[...] «Credo sinceramente che la complementarietà tra materiale e virtuale, tra presenza e telepresenza sarà sempre necessaria e per tutte le dimensioni propriamente umane. Non sono d’accordo con la teoria dell’’angelismo’, benché proposta da McLuhan, che prevedeva una smaterializzazione che ci avrebbe fatto tornare alla condizione dell’angelo, anima senza corpo. Non è vero e nemmeno possibile lasciare da parte il corpo. Nella grande confusione di media, di reti, di banche dati e di proiezioni che portano ovunque, la nostra identità e la nostra immagine - se non il nostro vero e proprio essere - sono legate al corpo, che resta il punto fondamentale di riferimento [...]
LA BAMBINA DI BENEDETTO XVI E LA ’BAMBINA’ DI FREUD:AL DI LA’ DEL PANTANO "NOSTRUM". RILEGGERE FREUD E "L’UOMO MOSE’ E LA RELIGIONE MONOTEISTICA". Una nota di Federico La Sala
CYBERFUTURO
Il digitale è un opportunità per le fedi e una tentazione di ’superomismo’. Parla De Kerckhove
Web tra magia e religione
«La relazione dell’uomo elettrificato con lo spazio è quasi divina - un essere al centro ovunque, senza periferia - però l’uomo non è puro spirito»
DI ANDREA GALLI (Avvenire, 21.04.2010)
Chiesa e Web. In vista del convegno Testimoni digitali, che si terrà a Roma la prossima settimana, parla Derrick De Kerckhove, massmediologo di fama internazionale, già collaboratore di Marshall McLuhan, attualmente docente all’Università Federico II di Napoli.
Professore, la Chiesa Cattolica ha sempre avuto un senso dello spazio molto forte. La sua struttura è fondata sulle diocesi, entità territoriali, e sulle parrocchie, entità locali. Andiamo verso una complementarietà tra il territorio e la spazialità del web? O la seconda prevarrà, in un certo senso, almeno nelle aree metropolitane, le più mobili e fluide?
«Credo sinceramente che la complementarietà tra materiale e virtuale, tra presenza e telepresenza sarà sempre necessaria e per tutte le dimensioni propriamente umane. Non sono d’accordo con la teoria dell’’angelismo’, benché proposta da McLuhan, che prevedeva una smaterializzazione che ci avrebbe fatto tornare alla condizione dell’angelo, anima senza corpo. Non è vero e nemmeno possibile lasciare da parte il corpo. Nella grande confusione di media, di reti, di banche dati e di proiezioni che portano ovunque, la nostra identità e la nostra immagine - se non il nostro vero e proprio essere - sono legate al corpo, che resta il punto fondamentale di riferimento. Certo la relazione dell’uomo elettrificato con lo spazio è quasi divina - un essere al centro ovunque, senza periferia - però l’uomo non diviene puro spirito. Io vedo la spazialità del web come quella della mente. La Rete è un spazio mentale esteso, condiviso, immensamente potenziato, però ancorato al corpo. Precisamente, per contrasto con il punto di vista rinascimentale, chiamo ’punto d’essere’ questa sensazione unica della mia presenza nel mondo. Di immagini ce ne sono tante, ma il corpo resta uno. L’uso dello spazio dipende dall’uso del corpo».
Si parla spesso del web come di un fattore diseducativo: che induce a una fruizione mordi e fuggi dei contenuti, a un’attenzione sempre più mobile e poco allenata alla concentrazione e alla meditazione. Tuttavia col web milioni di persone sono entrate in una dimensione di lettura costante. Col web 2.0 milioni di persone hanno iniziato a scrivere quotidianamente... non si sta in realtà attuando un processo unico nella storia, se non di introspezione, di fruizione intellettuale di massa? E una fruizione intellettuale attiva, mentre con tv, cinema e radio rimaneva una fruizione in un certo senso passiva?
«Sono assolutamente d’accordo con questa osservazione, che va nel senso di un’evoluzione veramente cognitiva della Rete, al contrario delle banalità che si ripetono a proposito di Wikipedia, dell’ignoranza dei cosiddetti ’nativi digitali’ e così via. L’elettricità è nella sua fase digitale e reticolare, nella sua fase cognitiva, e la Rete è il suo sistema nervoso. Siamo entrati in un periodo intensamente cognitivo e personalizzato attraverso l’interazione multimediale. Ed è vero anche che scriviamo sempre di più. Ricordo con stupore la mia gelosia nei confronti di Voltaire quando studiavo la sua corrispondenza in 107 volumi di 350 pagine. Pensavo che mai avrei potuto scrivere tanto. Però vedo dalla mia scrivania che in meno di due anni ho già scritto più di 6 mila e-mail e ne ho lette più di 20 mila. L’alfabeto è morto? Viva l’alfabeto! Detto questo è vero che la Rete non invita la gente all’introspezione, al contrario incoraggia l’ estrospezione: il profilo su Facebook potrebbe divenire per tanti più pertinente nel definire la propria identità che l’immagine che hanno di sé. L’identità si crea fuori dalla mente, sullo schermo. Non è più l’epoca del gnothi seauton , del ’conosci te stesso’ di Platone, ma quella del phani seauton, ’mostra te stesso’!».
Lei ha parlato di «civiltà video-cristiana »: in che senso si può scorgere nella rivoluzione digitale, e del web in particolare, un’impronta cristiana?
«Ci sono tre fenomeni della Rete che mi hanno colpito da questo punto di vista: i siti di confessione pubblica, quelli delle ’comunità di pena’ e quelli dei cimiteri in Rete. Tutti e tre sono d’ispirazione cristiana, anche se i primi hanno avuto inizio in modo satirico per l’ostilità all’idea dell’assoluzione da parte di un prete - con Atm, the Automatic Confession Machine, dell’artista canadese Greg Garvey. Il suo sito ha però ispirato molte altre iniziative sulla Rete e ne è nato un fenomeno serio, con migliaia di siti di ogni tipo per ’confessarsi’. Come per il terzo fenomeno, quello dei cimiteri virtuali - sono ormai milioni - si tratta chiaramente del fascino di un rituale, non necessariamente legato alla fede cristiana. Il secondo fenomeno, invece, è profondamente spirituale e d’ispirazione veramente cristiana, ed è quello di usare la Rete per condividere malattie, angosce, problemi di famiglia o, come fanno tanti blog, riflettere su vari aspetti della fede.
La Rete fa tornare la gente alla dimensione delle prime comunità, però a livello mondiale. È un opportunità per tutte le religioni. Anche se la Chiesa Cattolica sembra aspettare ancora il suo Papa della Rete, come Giovanni Paolo II è stato quello della televisione ».
Tra le realtà generate dal web - social network, motori di ricerca, blog, VoIP, ecc.- qual è la più rivoluzionaria e di cui magari stiamo sottovalutando le potenzialità?
«Certamente il social networking non ha ancora finito di sorprenderci. Innovazioni come Twitter nascono dal nulla e cambiano i modi di condivisione personale quanto quelli di autodifesa sociale, politica (vedasi l’Iran) e commerciale. Wikipedia offre tutta la conoscenza del mondo con la partecipazione di tutto il mondo. YouTube mette a disposizione una penna elettronica per tutti e diviene il nuovo Argus, con tanti occhi. Il potere del digitale combinato a quello della rete è di tipo magico, con applicazioni stupende come la magia medievale (da cui il successo fenomenale dei film di Harry Potter). Però la più rivoluzionaria delle invenzioni del nostro tempo non è l’ultimo gadget presente sul web o altrove: è il telegrafo. La prima tecnologia che ha messo insieme la velocità della luce con la complessità del linguaggio umano. Il resto si è sviluppato secondo una logica di complessità».
«Testimoni digitali» a Roma
«Testimoni digitali. Volti e linguaggi nell’era crossmediale» è il convegno della Cei che si terrà da domani al 24 aprile a Roma (www.testimonidigitali.it). Dopo l’intervista pubblicata il 1° aprile a Z. Bauman e quelle del 9, 15 e 17 aprile a P.H. Cheong, G. Mosley e Viktor Mayer-Schönberger, oggi è il turno del grande massmediologo Derrick De Kerckhove (nella foto).
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LA BAMBINA DI BENEDETTO XVI E LA ’BAMBINA’ DI FREUD: AL DI LA’ DEL PANTANO "NOSTRUM". RILEGGERE FREUD E "L’UOMO MOSE’ E LA RELIGIONE MONOTEISTICA". Una nota di Federico La Sala
De Kerckhove dice:"Non sono d’accordo con la teoria dell’’angelismo’, benché proposta da M¬cLuhan, che prevedeva una smate¬rializzazione che ci avrebbe fatto tor¬nare alla condizione dell’angelo, a¬nima senza corpo. Non è vero e nem¬meno possibile lasciare da parte il corpo."
Favorire la comunicazione tra persone di tutto il mondo in tempo reale, non solo per scambiarsi opinioni o informazioni senza censura, è la dimostrazione dell’opportunità, rivolta a tutti, offerta dal WEB. Lo spazio virtuale della rete è la fucina e il luogo ideale per creare la nuova anima che abiterà i nuovi corpi di persone finalmente consapevoli. I social network, i blog, i forum ecc, sono i laboratori da cui uscirà la "nuova anima", liberata dai concetti di proprietà privata e potere.
La smaterializzazione del vecchio corpo è già avvenuta (De Kerkoov non se ne è accorto), ma non per abbandonarlo, bensì per lasciare lo spazio ad un ricettacolo nuovo che ospiterà un anima mossa dalla volontà di condivisione e consapevole della sovranità dell’essere. L’Open source è la "sorgente aperta", è il principio animico che muove il nuovo corpo, attualmente solo parzialmente manifesto, risvegliato e consapevole. Hakers e crakers sono i germi positivi che contribuiscono ad annichilire il concetto di proprietà che, nel tempo ha reso l’uomo schiavo dell’uomo.
Grazie all’Open Source, e non solo, si sta affermando un nuovo modo di pensare, che non solo annienta le "demo", intese come subdoli strumenti di assoggettamento, per sostituirle con programmi partecipati, condivisi e gratuiti, ma il cui impatto ci costringerà a rivedere, ripensare e abolire i concetti di base del capitalismo.
Antonio
SOFTWARE
Lucid Lynx, veloce e social
È la nuova Ubuntu 10.04
Rilasciata da Canonical. Su un netbook parte in meno di 20 secondi e ha tutte le applicazioni per ogni esigenza di comunicazione online. È open source e non costa nulla *
IMMAGINATE un nuovo sistema operativo con il quale non serva installare alcun software social network, né una suite per ufficio, né un editing video né tutto quello che serve per usare il proprio computer. Perché ci sono già. Questo sistema esiste, ed è pure open source (quindi con codice libero) e non costa nulla. È una delle numerose distribuzioni di Linux e si chiama Ubuntu. L’ultima versione, la 10.04, ha in sè tutte queste cose e l’ambizione di scalzare il "re" Windows da quanti più computer in tutto il mondo, come ha spiegato presentando la sua ultima creatura Mark Shuttleworth, CEO di Canonical, l’azienda che si occupa di sviluppare e supportare Ubuntu. Il punto di partenza - secondo quanto riferisce l’azienda - sono quei 12 milioni di utenti che giù utilizzano questa distribuzione.
In questa questa nuova versione il maquillage alla parte grafica è deciso rispetto alla precedente: via le tinte sfumate sul marrone, avanti colori più decisi e vivaci. Colpisce prima di tutto la velocità di boot, ovvero il tempo di avvio dell’intero sistema. Dimenticate le attese di minuti prima di un sistema operativo sia in grado di funzionare. Il nuovo Ubuntu, ribattezzato “Lucid Lynx” (lince lucida), parte da spento su un netbook medio il 19 secondi o poco più, secondo le prove che sono state già fatte e diffuse sul web dagli utenti. Non male.
Poi c’è la stabilità, ma quella è una caratteristica dei sistemi basati su Linux, e la generale fluidità di tutte le transazioni tra i vari programmi anche su hardware non particolarmente spinto. A proposito, la nuova Ubuntu offre come una suite di produttività di tutto rispetto (Open Office di Sun), un client di posta (Firefox, oltre a quello di sistema), un programma di gestione e ritocco foto e video, un negozio di musica online Ubuntu One (tutto brani senza DRM, ovviamente), un programma (Gwibber) che integra Twitter, Facebook, Digg e molti altri servizi social networking. Ed proprio questo l’aspetto che caratterizza più di ogni altra cosa l’ultima Ubuntu: il fatto di essere - in partenza - il più social di tutti i suoi concorrenti.
Ubuntu 10.04 - in tre versioni: desktop, server, e netbook remix, pensata per netbook - è stata rilasciata da pochi giorni. Tutte queste versioni si possono scaricare liberamente dal sito www.ubuntu.com 1 oppure richiedere via posta e ricevedere il cd direttamente a casa propria (si può anche donare qualche dollaro via web, volendo).
* la Repubblica, 01 maggio 2010
TESTIMONI DIGITALI: IL NUOVO UMANESIMO E IL VECCHIO SPIRITO DELLA MENZOGNA.
Per fortuna che c’è il pensiero... Dopo duemila anni di "vangelizzazione" o "evangelizzazione" di una "chiesa" che ha sempre più identificato "Dio" con "Mammona" e "Cesare" con "Erode", l’"eu-charistia" con l’"eu-carestia", è bene che si torni a riflettere sul comunicare e sulla parola, e sul "discernimento", sulla capacità di "conoscenza approfondita, attenta valutazione critica"!!!
Se no, che ce ne facciamo del "pensiero" di persone dalla coscienza accecata dalla voglia di potere universale ("cattolico") e dalla lingua biforcuta, che contabbandano "anima cattolica" come "anima crsitiana", "cattolicesimo" come "cristianesimo", la grazia ("charis") dell’amore divino ("charitas") come il "caro-prezzo" ("caritas") del Dio Ricchezza ("Deus caritas est": Benedetto, XVI)?!
Solo così, il convegno sui nuovi (e vecchi...) media poteva essere un appuntamento che poteva dimostrare "di avere a cuore sempre e comunque la persona, la sua capacità di vivere una vita consapevole, e quindi libera". Ma così non è stato... e i lavori continuano. Come se non fosse successo niente... (Federico La Sala)
Un nuovo umanesimo digitale
di Umberto Folena (Avvenire, 24.04.2010)
«E pensare che c’era il pensiero», cantava sul finire del secolo scorso il profeta laico Giorgio Gaber. Una canzone amara, che denunciava l’egemonia del fare e dell’agire, senza senso e senza scopo. Il dominio di una tecnologia che s fa idolatria. Per fortuna che c’è il pensiero, veniva da pensare ieri alla seconda, densa, densissima giornata di «Testimoni digitali». Per fortuna c’è chi nella rete si mette pure a pensare sul senso della rete stessa, e sui suoi nodi ed intrecci; e non soltanto agisce, inebriato dal potere seduttivo della tecnologia.
Una parola che segni la giornata? Più d’una. La prima è discernimento. La traduciamo: voglia e capacità di osservare, ascoltare, comprendere. Insieme, confrontandosi con chi condivide la stessa passione. E come stile permanente. L’invito al discernimento, in modo esplicito, è di monsignor Claudio Giuliodori, presidente della Commissione episcopale per la cultura e le comunicazioni sociali, e di padre Antonio Spadaro, gesuita redattore della «Civiltà cattolica». Discernimento, spiega Giuliodori, senza chiusure superficiali né ingenue adesioni. Più nel dettaglio: conoscenza approfondita, attenta valutazione critica del mondo dei media e della loro influenza. Per Spadaro, se internet è «il luogo delle risposte», spesso affastellate senza una logica chiara, il discernimento consiste innanzitutto nel riconoscere le domande vere all’interno del parco delle risposte. Discernimento. C’è una gran voglia di consapevolezza, di intelligenza, di chiarezza. Di conoscere rotte e venti nel mare della crossmedialità.
E al discernimento si rifà il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Cei, quando invita gli animatori della comunicazione e della cultura a impegnarsi «con intelligenza e fiducia, senza assolutismi ingenui e acritici o demonizzazioni apocalittiche».
La seconda parola è in realtà un gruppo di parole tra loro simili e amiche: persona, uomo, antropologia. «Occorre portare una visione piena e integrale dell’uomo - è l’invito di Giuliodori - un uomo chiamato alla piena comunione con Dio e con i fratelli. Anche nella realtà digitale». È il «nuovo umanesimo digitale» di cui parla Chiara Giaccardi, presentando un’accurata ricerca sui giovani e il mondo digitale, con la rete come «luogo antropologico», dove la relazione può essere centrale, il rischio dell’individualismo disinnescato, lo spazio digitale costruito veramente dal basso. I giovani di cui parla Chiara Giaccardi sono diversi dai bamboccioni privi di sugo emergenti da altre rappresentazioni frettolose, superficiali e facilone, ma di maggiore appeal...
Un’altra parola è anima. Anima cristiana. E si trova al centro dell’intervento di Bagnasco, quando indica «le strade possibili di un’anima cristiana per il mondo digitale». E subito collegata a questa ci sono relazione e comunità, perché «dare un’anima - è sempre Bagnasco - significa restituire densità alle relazioni leggere della rete». Comunità: i mass media, la loro comprensione, la competenza nel saperli leggere e interpretare e «usare» spetta a tutti, non a una minoranza di addetti ai lavori. Il sociologo Guido Gili è netto: «Nell’ambiente globalizzato spetta a tutti comunicare. A tutti darsi una formazione adeguata. A tutti essere comunicatori allenati». Spetta a tutti essere testimoni in quello che Gili definisce «un campo di battaglia, di tensioni, di conflitti». E Spadaro ricorda: è necessaria la testimonianza di tutti, tutti i naviganti del Web. Tutti surfisti, chiamati a domare le onde dei media.
Il convegno sui nuovi (e vecchi...) media si rivela così un appuntamento che dimostra di avere a cuore sempre e comunque la persona, la sua capacità di vivere una vita consapevole, e quindi libera. È un convegno che si rivela un continuo invito alla creatività e alla fantasia, come emerge dalle testimonianze di lavoro sul campo, dal settimanale diocesano alla sala di comunità, da Tv2000 lanciata sul digitale terrestre al quindicinale aquilano risorto nella redazione container, dal neonato servizio parrocchie.map al Portaparola, fino al Consorzio editoria cattolica.
È un convegno che vive in sala e fuori, dove si ritrovano amici antichi e si allacciano amicizie nuove, e la rete si arricchisce di nodi, ed è un continuo scambio di idee, esperienze, valutazioni. I «Testimoni digitali» sono assai reali e amano guardarsi in faccia e parlarsi senza schermi. È un convegno la cui colonna sonora - un brusio fatto di dozzine di voci sottovoce - non è un difetto ma un pregio. Sono comunicatori che amano dialogare.
Umberto Folena
Il Papa: «Spianare la strada a nuovi incontri»
«Il tempo che viviamo conosce un enorme allargamento delle frontiere della comunicazione, realizza un’inedita convergenza tra i diversi media e rende possibile l’interattività». Lo ha detto, stamattina, Benedetto XVI, ricevendo in udienza nell’Aula Paolo VI i partecipanti al convegno. La rete manifesta, ha osservato il Papa, «una vocazione aperta, tendenzialmente egualitaria e pluralista, ma nel contempo segna un nuovo fossato: si parla, infatti, di digital divide. Esso separa gli inclusi dagli esclusi e va ad aggiungersi agli altri divari, che già allontanano le nazioni tra loro e anche al loro interno».
Non solo: «Aumentano pure i pericoli di omologazione e di controllo, di relativismo intellettuale e morale, già ben riconoscibili nella flessione dello spirito critico, nella verità ridotta al gioco delle opinioni, nelle molteplici forme di degrado e di umiliazione dell’intimità della persona». Questo convegno, invece, ha sottolineato il Pontefice, «punta proprio a riconoscere i volti, quindi a superare quelle dinamiche collettive che possono farci smarrire la percezione della profondità delle persone e appiattirci sulla loro superficie: quando ciò accade, esse restano corpi senz’anima, oggetti di scambio e di consumo».
«L’amore nella verità» costituisce «una grande sfida per la Chiesa in un mondo in progressiva e pervasiva globalizzazione» e i media possono diventare «fattori di umanizzazione», ha affermato Benedetto XVI, «non solo quando, grazie allo sviluppo tecnologico, offrono maggiori possibilità di comunicazione e di informazione, ma soprattutto quando sono organizzati e orientati alla luce di un’immagine della persona e del bene comune che ne rispetti le valenze universali».
Ciò richiede, ha proseguito il Papa, richiamando la sua enciclica “Caritas in Veritate”, che «essi siano centrati sulla promozione della dignità delle persone e dei popoli, siano espressamente animati dalla carità e siano posti al servizio della verità, del bene e della fraternità naturale e soprannaturale». Solamente a tali condizioni, ha avvertito il Pontefice, «il passaggio epocale che stiamo attraversando può rivelarsi ricco e fecondo di nuove opportunità. Senza timori vogliamo prendere il largo nel mare digitale, affrontando la navigazione aperta con la stessa passione che da duemila anni governa la barca della Chiesa. Più che per le risorse tecniche, pur necessarie, vogliamo qualificarci abitando anche questo universo con un cuore credente, che contribuisca a dare un’anima all’ininterrotto flusso comunicativo della rete».
Per un buon uso delle parole
di Annamaria Rivera (Missione Oggi, n. 4, aprile 2010)
Se, parafrasando Leopardi, si mutassero i detti e si cominciasse a chiamare le cose coi nomi loro, forse si potrebbe contrastare con più efficacia il razzismo dilagante. V’è però che il cattivo linguaggio oppure "solo" tendenzioso è parte del problema. I lessici deformanti, le retoriche e le rappresentazioni negative degli altri o la propensione a mascherare "il male" dietro gli eufemismi sono, infatti, al tempo stesso una delle cause e uno degli effetti di quel sistema complesso e multidimensionale che chiamiamo razzismo: un sistema, spesso subdolo, di disuguaglianze giuridiche, economiche e sociali, di solito caratterizzato da forti scarti di potere fra i gruppi sociali coinvolti.
Dunque, per contrastare il razzismo è utile, benché non sufficiente, decostruire e smascherare le parole e le retoriche di cui esso si serve o che inventa, avalla o afferma come se fossero verità indiscutibili.
PER UN’ECOLOGIA DELLE PAROLE
Come scriveva Etienne Balibar nel lontano 19882, la distruzione del sistema-razzismo presuppone tanto la rivolta delle sue vittime quanto la trasformazione dei razzisti stessi, "e di conseguenza la decomposizione interna della comunità istituita dal razzismo". Anche se da sola è insufficiente, l’opera di "ecologia delle parole" rappresenta uno dei mezzi, se non per decomporla, almeno per intaccare la compattezza della comunità razzista, e per provare così a metterla in crisi.
Per non rimanere nell’astrazione, conviene fare riferimento alla situazione specifica del nostro paese, caratterizzata, a mio parere, da un razzismo istituzionale tanto estremo e incalzante da alimentare, per il tramite decisivo dei mezzi di comunicazione di massa, forme diffuse di xenofobia popolare. Corollario e nel contempo agente di questo processo è il progressivo scadimento del linguaggio pubblico, che ormai sembra sottratto a ogni freno inibitorio.
Ciò che fino a un ventennio addietro era considerato pubblicamente indicibile oggi è del tutto ammesso. Per meglio dire, la caduta dell’interdetto fa sì che neppure ci si interroghi sulla sua dicibilità: pochi si scandalizzano se qualcuno, per fare un esempio fra i tanti, osa affermare in pubblico che i topi "sono più facili da debellare degli zingari, perché sono più piccoli".
QUANDO SI DICE "BUONISMO" "CPT" E "SICUREZZA"
Ma non v’è solo il consueto fraseggio leghista denigratorio e grossolano, né solo il lessico usuale del disprezzo (assunto perfino dal linguaggio normativo e burocratico) che, come fosse del tutto ovvio, nomina i/le migranti con appellativi stigmatizzanti, inferiorizzanti e de-umanizzanti: "clandestini", "extracomunitari", "badanti", "vu cumprà" o addirittura "vu lavà". V’è anche un gergo del senso comune razzista in apparenza innocente, che usa vocaboli connotati ideologicamente come fossero neutri. Si pensi al neologismo buonismo (e buonista), con il quale si è soliti bollare le politiche inclusive ed egualitarie e i discorsi solidali e umanitari nei confronti dei migranti e delle minoranze.
È un termine che appartiene alla stessa famiglia semantica di pietista, a suo tempo usato come un’accusa contro quegli italiani che, dopo l’approvazione delle leggi antiebraiche, cercarono di difendere, proteggere, aiutare i loro concittadini ebrei.
Quando poi si tratta di mascherare la gravità di misure contro i migranti, si abbonda in eufemismi ingannevoli: per tutti si può citare l’ormai sorpassato ossimoro verecondo "Centri di permanenza temporanea", al quale coloro che non conoscono pudore né interdetti, o che amano sfidarli, hanno di recente preferito il ben più esplicito "Centri di identificazione e di espulsione" (che fra breve potrebbero decidere di sostituire col più sbrigativo lager). E si consideri il ricorso sempre più frequente, quasi ossessivo, a "sicurezza", anch’esso usato a minimizzare la portata di norme emergenziali, anticostituzionali o apertamente razziste come il recente "pacchetto-sicurezza".
"POGROM" E "RAZZISMO": ESAGERAZIONI VERBALI?
Per contro, nominare il male, questo sì è considerato scandaloso: coloro che non temono gli interdetti e che abitualmente ripropongono dicerie, pregiudizi, lessici denigratori richiamano al rigore e alla correttezza verbale chi osa nominare col loro nome le cose del razzismo.
Per esempio, v’è, anche fra i colti, chi obietta che razzismo e pogrom non sono altro che esagerazioni verbali di tipo isterico: che pogrom è quello che non ha come esito il massacro e che razzismo è quello che non contempla esplicite gerarchie razziali, apartheid e soluzione finale? E poi si sa, affermano di solito costoro, a evocare certi fantasmi si rischia di dar loro corpo. "Calunniare come oscurantista chi si ribella contro l’oscurità"’ è una delle strategie retoriche per occultare il male, con ciò perpetuandolo.
Si dirà che queste considerazioni sono secondarie rispetto alla realtà corposa della discriminazione e del razzismo. Eppure è su una montagna fatta anche di cattive parole e di pessime retoriche che si è sedimentato - e riprodotto e legittimato - il razzismo quale oggi si manifesta in Italia.
Non comprenderemmo pogrom come quelli di Ponticelli (con la cacciata dell’intera popolazione rom della zona a sassaiole e insulti) e di Rosarno (con messa in fuga o la deportazione, decisa dalle istituzioni, di tutti i braccianti africani) se non dessimo importanza anche alle parole che li hanno resi possibili: le dicerie - la leggenda della zingara rapitrice che ha scatenato la furia popolare a Ponticelli - e gli insulti razzisti - "questi sono bestie", si è sentito dire a Rosarno da comuni cittadini - non sono secondari poiché fanno parte del meccanismo che dà avvio al pogrom.
Per inceppare e disarticolare la meccanica razzista è d’obbligo cominciare a chiamare le cose coi loro nomi. Per fermarla è necessario che i discriminati, inferiorizzati, perfino deumanizzati si facciano artefici collettivi della propria liberazione e quindi della dissoluzione della comunità razzista.
La Sindone, non reliquia, ma icona
di Armando Torno (Corriere della Sera, 3 maggio 2010)
Benedetto XVI a Torino per l’ostensione della Sindone ha parlato di icona e non di reliquia. Nel celebre lenzuolo il Papa vede riflessa la vicenda di Cristo; anzi il telo permette di osservare, come specchiati, i nostri patimenti nelle sue sofferenze. Sono state così lasciate in un canto le diatribe sulla datazione. Inoltre, il richiamo a Maria, all’inizio del mese a lei dedicato, reca una riflessione di fede. Fu proprio Maria, del resto, la prima a riconoscere con certezza, oltre ogni prova, nel volto umano di suo figlio quello di Dio.
Viene ora da chiedersi se la distinzione avrà un seguito e se si scriveranno altri capitoli per questa storia millenaria. La «reliquia» (da reliquus, resto, residuo) è quel che rimane di un corpo umano o di parte di esso (in tal caso era detta ex ossibus).
In senso lato, la tradizione cattolica così chiamò anche gli oggetti che furono a contatto di una persona, giacché avevano quasi assorbito le sue «preclare virtù». Vi è un’antica prassi, nata nelle catacombe, che faceva porre delle reliquie entro l’altare, nell’atto della sua dedicazione al culto. Successivamente esse diventeranno oggetto di abusi e commerci, tanto che il Concilio Lateranense del 1215 comminò gravi pene contro i trafficanti. Quasi superfluo aggiungere che prosperavano ovunque e a Roma si ricordava ancora un falsificatore, il diacono Deusdona (prima metà del IX secolo), che spediva corpi di gente comune sino in Germania, trafugando i cadaveri dai cimiteri dell’Urbe e spacciandoli per martiri.
Finite in mille dispute e in altrettante opere letterarie, le reliquie si ritrovano in quasi tutte le religioni, come prova il culto tributato al pelo della barba di Maometto a Bijapur o il fatto che le ceneri del corpo del Buddha furono divise in otto parti e conservate in santuari.
È poi pratica antichissima. Diversamente non si spiegherebbe il perché gli egizi nel Serapeo di Alessandria meditassero sulla mummia del bue Api, considerata reliquia dell’Osiride ultramondano, né perché i greci conservassero la testa di Orfeo a Lesbo (in verità ce n’era una anche a Smirne, mentre la sua lira era ovunque), né perché i romani si recassero in pellegrinaggio alla tomba di Romolo nel Foro e venerassero i sandali e la conocchia di Tanaquilla (la moglie, secondo la tradizione, di re Tarquinio Prisco).
E c’è dell’altro. Le reliquie laiche dei personaggi del nostro tempo, più o meno trasformati in miti, vengono disputate sulla rete. Si va dalla biancheria intima di Marylin Monroe al pettine di Elvis Presley, dalle magliette dei calciatori a qualcosa che non è il caso di segnalare.
«Icona», invece, dal greco eikón, ci porta al significato di immagine, anche se la tradizione bizantina ne ha fatto qualcosa di più (e di meno di una reliquia). Nel libro dell’Esodo (20,4) si legge la proibizione: «Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra»; tuttavia qualche eccezione ci fu, come provano i cherubini dell’arca dell’alleanza (Esodo 25,18) o il serpente di bronzo (Numeri 21, 8-9).
Di certo agli inizi del cristianesimo vi sono le molteplici pitture delle catacombe, le sculture dei sarcofagi; nel IV e V secolo l’uso si rileva ovunque, anche se, in un primo tempo, il culto era rivolto alla Croce. Tra gli altri, Eusebio di Cesarea nella sua Storia ecclesiastica (7,18), dice di aver visto con i propri occhi dipinti dei santi Pietro e Paolo e dello stesso Gesù. L’inizio della libertà portò con sé casi di idolatria verso talune rappresentazioni: se così non fosse, sarebbe difficile spiegare i discorsi di Leonzio, vescovo a Cipro alla fine del VI secolo, che appunto difende dall’accusa i cristiani e traccia le prime linee di una teologia del culto della Croce e delle immagini.
Poi, si sa, nel 726 l’imperatore bizantino Leone III Isaurico fece rimuovere un’icona venerata del Cristo, dando avvio al movimento degli iconoclasti. Da allora, anche se le figure sacre popolano buona parte dell’arte occidentale, la tentazione di abolirle non si è spenta e periodicamente invoca il versetto dell’Esodo.
Nell’epoca delle immagini digitali e delle icone mediatiche papa Benedetto XVI è andato oltre. Anzi, forse ha ripreso in chiave teologica la Teoria estetica di Theodor W. Adorno. In essa il loro compito, più che di riprodurre il mondo, è quello di offrire il «contenuto di verità» che si è sedimentato nella forma stessa dell’immagine o dell’icona. E ne costituisce la storicità immanente.
di Gian Guido Vecchi (Corriere della Sera, del 3 maggio 2010)
Ci voleva un Papa tedesco di vasta cultura per citare La gaia scienza di Nietzsche davanti alla Sindone. «Dio è morto! E noi l’abbiamo ucciso!», ripete Benedetto XVI e spiega: «Questa celebre espressione, a ben vedere, è presa quasi alla lettera dalla tradizione cristiana, spesso la ripetiamo nella Via Crucis, forse senza renderci pienamente conto di ciò che diciamo». Il pontefice fissa in ginocchio il lino per cinque minuti e muove le labbra in una preghiera silenziosa prima di cimentarsi in una meditazione che affronta il tema centrale del suo pontificato, il «nascondimento di Dio» nel tempo che viviamo, «dopo le due guerre mondiali, i lager e i gulag, Hiroshima e Nagasaki, la nostra epoca è divenuta in misura sempre maggiore un Sabato Santo».
La «Sacra Sindone», dice Benedetto XVI, è una «icona straordinaria» del «mistero del Sabato Santo», nei Vangeli la «terra di nessuno» tra la crocifissione e morte del venerdì e la risurrezione della domenica, il «tempo oltre il tempo» nel quale Cristo «è disceso agli inferi» e ha condiviso «l’abbandono totale, la solitudine assoluta dell’uomo», il giorno oscuro del Dio nascosto che riguarda l’intera umanità e anche i credenti, «anche noi abbiamo a che fare con questa oscurità». Specie dopo gli orrori del Novecento: «Il nascondimento di Dio fa parte della spiritualità dell’uomo contemporaneo, in maniera esistenziale, quasi inconscia, come un vuoto nel cuore che è andato allargandosi sempre di più».
«Questo è per me un momento molto atteso», ha esordito ieri pomeriggio nel silenzio sospeso del Duomo. Ratzinger aveva già visto la Sindone «ma questa volta vivo il pellegrinaggio con particolare intensità», ha detto, «forse perché il passare degli anni mi rende ancora più sensibile al messaggio di questa straordinaria icona».
Icona. Giovanni Paolo II arrivò a definirla la « reliquia più splendida della Passione e Resurrezione». Benedetto XVI usa la stessa parola che scelse il cardinale Ballestrero, «una veneranda icona di Cristo». Come spiegava la storica Barbara Frale, ne I Templari e la sindone di Cristo, «icona» significa molto più d’una immagine: e richiama il pensiero dei teologi del secondo Concilio di Nicea (787 d.C.), per i quali «l’immagine prodigiosa del Cristo è luogo del contatto col divino», esprime «reverenza e stupore». Benedetto XVI ha scelto un’espressione alta ma insieme rispettosa delle diverse opinioni e della fede.
Parla di «un telo sepolcrale in tutto corrispondente a quanto i Vangeli ci dicono di Gesù», che «testimonia» quell’«intervallo irripetibile della storia» e parla di oscurità ma insieme di «consolazione e speranza», di Risurrezione: «Mi sembra che, guardando questo sacro telo con gli occhi della fede, si percepisca qualcosa di questa luce».
Nella messa in piazza San Carlo, al mattino, Benedetto XVI aveva ricordato disoccupati, anziani soli, emarginati, immigrati. La sera ha visitato tra lacrime e ovazioni i malati del Cottolengo. «Porto nel mio cuore tutta l’umanità», aveva detto davanti al sudario dell’«Uomo dei dolori». Se tanti arrivano, due milioni per l’ostensione, è perché in quell’«icona scritta col sangue» vedono «la vittoria della vita sulla morte». Nel libro su Gesù citava il Salmo 27, «il tuo volto, Signore, io cerco. Non nascondermi il tuo volto».