pensiero esoterico o, com’è stato definito più di recente in ambito accademico: l’ “Esoterismo occidentale”.
Possiamo dire senza timore di essere smentiti che dall’età ellenistica, attraverso la cabala e la magia in epoca rinascimentale, proseguendo con la naturphilosophie tedesca, Paracelso e l’alchimia, passando per la mistica e i movimenti rosacrociani del XVII secolo, la massoneria e gli ordini iniziatici del XVIII secolo, fino ad arrivare ai più moderni fenomeni dello spiritismo e delle Società Teosofica e Antroposofica, e addirittura alla New Age dei nostri giorni, le idee di scuole, movimenti esoterici e personalità a questi legate hanno esercitato molta influenza sulla società e nei diversi campi del sapere praticamente, anche se con diversa intensità, in tutte le epoche della storia dell’Occidente e senza dubbio la esercitano ancora oggi.
Questo, sia chiaro, non solo in ambito culturale e letterario nello specifico, come riportato in “Le muse ermetiche”, ma anche, è bene ripeterlo, in tutti gli altri ambiti del sapere umano, anche al di fuori di quello umanistico.
Che rapporti esistono tra l’occultismo e la letteratura italiana?
Dalle ricerche condotte da studiosi che si interessano proprio del rapporto tra esoterismo/occultismo e letteratura italiana, risulta chiara e ben documentata anche in questo contesto la frequentazione di alcuni scrittori, pensatori e poeti della nostra migliore letteratura, di ambienti legati allo spiritismo, alla magia e all’occultismo che sono sempre stati più o meno presenti e radicati nella società italiana, e non solo a cavallo tra Ottocento e Novecento come riportato in questo libro. D’altra parte gli studi italiani su questo tema si inseriscono in un ambito più ampio che riguarda i rapporti tra letteratura ed esoterismo nel contesto europeo e americano. Proprio perché il fenomeno è riscontrabile in tutte le letterature dei paesi occidentali spesso in maniera di gran lunga superiore al contesto italiano.
Forse potrà sorprendere, ma per quanto riguarda l’indagine sulle relazioni tra letteratura italiana e pensiero esoterico, uno dei primissimi studiosi ad affrontare l’argomento in Italia fu Giovanni Pascoli che, tra gli ultimi anni dell’Ottocento e i primi del Novecento, diede una interpretazione controcorrente e in chiave esoterica della “Divina Commedia” di Dante negli scritti di critica dantesca “Minerva Oscura”, “Sotto il Velame” e “La Mirabile Visione”. Questi studi di Pascoli sono da considerarsi pionieristici e, sebbene non ebbero fortuna, perché la critica non ha mai rivolto loro la giusta attenzione, aprirono la via ad alcuni studiosi che da allora cercano di portare alla luce questi rapporti tra la produzione letteraria italiana e il pensiero esoterico.
C’è tutto un filone molto interessante di lettura in chiave esoterica della “Divina Commedia” di Dante, che da Pascoli, passando per Luigi Valli e arrivando fino ai nostri giorni, mette in evidenza il sapere esoterico presunto o vero che si trova alla base di questa opera straordinaria, patrimonio della letteratura mondiale. L’interesse in Italia per lo studio accademico del pensiero esoterico nacque anche grazie all’attenzione verso l’ermetismo rinascimentale da parte di alcuni studiosi come Ferdinando Gabotto (1866-1918), Paul Oscar Kristeller (1905-1999), ed Eugenio Garin (1909-2004) sulle base delle cui ricerche, nel 1964, Frances A. Yates pubblicò il suo “Giordano Bruno e la Tradizione Ermetica” che portò questo genere di studi all’attenzione dei ricercatori internazionali.
Bisogna però sottolineare come in Italia l’interesse per quello che riguarda nello specifico i legami tra letteratura e pensiero esoterico, nonostante l’abbondanza di materiale e le numerose evidenze, siano stati a lungo ignorati, e i primi studi sull’argomento devono essere considerati in parte pionieristici ed “eretici”, al contrario, invece, di quanto accaduto in altri paesi in cui il tema è studiato da più tempo e senza pregiudizi. Le ragioni di questa mancanza di interesse sono state sia di tipo metodologico (non dimentichiamo, ad esempio, che già Giovanni Gentile aveva ignorato le opere magiche di Giordano Bruno e, più in generale, la componente magica del suo pensiero), sia di tipo - se possiamo dire così - “politico”, ma da quando qualche studioso ha scoperchiato il “vaso di Pandora”, non è stato più possibile ignorare questo aspetto della cultura e della letteratura che mette in discussione molti vecchi stereotipi e concezioni che per troppo tempo hanno impedito una presa di coscienza totale del fenomeno anche in Italia.
Crediamo di poter affermare, ormai senza temere di cadere in errore, che l’esoterismo e l’occultismo abbiano dato un impulso particolarmente importante alla produzione letteraria italiana soprattutto in quel contesto sociale e culturale in cui era sentito forte il bisogno di un umanesimo alternativo a quello di stampo prettamente cristiano che dalla nuova generazione di intellettuali italiani era percepito spesso come inadeguato e limitante. La presenza importante del pensiero esoterico nella poesia, nella narrativa e persino nelle riviste letterarie, che molto impulso diedero alla diffusione di nuove idee in ambito filosofico e alla divulgazione di tanta letteratura straniera in Italia, è forse l’aspetto più interessante di questo fenomeno e testimonia una rivoluzione culturale i cui effetti sono, per certi aspetti, visibili e in atto ancora oggi.
In che modo, nel periodo a cavallo tra Ottocento e Novecento, si ebbe in Italia un intreccio particolarmente fecondo tra letteratura e pensiero esoterico?
Per quanto riguarda nello specifico la letteratura a cavallo tra Ottocento e Novecento, c’è da dire che anche in Italia le avanguardie letterarie e artistiche avevano cercato ispirazione nel mondo delle scienze occulte e nelle idee promosse in particolare dalla teosofia, dall’antroposofia, dalla massoneria, dal martinismo ecc., dottrine e organizzazioni particolarmente attive e influenti nella vita culturale del tempo. In un momento di profondi cambiamenti sociali e culturali, gli intellettuali italiani si sentirono chiamati a un impegno maggiore all’interno della società per favorire l’affermazione di nuovi valori, diversi da quelli che avevano caratterizzato la cultura europea fino a tutto il secolo precedente. Questi ideali miravano ad aprire all’uomo una dimensione nuova dell’essere che permettesse, oltre che a svincolarsi dai moralismi e dalla cultura del passato, anche uno sviluppo di quelle potenzialità latenti dell’essere umano, di quelle facoltà che tendevano a sfuggire alle indagini della scienza classica e che potremmo definire “magiche”.
Il pensiero esoterico, pur non negando necessariamente il cristianesimo, metteva in risalto l’idea dell’essere umano come un essere non compiuto, che porta nella sua essenza la possibilità di uno sviluppo ulteriore; una evoluzione in potenza capace di condurlo a un livello superiore di coscienza nel quale si avrebbe accesso a facoltà nuove e speciali poteri della mente latenti allo stato di sviluppo attuale. Non ci vuole molto dunque a capire da dove, ad esempio, un movimento come il Futurismo abbia potuto attingere alcune delle sue idee fondamentali.
E ricordiamo, a tal proposito, uno studio importante di Simona Cigliana “Futurismo Esoterico” (La Fenice 1996) che è una delle prime ricerche sistematiche su questo argomento in Italia. La presenza dell’esoterismo, dell’occultismo e del fantastico nella letteratura italiana sono probabilmente la prova più evidente di quel passaggio epocale che interessò tutti gli ambiti del sapere, in Italia e non solo, nel periodo esaminato; quel passaggio cioè da una visione del mondo di tipo teocratica a una di matrice antropocentrica che mise in discussione ancora una volta il posto dell’uomo nell’universo e che manifestò i suoi effetti nella società e nella cultura dell’epoca. Se dunque l’Esoterismo Occidentale è parte del patrimonio culturale della nostra civiltà, essendo la letteratura da sempre espressione tra le più immediate e dirette della cultura di una società e di un’epoca, ne deriva necessariamente che letteratura ed esoterismo debbano inevitabilmente entrare in contatto in qualche momento del loro sviluppo storico. Naturalmente lo stesso discorso vale anche per le altre branche del sapere, e anche su queste, infatti, esiste ormai una non trascurabile e interessante letteratura scientifica.
Gli ultimi decenni dell’Ottocento e i primi del Novecento costituiscono, come era già accaduto in altri momenti nella storia del pensiero in Italia, proprio uno di quei punti di intreccio tra cultura esoterica e cultura “ufficiale” i cui effetti è possibile oggi analizzare senza pregiudizi. Un intreccio tra questi due rami del grande albero della conoscenza umana il cui contatto ha generato stimoli nuovi sia in ambito culturale sia sociale e che hanno dato nuova energia allo sviluppo del pensiero e all’evoluzione culturale dell’essere umano.
Quali autori e intellettuali si interessarono alla dimensione occulta della realtà e con quali esiti?
Moltissimi, alcuni dei quali “insospettabili”, visto che a scuola non ce lo aveva detto mai nessuno. Tra gli autori più noti basti citare Luigi Capuana che da subito si interessò al dibattito scientifico sui fenomeni medianici che giocarono un ruolo molto importante nell’ambito della sua produzione letteraria. Capuana fu assiduo lettore di Kardec e dell’occultista Eliphas Lévi e partecipò spesso agli eventi organizzati dalla Società di Studi Psichici di cui fu membro onorario. Amico di Capuana e conoscitore di “cose occulte” fu Luigi Pirandello che risentì delle suggestioni occultiste, soprattutto dello spiritismo e della teosofia, nella sua produzione artistica; suggestioni particolarmente chiare in molte delle sue opere. Negli scritti pirandelliani, infatti, abbondano fantasmi, fenomeni inspiegabili, strane presenze e molti altri elementi attinti sia dal giacimento della cultura popolare e dal folklore della sua terra, la Sicilia, sia dai suoi studi e dalle esperienze personali riguardo le caratterizzazioni che l’Esoterismo Occidentale assunse nel periodo in cui lo scrittore operò e cioè, in modo particolare, lo spiritismo e la teosofia di matrice blavatskyana.
Poi c’è Antonio Fogazzaro che è stato il primo ad introdurre in un romanzo italiano il tema della reincarnazione, e che fu considerato dalla chiesa alla stregua di un eretico per via della sua apertura verso il mondo occulto che non solo non vedeva in contraddizione con l’insegnamento cristiano, ma addirittura considerava un completamento di questo. Possiamo poi menzionare Matilde Serao che è stata tra le prime a rendersi conto dell’apertura di alcuni intellettuali del suo tempo a una visione metafisica della realtà, in un’epoca dominata dal positivismo anche in ambito letterario. Tutti quelli menzionati, e molti altri, furono intellettuali coinvolti in quel fenomeno di “Rinascenza dell’anima” che, nato in opposizione alla cultura positivista, può essere riconosciuto come un punto essenziale per lo studio dell’influenza del sapere esoterico sulla cultura letteraria del tempo.
Una prova molto importante dell’influenza dell’esoterismo sulla letteratura italiana dell’epoca va poi ricercata nell’editoria, soprattutto, nelle riviste letterarie fiorentine del primo Novecento, dove la presenza della cultura esoterica è particolarmente chiara. Riviste come “Leonardo”, “La Voce”, “Lacerba” e “L’Italia futurista”, tanto per fare qualche nome. Poi c’è la presenza del pensiero esoterico nella poesia, visibile nella poetica crepuscolare, in Giovanni Pascoli, Gabriele D’Annunzio, Trilussa, Quasimodo... e in poeti considerati minori come Girolamo Comi, Arturo Onofri e Nicola Moscardelli tre scrittori uniti tra loro da legami sia intellettuali sia “esoterici” per via delle frequentazioni comuni di gruppi e circoli esoterici presenti in Italia in quegli anni.
Ma l’elenco non finisce di certo qui, e potremmo menzionare ancora scrittori e artisti come Raoul Dal Molin Ferenzona, Gian Pietro Lucini, Enrico Cardile... tutte personalità legate al mondo dell’esoterismo, nelle cui opere vi è traccia chiara di questa influenza. C’è poi tutto un discorso da fare sui molti autori legati più o meno direttamente all’ambito della massoneria, e all’aspetto di questa che si rifà al pensiero esoterico, e nel libro ci si è soffermati su Giosuè Carducci, Giovanni Pascoli, Giuseppe Chiarini, Salvatore Quasimodo, Ulisse Bacci... la cui iniziazione è documentata, ma anche su autori per i quali, sebbene non esistano prove certe della loro appartenenza alla massoneria, è possibile tuttavia rintracciare nelle loro opere elementi di chiara ascendenza massonica, come nel caso di Gabriele D’Annunzio, Carlo Collodi ed Edmondo De Amicis.
Mauro Ruggiero (Salerno, 1979) è saggista, giornalista e scrittore. Si è laureato in Filosofia presso l’Università degli studi di Salerno e ha conseguito poi un’altra laurea in Lingua e Cultura Italiana per Stranieri a Pisa. Vive a Praga dove ha ottenuto un PhD in Lingue e letterature romanze all’Università Carlo IV. In Repubblica Ceca ha insegnato nei licei e all’università e lavorato a lungo come bibliotecario dell’Istituto Italiano di Cultura (Ufficio culturale dell’Ambasciata d’Italia). Attualmente è l’amministratore dell’Istituto e si occupa anche dell’organizzazione di eventi culturali per la promozione della cultura e della lingua italiana, e per lo sviluppo dei rapporti culturali tra l’Italia e la Repubblica Ceca. Inoltre è consulente accademico della “Czech Academic City” di Erbil, nel Kurdistan iracheno, dove si reca spesso per tenere seminari e per la supervisione del progetto di realizzazione della biblioteca universitaria del campus. È fondatore e direttore della rivista di cultura online www.cafeboheme.cz
*
Fonte: Letture.org
Teologia
Guido Bartolucci (Paideia) analizza l’opera di uno dei maggiori esponenti del filone umanista fiorentino
E Marsilio Ficino recuperò la spiritualità ebraica
di Marco Rizzi (Corriere della Sera, 12.04.2018)
È ormai diventato un luogo comune l’affermazione secondo cui le radici della civiltà europea sarebbero, al tempo stesso, greco-latine, cristiane ed ebraiche.
È anche possibile individuare il momento preciso in cui si è costituita questa triplice eredità nella forma in cui ancora oggi la conosciamo. Essa è infatti il frutto della riscoperta, accanto a quella dei classici, della tradizione ebraica ad opera degli umanisti fiorentini del XV secolo, tra cui spicca il pensatore Marsilio Ficino. È costui, infatti, che per primo propone la conciliazione non solo tra la filosofia greca, specie quella platonica, e il cristianesimo, ma anche con il più antico strato della sapienza ebraica risalente ai patriarchi, che Ficino ritiene di ritrovare in alcuni elementi della qabbalah medievale.
L’interesse di Marsilio, osserva Guido Bartolucci nel libro Vera religio (Paideia), nasceva dal tentativo di ripensare la tradizione teologica e spirituale cristiana, di cui si avvertivano nitidamente i segni di una crisi destinata ad esplodere drammaticamente nel secolo successivo. Al momento, però, prevaleva ancora l’idea che un rinnovamento della Chiesa fosse possibile e che a questo fine la dimensione intellettuale potesse risultare decisiva.
Così, di lì a poco sarà Pico della Mirandola a sviluppare appieno l’idea di una originaria sapienza (la prisca theologia) di cui il cristianesimo rappresenta certo il culmine, ma cui a buon diritto appartengono anche ebraismo e classicità.
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
RINASCIMENTO ITALIANO, OGGI: LA SCOPERTA DI UNA CAPPELLA SISTINA CON 12 SIBILLE. Le Sibille di Contursi hanno parentele più celebri nella Cattedrale di Siena, nell’appartamento Borgia in Vaticano, nel Tempio Malatestiano di Rimini, nella Cappella Sistina di Michelangelo. La pittura disegna l’ eclettismo ermetico-cabalistico-neoplatonico rinascimentale (...)
PER "LA PACE DELLA FEDE" (Niccolò Cusano, 1453), UN NUOVO CONCILIO DI NICEA (2025)
ERMETISMO ED ECUMENISMO RINASCIMENTALE, OGGI
Federico La Sala
IN MEMORIA DI SANT’AGOSTINO (E IN ONORE DEL LAVORO DELLA FONDAZIONE "TERRA D’OTRANTO").
Lode a Marcello Gaballo per questa bellissima e preziosa nota su "L’affresco di sant’Agostino nella cattedrale di Nardò" (cfr.: http://www.fondazioneterradotranto.it/2017/08/28/laffresco-di-santagostino-nella-cattedrale-di-nardo/#_ftn1) - e il lavoro di De Giorgi: la sua trascrizione della scritta sul cartiglio (ormai scomparsa) "iuste/et cas/te viv/ere et/ xarita(te)" - contrariamente alla protervia che ha portato allo "sproposito maiuscolo" e alla brutta abitudine instauratasi almeno a partire da Ludovico A, Muratori di una "caritas" latina! - conserva ancora la memoria del legame della tradizione dell’evangelo (non: "vangelo"!) con la lingua greca ("charis", "charites"... "charitas").
FILOLOGIA E FILOSOFIA/TEOLOGIA. Giambattista Vico ("De constantia iurisprudentis", 1721) giustamente e correttamente e onestamente così pensava e scriveva: "Solo la carità cristiana insegna la prassi del Bene metafisico"("Boni metaphysici praxim una charitas christiana docet"). Sapeva che Gesù ("Christo") aveva cacciato i mercanti FUORI dal tempio, e non aveva autorizzato i sacerdoti a vendere a "caro-prezzo" (lat.: "caritas") la "grazia" (gr.: "Xapis", lat.: "Charis") di Dio (lat.: "Charitas")!!! Due padroni: Dio "Charitas" o dio "Caritas"?!, Dio Amore o dio Mammona?! In questo bivio ("X") ancora siamo, oggi - e ancora non sappiamo sciogliere l’incognita (""x")!
Sul tema, mi sia consentito, si cfr. la seguente nota:
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), E IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO ("DEUS CARITAS EST").Una storia di lunga durata...
MURATORI, BENEDETTO XVI, E "UNO SPROPOSITO MAIUSCOLO": LA LEZIONE DI VICO. Un breve testo dalla "Prefazione ai lettori" del "Trattato sulla carità cristiana" di Ludovico A. Muratori.
MURATORI E RATZINGER. "DEUS CARITAS EST": FINE DEL CRISTIANESIMO. TOLTA AL PESCE ("I.CH.TH.U.S.") L’ ACCA ("H"), IL COLPO ("ICTUS") E’ DEFINITIVO!!!
ALLA LUCE DEL lavoro di ARMANDO POLITO e MARCELLO GABALLO SU "SANTA MARIA DI CASOLE E LE SUE SIBILLE" (cfr.: http://www.fondazioneterradotranto.it/2017/03/24/santa-maria-casole-copertino-le-sue-sibille/), all’affresco di Sant’Agostino (databile forse più precisamente nella seconda metà del sec. XV), mi augurerei una rinnovata e maggiore attenzione non solo a tutta la figura dell’affresco ma, in particolare, all’immagine del bastone-pastorale con i suoi DUE SERPENTI. Essa richiama, con chiarezza, non solo la figura di Mosè ma anche e soprattutto la figura di ERMETE TRISMEGISTO con il suo caducèo (e, con essa, della Sibilla Pizia, di Apollo, e di Delfi).
L’affresco di Sant’Agostino nella cattedrale di Nardò, a mio parere, è un luminosissimo segno "manifesto" della diffusione della concezione umanistico-rinascimentale nella Terra d’Otranto e, insieme, del grande lavoro che porterà infine la Chiesa e Michelangelo a celebrare le Sibille (5) insieme ai Profeti (7) nella Volta della Cappella Sistina: ovvero, dice chiaramente del ruolo "giocato" dalla figura di Agostino nella costruzione dell’ orizzonte ecumenico umanistico e rinascimentale.
Sul tema, si cfr., unitamente al già citato lavoro di A. Polito e M. Gaballo, la mia nota sul
RINASCIMENTO ITALIANO, OGGI: LA SCOPERTA DI UNA CAPPELLA SISTINA CON 12 SIBILLE.
NEL LIBRO DI Marcello Gaballo e Armando Polito, "Santa Maria di Casole a Copertino (Lecce) ed altri repertori di Sibille" (Fondazione Terra d’Otranto 2017), è ripreso l’intero capitolo 23 del Libro XVIII del "De civitate Dei" (per eventuali approfondimenti, si cfr. sant’Agostino, "La città di Dio": http://www.augustinus.it/italiano/cdd/index2.htm)
PER MEGLIO CAPIRE il filo che lega l’ecumenismo umanistico-rinascimentale (Niccolò Cusano, "La pace della fede", 1453) con l’ecumenismo del presente attuale (nuovo Concilio di Nicea, 2025) e, insieme, la portata simbolica del particolare PASTORALE di sant’Agostino nell’affresco della Cattedrale di Nardò, mi sia consentito rinviare all’immagine del pastorale del Patriarca di Costantinopoli e all’intervista relativa all’ INCONTRO DI PAPA FRANCESCO E BARTOLOMEO I A ISTANBUL (cfr.: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5791).
Federico La Sala
*
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Amore e responsabilità (Karol J. Wojtyla) - e "caritas" (J. Ratzinger) !!! Fonti cattoliche a confronto...
MA NON E’ POSSIBILE FARE CHIAREZZA? SI TRATTA DELLA PAROLA FONDANTE E DISTINTIVA DELLA FEDE CRISTIANA!!! DIO E’ AMORE ("Charitas") O MAMMONA ("Caritas")?!
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
GUERCINO A PIACENZA.
Gli affreschi della cupola *
Alla realizzazione degli splendidi affreschi che dominano la cupola contribuì generosamente il vescovo Giovanni Linati (1620-1627). Le figure di Davide e Isaia sono di Pier Francesco Mazzucchelli detto il Morazzone, che chiamato a dipingere i Profeti nel 1625, morì ultimati i primi due spicchi.
Nel 1626 gli subentrò il Guercino, che completò entro l’anno gli altri sei scomparti dei profeti (Aggeo, Osea, Zaccaria, Ezechiele, Michea, Geremia), nel 1627 le lunette in cui si alternano episodi dell’infanzia di Gesù a otto affascinanti Sibille e il fregio del tamburo, per la parte a grisaille di aiuti.
Tra 1688 e 1689, il bolognese Marcantonio Franceschini affrescò i pennacchi e gli spazi preludenti alla galleria: rimane il Sogno di San Giuseppe esposto nel transetto destro. (...)
* PER IMMAGINI E TESTO. CFR.:
http://www.marcostucchi.com/Articoli/GuercinoPiacenza/GuercinoPiacenza_Affreschi.html
Copertino si scopre casa delle Sibille
di Pier Paolo TARSI *
Copertino si riscopre in possesso di un altro tesoro: il volto delle Sibille di Santa Maria di Casole! C’è sempre un enigma misterioso da svelare quando si tratta delle celeberrime profetesse, vergini che da millenni affascinano la cultura occidentale, dalla Grecia classica a noi, passando per la civiltà romana e la cristianità medievale e moderna. In effetti, risulta già inspiegabile capire come sia potuto sfuggire a tutti gli osservatori, storici e ricercatori locali, l’unicità che hanno invece colto ed evidenziato con questo studio Marcello Gaballo, medico e storico dell’arte locale, e il professore Armando Polito, entrambi colonne portanti della Fondazione Terra d’Otranto.
Grazie proprio al loro sguardo particolarmente attento, da oggi Copertino può vantare una eccezionalità che può divenire, se opportunamente divulgata e valorizzata con politiche culturali serie e a lungo raggio - ossia non estemporanee ma continuative, ben progettate e strutturate -, una ulteriore e nuova ragione per collocare di buon diritto Copertino nel circuito delle mete obbligate nei tragitti turistico-culturali e artistici del Salento e della Puglia.
Ci auguriamo che i nostri amministratori e gli operatori del settore turistico sappiano cogliere la preziosa opportunità che questa rivelazione apre al loro operato e al nostro territorio. Per dare una concreta idea del perché Santa Maria di Casole possa apparire oggi così speciale, basti pensare che, allo stato attuale delle conoscenze, su tutto il territorio pugliese non sono noti altri cicli completi delle 12 Sibille della tradizione.
Anche a livello nazionale possiamo vantare la rarità dell’esempio di Casole: in mancanza di un censimento nazionale ufficiale che ci restituisca un quadro definitivo, pare dobbiamo giungere a Salerno o fino a Bergamo per poter scrutare il fascino affrescato che emana dal ciclo completo di tutte le 12 profetesse. Sappiamo invece ora con certezza che la famiglia al completo delle Sibille ha una casa anche in Puglia, precisamente a Copertino!
Al di là di questa importante e significativa segnalazione, già di per sé sufficiente a far comprendere la rilevanza del luogo e la necessità di scommettere sul fascino attrattivo di Casole - per esempio, riportando quanto prima alla luce tutto il corredo pittorico -, lo studio di Marcello Gaballo e Armando Polito evidenzia anche l’altissimo livello culturale della comunità religiosa che animava il luogo. Ne offrono prova la quantità e la rilevanza dei libri che appartenevano al Convento, parte dei quali si trova oggi nella Biblioteca Vergari di Nardò, i cui frontespizi sono peraltro riprodotti nel testo.
Che sia proprio Casole, col suo fascino sibillino, uno degli snodi patrimoniali per rilanciare il potenziale attrattivo di questa città, favorendone un percorso di sviluppo turistico da far lievitare intorno alle inattese nuove risorse? Questo luogo che ha rappresentato nei secoli un importante volano della cultura, oggi, mentre se ne svelano ulteriori valenze storiche e unicità artistiche, si candida infatti a divenire fonte e impulso di nuovo vigore per l’economia del territorio.
Varrebbe dunque la pena investirci per renderlo uno degli altari su cui il nostro passato può celebrare il lascito del testimone ad un futuro sostenibile, tutto ancora da progettare e scrivere tanto per Copertino quanto per il Salento. Dipende solo da noi e dall’intelligenza politica locale a questo punto; la storia, come ci mostra egregiamente questo studio, ha già fatto ampiamente la sua parte, al punto che ci sorprende ancora con eredità di cui non eravamo nemmeno consapevoli. Ora è nostro compito saperle raccogliere, preservare e valorizzare in tutta la loro rarità.
* Fondazione Terra D’Otranto, 30/03/2017 (ripresa parziale - senza immagini).
"GUERCINO A PIACENZA". Fulcro di tutta la manifestazione sarà ovviamente la Cattedrale, con lo straordinario ciclo di affreschi realizzato da Guercino tra il 1626 e il 1627 ...
Il ’600 di Guercino tra Sacro e Profano
Dal 4/3 a Piacenza si visiteranno anche affreschi cupola Duomo
di Nicoletta Castagni *
PIACENZA - Una mostra dei suoi capolavori a Palazzo Farnese e la possibilità di poter ammirare da vicino, per la prima volta, il ciclo di affreschi della cupola della Cattedrale: dal 4 marzo Piacenza celebra Giovanni Francesco Barbieri, detto il Guercino, e il suo sublime ’600, di cui, tra immagini sacre e raffigurazioni profane, il pittore di Cento fu uno degli indiscussi protagonisti. Fino al 4 giugno, la rassegna presenterà infatti una ventina di opere tra oli e disegni, mentre una serie d’iniziative di grande suggestione e rilevanza storico-artistica accompagneranno l’ascesa all’interno della cupola decorata dal maestro emiliano con le storie dall’Antico e Nuovo Testamento.
Intitolato ’Guercino a Piacenza’, il progetto espositivo è stato promosso dalla Fondazione Piacenza e Vigevano, dalla Diocesi di Piacenza-Bobbio e dal comune di Piacenza, con il patrocinio della Regione Emilia Romagna, del Mibact e col contributo della Camera di Commercio di Piacenza, Apt Servizi Regione Emilia Romagna, Iren (main sponsor Credit Agricole Cariparma). Fulcro di tutta la manifestazione sarà ovviamente la Cattedrale, con lo straordinario ciclo di affreschi realizzato da Guercino tra il 1626 e il 1627 e che si presenterà in tutta la sua bellezza grazie alla nuova illuminazione realizzata da Davide Groppi.
Tra i vertici assoluti della sua arte, le pitture della cupola sono suddivise in sei scomparti raffiguranti le immagini dei profeti Aggeo, Osea, Zaccaria, Ezechiele, Michea, Geremia. Nelle le lunette ecco dunque alcuni episodi dell’infanzia di Gesù (Annuncio ai Pastori, Adorazione dei pastori, Presentazione al Tempio e Fuga in Egitto) che si alternano alle immagini di otto Sibille e il fregio del tamburo.
Chiamato per primo a dipingere i Profeti nella volta della Cattedrale, fu nel 1625 Pier Francesco Mazzucchelli detto il Morazzone, che ne realizzò due, Davide e Isaia, ma morì appena ultimati i primi due spicchi, notevoli per cromia e impianto. Quindi, nel 1626 gli subentrò il Guercino, che completò entro l’anno successivo gli altri sei scomparti della cupola e le lunette.
Per preparare all’ascesa della cupola, il visitatore sarà invitato, come prima tappa del percorso espositivo, all’interno delle sagrestie superiori della Cattedrale, dove verrà allestita una sala multimediale circolare che conterrà un grande videowall di oltre 10 m di lunghezza.
Il filmato di impatto spettacolare, condurrà virtualmente nella storia, al momento in cui il Vescovo Linati invita Guercino a Piacenza per decorare la cupola secondo i canoni imposti dal Concilio. Grazie all’impiego delle più attuali tecnologie, a una base scientifica che poggia su documenti d’archivio e disegni preparatori, alle foto ad altissima risoluzione del ciclo pittorico, lo spettatore potrà comprendere i tempi, le tecniche di lavorazione e le difficoltà riscontrate nella realizzazione di quello che la critica ha definito uno dei maggiori capolavori del maestro di Cento.
Sempre dal 4 marzo, la Cappella ducale di Palazzo Farnese ospiterà la bella mostra curata da Daniele Benati e Antonella Gigli, che insieme (e con il supporto di un comitato scientifico composto da Antonio Paolucci, Fausto Gozzi e David Stone) hanno selezionato 20 capolavori del Guercino, capaci di restituire la lunga parabola creativa che lo ha portato a divenire uno degli artisti del ’600 italiano più amati a livello internazionale. I dipinti scelti, infatti, testimonieranno la ’poetica degli affetti’ con cui il pittore, lungo l’arco cronologico della sua operosa attività artistica, ha realizzato sia i temi sacri sia quelli profani.
Tra i capolavori esposti ci saranno in prevalenza pale d’altare, ma non mancheranno i quadri ’da stanza’ a soggetto profano, in modo da scoprire il vero volto di Guercino e apprezzarne la straordinaria qualità e le prerogative messe a punto prima e dopo la grande impresa della volta piacentina. Il percorso espositivo illustrerà quindi le prime esperienze pittoriche a Cento, paese natale, svolte nel segno di una romantica adesione al linguaggio di Ludovico Carracci e indagherà la sua maturazione artistica avvenuta durante i lunghi soggiorni a Bologna e quindi a Roma. Fino ad arrivare all’ultima fase, quando, pur rimanendo inconfondibile, il suo linguaggio si apre a nuove sollecitazioni di tipo classicheggiante, incontrando il favore dei più illustri committenti.
La replica del capolavoro realizzata con l’impiego di tecniche antiche e moderne. L’opera finanziata da un’associazione di magnati internazionali
di Marco Gasperetti *
FIRENZE - Mai copia fu così attesa, mai replica così blasonata. Basta guardare le foto e il video che pubblichiamo in anteprima per comprendere questo primato. Dopo 40 mila ore e 4 anni di lavoro, 3,5 tonnellate di bronzo cesellato finemente come l’oro con arte antica e modernissime tecnologie e 50 mila metri cubi di gas per accendere il forno di cottura, la copia della Porta Nord del Battistero di Firenze (l’originale del Ghiberti, capolavoro del Rinascimento, è custodito al museo dell’Opera del Duomo) sarà svelata per la prima volta il 23 gennaio a Firenze. E’ un evento. Replica e restauro sono stati realizzati grazie a 4,2 milioni di euro dell’Opera di Santa Maria del Fiore e della Guild of the Dome, associazione formata da magnati internazionali presieduta dall’imprenditore Enrico Marinelli.
La Porta Nord è la seconda delle tre porte del Battistero di San Giovanni a Firenze e, capolavoro nel capolavoro, è composta da 28 formelle dedicate a Nuovo Testamento, Evangelisti e Dottori della Chiesa. «E’ stata restaurata per la prima volta dopo sei secoli dall’Opificio delle Pietre Dure di Firenze - spiegano all’Opera di Santa Maria del Fiore - e durante i lavori è riemersa la meravigliosa doratura originale presente nei rilievi scultorei delle formelle, nelle testine di Profeti e Sibille e nel bellissimo fregio a motivi vegetali brulicante di piccoli animali». Insomma, un monumento che già troneggia nel museo dell’Opera del Duomo. Adesso la sua replica la sostituirà con tutta la sua opulenza.
I numeri della sua costruzione, in quattro anni di lavoro, sono anch’essi da capolavoro di modernità. I costruttori hanno impiegato 6 mesi di studio per apprendere le tecniche con la quale Ghiberti costruì la Porta Nord. Sono state realizzate 56 formelle (28 per la replica ad arte e 28 per i donatori). Sono state impiegate 15 persone a tempo pieno e 350 sono le ore spese di cesello per ognuno dei 28 pannelli. Sono stati utilizzati 1 tonnellata di silicone per poter fare i calchi dei pannelli e dei fregi della cornice, 400 chili di cera per realizzare gli stampi, 3,5 tonnellate di bronzo, 15 tonnellate di materiale refrattarii e 50.000 metri cubi di gas per accendere il forno di cottura.
L’Associazione Guild of the Dom, che insieme all’Opera di Santa Maria del Fiore ha finanziato l’opera, è stata fondata da imprenditori di tutto il mondo. «Che hanno in comune il desiderio di supportare I valori universali artistici, sociali ed etici alla base del complesso monumentale della Cattedrale di Santa Maria del Fiore a Firenze. - spiega Enrico Marinelli, il presidente -. La Guild si propone di operare con lo stesso intento che animava le Arti o Corporazioni fiorentine che finanziarono la costruzione della complesso oltre sette secoli fa».
* Corriere della Sera, 17 gennaio 2016 (ripresa parziale).
Negli occhi della Sibilla
Cappella Sistina. Nel libro «Io e Michelangelo», il restauratore Gianluigi Colalucci racconta la straordinaria relazione che nacque in quattordici anni di «vicinanza fisica» con il capolavoro del Buonarroti. Una passione che venne avversata e fu oggetto di roventi polemiche
di Antonio Forcellino (il manifesto, 18.11.2015)
È arrivato in libreria un volume che molti aspettavano, Io e Michelangelo, di Gianluigi Colalucci (Edizioni Musei Vaticani-24Ore Cultura, pp. 255, euro 19), nel quale l’uomo che per quattordici anni ha lavorato al restauro degli affreschi della Cappella Sistina, ha deciso di confessare «quello che non si può e non si scrive nei saggi scientifici, sentimenti, esaltazioni, angosce, riflessioni vissute per anni e anni sotto la volta, a tu per tu con quegli eterni giganti». Proprio grazie a questa disposizione d’animo che, in altre pagine, Colalucci attribuisce ironicamente all’età e alla perdita dei freni inibitori, ma che meglio sarebbe attribuire all’estrema libertà raggiunta con il tempo, l’autore rende finalmente comprensibili a tutti, cosa è veramente un restauro.
Furie americane
Il libro racconta una vicenda che è innanzitutto una vicenda umana e, come tale, godibile da ogni tipo di lettore. Lo fa con una scrittura asciutta, a tratti ironica, con i tempi narrativi che creano suspence in molti punti e suscitano fortissime emozioni in altri.Colalucci narra con i toni della sceneggiatura di un film neorealista la Roma dei suoi esordi e la notizia del suo ingaggio in Vaticano, con la bella immagine della moglie ad aspettarlo in camice bianco (anche lei restauratrice) sulla soglia dell’Istituto Centrale del Restauro, un ingaggio che metteva fine al suo esilio palermitano (pure ricordato con tenerezza in altri momenti) e restituisce in tutta la sua drammaticità la polemica che per quindici anni lo ha preso di mira con attacchi insensati e violenti, alimentati più dalla smania di apparire nei media di molti detrattori, che da motivate problematiche conservative.
Il racconto assume toni teatrali quando l’autore ricorda il brutale attacco subito a New York, in un elegante Club della Fifth Avenue, orchestrato da «un uomo sulla sessantina, ma ne dimostrava di più. Alto , corporatura imponente e pesante, aveva una voce calda e scura e capelli tinti, portava occhiali che in parte confondevano le due borse sotto gli occhi», e da un suo amico documentarista che sosteneva come gli affreschi non avessero bisogno di pulitura perché al di sopra di uno strato di fumo fermo a mezz’aria nella Cappella Sistina (gli anelli di Mercurio?) i dipinti apparivano in perfetto stato, e lui lo poteva testimoniare.
È su queste basi tanto «scientifiche» che la potenza e l’arroganza dei media americani riuscirono a montare una polemica su cui si inserirono in Italia gli interessi di ambienti che erano diversamente coinvolti e tentavano di ostacolare quel restauro: interessi tutti con chiarezza individuati e raccontati nel libro. Questo aspetto umano e sentimentale della vicenda offre materia emozionante al lettore, ma la vera sorpresa di questo volume è la capacità di affrontare temi ben più seri con la leggerezza dell’ affabulazione bonaria. Uno degli argomenti più interessanti riguarda la consapevolezza di non poter semplificare una procedura, qual è quella del restauro, che viene qui finalmente rivendicato apertamente come opera critica creativa e individuale: «La tecnologia e le indagini scientifiche molto avanzate dei giorni nostri permettono di ridurre al minimo i margini d’errore, ma sostanzialmente, che piaccia o no, il risultato di una pulitura sta nelle mani di chi opera (...). Da qui i lunghi momenti di riflessione in attesa dell’arrivo di quella corrente magnetica che deve legare l’opera alla mente del restauratore, in una fase che io considero il momento ’creativo’ del restauro».
Solo considerando questo impegno creativo e intellettuale del restauratore ci si potrà spiegare in che modo Colalucci abbia potuto portare a termine, insieme ad altre figure professionali, ai quali generosamente riconosce grandi meriti, un’impresa così difficile per l’estensione dei dipinti e la complessità del loro stato di conservazione e, oltretutto, in una condizione psicologica di prostrazione originata dalle continue aggressioni mediatiche. Ma che l’impegno sia stato soprattutto intellettuale lo dimostrano i passi bellissimi attraverso i quali Colalucci ci guida nella pittura di Michelangelo. Lo fa con modestia, rivelando senza paura di sembrare ingenuo - «quando facevo questa manovra sembravo un pazzo tranquillo» - i suoi tentativi di ripercorrere l’iter esecutivo di Michelangelo, riproducendone le pennellate una per una, intingendo l’inesistente colore in un’immaginaria ciotola di pigmento, per capire come e in quanto tempo l’artista aveva dipinto le figure delle lunette.
Da questa relazione sensuale e fisica con l’opera d’arte che finalmente viene rivelata in tutta la sua felicità, nasce quella comprensione così approfondita del dipinto che è condizione necessaria al suo buon restauro. Ma sono anche altri i problemi affrontati da Colalucci: sono i dogmi accademici contro i quali si è dovuto battere per portare a termine - e bene - il suo lavoro. Il più ottuso era quello che sosteneva una radicale diversità tra il Michelangelo pittore del Tondo Doni e il Michelangelo pittore della Volta Sistina, «la sua pittura su tavola, cromaticamente molto simile agli affreschi puliti, come il Tondo Doni, non era considerata valida dagli storici dell’arte per stabilire un nesso con la Sistina per via della diversità delle due tecniche pittoriche». Come se un artista cambiasse forme e colori, e in definitiva trasformasse il proprio «stile» a seconda del supporto su cui dipingeva.
Un’operazione meccanica?
Ma se queste «rigidità» possono apparire innocue divagazioni retoriche in un’aula universitaria, diventano pregiudizi pieni di conseguenze pratiche quando bisogna portare a termine un restauro di cui si sente tutto il peso e la responsabilità. Il contributo che questo libro porta alla Storia dell’arte italiana forse non è inferiore a quello dato da Gianluigi Colalucci con il restauro degli affreschi sistini perché - in modo straordinariamente efficace - si spiega non solo cosa sia un restauro, ma si rivela quanto acume critico e quanta intelligenza ci siano dietro un processo che per molti rimane banalmente un processo manuale e meccanico. Scorrendo le sue pagine, si capisce - meglio che in qualsiasi manuale accademico - che è solo grazie a questo acume e alle conoscenze accumulate con un training formativo d’eccellenza, quale è stato quello nell’Istituto Centrale del Restauro di Roma, che si è potuto raggiungere un risultato così rilevante.
Colalucci dopo averci regalato un Michelangelo che per la prima volta dopo secoli somiglia a Michelangelo (con buona pace dei pittori romantici d’America e d’Italia) ci regala con questo suo libro una testimonianza straordinaria su cosa sia il restauro delle opere d’arte, chiarendone la complessità, la natura, i lati oscuri e quella felicità del contatto amoroso con l’opera stessa che lo lascia, suo malgrado, dolorante quando la relazione con Michelangelo si interrompe e lui non è preparato all’abbandono. «Era come perdere all’improvviso una persona cara, un amico. Solo in quei momenti ti rendi conto di tutto quello che è finito con la sua morte e di quanto la sua presenza contasse per te». Sono parole semplici, che faranno sorridere gli spiriti sofisticati, ma che si voglia o no è questo il rapporto del restauratore con l’opera d’arte e, finalmente, qualcuno a cui dobbiamo molta riconoscenza lo ha detto per tutti.
L’augurio è che su questo libro riflettano soprattutto le istituzioni italiane che sembrano impegnate in ogni loro articolazione, soprintendenze, università, centri di Ricerca a fare del restauro una procedura meccanica da affidare alle ditte e non agli uomini. In questo panorama desolante è d’obbligo sottolineare la diversità dell’Istituzione Vaticana, e di Antonio Paolucci, direttore dei Musei Vaticani che ha voluto fortemente questo libro come scrive nella sua presentazione, e che da anni ormai testimonia quasi in solitudine la rara consapevolezza di cosa sia veramente il restauro.
La querelle alle spalle
Infine, qualcosa va detto per i più giovani lettori che stenteranno a capire la violenza delle polemiche scatenate negli anni ottanta e novanta, a livello mondiale, sul delicato lavoro che riguardava la Cappella Sistina. Fu una guerra feroce nella quale fummo ingaggiati tutti in un modo o nell’altro. Anche a me, che avevo relazioni epistolari con James Beck, venne richiesto di firmare appelli e manifesti contro questo restauro e quando rifiutai di essere assoldato nella campagna diffamatoria vidi svanire immediatamente la relazione con il professore della Columbia University. Ma quella veemenza oggi è passata per fortuna e Colalucci può godersi i risultati meravigliosi del suo lavoro. Sentiamo dunque di dovergli le stesse parole che gli rivolse in fretta su un aereo un’anonima signora che, come spesso capita, grazie alla sua sincera passione per l’arte, aveva capito di quella vicenda molto più di molti addetti ai lavori «Grazie per quel che ha fatto per noi».
PERUGINO E FRANCESCO MATURANZIO. NOTE SUL "COLLEGIO DEL CAMBIO" DI PERUGIA:
Collegio del Cambio
Decorazione della Sala dell’Udienza
Eroi, saggi, profeti e sibille: l’impresa decorativa del Collegio del Cambio *
Il collegio del Cambio è la sede dell’arte dei cambiavalute di Perugia. Il 26 gennaio 1496 l’assemblea dei soci si riunì per discutere quale aspetto dare alla sala maggiore, se dovesse essere decorata dappertutto o in parte e se l’eventuale incarico dovesse essere affidato a Pietro Perugino, allora presente in città, o a qualche altro pittore.
All’unanimità fu presa la decisione di far comunque decorare la sala dell’Udienza, con dipinti o in qualsiasi altro modo, purché l’opera riuscisse bellissima, e fu nominata una commissione che provvedesse a fissare le caratteristiche dei lavori da eseguire, scegliesse il pittore e lo pagasse direttamente. Il primo progetto prevedeva la collocazione di una tavola dipinta in mezzo agli arredi lignei già eseguiti, come nella sede del collegio dei Notai, per la cui fattura il 25 febbraio 1498 furono pagati 5 fiorini ad un falegname locale, ma ben presto maturò la decisione di ricoprire interamente le pareti della sala con una decorazione ad affresco, su consiglio dell’umanista perugino Francesco Maturanzio.
Nel febbraio 1499 sono registrati i primi pagamenti a Pietro Perugino, che vi lavorò con continuità per tutto il corso dell’anno, conducendo a termine l’opera nell’anno 1500, data segnata sulla parasta centrale di destra.
Nel pilastro opposto Perugino dipinse il proprio autoritratto, accompagnato da un’iscrizione laudativa:
“PETRUS PERUSINUS EGREGIUS / PICTOR / PERDITA SI FUERAT PINGENDI / HIC RETTULIT ARTEM / SI NUSQUAM INVENTA EST / HACTENUS IPSE DEDIT”.
Pietro perugino, pittore insigne. Se era stata smarrita l’arte della pittura, egli la ritrovò. Se non era ancora stata inventata egli la portò fino a questo punto"
Il programma iconografico delle pareti è ispirato al trionfo delle Virtù, additate a modello da Catone l’Uticense: le quattro Virtù Cardinali - Prudenza, Giustizia, Fortezza e Temperanza - incarnate da figure esemplari tratte dalla storia greca e romana, e le tre Virtù Teologali - Fede, Carità, Speranza - rappresentate dalla Trasfigurazione di Cristo, dalla Natività e da Profeti e Sibille. Sulla volta è raffigurato il trionfo dei Pianeti, allusivi alla fortuna. Questi affreschi sono il capolavoro della pittura umanistica italiana, superato soltanto dalla decorazione delle Stanze Vaticane di Raffaello.
* A cura di Vittoria Garibaldi e Francesco Federico Mancini (http://www.perugino.it/canale.asp?id=288)
Guercino e l’intelligenza del collezionista Mahon
La mostra sul Seicento italiano allestita a Palazzo Barberini
Un omaggio agli artisti, ma anche a chi ci aveva visto giusto
di Claudia Colasanti (il Fatto, 17.01.2015)
Dietro le quinte di uno sfoggio ineguagliabile di opere del Seicento italiano, sobriamente allestito a Palazzo Barberini - una parata di capolavori che lascia senza fiato - si rivela la presenza silenziosa ma sostanziale di un altro sorprendente protagonista: il collezionista e storico dell’arte britannico Sir Denis Mahon.
Quasi una mostra dentro la mostra, che svela, a tre anni dalla sua scomparsa, il profilo lungimirante dell’artefice altruista di una grande possibilità (anche concreta) di visione, da lui donata nei decenni del Novecento, oltre che all’estero (26 opere attualmente alla National Gallery di Londra), alle nostre più importanti realtà museali (sette dipinti alla Pinacoteca Nazionale di Bologna).
“MAHON aveva occhio, viveva con capolavori e soprattutto amava l’arte”, la sua “insolita” competenza storica, insieme all’intuito, lo condusse a collezionare artisti per tre secoli trascurati dal mercato e dalla critica.
Prima del 1950, in generale tutta l’arte barocca poteva essere acquistata a prezzi competitivi e ciò alimentò la sua abilità critica e la sua passione di mecenate. Mahon fu tra i primi a divulgare la potenzialità di questa pittura scura ma potente, comprendendo che l’arte sacra del Seicento italiano era frutto di maestri in grado di oltrepassare le mode, come avvenne per Caravaggio e poi per Guercino, i Carracci e Guido Reni. Questa è infatti la mostra della sua vita, quella che lui stesso aveva ideato scegliendo ognuno dei quaranta strepitosi dipinti per celebrare il suo centesimo compleanno.
Curata da Mina Gregori, massima esperta di Caravaggio, Anna Coliva, direttrice della Galleria Borghese e da Serjei Androsov dell’Hermitage Museum, la mostra appare elaborata a ritroso - partendo da Guercino e concludendo con Caravaggio - perchè fu proprio Francesco Barbieri, detto il Guercino, l’artista più amato e studiato da Mahon.
Ben quattorci i dipinti esposti, tra i quali spicca “La Madonna del Passero” del 1615: da un fondale scuro emerge la delicatezza del gesto e la vibrazione inaspettata del sottile filo che unisce il volatile alla mano del piccolo Gesù.
Oltre a due bei ritratti di Bernardino Spada, c’è la “Sibilla Persica” (1647), dipinta nei prolifici anni postcaravaggeschi, che aggiunge alla posa malinconica della giovane donna la cura elaboratissima del panneggio.
I Guido Reni, nelle sale successive, evidenziano ancora di più la coerenza dello sguardo di colui che li ha scelti: dall’estatica bellezza del “Cristo coronato di spine” (1635) e del “San Pietro penitente”, fino all’immenso “Atalanta e Ippomene” del 1622 (proveniente da Capodimonte), una sintesi della possibilità di mescolare sagome danzanti emerse dal buio su piani incrociati, ritraendone il colore vivo della pelle.
VERSO la fine del percorso, cinque tele di Caravaggio: non poche, considerando la sua esigua produzione. La mostra ha ospitato, fino ai primi di dicembre, anche “Il suonatore di liuto”, tra le sue opere più celebri, rientrato all’Hermitage di San Pietroburgo. Gli organizzatori auspicavano - vanamente - potesse essere sostituito dal “San Giovanni Battista” dei Musei Capitolini, riconosciuto come autentico - quasi casualmente, dietro la scrivania del Sindaco di Roma - sempre dal lungimirante Denis Mahon.
Infine troviamo anche “Giuditta e Oloferne” (1599), annoverato tra le opere prioritarie di Caravaggio che, oltre alla sconcertante costruzione psicologica comprende due fra i più bei ritratti della storia dell’arte: i visi dall’espressione corrucciata e sconvolta della giovane Giuditta e dell’anziana ancella Abra.
Segnalazioni
Il restauro della cupola del Santuario della Beata Vergine dei Miracoli a Saronno: visite guidate sui ponteggi
di Debora Tosato ("Storie dell’Arte", 12 dicembre 2014)
A compimento dei lavori di restauro condotti sulla cupola del Santuario della Beata Vergine dei Miracoli a Saronno, i visitatori hanno l’opportunità di salire sui ponteggi e osservare da vicino la decorazione pittorica e scultorea nel dettaglio, con l’ausilio di visite guidate.
Si tratta di un’occasione irripetibile, che permette di ammirare l’opera di Gaudenzio Ferrari, autentico “regista” della complessa scenografia che comprende gli affreschi con angeli musicanti (1534-1536) e le sculture lignee policrome dei Profeti e delle Sibille, realizzate da Giulio Oggioni e decorate da Alberto da Lodi su disegno dello stesso Ferrari.
La scultura lignea della Madonna accompagnata in cielo da angeli, e quella del Padre Eterno - circondato da una schiera di angeli danzanti - sono state invece realizzate da Andrea da Milano, ultimate da Battista da Milano e decorate dallo stesso Alberto da Lodi.
Le visite, inizialmente previste fino al 14 dicembre, saranno forse prorogate fino al giorno dell’Epifania.
CENTRO PUECHER
Spazio del sole e della luna
Via U. Dini 7 - 20141 Milano
(tram 3 e 15; MM2-capolinea piazza Abbiategrasso)
Mercoledì 24 settembre 2014, ore 18.00
SIBILLE E PROFETI
La questione antropologica, oggi
Presentazione del libro di Federico La Sala,
Della terra, il brillante colore,
Edizioni Nuove Scritture, Abbiategrasso 2013
Modera
Giuseppe Deiana
Intervengono
Nicola Fanizza, docente di Storia e Filosofia
Franca Gusmini, docente di Latino e Greco
Attilio Mangano, scrittore e saggista
Federico La Sala, autore del libro, docente di Storia e Filosofia
Dibattito
STUDENTI E CITTADINI SONO INVITATI
Agli studenti verrà rilasciato un attestato di partecipazione
Con il patrocinio del Consiglio di Zona 5
Il presidente del CZ5 Il presidente della Comm.ne Cultura
Aldo Ugliano Michela Fiore
Sibille e profeti: sulle tracce di Benjamin
di Nicola Fanizza (Nazione Indiana, 10 aprile 2014)
Il libro di Federico La Sala - Della Terra, il brillante colore, Prefazione di Fulvio Papi, Edizioni nuove scritture, Milano 2013 - si configura come un viaggio nei sotterranei della cultura occidentale. Il protagonista del viaggio è il classico flâneur, che ha la straordinaria capacità di cogliere nell’opacità delle immagini del passato la luce che rende visibile le «perle» e i «coralli»: ossia tutto ciò che, sottraendosi al morso del tempo, è destinato all’eternità!
Nella prima parte del suo lavoro, La Sala adopera una sorta di «scandaglio archeologico» per ricostruire la preistoria del presente: ossia la genealogia dei concetti che strutturano tutt’oggi il nostro modo di pensare e di stare nel mondo. Si tratta di una ricostruzione che, pur comportando il rifiuto sistematico della ricerca, non rinuncia tuttavia alla contestualizzazione dei saperi in gioco. L’origine dei modelli del pensiero, infatti, non viene individuata tanto nella tradizionale storia della filosofia, quanto nella storia delle istituzioni totali: ovvero nella dimensione del Sacro, che con i miti e le pratiche rituali permette - ieri come oggi - la comunicazione fra gli individui e dà un senso alla nostra stessa vita.
Il «luogo d’inizio» è la piccola chiesa di S. Maria del Carmine, a Contursi Terme. Qui nel 1989 - in seguito ai lavori di restauro approntati dopo il terremoto del 1980 -, è stato scoperto un poema pittorico di un ignoto carmelitano degli inizi del XVII secolo. La pittura è espressione dell’immaginario rinascimentale che colloca la filosofia e la teologia pagana - Prisca Theologia - in sequenza col Cristianesimo. Il poema pittorico di Contursi descrive il viaggio iniziatico di un pellegrino che, accompagnato da dodici Sibille e dodici Profeti, giunge alla presenza di Maria madre del Cristo. Le Sibille di Contursi vantano parentele illustri: sono presenti nella cattedrale di Siena, nell’appartamento Borgia in Vaticano, nel tempio Malatestiano di Rimini e, infine, nella Cappella Sistina di Michelangelo.
Il rapporto di filiazione fra la teologia cristiana e quella pagana - la tesi che la storia del Cristianesimo cominciava prima di Cristo come attestavano le testimonianze profetiche ebree e pagane - non fu instillato nel movimento umanistico sulla scorta di un semplice fraintendimento: ossia la pubblicazione da parte di Gemisto Pletone degli Oracoli caldaici - risalenti al II secolo dopo Cristo - come scritti precristiani. L’Umanesimo più che recuperare il Mondo Classico nei fatti valorizza la cultura della Tarda Antichità. Non vengono recuperati Platone o Aristotele, ma Plotino, gli Oracoli caldaici, gli Scritti ermetici e gli Scritti degli antichi Teosofi che risalgono per l’appunto al II secolo. La stessa cosa si può dire del movimento nazional socialista. Georges Dumezil ha dimostrato che i nazisti pensavano di ridare vita alle divinità degli antichi Germani mentre di fatto riciclavano materiali mitici risalenti all’età medievale.
Tuttavia ciò che ci fa decidere rispetto a un movimento non è tanto il recupero più o meno selettivo di un passato mitizzato - ogni movimento rielabora il materiale mitico della tradizione (il mito è nella sua essenza un portatore di senso nei confronti del presente e, insieme, del passato!) -. Ciò che ci fa decidere sono i nuovi contenuti, ovvero la rivendicazione o negazione di forme di sociabilità più giuste e più libere, di nuove pratiche di liberazione e di nuovi percorsi di conoscenza. Su questo piano, a più di cinquecento anni di distanza, va riconosciuto il valore profetico della cultura del Rinascimento: è un’onda lunga che mantiene intatta la sua pregnanza di significato e il suo vigore!
E’ da questo ultimo spunto che s’origina e si articola il discorso antropologico di La Sala, che scorge una evidente analogia fra il ruolo svolto dalle Sibille nelle pratiche cultuali della religione pagana e la funzione che le «figlie del Sole» svolgono nel poema di Parmenide. Anche qui il viaggio-rivelazione del prescelto è tracciato dalle dee-fanciulle, sono le donne a consentire il transito nei riti di passaggio.
La funzione della donna come viatico del transito nei riti di passaggio pervade l’intero immaginario ellenico. Qui erano presenti due diverse rappresentazioni della vita. Il fantasma della zōé indicava la vita che non contemplava la morte: ossia la vita come specie, la vita infinta, priva di determinazioni, senza accidenti. Viceversa il fantasma della bios indicava la vita che contempla la morte: ovvero la vita che ha un inizio e una fine, la vita determinata con i suoi accidenti. Ebbene nella religione dionisiaca la zōé - la vita indistruttibile! - assume la forma maschile, la genesi delle anime assume, invece, quella femminile. Dioniso e Arianna stanno a indicare - dice Carl Kerenyi -, rispettivamente, l’eterno insorgere e trascorrere della zōé nella nascita e nei diversi stadi della vita. Il ruolo di Arianna non venne, tuttavia, compreso da Nietzsche, il quale negli ultimi anni della sua vita si chiedeva in modo ossessivo: «Chi è Arianna?».
Sta di fatto che il venire alla luce del «soggetto» nel mondo ellenico - un soggetto che si costituisce attraverso il discorso profetico, del saggio, del tecnico e del parresiates - si configura come un’emergenza che riguarda solo gli uomini e giammai le donne. Di fatto la Pizia nell’antica Grecia e le Sibille nel mondo latino sono solo il ventriloquo - un corpo senz’anima! - di cui si servono le diverse divinità per veicolare le loro oscure profezie!
Viceversa nell’immaginario rinascimentale le Sibille assumono, sulla base della rivendicazione dell’uguaglianza fra l’uomo e la donna, l’inedito profilo di avanguardie femminili. Di fatto, nelle immagini cultuali che costellano le chiese rinascimentali, le donne vengono rappresentate per la prima volta come soggette sovrane - le donne rappresentate da Michelangelo sono, per la prima volta, pensose! -, poiché svolgono, allo stesso modo dei Profeti, una funzione messianica. La cifra del Rinascimento, pertanto, va individuata proprio nella parola che sta a evocare, per l’appunto, la Rinascenza del soggetto!
Nonostante la spinta propulsiva della cultura rinascimentale, nei secoli successivi la donna non è tuttavia riuscita a farsi riconoscere come soggetto autonomo della comunicazione, come soggetto che dice il vero.
La storia di questo disconoscimento è costellata dalle tante sofferenze che le donne hanno subito nel corso dei secoli e dalle tante lacrime amare che tutt’oggi versano. Una sofferenza che suscita nell’animo nobile un sentimento di pietà che va comunque custodito attraverso i secoli. Non è inutile qui ricordare: la filosofa e scienziata Ipazia - la prima martire del libero pensiero! -, che nel 415, in Egitto, fu trucidata dagli fondamentalisti cristiani per aver rivendicato il diritto di costituirsi come soggetto che dice il vero; la persecuzione delle Streghe, che ebbe luogo non nel Medioevo ma in Età Moderna e, fra i giudici che le condannavano, Jean Bodin, l’«Aristotele del Rinascimento!»; le disposizioni del regime fascista che vietavano alle donne l’insegnamento della filosofia nelle nostre scuole; e, infine, la negazione dei diritti civili e, insieme, politici delle donne nei Paesi islamici. D’altra parte, va rilevato che fino alla Grande guerra le donne avevano il diritto di voto soltanto in quattro Paesi - Nuova Zelanda, Norvegia, Australia e Finlandia -; in Italia l’hanno ottenuto nel 1946 e in Svizzera solo nel 1974.
Nella seconda parte del suo lavoro, La Sala ritiene che sia auspicabile mettersi alle spalle le forme di sociabilità edipiche che fino ad ora hanno precluso alla maggior parte degli individui - non solo alle donne! - l’accesso alla sovranità: ossia il diritto di costituirsi come soggetti autonomi, il diritto di prendere la parola. Sostiene, inoltre, che le dinamiche relazionali che inibiscono l’autonomia delle donne - dinamiche che signoreggiano tutt’oggi nell’immaginario del modo occidentale - sono riconducibili da una parte all’alleanza tra la madre e il figlio - il mito di Edipo! - che ritroviamo nel mondo ellenico; e, dall’altra, all’alleanza fra il padre e il figlio - Il Vecchio Testamento! - che ritroviamo, invece, nel mondo ebraico.
La liberazione è possibile - dice La Sala - solo se usciamo dall’orizzonte teorico che la tradizione dei nostri padri ci ha trasmesso. Le forme della narrazione, della politica, della retorica, della dialettica, insieme all’esiziale corredo di scissioni (anima e corpo, la ragione e i sensi, ecc.) - tutte invenzioni del genio Mediterraneo - sono state adoperate per troppo tempo e, sempre più, appaiono logore. D’altra parte, i miti e i riti del mondo ellenico, ormai, sono diventati letteratura, ossia oggetto di semplice godimento estetico - non sono portatori di senso! - e, a volte, autentici detriti!
Rousseau, Kant, Feuerbach, Marx e Nietzsche - ciascuno per suo conto e con diverse modalità di pensiero - hanno rivendicato l’esigenza di mediare fra le diverse scissioni. Ciò nondimeno non sono riusciti a produrre un paradigma radicalmente nuovo, poiché hanno continuato a pensare con le categorie del mondo ellenico.
Da qui l’esigenza di pervenire a nuova Rivoluzione copernicana, che è possibile solo attraverso una nuova percezione dello spazio. In questo senso La Sala ci invita ad uscire dalla Terra per collocarci alla giusta distanza. La spazializzazione del soggetto con la sua giusta dose di trascendenza ci permetterà finalmente di vedere la Terra con il suo brillante colore come la Nostra Terra. Nondimeno La Sala è altresì consapevole che un nuovo ordine simbolico del mondo è possibile solo attraverso lo sviluppo dello spazio sociale.
Nell’attesa che ci sia una ripresa dell’effervescenza sociale e, insieme, una rifioritura dei movimenti di liberazione, il flâneur può cogliere già da ora in alcune forme di sociabilità disseminate sull’esergo del sistema la luce di una nuova bellezza, lo splendore che emerge dalle pratiche sociali in cui tutti gli individui signoreggiano come soggetti autonomi della comunicazione.
2013, nov 27 *
Della terra, il brillante colore
Il libro di Federico La Sala offre un punto di vista raro. Quello di un pensiero maschile che osserva e riflette e su alcuni pilastri del pensero filosofico occidentale in modo non neutro ma a partire dal riconoscimento della propria parzialità - di individuo e di genere.
Il libro si compone di più saggi che affondano nel profondo delle nostre radici culturali come “carotaggi” a campione. La sensazione all’inizio spaesante di saltare da un frammento all’altro in campi diversi del sapere e in momenti diversi della storia è ricomposta nel filo conduttore che pian piano si manifesta. Più che un filo conduttore teorico, la tensione etica, intellettuale, di cuore, di un essere umano in ricerca.
Nella prima parte del testo l’autore si spinge in regioni dove la religione cattolica si intreccia con la tradizione ermetica. Incontriamo Ermete Trismegisto e la grande stagione Rinascimentale poi affogata nel rigore censorio della Controriforma. Incontriamo diverse manifestazioni delle Sibille, qui visibili nella riproduzione di xilografie di Filippo Barberi (1481) - una versione inedita. Percorsi incrociati tra Kabbalah, carmelitani e profeti islamici.
Sembra di navigare su un fiume sotterraneo che congiunge Oriente e Occidente. Così arriviamo alle note su Parmenide, Freud, Kant, Rousseau - tra gli altri. L’autore offre spunti e visioni prendendoli da un bagaglio di conoscenze che spazia dalla storia della religione alla filosofia alla psicoanalisi. Si alternano luce solare e lunare. Tra le tante le citazioni, il ritmo conciso e il gesto schietto, senza pose accademiche, rendono la lettura scorrevole. Nella pennellata di Fulvio Papi nell’introduzione, sulla spinta della lettura di questo “testo in piena”:
La Sala, con una mossa certamente ad effetto e piena di provocazione, dice: “guardiamo il nostro ombelico”, riconosciamoci come figli di una maternità e di una paternità che siano la terra del nostro fiorire e non i luoghi delle nostre scissioni.
*
Della terra, il brillante colore. Parmenide, una “Cappella Sistina” carmelitana con 12 Sibille (1608), le xilografie di Filippo Barbieri (1481) e la domanda antropologica
di Federico La Sala,
Edizioni Nuove Scritture, Milano, 2013
156 p., 15€
Della Terra, il brillante colore
Parmenide, una “Cappella Sistina” carmelitana
con 12 Sibille (1608),
le xilografie di Filippo Barberi (1481)
e la domanda antropologica
Introduzione di Fulvio Papi
Edizioni Nuove Scritture
Pagg. 156 € 15.00
Per richieste a:
Ed.Nuove Scritture
Tel. 02-9462323
“Il luogo di inizio è nella chiesetta di S. Maria del Carmine, a Contursi, dove, a causa di recenti restauri, viene scoperto un poema pittorico (tempera su muro) di un ignoto carmelitano dell’inizio
del ’600. Il testo raffigura le Sibille che annunciano al mondo pagano la prossima nascita del Cristianesimo. Le Sibille di Contursi hanno parentele più celebri nella cattedrale di Siena, nell’appartamento Borgia in Vaticano, nel Tempio Malatestiano di Rimini, nella Cappella Sistina di Michelangelo. La pittura disegna l’eclettismo ermetico-cabalistico-neoplatonico rinascimentale
che colloca la filosofia e la teologia pagana in sequenza con il Cristianesimo. Ne deriva un’immagine del mondo come presenza divina nella quale abita l’uomo come unità di corpo e anima.”
(Dall’Introduzione del filosofo Fulvio Papi)
SARONNO. Santuario della Beata Vergine dei Miracoli *
LE SIBILLE NELL’ARTE *
Le raffigurazioni delle Sibille nell’arte sacra appaiono nel tardo Medioevo e diventa-no frequenti nel Rinascimento, ma in seguito gradualmente cessarono. Le Sibille ven-gono sempre raffigurate come profetesse spesso in corrispondenza a profeti biblici. Di solito sono raffigurate con un libro o un cartiglio nella mano, analoghi a quelli dei profeti.
Sembra che la più antica Sibilla raffigurata nell’arte sacra sia quella Persica, dipinta nel sec. XI tra la serie dei profeti in un pennacchio della chiesa di S. Angelo in For-mis. Una Sibilla appare scolpita in bassorilievo nel pulpito di Sessa Aurunca (sec. XII-XIII). La più notevole raffigurazione delle Sibille del tardo medioevo è dovuta a Giovanni Pisano, che adornò con esse sia il pulpito della cattedrale di Pisa, che quello della chiesa di S. Andrea a Pistoia, collocandole al disopra dei capitelli delle colonni-ne che reggono i pulpiti stessi.
Agli albori del Rinascimento il Beato Angelico dipinse la Sibilla Eritrea da sola in mezzo all’intera serie dei profeti nell’incorniciatura della grande scena della Crocifis-sione di Gesù, affrescata nella sala capitolare del Convento di S. Marco a Firenze.
Di Andrea del Castagno si ha contemporaneamente la vigorosa Sibilla Cumana, af-frescata per la Villa Pandolfini a Legnaia ed ora conservata nel convento di S. Apol-lonia a Firenze. Quattro graziose statuette di Sibille si vedono intercalate con quelle dei profeti nei fregi verticali della magnifica porta del Battistero di Firenze, opera di Lorenzo Ghiberti.
Nello splendido pavimento del duomo di Siena, decorato di graffiti in marmo, dieci Sibille sono raffigurate nelle navate laterali.
Domenico Ghirlandaio affrescò nel 1484 quattro Sibille negli spartimenti triangolari della volta della cappella Sassetti nella chiesa della SS. Trinità a Firenze.
Sono opera del Pinturicchio e della sua scuola le Sibille affrescate nell’Appartamento Borgia in Vaticano (tra il 1492-1494): le Sibille sono affiancate ai Profeti in questo ordine:
Geremia e la Sibilla Frigia
Mosè e la Sibilla Delfica
Daniele e la Sibilla Eritrea
Baruc e la Sibilla Samia
Zaccaria e la Sibilla Persica
Abdia e la Sibilla Libica
Aggeo e la Sibilla Cumana
Amos e la Sibilla Europea
Geremia e la Sibilla Agrippina
Isaia e la Sibilla Ellespontica
Michea e la Sibilla Tiburtina
Ezechiele e la Sibilla Cimneria.
Ma la più famose Sibille sono quelle di Michelangelo dipinte sulla volta del-la Cappella Sistina. Vi troviamo cinque Sibille alternate a sette Profeti (1509):
Sibilla Delfica
Sibilla Eritrea
Sibilla Cumana
Sibilla Persica
Sibilla Libica.
Nello stesso periodo, caratterizzato dalla riscoperta e dalla valorizzazione della cultu-ra classica e dell’Umanesimo, alla sommità delle sue due grandi scene della Presenta-zione di Gesù al Tempio e dell’Adorazione dei Magi (1525) Bernardino Luini ha dipinto rispettivamente la Sibilla Persica e quella Libica, la Sibilla Delfica e quella Chimica, ciascuna con rispettivo cartiglio profetico. Le due scene evangeliche, infatti, vogliono illustrare il significato della Nascita del Redentore, che è Messia di tutti; e-gli è sì di discendenza israelitica, ma è pure “luce delle genti” ed è stato subito rico-nosciuto dai Magi, espressione del mondo pagano.
Quando si trattò di comporre la magnifica decorazione della cupola Gaudenzio Ferra-ri espose il suo progetto e volle collocare nelle nicchie appaiate sui dodici lati del tamburo i Profeti affiancati dalle Sibille. Le 22 statue lignee vennero intagliate da Giulio Oggiono da Varese e decorate da Al-berto da Lodi tra il 1539 e il 1544. A detta di Padre Sevesi, nel suo volume “Il santua-rio di Saronno” (1926), secondo i cartigli attribuiti le statue lignee risultavano così collocate in successione, guardando alla destra della Madonna Assunta:
Davide e Sibilla Cumana
Baruch e Sibilla Delfica
Michea e Sibilla Tiburtina
Isaia e Sibilla Persica
Abacuc e Sibilla Libica
(Aggeo e Sibilla Eritrea)
Abdia e Sibilla Ellespontica
Geremia e Sibilla Europea
Osea e sibilla Chimica
Daniele e Sibilla Frigia
Ezechiele e Sibilla Samia (mancando i cartigli questa attribuzione risultava incerta).
Attualmente in Santuario sono presenti solo 10 coppie, perché le statue del profeta Aggeo e della Sibilla Eritrea sono state trafugate intorno agli anni ’50 del sec. scorso e sono attualmente irreperibili.
* TESTO RIPRESO DA: SARONNO: PROFETI E SIBILLE IN SANTUARIO
* SANTUARIO DI SARONNO: Restauri 2011 - 2012. Le statue lignee della meravigliosa cupola del Santuario di Saronno
Teologi italiani, riprendete la parola, senza paura e senza reticenze. Appello di preti e religiosi
di Luca Kocci
in “Adista” n. 1 del 7 gennaio 2012
Il “dio denaro” governa il mondo, la guerra è tornata ad essere «continuazione della politica», i cambiamenti climatici sconvolgono il pianeta, i poveri aumentano, eppure i teologi tacciono, forse perché sono convinti che la teologia viva fuori dal mondo e non debba avere rapporti con la storia.
Ma non è così, anzi è compito della teologia e dei teologi «fare sogni» incarnati nella realtà e «diventare profeti» nel nostro tempo. Lo dicono, con forza e passione, in una “lettera aperta” a tutti i teologi e le teologhe italiane, alcuni parroci, preti e religiosi:
Alessandro Santoro (prete della Comunità delle Piagge di Firenze), la teologa domenicana Antonietta Potente, Andrea Bigalli (prete di S. Andrea in Percussina, Firenze), Pasquale Gentili (parroco di Sorrivoli, Cesena), Benito Fusco (frate dei Servi di Maria), Pier Luigi Di Piazza del Centro Balducci di Zugliano (Udine) e Paolo Tofani (parroco di Agliana, Pistoia).
Chiedono loro di riprendere la parola e li invitano il prossimo 20 gennaio (dalle 17.30) alla Comunità delle Piagge di Firenze, per un «incontro aperto» su tali questioni. Occasione forse unica - e comunque la prima da diversi anni a questa parte - per rompere il silenzio, per riscoprire la «Bibbia e il giornale», come affermava il teologo evangelico Karl Barth («È necessario che tra la Bibbia e il giornale, come tra due poli di un arco elettrico, comincino ad accendersi lampi di luce per rischiarare la terra») o la lezione della Teologia della liberazione capace di coniugare Parola di Dio e realtà sociale di oppressione. Di seguito Il testo integrale della lettera.
Lettera alle teologhe e ai teologi italiani di alcuni presbiteri e teologi
in “Adista” n. 1 del 7 gennaio 2012 *
«Dove stai tu quando si soffrono cambiamenti climatici e cambiamenti di umore? Dove stai tu mentre il nostro pianeta va al collasso e le multinazionali e le banche, vendute al dio profitto e al dio denaro, governano il mondo? Dove stai tu quando si deve decidere se intervenire per sostenere un intervento armato della Nato nella terra degli altri? Dove stai tu quando si riducono tutte le spese per il sociale, la sanità e la scuola, mentre continuano ad aumentare i bilanci della difesa e si spendono cifre folli per le armi? Dove stai tu quando la gente dei Sud del mondo si sospinge fino alle spiagge di Lampedusa e viene ricacciata indietro o chiusa nei Cie, colpevoli soltanto di immigrazione? Dove stai tu quando qualcuno dice che l’ex primo ministro è meglio che un politico dichiarato gay, perché il primo è “secondo natura”? Dove stai tu quando il bilancio familiare è insufficiente e si vive una precarietà che riduce a brandelli sogni e progetti? Dove stai tu quando gli indignados scendono in piazza o fanno rete virtuale su internet?
E ancora... perché accettiamo solamente che qualcuno tenga le chiavi del Regno e decida chi farci entrare? Forse tu ci sei? E se ci sei, ci sei clandestinamente perché la tua teologia non appartiene a questi ambiti?
Quando il profeta Gioele (3,1-2) dice che tutti diventeranno profeti e gli anziani faranno sogni e i giovani avranno visioni, a chi si rivolge? Forse non parla a tutti gli uomini e le donne del nostro tempo? E allora, se fare sogni e interpretarli e diventare profeti è proprio della teologia, non è forse vero che tutti i credenti sono teologi? E perché non glielo diciamo più?».
Alessandro Santoro (prete della Comunità delle Piagge di Firenze),
Antonietta Potente (teologa domenicana),
Andrea Bigalli (prete di S. Andrea in Percussina, Firenze),
Pasquale Gentili (parroco di Sorrivoli, Cesena),
Benito Fusco (frate dei Servi di Maria),
Pier Luigi Di Piazza del Centro Balducci di Zugliano (Udine),
Paolo Tofani (parroco di Agliana, Pistoia)
«Arsenio Lupin» colpisce ancora Spariti due testi del Quattrocento
di Paola Fucilieri *
«In fondo anche questo è un modo di diffusione del libro» commenta scherzoso Marcello Dell’Utri, direttore della Fondazione della Biblioteca di via Senato e organizzatore della 19ª mostra del libro antico. Ieri mattina alle 11 infatti, la folla rumorosa e incontrollabile del primo giorno di apertura al pubblico è stata un elemento determinante nel rendere l’inizio di questa due giorni al Palazzo della Permanente di via Turati davvero «indimenticabile».
Il ladro, rivelatosi conoscitore del settore ma anche abilissimo professionista del mordi e fuggi, ha approfittato dei primi 20 minuti di caos all’ingresso della mostra per farsi largo tra gli stand, visitare due espositori intenti a sistemare i libri nelle loro vetrine, rubare inosservato due preziosi incunaboli del valore rispettivamente di 24mila e 6mila euro e sparire nel nulla.
Il volume più prezioso tra quelli scomparsi (la mostra non è nuova a questo genere di episodi: era già successo nell’edizione del 2004, ndr) si trovava allo stand numero 7 ed è, in realtà, un piccolo libro, non più alto di 18 centimetri e largo 125, con sibille e oracoli effigiati, scritto da un teologo siciliano del ’400, Filippo de Barberis e stampato dal primo tipografo italiano, Filippo de Lignamine. «È un’edizione rara e ce n’erano due sole - spiega Filippo Rotundo, titolare della libreria antiquaria Philobiblon con sede a Roma, Milano e Londra, e proprietario del prezioso incunabolo -. Questa rubata, la seconda, era quella con più illustrazioni: 29. Si trovava qui, nella vetrina interna, che avevo lasciata aperta leggermente mentre stavo mostrando un altro libro a un cliente. - ci spiega indicando il vetro dietro al quale sono sistemati i volumi -. Erano le 11.20 circa. Il ladro deve essere stato velocissimo, grande conoscitore e... Con una manina sottile! Vede? Accanto al volume rubato ce ne sono molti altri che valgono molto, molto meno. E non li ha presi. Per fortuna siamo assicurati per l’intero valore: 24 mila euro».
Non è assicurato, invece, Giuseppe Solmi, dell’omonimo studio di cataloghi monografici di Ozzano Emilia (Bologna) e che, allo stand 10, è stato derubato qualche minuto dopo il collega. «Eravamo in tre: io, mia moglie Daniela (è lei che ha fatto la denuncia dei furti della mostra ai carabinieri) e la nostra aiutante, ma c’era una forte affluenza e noi stavamo sistemando» ci spiega. Anche lui è convinto che il ladro sia un vero conoscitore perché pure il testo di precetti di medicina della scuola di Salerno sparito da una delle sue vetrine interne - anche questo un piccolo libro ma non illustrato e stampato a Parigi nel 1506, il «De triplici vita» di Marsilio Ficino - era sì un oggetto curioso, ma che poteva far gola solo a un bibliofilo.
«All’apertura la vigilanza ha fatto depositare a tutti i visitatori borse e borsine dell’ingresso alla mostra. Dopo il furto abbiamo obbligato le persone a lasciar giù anche i cappotti» conclude Dell’Utri.
Vi presento Pletone (e non è un refuso...)
Il pensatore bizantino che innestò la dottrina platonica nel Quattrocento
«Trattato delle virtù»: l’opera di uno fra i primi geni del moderno, curioso di ogni ramo del sapere
Stimato e tradotto da Leopardi, detestato da tutte le chiese, un utopista radicale, politico e religioso
di Silvia Ronchey (La Stampa-Tuttolibri, 23.04.2011)
Che cosa sarebbe il nostro mondo senza Platone? Infinitamente diverso e certamente peggiore, lo sanno tutti. Ma pochi sanno che lo sarebbe anche senza un altro filosofo, suo quasi omonimo: Pletone. Non è uno scherzo, né, o non solo, un calembour. Il nostro pensiero, la nostra cultura, la nostra politica, questa nostra civiltà occidentale, che ha origine nella Grecia antica ma è nel Rinascimento che si forma alla modernità e appunto rinasce, non avrebbero avuto il loro imprinting nella filosofia di Platone se a trasmetterla all’internazionale degli umanisti europei non fosse stato quel grandissimo filosofo bizantino.
Il suo vero nome, Gemisto, nel greco del Quattrocento voleva dire «colmo» ( gemistos ); e lo stesso o quasi - «pieno», «traboccante» - significava, nel greco classico, lo pseudonimo Plethon, Pletone, che si era dato in omaggio al filosofo per cui traboccava d’amore. Con questo nome era noto in tutto il mondo, come spiega Moreno Neri nello straordinario libro - un vero evento - che oggi ci consegna la traduzione del più diffuso fra i testi di Pletone, il Trattato delle virtù , e in cui più di 400 pagine sono dedicate a un saggio introduttivo che ha lo spessore intellettuale e critico oltreché la lunghezza di un’esemplare monografia.
Da Platone a Pletone, la filosofia platonica, per dieci secoli, aveva seguito un cammino carsico, ininterrotto ma spesso sotterraneo. Inizialmente cristianizzata, eppure quasi sempre coniugata a un sincretismo religioso intrinseco ai suoi princìpi e a un neopaganesimo filosofico condiviso anche dagli esponenti ecclesiastici delle più o meno eretiche o clandestine «eterìe» o «fratrie» che seguitarono a professarla anche dopo la sua eclissi dalla teologia ufficiale divenuta aristotelica, solo alla Scuola di Pletone sarebbe riemersa alla piena luce. E con la venuta del Gran Maestro e dei suoi discepoli in Italia per il concilio fiorentino del 1439 si sarebbe trasmessa agli intellettuali e ai politici riuniti in suo ascolto.
Fu un preciso passaggio di dottrine, uomini e testi, che da Bisanzio ormai prossima a cadere sotto il dominio turco vennero portati in salvo nell’Europa occidentale. Fu un deliberato passaggio di consegne, in nome del quale Cosimo de’ Medici fondò l’accademia platonica. E quella filosofia diventò, come ha scritto Eugenio Garin, «l’ideologia della sovversione europea».
«E’ solo grazie a una combinazione di talento e fortuna che Marsilio Ficino - scrive Neri resta un nome che non si scorda, mentre quello di Giorgio Gemisto è ignoto ai più, così come Shakespeare è un’icona internazionale e Marlowe no».
Di Pletone, come scrisse il suo grande estimatore e traduttore Giacomo Leopardi, «la fama tace al presente, non per altra causa se non che la celebrità degli uomini, come in effetti ogni cosa, dipende più da fortuna che da ragione, e nessuno può assicurarsi di acquistarla per merito, quantunque grande».
In realtà, non sono certo mancate le ragioni per dimenticare Gemisto, o per travisarlo, se non per diffamarlo, spiega Neri, il primo dopo Leopardi ad essersi misurato vittoriosamente con il suo greco splendido e impossibile, musicale e burrascoso, arcaico e futuribile, che ha dissuaso molti dal tradurre la sua opera omnia, di cui invece questo Trattato è il primo volume.
«Detestato da tutte le chiese costituite, finita sul rogo la sua opera più importante» - il libro delle Leggi, bruciato dal patriarca Gennadio poco dopo la sua morte -, «Pletone diede vita a entusiasmi come a odi non passeggeri tra le persone più eccellenti del Rinascimento», scrive Neri. «Fu uno dei primi geni del moderno, mosso da una curiosità quasi topografica per ogni ramo del sapere».
Oltre che un teologo neopagano e un eretico, era un utopista che «aveva trovato nelle dottrine platoniche e neoplatoniche, nei mitici testi zoroastriani, orfici e pitagorici, il fondamento di un radicale programma di rinnovamento politico e religioso, di una rinascita della più antica sapienza che fosse l’inizio di un nuovo tempo dell’esperienza umana».
Alla sapienza nascosta del cristianesimo non potevano non essere arrivati, riteneva Pletone, gli antichi saggi ellenici e orientali. Far rivivere i loro testi e riti avrebbe portato a una religione filosofica in cui le diversità dei culti e delle confessioni storiche sarebbero state irrilevanti per gli iniziati di un alto clero illuminato. In quel mondo nuovo, ogni devozione sarebbe stata ammessa e libera di prosperare.
Pletone affermava che tutto il mondo entro pochi anni avrebbe accolto una sola religione con un solo animo, una sola mente e una sola predicazione. «Cristiana o maomettana?», gli avevano chiesto. «Nessuna delle due - aveva risposto - ma simile a quella dei gentili. Solo quando Maometto e Cristo saranno dimenticati, la verità vera splenderà su tutte le terre del mondo». I filosofi musulmani amarono quanto gli umanisti italiani le sue opere e poco dopo la sua morte ciò che restava del libro delle Leggi fu tradotto in arabo.
La cappella Suardi è un oratorio situato all’interno della villa di proprietà dei conti Suardi a Trescore Balneario (provincia di Bergamo). Dedicato a santa Barbara e santa Brigida, fu costruita dai cugini Giovan Battista e Maffeo Suardi, ed è stato affrescato completamente nel 1524 da Lorenzo Lotto per volere della famiglia di Giovan Battista, con il Cristo-Vite e Storie delle vite di sante.
[...]
Storie di santa Brigida
La parete di destra (sud) è occupata da tre riquadri con le Storie di santa Brigida, separate dall’intrusione nelle pareti dell’oratorio dell’ingresso e di due finestre; ognuna delle scene contiene diversi episodi della vita della santa, unite da un finto muro continuo sul quale si aprono dei tondi, da dove si affacciano profeti e sibille[3]: David, la Sibilla Eritrea, Isaia, la Sibilla Samia, Geremia, la Sibilla Delfica, Ezechiele, la Sibilla Cimmeria, Michea, la Sibilla Ellespontica[3]. Sopra queste immagini i cartigli sono ancora ben leggibili[3].
* FONTE: CAPPELLA SUARDI (Wikipedia - Ripresa parziale)
On line i codici vaticani
di Franca Giansoldati (Il Messaggero, 31 gennaio 2013)
L’INNOVAZIONE
Sì i miracoli tecnologici esistono. Eccome se esistono. A partire da oggi a chiunque, in qualsiasi latitudine del pianeta si trovi, è consentito sfogliare col proprio computer, pagina dopo pagina, i 256 codici miniati che fanno parte del Fondo Palatino della Biblioteca Apostolica Vaticana.
Manoscritti rarissimi conservati gelosamente in un bunker sotto il Palazzo Apostolico in condizioni ideali - al buio totale, ad un tasso di umidità relativa del 50%, tra i 18 e i 20 gradi centigradi - ma che una gigantesca operazione di digitalizzazione intrapresa da Benedetto XVI ha reso finalmente fruibili.
E’ facile. Basta andare sul sito della Biblioteca (http://www.vaticanlibrary.va) per iniziare uno straordinario viaggio nel tempo e nello spazio. Ci sono voluti due anni, una montagna di lavoro, una equipe di 12 persone impiegate in pianta stabile e una tecnologia all’avanguardia per arrivare ad una riproduzione perfetta e ad altissima definizione.
UN CLIC SUI CAPOLAVORI
Basta un clic e voilà. Dall’elenco dei numeri che appaiono sul sito, dall’uno al 256, tanti sono i volumi riprodotti, si materializzano i capolavori, prendono corpo le immagini, si svelano i colori sapientemente miscelati dai monaci che nel Medio Evo operavano silenziosi facendo arrivare fino a noi questo sterminato giacimento. Evangeliari, commentari, trattati di morale, studi sulla geografia, atlanti di Battista Agnese ma anche opere filosofiche, commedie.
Tra i libri, spulciando, ci sono pure Petrarca e Alighieri. E poi pergamene, classici come il De Officis, un’opera filosofica di Cicerone che tratta dei doveri a cui ogni uomo deve attenersi in quanto membro dello Stato; c’è il registro delle epistole di Gregorio Magno, i Fatti e detti memorabili di Valerio Massimo che passa in rassegna dei vizi e delle virtù illustrandoli attraverso personaggi ed episodi storici.
L’oro dei capolettera sfavillano illuminando i colori vividi dei fregi arabescati a tempera, racchiudendo frasi latine sulle quali, si sono esercitate schiere di liceali per le versioni.
Eccone una, presa tra tante: «Presso gli antichi nessuna azione, non solo pubblica, ma anche privata, veniva compiuta, se prima non fossero stati presi i relativi auspìci. Questa consuetudine ha fatto in modo che anche oggi gli àuspici partecipino alle nozze: ed anche se costoro non chiedono più gli auspìci, il loro stesso nome rivendica ad essi le vestigia dell’antica usanza».
IL TRATTATO DELL’IMPERATORE
Forse l’opera più curiosa del fondo Palatino, ricchissima di illustrazioni e catalogata al numero 1071 è il trattato di falconeria di Federico II, il De arte venandi cum avibus. L’imperatore tedesco, a capo del Sacro Romano Impero era letteralmente affascinato dalla caccia con il falco da introdurla e diffonderla in occidente. La considerava non solo uno svago ma una manifestazione simbolica del potere legata a precisi rituali. Federico II (1194-1250) si documentò a fondo, convocando a corte diversi falconieri arabi. Dal mondo arabo imparò l’uso del cappuccio in sostituzione della tecnica «di cigliare», che consisteva nel cucire le palpebre dei rapaci per poi allentare gradualmente la chiusura della sutura con l’avanzare del livello di addestramento.
Il trattato sulla falconeria fu miniato subito dopo la sua morte e contiene due particolarità. La prima è il ritratto, quasi fotografico, dell’imperatore che appare nella pagina di introduzione. «Chi lo realizzò conosceva sicuramente quest’uomo» spiega Ambrogio Piazzoni, vice Prefetto della Biblioteca Vaticana. La seconda cosa singolare riguarda la completezza delle illustrazioni sulle specie di uccelli esistenti, molte delle quali ormai estinte. Gli animali sono talmente ben disegnati e descritti da rendere possibile una analisi del panorama ornitologico in Europa all’epoca federiciana. «Questo trattato è famosissimo e viene consultato persino dagli studiosi di ornitologia».
La fruizione planetaria grazie al digitale portata avanti dal Prefetto monsignor Pasini rientra nella filosofia costitutiva della Biblioteca Vaticana. Fra gli scopi che le diede Niccolo V (1447-1455) c’è proprio quello di raccogliere i libri per «la comune utilità degli uomini di scienza». Fino ad allora il privilegio di consultare gli allora 350 volumi era di esclusivo appannaggio della curia. Con il tempo grazie ad importanti lasciti avvenuti nel corso di cinque secoli il patrimonio librario conservato al di là del Tevere è cresciuto a dismisura fino a diventare il numero uno al mondo.
I codici custoditi sono circa 80 mila; latini, ma anche greci, ebraici, copti, siriaci, armeni, etiopici, cinesi, giapponesi e coreani. Se tutto andrà avanti senza intoppi nell’arco di una decina d’anni saranno interamente digitalizzati. Si tratta di una operazione imponente che richiede però notevoli risorse finanziarie. In Vaticano non hanno timori, la Provvidenza farà il resto...
Scheda
Chi sono le Sibille?
di Ufficio Beni Culturali *
Con il termine Sibilla si indicava nell’antichità greco-romana una donna che possedeva la capacità di prevedere il futuro. Nel dizionario dell’Arte Medievale Treccani al termine Sibilla corrisponde la seguente definizione: "Nell’antichità classica, fin dal periodo arcaico della Grecia particolare tipo di veggente femminile [...] che profetizza quando e dove è ispirata, anche senza essere interrogata; la sua ispirazione è concepita come possessione divina, e per tale ragione la profetessa si mantiene vergine. Le Sibille divennero esseri leggendari; mediatrici tra dio e l’uomo, spesso concepite come figlie di divinità e di ninfe e dee esse stesse".
Pertanto le Sibille erano delle profetesse che, rivolgendosi alle comunità, alle città e ai regni, preannunciavano eventi e calamità naturali, esiti di battaglie e cantavano la storia delle città. Queste profetesse venivano anche consultate in occasioni di cerimonie, durante i periodi di carestia e al diffondersi di pestilenze, così da conoscere le cause e i rimedi ai mali che affliggevano il genere umano. Il dio che ispirava le Sibille è nella maggior parte delle attestazioni, Apollo, dio della poesia, della medicina, delle arti, della musica, della luce e della profezia. Minori sono le testimonianze che vedono Zeus, Giove o Dioniso quali ispiratori delle veggenti.
Le numerose profezie diffusesi in età classica spinsero gli studiosi antichi ad interrogarsi sul numero delle Sibille esistenti. Il primo autore che affrontò questa ricerca fu il filosofo greco Eraclide Pontico che individuò tre differenti Sibille: la Sibilla Marpessa o Ellespontica, la Sibilla Delfica e la Sibilla Eritrea. Solo in età romana, con lo studio dell’antiquario Varrone, si arrivò ad individuare dieci Sibille: la Sibilla Persica, la Libica, la Delfica, la Cimmeria, l’Eritrea, la Samia, la Cumana, l’Ellespontica, la Frigia e la Tiburtina. L’antiquario ordinò le profetesse in ordine cronologico e di ognuna fornì la fonte letteraria in cui era citata.
Con l’avvento della Religione Cristiana le Sibille non persero la loro importanza, anzi, al pari dei Profeti divennero annunciatrici della venuta di Cristo e del suo operato. Per questo motivo a partire dal Medioevo e durante tutto il Rinascimento le profetesse divennero soggetti nelle arti figurative italiane e nei testi letterari. Inizialmente le Sibille venivano rappresentate in forma singola ed accostate al ciclo dei Profeti, solo a partire dal Quattrocento vennero separate dai Profeti e costituirono un ciclo autonomo di dodici veggenti: le dieci del canone di Varrone più le due aggiunte da Filippo Barbieri nel 1481, l’Agrippea e l’Europea.
Nel contesto italiano l’apice della diffusione e considerazione delle Sibille si raggiunse con le raffigurazioni della Cappella Sistina nel 1508-1512 ad opera di Michelangelo Buonarrotti. In seguito, l’esaurirsi delle tensioni profetiche dalla metà del Cinquecento e i rigidi canoni controriformistici generarono una progressiva perdita di interesse, sia artistico che letterario, nei loro confronti. Ciò non si verificò nelle zone periferiche, dove le veggenti continuarono a rivestire un ruolo significativo sia in ambito religioso che privato.
È questo il caso della Provincia di Bergamo dove a partire dal XV secolo la presenza delle Sibille è osservabile nei contesti religiosi sottostanti alla Diocesi di Bergamo, e nell’ambito privato dell’Oratorio Suardi di Trescore Balneario.
* Ufficio diocesano dei Beni Culturali della diocesi di Bergamo
Biblioteca Malatestiana *
La Biblioteca Malatestiana è una biblioteca monastica di particolare importanza storica. Fondata alla metà del XV secolo, detiene due primati assoluti: è stata la prima biblioteca civica d’Italia e d’Europa; è l’unico esempio di biblioteca monastica umanistica giunta fino a noi perfettamente conservata nell’edificio, negli arredi e nella dotazione libraria.
L’Unesco ha riconosciuto l’importanza culturale della Malatestiana inserendola, prima in Italia, nel Registro della Memoria del Mondo.
Oggi vi sono conservati quasi 250 000 volumi, di cui 287 incunaboli, circa 4 000 cinquecentine, 1 753 manoscritti che spaziano fra il XVI secolo e il XIX secolo e oltre 17 000 lettere e autografi; mentre nella sezione moderna della biblioteca sono presenti oltre centomila volumi.
Si consiglia di verificare gli orari di apertura sui siti web dei musei prima della visita.
CESENA | Biblioteche Storiche
Indirizzo
Piazza Bufalini, 1
47023 Cesena
Contatti
Telefono: +39 0547 610892
Fax: +39 0547 21237
*SCHEDA: MUSEO-ITALIA
Mistrà, mistico dormire della Vergine
di Carlo Ossola (Il Sole-24 Ore,10 giugno 2017)
Si converge su Mistrà, al centro del Peloponneso, due amici provenendo da Monemvasia, ove si contemplano i ciottoli più levigati e l’acqua più trasparente di tutta la Grecia (come attesta Peter Levi, nel suo squisito Giardino luminoso del re angelo), e noi da Vasses, ove svetta - a oltre 1100 metri di altezza - il tempio di Apollo Epikourios, opera di Ictino, l’architetto del Partenone.
Tra i più affascinanti e meglio conservati monumenti della Grecia classica, esso riunisce in sé i tre ordini: il dorico, lo ionico ed il corinzio, in perfetta armonia. Manca soltanto il fregio: dodici metope, vibranti e vivide, sono conservate al British Museum, e a Vasses sostituite da copie. Qui la spoliazione appare manifesta: e il museo britannico, che ha già tutti i fregi del Partenone, bene farebbe a restituire quelle metope, che a Londra sono un modesto corollario ai fregi del tempio di Atene, mentre a Vasses, in cima alla montagna (e non nel piatto scorrere delle stanze museali) restituirebbero un tutto, integro e maestoso. So bene che la questione delle restituzioni del patrimonio artistico spogliato dalle guerre, dalle sottrazioni, dalle vendite forzose, è ormai una crux mondiale, e andrà risolta caso per caso con senno storico. Dovrebbe - mi sembra - prevalere (come per Vasses) il criterio della maggiore integrità, e insieme dell’unicità. Con coerenza simmetrica, pare difficile oggi pensare di staccare la collezione degli Impressionisti di Otto Krebs - ora all’Hermitage - da quelle straordinarie, lì conservate, di Sergei Shchukin e Ivan Morozov, un insieme unico al mondo per gusto e reciproca integrazione.
Per fortuna Mistrà è tutta lì, nella sua solitudine di città abbandonata, nelle sue pendici ove tintinnano sonagli di capre e campanelle che richiamano alla solenne festa della Vergine il 15 agosto. Capitale della Morea, conserva in sé tutto lo scorrere della civiltà (e delle armi) da Occidente a Oriente e da Oriente a Occidente. Posta ai primi contrafforti del Taigeto, sovrastante Sparta, essa conobbe prospera fortuna al seguito della IV crociata, divenendo nel 1249 sede del principato latino di Acaja. Dieci anni dopo passa all’imperatore bizantino Michele VIII Paleologo; sotto il governo di Teodoro II Paleologo (nel cuore del XV secolo) Mistrà divenne la seconda città più importante dell’impero bizantino dopo Costantinopoli e il palazzo di Guglielmo II fu anche residenza imperiale.
Alla corte di Teodoro visse Giorgio Gemisto Pletone (1355-1452), il quale insieme ad altri saggi e filosofi bizantini (e tra essi Giovanni Bessarione, 1395-1472) venne in Italia al seguito dell’imperatore Giovanni VIII, per partecipare al Concilio di Basilea, Ferrara e Firenze. Fu il momento del risorgere dell’umanesimo greco, base del nostro Rinascimento, del fiorire degli studi platonici, della forza intellettuale della Firenze di Marsilio Ficino. Introdusse il prestigio degli Oracoli caldaici, la convergenza delle religioni, il valore del culto zoroastriano, il fascino del sincretismo. Il Trattato delle Leggi, il Trattato delle virtù, gli Oracula magica Zoroastris, il De platonicae atque Aristotelicae philosophiae differentia libellus sono le sue opere maggiori; Rémi Brague ne ha ben visto il carattere utopico nel suo saggio Une cité idéale au XVème siècle: l’utopie néo-païenne d’un byzantin [Introduzione a Pléthon, Traité des lois (1982)].
Il nostro Leopardi, acuto e erudito, ne ha percepito la colta raffinatezza, pubblicando da Stella nel 1827 il Discorso del conte Giacomo Leopardi in proposito di una orazione greca di Giorgio Gemisto Pletone e volgarizzamento della medesima (si tratta dell’orazione in morte della imperatrice Elena Paleologina). Certo rimangono vive le pagine toccanti del III libro del Trattato delle Leggi, ove Pletone eleva la propria preghiera della sera: «A te prima di tutti, a te soprattutto, Giove sovrano, noi rendiamo grazie [...]. Tu sei il bene, fuori di te non c’è altro bene; perché tu sei per tutti gli esseri il primo e l’ultimo, e il sovrano principio di ogni bene. [...] E voi (scil. “o Dei”) offrite ogni sollecitudine alla nostra intelligenza, nostro attributo divino, che a voi ci unisce in una sorta di parentela; voi ci spingete senza sosta verso il bene, dirigendoci nella retta via, sapendo che anche noi saremo felici fintantoché saremo capaci di camminare sulle vostre tracce e di raggiungere con voi il bello».
Siamo tuttavia qui, tra questi armenti, per visitare la Panagia Odigitria, l’inobliabile cupola di affreschi della Vergine e delle storie di Cristo; e soprattutto la ieratica Dormitio Virginis della Peribleptos. La Dormitio - con l’animula della Vergine nelle braccia di Cristo risorto, com’egli fu nelle braccia della Vergine Madre - è il più alto mistero che l’Oriente cristiano abbia consegnato all’Occidente, e a Dante stesso. Se Maria partorì senza macchia originale (non potendo portare in sé il divino dentro un corpo macchiato dalla colpa di Adamo ed Eva) non doveva - di conseguenza - subire il frutto di quel peccato, la mortalità; essa dunque si addormenta e transita nelle braccia del suo Cristo. Primizia dolcissima della nostra intera umanità.
Viene in mente, in questo silenzio, ciò che Henry Miller scrisse, nel 1939, nelle sue Prime impressioni della Grecia: «È impensabile e assolutamente impossibile che questi luoghi sacri subiscano un giorno l’influenza del progresso. In questa atmosfera nessuna macchina potrebbe sopravvivere. Qui governa in modo tirannico lo spirito del luogo, padrone supremo del passato, del presente e del futuro». Quello ch’egli scrive di Cnosso, vale ancor più per Mistrà, tutta sentieri, per il monastero della Pantanassa in mezzo ai fichi, per la Santa Parasceve, tra rocce e sterpi, per la cappella di san Giorgio o di san Cristoforo, o della “Piccola Vergine”.
Si può ripetere per Mistrà l’osservazione che Robert Byron (Londra 1905 -1941) dettò per la sua visita al Monte Athos: «Le abitudini dei frivoli figli del mondo si dimostrarono impotenti contro le tradizioni di metà dell’era cristiana. E le nostre giornate assunsero un ritmo di regolarità monastica, sia nell’impiego del tempo, sia nella concisa serietà con cui ciascuno di noi si dedicava alle proprie occupazioni».
Ci sono dei luoghi in cui si vorrebbe vivere e altri, di «concisa serietà», in cui si vorrebbe cominciare a raccogliere nell’essenziale qualche linea della vita: «Amo ciò che preserva intatto il nocciolo della propria ferita» (Athina Papadaki,[Atene 1948], La veglia dei cieli). Mentre davanti al mare di Archangelos sorseggio, con gli amici di Monemvasia, il mio ouzo serale con polipetto arrostito, so che Mistrà sarà il mio ultimo ritorno, al braccio orientale dell’Odigitria, ove la Vergine veglia e dolcemente posa il volto sulla mano che accarezza l’Infante. Addormentarsi così, nel profumo intenso dei mirti e delle Vergini dei ceri di Thanassis Hatzopoulos (Aliveri 1961): «Salmodie d’un soffio, esse entrano in un tempio / con i ceri bianchi del Sabato santo, / Per accogliere nelle loro mani la vivida / la calda luce della resurrezione». ThV anaVtashVjwV, la luce che sorge ogni giorno per noi e risorge nel silenzio dei luoghi che attendono, in pace.