Goethe, sfida perpetua alla morte
Non è una serie di appunti diaristici, ma un’opera costruita lentamente nel tempo, per restituire la persona dello scrittore nella sua dimensione reale di genio: è lo sguardo di Eckermann verso l’autore del «Faust», di cui raccolse l’eredità negli ultimi anni
DI ROSITA COPIOLI (Avvenire, 06.09.2008)
Figlio di contadini, poverissimo, Johann Peter Eckermann giunse a piedi da Goethe nel giugno 1823, percorrendo la strada polverosa che univa la Sassonia e la Turingia, da Hannover a Weimar. Goethe capì subito quale infinita passione l’aveva portato fino a lui: l’intelligenza non suprema, ma attenta e prensile: il carattere fedele. Lo legò a sé, gli impedì altre distrazioni.
Eckermann diventò la carta assorbente, il depositario degli ultimi anni, al quale, insieme a Riemer, Goethe affidò la cura dei libri e degli scritti inediti. Grazie alle sue Conversazioni (che escono ora a cura di Enrico Ganni, trad. Ada Vigliani, prefazione Hans-Ulrich Treichel) conosciamo tutti i pensieri che Goethe non scrisse, sulla letteratura del passato e del presente, sulla politica, la storia, gli studi di scienze naturali e le polemiche; ci immergiamo nella stesura del Faust II, concluso nell’agosto 1831, contemporaneamente agli Anni di viaggio di Wilhelm Meister: il romanzo più aperto e ’futuro’ di Goethe, che Kierkegaard elesse a modello per Aut aut e gli Stadi sul cammino della vita, poiché lo considerava «tutto il mondo contenuto in uno specchio».
Di tanti che furono vicini a Goethe, annotando qualche ricordo spesso senza capirlo, o di coloro che trascrissero le sue parole, come Soret (delle cui memorie si avvalse Eckermann) e soprattutto come il cancelliere von Müller, nessuno ci restituisce Goethe come l’umile Eckermann che nel mondo sfavillante di principi e dame, scrittori e artisti e archeologi e scienziati che visitavano la casa neoclassica del Frauenplan si trovava a suo agio solo quando poteva restare a tu per tu con il proprio nume, riceverne le parole, riposare gli occhi nei suoi, bere la coppa di vino che la sua mano gli offriva al di là del tavolo.
Eckermann rinunciò a vivere per sé finché visse Goethe, e anche dopo la sua morte continuò a operare nel suo immenso riflesso, cercando nei sogni il conforto del genio che doveva continuare a vivere, anche attraverso di lui.
Dobbiamo ricorrere a von Müller, se vogliamo sapere come parlava Goethe: le intolleranze, gli scatti d’umore, le bizzarrie, l’acidità, le rigidità, il lato Mefistofele, e anche la sofferenza per la lunga solitudine amorosa, che Müller compatì.
Ma soltanto Eckermann, che non fu affatto «il pappagallo di Goethe», come disse Heine, ci rivela un’infinità di segreti preziosissimi, e il suo libro, più complesso di quanto immaginiamo, è indispensabile per ogni studioso. Non è una serie di appunti diaristici, ma un’opera costruita lentamente nel tempo, scavando in profondità nella memoria, per restituire la persona di Goethe nella sua dimensione reale di genio.
Lo sguardo è senz’altro amoroso, volto alla rappresentazione totale dello scrittore che si trasfigura nell’opera. Ma non ingenuo. A ben guardare, il sale amaro di Goethe resta: il conservatorismo reazionario; la coscienza che la sacrosanta liberazione degli schiavi promossa dall’Inghilterra ha solo motivi economici; lo sconforto e lo scherno per gli uomini in generale e per i propri avversari, che passa in Jarno nei due Wilhelm Meister.
Eckermann non è un registratore dei lati umani, ma di quelli sovrumani e daimonici. Vuole darci il senso di quella entelechia che era Goethe, così come l’aveva appresa da lui. In Aristotele indica la possibilità di perfezione ultima insita nella natura, e in Leibniz è la monade. Per Goethe è la eigentliche Originalnatur, l’essenza della natura originaria di cui ogni altra manifestazione successiva sarà solo copia. Va riconosciuta e sviluppata, ed è ciò che si salva dalla morte. L’entelechia ha modi e gradi diversi di immortalità: «Ma per poterci manifestare in futuro come una grande entelechia, bisogna che lo siamo stati». Goethe la proietta in Faust, in Natalie e in Makarie dei Wilhelm Meister. L’entelechia ha il suo culmine nella rivelazione del divino nell’uomo, operata da Dio. Cristo ne è il mistero supremo.
Se usiamo questa chiave di lettura (che ho semplificato), il libro di Eckermann spiega molte affermazioni che ci appaiono stravaganti. Byron, ammirato perfino più di Tasso, è «empirico», ossia al livello del mondo mentre Shakespeare è superiore perché «al di sopra del mondo »: è il modello di Euforione, il figlio di Elena e Faust la cui luce si espande e si consuma in un attimo. Manzoni è un gran talento lirico, ma è schiavo della storia. Dante non è un talento, bensì una «natura »: ossia una suprema entelechia.
Dovunque, Goethe cerca di individuare e configurare quell’essenza, anche se è un dono inspiegabile: in Raffaello «pensiero e azione sono ugualmente perfetti»; «La viva consapevolezza delle situazioni e la capacità di esprimerle: ecco ciò che rende poeti». Quanto ai troppi poeti di talento medio non bisogna incoraggiarli: «non bisogna favorire il superfluo, quando ci sono tante cose necessarie da fare [...] perché si può essere di giovamento al mondo soltanto con ciò che è eccezionale».
Johann Peter Eckermann
CONVERSAZIONI CON GOETHE NEGLI ULTIMI ANNI DELLA SUA VITA
Einaudi. Pagine 708. Euro 85,00
classici