Goethe, sfida perpetua alla morte
Non è una serie di appunti diaristici, ma un’opera costruita lentamente nel tempo, per restituire la persona dello scrittore nella sua dimensione reale di genio: è lo sguardo di Eckermann verso l’autore del «Faust», di cui raccolse l’eredità negli ultimi anni
DI ROSITA COPIOLI (Avvenire, 06.09.2008)
Figlio di contadini, poverissimo, Johann Peter Eckermann giunse a piedi da Goethe nel giugno 1823, percorrendo la strada polverosa che univa la Sassonia e la Turingia, da Hannover a Weimar. Goethe capì subito quale infinita passione l’aveva portato fino a lui: l’intelligenza non suprema, ma attenta e prensile: il carattere fedele. Lo legò a sé, gli impedì altre distrazioni.
Eckermann diventò la carta assorbente, il depositario degli ultimi anni, al quale, insieme a Riemer, Goethe affidò la cura dei libri e degli scritti inediti. Grazie alle sue Conversazioni (che escono ora a cura di Enrico Ganni, trad. Ada Vigliani, prefazione Hans-Ulrich Treichel) conosciamo tutti i pensieri che Goethe non scrisse, sulla letteratura del passato e del presente, sulla politica, la storia, gli studi di scienze naturali e le polemiche; ci immergiamo nella stesura del Faust II, concluso nell’agosto 1831, contemporaneamente agli Anni di viaggio di Wilhelm Meister: il romanzo più aperto e ’futuro’ di Goethe, che Kierkegaard elesse a modello per Aut aut e gli Stadi sul cammino della vita, poiché lo considerava «tutto il mondo contenuto in uno specchio».
Di tanti che furono vicini a Goethe, annotando qualche ricordo spesso senza capirlo, o di coloro che trascrissero le sue parole, come Soret (delle cui memorie si avvalse Eckermann) e soprattutto come il cancelliere von Müller, nessuno ci restituisce Goethe come l’umile Eckermann che nel mondo sfavillante di principi e dame, scrittori e artisti e archeologi e scienziati che visitavano la casa neoclassica del Frauenplan si trovava a suo agio solo quando poteva restare a tu per tu con il proprio nume, riceverne le parole, riposare gli occhi nei suoi, bere la coppa di vino che la sua mano gli offriva al di là del tavolo.
Eckermann rinunciò a vivere per sé finché visse Goethe, e anche dopo la sua morte continuò a operare nel suo immenso riflesso, cercando nei sogni il conforto del genio che doveva continuare a vivere, anche attraverso di lui.
Dobbiamo ricorrere a von Müller, se vogliamo sapere come parlava Goethe: le intolleranze, gli scatti d’umore, le bizzarrie, l’acidità, le rigidità, il lato Mefistofele, e anche la sofferenza per la lunga solitudine amorosa, che Müller compatì.
Ma soltanto Eckermann, che non fu affatto «il pappagallo di Goethe», come disse Heine, ci rivela un’infinità di segreti preziosissimi, e il suo libro, più complesso di quanto immaginiamo, è indispensabile per ogni studioso. Non è una serie di appunti diaristici, ma un’opera costruita lentamente nel tempo, scavando in profondità nella memoria, per restituire la persona di Goethe nella sua dimensione reale di genio.
Lo sguardo è senz’altro amoroso, volto alla rappresentazione totale dello scrittore che si trasfigura nell’opera. Ma non ingenuo. A ben guardare, il sale amaro di Goethe resta: il conservatorismo reazionario; la coscienza che la sacrosanta liberazione degli schiavi promossa dall’Inghilterra ha solo motivi economici; lo sconforto e lo scherno per gli uomini in generale e per i propri avversari, che passa in Jarno nei due Wilhelm Meister.
Eckermann non è un registratore dei lati umani, ma di quelli sovrumani e daimonici. Vuole darci il senso di quella entelechia che era Goethe, così come l’aveva appresa da lui. In Aristotele indica la possibilità di perfezione ultima insita nella natura, e in Leibniz è la monade. Per Goethe è la eigentliche Originalnatur, l’essenza della natura originaria di cui ogni altra manifestazione successiva sarà solo copia. Va riconosciuta e sviluppata, ed è ciò che si salva dalla morte. L’entelechia ha modi e gradi diversi di immortalità: «Ma per poterci manifestare in futuro come una grande entelechia, bisogna che lo siamo stati». Goethe la proietta in Faust, in Natalie e in Makarie dei Wilhelm Meister. L’entelechia ha il suo culmine nella rivelazione del divino nell’uomo, operata da Dio. Cristo ne è il mistero supremo.
Se usiamo questa chiave di lettura (che ho semplificato), il libro di Eckermann spiega molte affermazioni che ci appaiono stravaganti. Byron, ammirato perfino più di Tasso, è «empirico», ossia al livello del mondo mentre Shakespeare è superiore perché «al di sopra del mondo»: è il modello di Euforione, il figlio di Elena e Faust la cui luce si espande e si consuma in un attimo. Manzoni è un gran talento lirico, ma è schiavo della storia. Dante non è un talento, bensì una «natura »: ossia una suprema entelechia.
Dovunque, Goethe cerca di individuare e configurare quell’essenza, anche se è un dono inspiegabile: in Raffaello «pensiero e azione sono ugualmente perfetti»; «La viva consapevolezza delle situazioni e la capacità di esprimerle: ecco ciò che rende poeti». Quanto ai troppi poeti di talento medio non bisogna incoraggiarli: «non bisogna favorire il superfluo, quando ci sono tante cose necessarie da fare [...] perché si può essere di giovamento al mondo soltanto con ciò che è eccezionale».
Johann Peter Eckermann
CONVERSAZIONI CON GOETHE NEGLI ULTIMI ANNI DELLA SUA VITA
Einaudi. Pagine 708. Euro 85,00
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
PER UN’ALTRA EUROPA E PER UN’ALTRA ITALIA. Al di là dei "corsi e ricorsi", il filo della tradizione critica. Contro la cecità e la boria dei dotti e delle nazioni ... A GIAMBATTISTA VICO E ALL’ITALIA, L’OMAGGIO DI JAMES JOYCE - E DI GOETHE.
"VIAGGIO IN ITALIA". NOTA... *
GOETHE, SULLE TRACCE DI RODOLFO VALENTINO: “Anche il padre di Goethe aveva compiuto (...) un viaggio in Italia che più tardi, con l’aiuto di un maestro di lingua, aveva accuratamente descritto in italiano; un grosso volume “in quarto” in cui si trovano le più strane anticipazioni delle tendenze del figlio: l’interesse per le scienze naturali, i minerali, con precisa enumerazione delle specie di pietra che a Verona vengono impiegate nell’edilizia, considerazioni sull’evoluzione di tutti fenomeni naturali, dal granello di polvere al Creatore, e,persino in appendice, una storia d’amore con una bella milanese, con la quale egli comunica “telegraficamente”, dalla finestra della locanda, mediante grandi lettere dipinte su un foglio di carta: “Quando potrei venirvi ad adorare più da vicino?”. Ma questa maggior vicinanza egli non la conquista, più di quanto non riuscisse, tanti e tanti anni più tardi, al figlio, nella sua relazione con la milanese Maddalena Riggi” (R. Friedenthal).
NEL BICENTENARIO DELLA PUBBLICAZIONE DEL PRIMO VOLUME DEL “VIAGGIO IN ITALIA” (1816) DEL FIGLIO, Johann Wolfang Goethe, UNA OTTIMA PRECISAZIONE (NON SOLO PER CASTELLANETA, PENSO) SUL “VIAGGIO IN ITALIA” (1740) DEL PADRE, Johann Kaspar Goethe, E SULL’IMPORTANTE RUOLO GIOCATO NELLA VICENDA (SIA SUL LATO DEL PADRE SIA SUL LATO DEL FIGLIO) DALLA FIGURA DELLO STUDIOSO PUGLIESE, DOMENICO ANTONIO GIOVINAZZI.
*
Cfr. Armando Polito, Castellaneta non è solo Rodolfo Valentino (1/2),Fondazione "Terra d’Otranto, 22/06/2016)
Sul tema, in rete, si cfr.:
Benedetto Croce, "Dell’ex-monaco pugliese Domenico Giovinazzi che insegnò l’italiano al Goethe fanciullo", (La Critica, XXXV, 1937): si cfr. Putignano in Terra di Bari e il maestro d’italiano di Volfango Goethe, Domenico Giovinazzi / Benedetto Croce a Putignano: un esempio di storiografia locale
Federico La Sala
Critica.
Dall’infanzia al Faust, le metamorfosi di Goethe
Dopo Shakespeare e Leopardi, il filosofo Massimo Donà affronta il grande romantico tedesco, che nelle opere ha attinto per tutta la vita ai temi della fanciullezza. E ha dato loro portata universale
di Marino Freschi (Avvenire, venerdì 1 aprile 2022)
Johann Heinrich Tischbein, “Goethe nella campagna romana”, 1787
Incommensurabile, giudicava Goethe il suo Faust e parimenti inesauribile è il confronto con la sua opera e la sua vita. Ora la monografia di Massimo Donà, Una sola visione. La filosofia di Johann Wolfgang Goethe, edita da Bompiani (pagine 366, euro 14,00), è un nuovo tassello nella ricerca sul principale autore tedesco. Si tratta di un testo critico impegnativo che conferma l’immensità dell’opera e del pensiero goethiani, proponendo nuovi orizzonti, segnalando scoperte, indicando approfondimenti possibili. Filosofo teoretico, Donà si è già confrontato con il nesso tra filosofia e letteratura in due precedenti saggi, uno su Leopardi e l’altro su Shakespeare. Gli mancava Goethe per completare questo sublime trittico di pensiero e poesia.
Donà prepara il campo con argomentazioni di filosofia teorica, verso cui noi lettori profani possiamo solo imparare almeno a impostare il ragionamento. Successivamente il suo discorso si incentra su tre nodi dell’opera goethiana: Le affinità elettive, il Faust e la Metamorfosi delle piante, che, come un fil rouge, attraversa il saggio e a ragione poiché per Donà l’opera goethiana è sostenuta dalla realtà della metamorfosi, che innerva la scrittura e la vita di Goethe fin da giovane. Anzi potremmo anticipare questa tensione interiore agli anni dell’infanzia quando celebrava un personale culto del sole nella sua cameretta. Culto bruscamente interrotto da un principio d’incendio. Non si scherza col fuoco, imparò il fanciullo, che verso i vent’anni rischiò la vita per un focolaio polmonare. Dato per spacciato fu salvato dal Doctor Metz, frequentatore assiduo del circolo pietistico che si riuniva a casa Goethe e in cui la devozione cristiana s’intrecciava anche con pratiche di magia “bianca”.
Insomma Goethe in virtù di una polvere alchemica, si salvò e ne fu molto impressionato tant’è vero che questa apertura all’ermetismo - come ricorda Donà - riaffiora sempre nella sua opera e massimamente nel Faust, come pure nelle Affinità Elettive, che si fondavano su una teoria chimico- psicologica allora molto diffusa. Se dunque la giovanile pansofia è la sua “sola visione”’, ciò conferma l’intuizione di Thomas Mann che vedeva la chiave interpretativa dell’opera di Goethe nei suoi "Anni di formazione" giovanili:
«Goethe ha attinto per tutta la sua vita alla fanciullezza, non fu un uomo di sempre nuovi tentativi e invenzioni: l’opera sua consiste essenzialmente nel riprendere e rielaborare concetti risalenti al primo periodo della sua vita e che egli ha portato con sé attraverso tanti lustri, riempiendoli di tutta la ricchezza della sua esistenza, sino a dar loro vastità universale». Questa annotazione sull’incidenza minacciosa della giovinezza spiega la mobilità spirituale del poeta, affascinato, come Faust, da una concezione magica del mondo, ma anche consapevole dei rischi interiori di queste esperienze estreme, sicché mise in atto una difesa dai turbamenti giovanili, quelli che si espressero nella prima grande stagione poetica dello Sturm und Drang e che trovarono nei Dolori del giovane Werther la loro sublime, ancorché distruttiva conferma.
Goethe si distaccò da tali insidie interiori accettando di diventare il braccio destro del Duca Carl August a Weimar, assumendo responsabilità e doveri che lo salvarono dai devastanti abissi nichilistici giovanili. Tentò persino di rinnegare se stesso in una professione di fede neoclassica, cui pur siamo debitori di stupende poesie. Ma in ultima istanza fu lui stesso a sparigliare le carte con Le Affinità Elettive del 1809 e definitivamente con il Faust, iniziato probabilmente nel 1775 ancora nel periodo stürmeriano e portato avanti fino alla morte, con lunghi periodi di “ibernazione” e improvvise rinascite.
Il pensiero profondo di Goethe è quello della continua metamorfosi, come provano La metamorfosi delle piante e i suoi scritti botanici, che interessarono Joseph Beuys, confermando fin dagli Anni Sessanta del ’900 l’attualità delle meditazioni scientifiche goethiane. La metamorfosi era stata tratteggiata, ma non realizzata nello Sturm und Drang come mostra il suicidio di Werther. Fu il suo “fratello maggiore”, Faust, che, pur accettando le sfide di Mefistofele, il suo alter ego, le elude con quella energia “incommensurabile” della sua tensione interiore, che è il motore interno, la ragione stessa delle umane metamorfosi. E la metamorfosi travolge la rigida concezione illuminista, che in Germania - salvo qualche rara eccezione, come Lessing - era portata avanti da professori, non tra i più convincenti campioni di quel rinnovamento culturale, proposto dalla raison.
Anche per questa debolezza dello schieramento razionalista, fu in Germania che nacque la reazione romantica, che proseguì creativamente l’esperienza della devozione pietistica e del travaglio stürmeriano. È noto lo scontro generazionale tra Goethe e i giovani romantici, eppure la grandezza del genio è nella libertà di contraddirsi come avvenne con Le Affinità Elettive, con il Faust, nonché nella concezione anti-newtoniana della sua Teoria dei Colori del 1810. -Questo radicale, ancorché silenzioso cambiamento di paradigma è stato ben osservato da Donà: «Faust viene disegnato da Goethe come l’eroe del mutamento e della metamorfosi... È l’emblema stesso di un’insaziabile volontà di conoscenza e di esperienza; del non potersi mai fermare e ritenersi appagato. L’emblema del nuovo uomo romantico che sente e ricorda la propria radice divina e non può fare a meno di realizzarla ». Una realizzazione che rimane aperta a nuovi orizzonti, nuove sconfitte, nuovi amori e nuove conoscenze in un processo che prosegue al di là della breve esperienza terrena in una dimensione spirituale, in cui la monade faustiana continua a conoscere, a progredire verso le gerarchie celesti. Così crolla l’illuminismo. Oppure no, ché Faust continua ad aspirare alla luce, a perseguire «virtute e conoscenza», nuovo ed eterno Ulisse, simbolo estremo della coscienza dell’uomo.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
HUSSERL CONTRO L’HOMUNCULUS: LA ’LEZIONE’ DI ENZO PACI AI METAFISICI VISIONARI (ATEI E DEVOTI) DI IERI (E DI OGGI). Una ’traccia’ dal "Diario fenomenologico")
Federico La Sala
Marianne Jung sposata Willemer- La Suleika di Goethe. *
Marianne Jung, nata probabilmente il 20-11-1784, figlia d’arte di origini oscure, a Linz, fu vista, sedicenne dal banchiere e senatore Willemer, agente finanziario del governo prussiano, che se la portò a casa, pagando a sua madre duecento fiorini d’oro e una pensione annua. Dopo quattordici anni di convivenza pensò bene di sposarla, preoccupato della comparsa, nel loro tranquillo orizzonte, di Goethe.
Goethe, sessantacinquenne stava scrivendo le poesie del "Divano occidentale orientale", geniale rielaborazione delle liriche persiane di Hafis. Marianne diventa Suleika.
Ma Marianne non è solo la donna amata e cantata nella poesia; é anche l’autrice di alcune liriche, fra le più alte, in senso assoluto, di tutto il "Divano". Goethe le integrò e le pubblicò nella raccolta, con il suo nome.
Il "Divano", e tutto il dialogo amoroso che esso comprende reca il nome di Goethe. Il filologo Hermann Grimm rese noto che la donna aveva scritto quelle pochissime ma altissime liriche del "Divano".
Marianne avrebbe potuto, con la sua intelligenza e con la sua fine cultura letteraria scrivere volumi di bei versi.
Preferì tacere. I suoi pochi versi sono fra i più grandi della lirica mondiale, ma ciò non è sufficiente a far entrare Marianne Willemer nella storia della letteratura.
*
Claudio Magris, Danubio, Garzanti
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
HUSSERL CONTRO L’HOMUNCULUS: LA ’LEZIONE’ DI ENZO PACI AI METAFISICI VISIONARI (ATEI E DEVOTI) DI IERI (E DI OGGI). Una ’traccia’ dal "Diario fenomenologico") - L’homunculus di Goethe è il simbolo di quella che Husserl denuncia come “crisi delle scienze”
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
L’EUROPA IN CAMMINO - SULLA STRADA DI GOETHE O DI ENZO PACI (“NICODEMO O DELLA NASCITA”, 1944)?!
FLS
Classici.
Con Goethe a scuola di poesia
Nuova traduzione di “Poesia e verità”, opera in quattro volumi in cui l’autore ricostruisce in età matura i suoi anni giovanili, dalla formazione culturale guidata dal padre alla crescita letteraria
di Francesco Tomatis (Avvenire, giovedì 29 ottobre 2020)
Esce in una nuova, bella traduzione italiana di Laura Balbiani, con introduzione di Marino Freschi e testo originale a fronte, Poesia e verità di Goethe, nella collana ’Il Pensiero occidentale’ di Bompiani (pagine 2112, euro 60).
L’opera raccoglie i quattro volumi, l’ultimo edito postumo, in cui il grande scrittore tedesco ricostruì in età matura, principalmente a Weimar fra il 1809 e il 1831, la propria vita giovanile, compresa fra la nascita il 28 agosto 1749 e il trasferimento a Weimar nel novembre 1775 su invito del duca Karl August.
Nella sua mole e variegatezza, non prive di scorrevolezza e organicità, lo scritto è una straordinaria narrazione, svolta su più registri, non solo della formazione ed evoluzione letteraria del drammaturgo, colto nel contesto storico e familiare in cui crebbe, ma anche una messe infinita di testimonianze su letterati e scienziati, artisti e personaggi, ambienti e costumi, eventi storici e istituzioni dell’epoca: fra le più fiorenti per l’impero germanico.
In un autore come Goethe, in cui la genialità è predominante su ogni regola e l’artisticità si manifesta in molte forme, principalmente scritte ma non solo (dalla drammaturgia alla poesia, dalla prosa narrativa a quella scientifica, dal canto alla pittura, dalla vita sociale alla peregrinazione del viaggiatore), secondo un’aspirazione all’imitazione della natura nella sua inesauribile creatività e spontaneità, risultano di particolare rilevanza la sua educazione infantile dapprima e l’autoeducazione giovanile poi, assolutamente presenti in Poesia e verità. Il padre, giurista e consigliere imperiale ritiratosi a vita privata, dedicò gran parte del proprio tempo all’educazione dei figli, svolta in prima persona, e alla cura dell’ambiente familiare, oltre naturalmente al proprio continuo affinamento spirituale.
Il piccolo Johann Wolfgang in casa poté parimenti giocare in una camera-giardino, fra piante e fiori, e fantasticare, attraverso una raccolta di incisioni prepiranesiane di vedute e prospettive architettoniche romane, su un suo futuro viaggio formativo in Italia, attingere alla ricchissima biblioteca paterna di classici o aggirarsi in una variegata pinacoteca domestica dei migliori pittori del circondario francofortese. Il padre accompagnò il fanciullo con l’insegnamento delle lingue italiana, francese e inglese, oltre alla tedesca, lingua madre, e la jiddisch della comunità ebraica, nonché le classiche: ebraica, greca e latina, questa imparata... in rime, come anche la geografia. Seguì egli poi anche lezioni di ballo e pianoforte, disegno e filosofia, scherma ed equitazione, assieme a matematica e storia, calligrafia e religione.
Alla diretta esperienza di natura, arte e letteratura prestissimo s’aggiunse quella della drammaturgia, esercitata con un teatrino di marionette dono della nonna per il Natale del 1753. Vennero quindi le uscite fuori casa, dapprima in una Francoforte ricca di tradizioni antiche, assai simboliche, e nuove direzioni. Dal gennaio 1759 e per più di due anni la famiglia si vede costretta a ospitare in casa il luogotenente reale delle truppe occupanti francesi. Oltre che esperienza bellica, anche questa sarà occasione di arricchimento culturale, compreso il mondo teatrale francese giunto al seguito dell’esercito. Poi via via si ampliano i viaggi e gli incontri, non solo letterari, scientifici e artistici, ma anche amorosi.
Sono gli anni universitari, a Lipsia prima e Strasburgo poi, con significativi viaggi a Dresda (per visitare la celebre pinacoteca), in Svizzera, in Alsazia e Lorena, lungo fiumi e per monti, fra una natura libera e incontaminata. La poesia è per Goethe non solo e non tanto finzione di una realtà migliore rispetto a quella quotidiana e circostante, al fine di una elevazione, un’educazione alla verità più pura e naturale. Se espressione del cuore, del sentimento intimo o di come l’animo accoglie le esperienze del mondo fuori di noi, la poesia è essa stessa verità, espressione della vita, arte naturale, natura creativa, geniale. Per questo occorre ’drammatizzare’, cantare ogni cosa rilevante della vita, per mostrarne la verità naturale, dal filo d’erba e dalla pietrolina all’amore più sublime.
Non si tratta di un irenismo panteista ignaro della negatività agente nel mondo umano, ma della consapevolezza che l’amore di Dio, poeticamente visibile nella sua verità in ogni singolarità naturale, è sempre più grande di ogni male, limitatezza, meschinità pur presenti nella vita, risulta il solo capace di comprendere in sé anche i flutti caotici e l’elemento ’demonico’ da cui spesso viene trascinata l’esistenza; divina verità esemplificata dal motto: «nemo contra deum nisi deus ipse».
Goethe: «Sono nato quasi morto»
L’«Autobiografia», redatta dal 1809 al 1832, copre l’infanzia, l’adolescenza, la giovinezza e la prima maturità.
Il racconto è una amabilissima conversazione non solenne, attenta all’atmosfera che circonda gli eventi, alla congerie storica nella quale un uomo si trova a vivere
Gli anni dello Sturm und Drang e gli intensi amori della giovinezza e della prima età matura colorano tutta l’autobiografia. Ed emerge la venerazione per Shakespeare. Mentre la scrive, lo scrittore diviene un mito
di Piero Boitani (Il Sole-24 Ore, Domenica, 03.06.2018) *
«Il 28 agosto 1749, alle dodici in punto, venni al mondo a Francoforte sul Meno. La costellazione era propizia; il sole, al culmine per quel giorno, era nel segno della Vergine; Giove e Venere lo osservavano benevoli, Mercurio non era ostile, Saturno e Marte erano indifferenti: solo la luna, ormai piena, esercitava la forza della propria luce anteliale, tanto piú che era entrata nella sua ora planetaria. Si oppose quindi alla mia nascita, che poté avvenire solo quando quell’ora fu passata». Inizia così, dopo la Premessa, la narrazione di Poesia e verità, l’autobiografia di Goethe.
A giudicare dai risultati, le congiunzioni astrali che presiedettero alla nascita dello scrittore corrisposero alla realtà: mai genio più grande e multiforme è venuto al mondo nella modernità. Se Omero, Dante e Shakespeare regnano indisturbati sull’antichità, il Medioevo e il Rinascimento, Goethe domina incontrastato il periodo cruciale del passaggio tra l’ancien regime e la cultura che diverrà nostra, tra Illuminismo, Classicismo e Romanticismo.
Ma Goethe, che sapeva molto bene, per averlo appreso da Cardano, Cellini, Montaigne e Rousseau, come si compone una storia di sé, taglia immediatamente l’affermazione che potrebbe suonare bombastica, aggiungendo: «Questa ottima costellazione, alla quale in seguito gli astrologi attribuirono grandi meriti, fu verosimilmente all’origine della mia sopravvivenza: a causa dell’insipienza della levatrice infatti, quando venni al mondo fui considerato morto e solo con reiterati sforzi riuscirono a farmi vedere la luce».
Precisa infine, come chi voglia essere pignolo con un sorriso, che tale circostanza, «se procurò grande pena ai miei, risultò però vantaggiosa per i concittadini, perché il nonno, il podestà Johann Wolfgang Textor, colse l’occasione per assumere un ostetrico e per introdurre o rinnovare la formazione delle levatrici; il che andò, in seguito, a vantaggio di molti nascituri».
Poesia e verità è tutta qui, quanto al tono, sin dalle prime righe: il racconto è abilissima e amabilissima conversazione, affabulazione affascinante perché non solenne, attenzione al dettaglio e all’atmosfera che circonda gli eventi, alla congerie storica nella quale un uomo - il singolo individuo - si trova a vivere. Dichiara la Premessa, citando una lettera fittizia nella quale si sarebbe richiesto al poeta, dopo la pubblicazione delle Opere in dodici volumi tra il 1806 e il 1808, di fornire, «inserendole in un contesto, le condizioni di vita e gli stati d’animo che le hanno determinate, i modelli che hanno agito su di Voi, e infine i fondamenti teorici che vi hanno guidato».
In prima persona, Goethe replica con la propria concezione della biografia e dell’autobiografia, sostenendo che l’obiettivo sarebbe quello di «rappresentare l’essere umano all’interno del suo tempo, per mostrare sino a che punto l’insieme lo ostacoli e fin dove invece lo favorisca, come egli riesca, a partire da esso, a farsi un’idea del mondo e del genere umano, e come, nel caso sia artista, poeta, o narratore, abbia rispecchiato questa idea verso l’esterno». «Obiettivo tuttavia quasi irraggiungibile», glossa, «poiché presuppone che l’individuo conosca se stesso e il suo secolo». «Quasi», appunto: perché se c’è qualcuno che conosce se stesso e il suo secolo, questo è Goethe, che mai lesina sforzi per obbedire all’antico motto di Delfi e sparge in tutta Poesia e verità l’anelito di conoscenza.
L’autobiografia - una delle tre, credo, nate da Goethe: il Viaggio in Italia, questa, e le Conversazioni con Eckermann - fu composta lungo un esteso arco di tempo, dal 1809 al 1832 (l’anno successivo uscirono postume le ultime cinque sezioni) è divisa in quattro parti e venti Libri: copre l’infanzia dal primo alla metà del sesto, l’adolescenza e la giovinezza dalla seconda metà del sesto sino all’undicesimo, dal dodicesimo alla fine la prima età matura. Mentre la redige, Goethe raggiunge l’età di mezzo e poi la vecchiaia: diviene, gradualmente, un mito.
Quando Poesia e verità esce al completo, è morto. Ma è colui che ha scritto il Gotz e il Werther, il Torquato Tasso e l’Egmont, le Affinità elettive, il Faust, il Wilhelm Meister, il Divano, saggi critici, studi scientifici - e innumerevoli, bellissime liriche. Come è riuscito, Goethe, a diventare tutto questo? A essere il patriarca supremo della letteratura tedesca e di tutta la cultura europea? Il primo a concepire una letteratura “mondiale” o universale, una Weltliteratur vera e propria, che travalica i confini non solo nazionali ma anche continentali?
Vivendo intensamente, leggendo voracemente, scrivendo con una facilità portentosa. Si prenda il Werther, questa storia di amore e malinconia che termina nel suicidio: Goethe coglie lo “spirito del tempo” e crea con esso il primo romanzo di formazione dell’era moderna, il quale fa subito il giro d’Europa. Un’invenzione spettacolosa, e l’icona di tutta un’età.
L’infanzia e la giovinezza sono, naturalmente, le incubatrici di entrambe.
Della prima, sceglierei, per le differenti potenzialità, due momenti cruciali. Il primo, quando l’autore ricorda, nel Libro I, che «all’interno della casa, a richiamare piú di ogni altra cosa la mia attenzione era una serie di vedute di Roma con le quali il padre aveva decorato un’anticamera... Qui ogni giorno vedevo piazza del Popolo, il Colosseo, piazza San Pietro, la basilica, dall’interno e dall’esterno, Castel Sant’Angelo e altro ancora. Queste immagini esercitarono su di me un effetto profondo...». Ecco, qui è la radice della folle corsa di Goethe, attraversate le Alpi, per l’Italia: per giungere, con il minor numero possibile di soste, a quella “capitale del mondo” che ha sognato sin da bambino. È il nucleo del Viaggio in Italia, il classico dei classici: di tutti i resoconti del gran tour.
Il secondo, nel Libro IV, sono le lezioni di ebraico e la lettura della Genesi: le vicende dei patriarchi catturano subito «l’infantile vivacità» di Goethe: il quale dedica ad essa una quindicina di pagine di Poesia e verità, concentrandosi sulle figure di Abramo, Giacobbe e Giuseppe. Quest’ultima gli appare come «un racconto naturale pieno di fascino, che tuttavia appare troppo breve, tanto che ci si sente chiamati a raffigurarlo nei dettagli». Detto, fatto: il ragazzo, sulle orme di Klopstock, si dà a comporre, prima in versi poi in prosa, la storia di Giuseppe, che poi abbandona.
Ebbene, sarà proprio da queste pagine che un secolo e mezzo dopo Thomas Mann prenderà esplicitamente spunto per concepire la tetralogia di Giuseppe e i suoi fratelli: interrompendo a un certo punto la composizione per creare il romanzo di Lotte in Weimar, cioè una narrazione che vede protagonisti Charlotte von Stein e la grande ombra del predecessore di lei un tempo innamorato. Del resto, proprio Poesia e verità costituirà per Mann il modello sul quale costruire la parodia delle Confessioni del cavaliere d’industria Felix Krull.
Più tardi, nei Libri X e XI, il giovane Goethe incontra tra gli altri Herder e Shakespeare. Il primo è figura dall’aspetto sacerdotale, tutto vestito di nero e capelli incipriati raccolti in ciocca tonda. I suoi occhi, sotto sopracciglia nere, sono neri come la pece, sebbene uno appaia sempre arrossato e infiammato; il suo comportamento gentile e delicato, salvo quando è in possesso dell’umor nero. Non concede molto al poeta nuovo, ma questi apprende da lui un modo di pensare e di guardare alla letteratura. Quando Goethe incontra Shakespeare, è al saggio di Herder che rimanda. Ma, ancor più, alla reazione contro la “francesità” proprio “al confine della Francia”: «Il loro modo di vivere ci sembrava troppo regolato ed elitario, la loro poesia fredda, la loro critica distruttiva, la loro filosofia astrusa e ciò nonostante inadeguata». Viene in soccorso Shakespeare, che inizia a «godimenti spirituali e modi di considerare il mondo più elevati, più liberi, al contempo veri e poetici». Goethe si sente in preda alla «gioiosa consapevolezza di un qualcosa di superiore» che aleggia sopra di lui: con i suoi amici, si dedica a riprodurne i quibbles, a gareggiare con l’inglese. Chi pronunciava, nel 1771, il discorso Zum Schäkspears Tag, chi diceva «Shakespeare per sempre», era trafitto dai drammi dell’inglese: al punto di introdurre negli Anni di apprendistato di Wilhelm Meister una misteriosa e memorabile scena nella quale il protagonista recita Amleto a colloquio col fantasma del padre.
Tutta Poesia e verità è allo stesso modo piena di figurazioni e meditazioni che anticipano il futuro rispecchiando il presente: così gli anni dello Sturm und Drang, e gli intensi amori della giovinezza e della prima maturità, colorano tutta l’autobiografia. Egualmente vi sono menzionati in maniera obliqua Il Viandante e il Canto di Maometto, due delle liriche maggiori di Goethe. A pieno titolo avrebbe potuto comparirvi il Canto degli Spiriti sulle Acque («Anima dell’uomo, / come somigli l’acqua! / Destino umano, / come somigli il vento!”), e soprattutto la brevissima parabola di Ein Gleiches, Un altro: «Su tutte le vette / regna la calma, / tra le cime degli alberi / non avverti / spirare un alito; / nel bosco gli uccellini stanno silenziosi. / Aspetta un poco! Presto / anche tu avrai riposo». È e non è un requiem, questo Uber allen Gipfeln. Goethe ha animo molteplice, e credo che ci sia una relazione tra quello che Faust si trattiene dal dire all’attimo, «Fermati, sei troppo bello», e le ultime parole di Goethe morente: «Più luce». La medesima enigmatica oracolarità, lo stesso sense of an ending in sospensione irrisolta. Ma simile, anche, alla conclusione ideale di Poesia e Verità nelle parole di Goethe a Eckermann: «Ma se non si avesse altro dalla vita, se non ciò che i biografi e compilatori di lessici dicono di noi, il nostro sarebbe un gran brutto mestiere e non varrebbe la pena di darsi tanto da fare».
*
Piero Boitani, lavorando sulle bozze, ha scritto in anteprima questa recensione dell’opera che sarà in libreria il 5 giugno. Dai primi amori alle passioni per l’alchimia o le marionette, queste pagine di Goethe appartengono a uno dei testi fondamentali della letteratura moderna.