La saggezza e la politica
Quella frattura tra l’antico e il moderno
Il nostro presente visto alla luce della tradizione della polis greca dove l’azione pubblica era importante quanto la riflessione
L’uomo inserito perfettamente nella vita quotidiana e tuttavia anche immerso nel cosmo
Massime che dovevano spiegare agli uomini la distanza che li separa dagli dei
di Pierre Hadot (la Repubblica, 03.07.2009)
Viviamo in una civiltà in cui l’ordine della scienza è del tutto autonomo, del tutto indipendente dai valori etici ed esistenziali. Ed è proprio questo il problema, se non il dramma della nostra epoca. Come potrà il mondo moderno ritrovare una saggezza, e cioè una forma di sapere, di coscienza, che non verta solo sugli oggetti del conoscere, ma sulla vita stessa intesa nel suo vissuto quotidiano, sul modo di vivere e di esistere? Questa separazione tra scienza e saggezza non esisteva nell’antichità greco-latina. I termini sophos e sophia, che traduciamo rispettivamente con "saggio" e "saggezza", quando fanno la loro precoce comparsa nella letteratura poetica o filosofica della Grecia antica, designano tanto l’abilità tecnica quanto l’eccellenza nell’arte musicale o poetica, e alludono a una competenza che è, al tempo stesso, il risultato dell’educazione impartita da un maestro, il frutto di una lunga esperienza, e il dono ricevuto grazie a un’ispirazione divina. È ai consigli di Atena che il carpentiere deve la sua sophia, l’abilità e il sapere nell’arte del costruire (Iliade XV, v. 411), ed è grazie alle Muse che il poeta sa cosa e come deve cantare (Esiodo, Teogonia, vv. 35-115). Troviamo qui quello che sarà un tratto costante della dottrina antica della saggezza: essa è anzitutto appannaggio degli dèi, il segno stesso della distanza che separa gli dèi dagli uomini.
I termini sophos e sophia si applicano anche alla competenza politica. Così è, in particolare, quando gli antichi parlano dei Sette Sapienti, figure storiche del VII e VI secolo a. C. divenute presto leggendarie, che possiedono a un tempo la competenza tecnica e quella politica. Sono legislatori ed educatori, come Solone. Le massime attribuite alla loro saggezza erano incise vicino al tempio di Delfi su una stele fatta incidere, con ogni probabilità nel III secolo, dal discepolo di Aristotele Clearco. Tra queste massime figurano formule celebri: «Conosci te stesso», «Nulla di troppo», «Riconosci il momento favorevole», «La misura è la cosa migliore», «L’esercizio è tutto».
Le massime delfiche erano destinate, tra l’altro, a rendere gli uomini consapevoli della distanza che li separa dagli dèi e dell’inferiorità del loro sapere, dunque della loro saggezza. La massima saggezza dell’uomo consiste nel riconoscimento dei propri limiti. O, più precisamente, come dirà Socrate citando proprio un oracolo di Delfi: «Il più sapiente tra voi (sophotatos) è colui che, come Socrate, si sia reso conto che, in quanto a sapienza (sophia) non val nulla» (Platone, Apologia di Socrate, 23b).
Con il IV secolo, per l’esattezza con Socrate e Platone, e con la riflessione sull’uso del termine philosophia (amore per la saggezza), si manifesta una svolta decisiva nella rappresentazione che ci si fa del saggio. Si diventa infatti consapevoli del carattere sovrumano della saggezza, stato trascendente e divino, rispetto al quale l’uomo non può che riconoscere di essere separato da una distanza immensa. Allo stesso tempo, la saggezza si identifica sempre più con l’episteme, ossia con un sapere certo e rigoroso, che non è mai concepito, del resto, come il nostro sapere scientifico moderno, perché coincide sempre con un saper fare, un saper vivere, insomma un certo modo di vivere. Dopo Platone, infatti, i Greci diventano profondamente consapevoli del fatto che non esiste vero sapere che non sia un sapere di tutta l’anima, che trasformi dunque la totalità dell’essere di colui che lo esercita. (...)
Contrariamente a un’opinione assai diffusa e tenace, il saggio antico non rinuncia all’azione politica. In nessuna scuola filosofica dell’antichità, infatti, il saggio abbandona il desiderio e la speranza di esercitare un’azione sugli altri uomini. E se la portata che egli vuol conferire alla propria azione varia a seconda delle scuole, il fine è sempre lo stesso: convertire, liberare, salvare gli uomini. Epicuro si sforza di farlo creando delle piccole comunità ferventi, in cui regna una serena amicizia. Platonici, aristotelici e stoici, da parte loro, non esitano a cercare di convertire intere città, agendo sulle costituzioni o sul re. Inoltre, diciamolo di sfuggita, in tutte le scuole si trovano descrizioni del re ideale più o meno ispirate al modello del saggio ideale. Quanto ai cinici, essi cercano di agire attraverso l’esempio impressionante del loro genere di vita.
Sarebbe comunque un errore pensare che la figura del saggio, descritta e imitata dal filosofo, autorizzi la fuga e l’evasione lontano dalla realtà quotidiana e dalle lotte della vita sociale e politica. Innanzitutto, la figura del saggio invita il filosofo all’azione, non solo interiore ma esteriore: agire secondo giustizia al servizio della comunità umana, dice Marco Aurelio. Ma soprattutto, la figura del saggio sembra in un certo senso ineluttabile. Essa è l’espressione necessaria della tensione, della polarità, della dualità inerente alla condizione umana. Da un lato, infatti, per sopportare la propria condizione, l’uomo ha bisogno di inserirsi nel tessuto dell’organizzazione sociale e politica, e nel mondo rassicurante, familiare e comodo del quotidiano. Questa sfera del quotidiano, però, non lo protegge interamente: egli si confronta inevitabilmente con ciò che si potrebbe chiamare l’indicibile, l’enigma terrificante del suo esserci, qui e ora, condannato a morte, nell’immensità del cosmo: diventare cosciente di sé e dell’esistenza del mondo è una rivelazione che rompe la sicurezza dell’abitudine e della quotidianità. L’uomo quotidiano cerca di eludere quest’esperienza dell’indicibile, che gli sembra vuota, assurda o terrificante. Certi uomini osano affrontarla: per loro, al contrario, è la vita quotidiana a sembrare vuota e anormale. La figura del saggio risponde dunque a un bisogno indispensabile: quello di unificare la vita interiore dell’uomo. Il saggio sarebbe così l’uomo capace di vivere su entrambi i piani: perfettamente inserito nella vita quotidiana, come Pirrone, e tuttavia immerso nel cosmo; votato al servizio degli uomini, eppure perfettamente libero nella vita interiore; consapevole eppure sereno; sempre memore di ciò che è essenziale; e, infine e soprattutto, fedele fino all’eroismo alla purezza della coscienza morale, senza la quale la vita non meriterebbe più di essere vissuta. Questo è quanto il filosofo deve cercare di realizzare. (Traduzione |di Barbara Carnevali)
Un testo di Michel Foucault sulla tradizione dell’Occidente
L’arte di vivere senza verità
Perché oggi ha vinto il cinismo
Con Manet, Bacon Baudelaire, Beckett ciò che sta in basso irrompe nelle forme artistiche elevate
La dottrina cinica nel mondo antico era popolare, oggi è un atteggiamento elitario e marginale
di MICHEL FOUCAULT (la Repubblica, 01.07.2009)
C’è una ragione che ha portato l’arte moderna a farsi veicolo del cinismo: parlo dell’idea che l’arte stessa, che si tratti di letteratura, di pittura o di musica, deve stabilire con il reale un rapporto che vada al di là del semplice abbellimento, dell’imitazione, per diventare messa a nudo, smascheramento, raschiatura, scavo, riduzione violenta dell’esistenza ai suoi elementi primari. Non c’è dubbio che questa visione dell’arte si sia andata affermando in modo sempre più marcato a partire dalla metà del XIX secolo, quando l’arte (con Baudelaire, Flaubert, Manet) si costituisce come luogo di irruzione di ciò che sta in basso, al di sotto, di tutto ciò che in una cultura non ha il diritto o quanto meno non ha la possibilità di esprimersi. A tale riguardo, si può parlare di un antiplatonismo dell’arte moderna. Se avete visto la mostra su Manet, quest’inverno, capirete quello che voglio dire: l’antiplatonismo, incarnato in maniera scandalosa da Manet, rappresenta a mio avviso una delle tendenze di fondo dell’arte moderna, da Manet fino a Francis Bacon, da Baudelaire fino a Samuel Beckett o a Burroughs, anche se non si identifica attualmente come elemento caratterizzante di tutta l’arte possibile.
Antiplatonismo: l’arte come luogo di irruzione dell’elementare, come messa a nudo dell’esistenza. Di conseguenza, l’arte ha stabilito con la cultura, le norme sociali, i valori e i canoni estetici, un rapporto polemico, di riduzione, di rifiuto e di aggressione. È questo l’elemento che fa dell’arte moderna, a partire dal XIX secolo, quel movimento incessante attraverso il quale ogni regola stabilita, dedotta, indotta, inferita sulla base di ciascuno dei suoi atti precedenti, è stata respinta e rifiutata dall’atto successivo. In ogni forma d’arte si può trovare una sorta di cinismo permanente nei riguardi di ogni forma d’arte acquisita: è quello che potremmo chiamare l’antiaristotelismo dell’arte moderna.
L’arte moderna, antiplatonica e antiaristotelica: messa a nudo, riduzione all’elementare del l’esistenza; rifiuto, negazione perpetua di ogni forma già acquisita. Questi due aspetti conferiscono all’arte moderna una funzione che in sostanza si potrebbe definire anticulturale. Bisogna opporre al conformismo della cultura il coraggio dell’arte, nella sua barbara verità. L’arte moderna è il cinismo nella cultura, il cinismo della cultura che si rivolta contro se stessa. Ed è soprattutto nell’arte, anche se non solo in essa, che si concentrano nel mondo moderno, nel nostro mondo, le forme più intense di quella volontà di dire la verità che non ha paura di ferire i suoi interlocutori. Restano naturalmente molti aspetti ancora da approfondire, e in particolare quello della genesi stessa della questione dell’arte come cinismo nella cultura.
Si possono vedere i primi segnali di questo processo, destinato a manifestarsi in modo clamoroso nel XIX e nel XX secolo, ne Il nipote di Rameau e nello scandalo suscitato da Baudelaire, Manet, (Flaubert?). Ci sono poi i rapporti tra cinismo dell’arte e vita rivoluzionaria: affinità, fascinazione reciproca (perpetuo tentativo di legare il coraggio rivoluzionario di dire la verità alla violenza dell’arte come irruzione selvaggia del vero); ma anche il loro non essere sostanzialmente sovrapponibili, dovuto forse al fatto che, se questa funzione cinica è al cuore dell’arte moderna, il suo ruolo nel movimento rivoluzionario è solo marginale, almeno da quando quest’ultimo è dominato da forme di organizzazione, da quando i movimenti rivoluzionari si organizzano in partiti e i partiti definiscono la "vera vita" come totale conformità alle norme, conformità sociale e culturale. È evidente che il cinismo, lungi dal costituire un legame, è un motivo di incompatibilità tra l’ethos dell’arte moderna e quello della pratica politica, sia pure rivoluzionaria.
Si potrebbe formulare lo stesso problema in termini diversi: perché il cinismo, che nel mondo antico aveva assunto le dimensioni di un movimento popolare, è diventato nel XIX e nel XX secolo un atteggiamento elitario e marginale, anche se importante per la nostra storia, e il termine cinismo viene utilizzato quasi sempre in riferimento a valori negativi? Si potrebbe aggiungere che il cinismo ha molti punti di contatto con un ’altra scuola greca di pensiero: lo scetticismo - anche in questo caso, uno stile di vita, più che una dottrina, un modo di essere, di fare, di dire, una disposizione a essere, a fare e a dire, un’attitudine a mettere alla prova, a esaminare, a mettere in dubbio.
Ma con una grandissima differenza: mentre lo scetticismo applica sistematicamente al campo scientifico questa attitudine, trascurando quasi sempre l’esame degli aspetti pratici, il cinismo appare incentrato su un atteggiamento pratico, che si articola in una mancanza di curiosità o in un’indifferenza teorica, e nell’accettazione di alcuni princìpi fondamentali. Ciò non toglie che, nel XIX secolo, la combinazione tra cinismo e scetticismo sia stata all’origine del "nichilismo", inteso come modo di vivere basato su un preciso atteggiamento nei confronti della verità. Dovremmo smetterla di considerare il nichilismo sotto un unico aspetto, come destino ineluttabile della metafisica occidentale, a cui si potrebbe sfuggire solo facendo ritorno a ciò il cui oblio ha reso possibile questa stessa metafisica; o come una vertigine di decadenza tipica di un mondo occidentale divenuto ormai incapace di credere ai suoi stessi valori.
Il nichilismo deve essere considerato in primo luogo una figura storica particolare appartenente al XIX e al XX secolo, ma deve anche essere inscritto nella lunga storia che l’ha preceduto e preparato, quella dello scetticismo e del cinismo. In altre parole, deve essere visto come un episodio o, meglio, come una forma, storicamente ben definita, di un problema che la cultura occidentale ha cominciato a porsi già da molto tempo: quello del rapporto tra volontà di verità e stile di esistenza.
Il cinismo e lo scetticismo sono stati due modi di porre il problema dell’etica della verità. La loro fusione nel nichilismo mette in luce una questione essenziale per la cultura occidentale, che può essere formulata in questo modo: quando la verità è rimessa continuamente in discussione dallo stesso amore per la verità, qual è la forma di esistenza che meglio si accorda con questo continuo interrogarsi? Qual è la vita necessaria quando la verità non lo è più? Il vero principio del nichilismo non è: Dio non esiste, tutto è permesso. La sua formula è piuttosto una domanda: se devo confrontarmi con il pensiero che "niente è vero", come devo vivere? La difficoltà di definire il legame tra l’amore della verità e l’estetica dell’esistenza è al centro della cultura occidentale. Ma non mi preme tanto definire la storia della dottrina cinica, quanto quella dell’arte di esistere. In un Occidente che ha inventato tante verità diverse e che ha plasmato tante differenti arti di esistere, il cinismo serve a ricordarci che ben poca verità è indispensabile per chi voglia vivere veramente, e che ben poca vita è necessaria quando si tenga veramente alla verità.
Traduzione di Stefano Salpietro
OLTRE IL MITO DELLA VERITA’ OGGETTIVA. "Addio alla verita’": un saggio di Gianni Vattimo.
MELCHISEDECH A SAN GIOVANNI IN FIORE, TRA I LARICI “PISANI”. Per i ‘Settanta’ di VATTIMO
"X"- FILOSOFIA. A FIGURA DEL "CHI": IL NUOVO PARADIGMA.
La caccia all’eretico
Dai vescovi al papa
All’inizio scovare e perseguire l’errore era compito di vescovi e concili.
Poi con il tempo la condanna e la persecuzione divennero una specializzazione di corpi alle dirette dipendenze del papato
di Adriano Prosperi (la Repubblica, 30.06.2009)
Nella tradizione della chiesa cristiana d’Occidente la condanna dell’errore ha preso il nome latino di una istituzione dell’antica Roma: censura.
Non è solo una questione di parole. La lotta contro l’errore, per la Chiesa, ha cessato presto di essere la parola carismatica dell’apostolo che corregge Simon Mago per diventare la funzione di un potere regolato dal diritto. Da correzione fraterna dell’errante si è trasformata in volontà di uniformazione del consenso e domanda di adesione acritica secondo la formula recitata dall’eretico pentito: «Credo quod credit Sancta Mater Ecclesia» (credo quello che crede la santa madre chiesa). Il percorso storico è stato lungo ma lo spirito del dubbio e della disobbedienza è sempre stato identificato col volto di Satana, il tentatore. E col costituirsi della Chiesa come società gerarchica dominata da un potere sacrale accentrato la censura si è esercitata soprattutto contro gli ingegni indocili. La scelta personale ("eresia") fu la colpa da perseguire.
Se all’inizio scoprire l’errore e denunciarlo fu il compito di vescovi e concili, l’ascesa del potere papale portò a concentrare la censura delle opinioni e la persecuzione degli eretici nelle mani di corpi specializzati alla esclusiva dipendenza del papato: gli ordini religiosi domenicano e francescano. Dominanti nella predicazione e nell’insegnamento della teologia, i frati furono anche i titolari dell’ufficio dell’inquisizione. Fu così che i roghi di libri aprirono la via ai roghi di uomini.
La "rivoluzione silenziosa" del libro a stampa e quella del movimento luterano portarono a profonde modifiche. Fu allora che il papato accentrò nelle sue mani la censura. Il primo e più celebre degli indici dei libri proibiti fu pubblicato da Papa Paolo IV nel 1559 inaugurando una tradizione destinata a lunga durata. Da allora la censura divenne una funzione ordinaria del potere ecclesiastico che precedette quello statale. Si trattò di un’impresa gigantesca: oltre alla propaganda protestante ci si propose di passare al setaccio tutta la produzione libraria antica e moderna. L’esito fu micidiale per l’attività intellettuale e per l’editoria (quella veneziana perse la sua egemonia europea). Era un esito obbligato per un sistema teocratico: nella Ginevra calvinista, per salvare affari e religione, si ricorse all’astuzia di far pubblicare i testi pagani "licenziosi" sotto il falso luogo di stampa di Lione.
Nel mondo cattolico italiano i libri pericolosi furono distrutti (Machiavelli) o "espurgati" (Boccaccio). Ci furono autori di pasquinate anticlericali che pagarono la satira con la vita. Al popolo, considerato come un gregge da mantenere docile o come un fanciullo destinato a non diventare mai adulto, si fornì una cultura premasticata e innocua.
L’autodenunzia di Torquato Tasso, il rogo di Giordano Bruno, il processo a Galileo, sono gli episodi più celebri della svolta dell’attività intellettuale in Italia verso l’età dell’autocensura preventiva e dell’ossequio cortigiano.
Mentre la migliore cultura italiana trovava ospitalità fuori d’Italia, si svolse il lavoro assiduo dei laboratori della censura accentrati nella Roma papale: la Congregazione cardinalizia dell’Inquisizione (creata nel 1542) e la Congregazione dell’Indice (1571) hanno accompagnato la cultura cattolica e in modo speciale quella italiana fino al secolo XX inoltrato. Oggi la loro eredità sopravvive nell’opera della Congregazione Vaticana per la Dottrina della Fede.
Il dibattito sul relativismo
NON SEPARARE RAGIONE § CARITA’
di Gianni Vattimo (La Stampa - Tuttolibri, 21.05.2005)
PERCHÉ oggi parliamo tanto di relativismo? Il tema è infatti diventato di bruciante attualità solo in tempi molto recenti, tanto che un libro serio e certamente frutto di una lunga riflessione come quello di Giovanni Jervis appena uscito da Laterza (Contro il relativismo, pp. 165, €10) rischia di apparire un instant book prodotto su due piedi per rispondere a una momentanea esigenza del mercato... Nell’interesse per questo tema, con cui la filosofia ha avuto a che fare fin dal tempo dei sofisti, confluiscono oggi stati d’animo e problemi molteplici. Non solo il multiculturalismo della nostra società, accentuatosi con la globalizzazione e l’immigrazione; ma soprattutto, da ultimo, il problema della «esportazione» della democrazia con la forza, giustificata da chi la pratica con l’argomento che le istituzioni democratiche sono un valore universale che val bene una guerra, anzi, come pare, anche una guerra infinita (dopo l’Iraq viene l’Iran, e poi chissà quali Paesi ancora). E ora le polemiche sul referendum diretto a modificare la legge sulla procreazione assistita: sebbene qui non ci sia effettivamente un contrasto tra «relativisti» e non, la discussione verte comunque sulla verità; sia essa quella che dovremmo trovare nella biologia (la quale però non è affatto unanime nell’attribuire all’embrione gli stessi diritti della persona formata, già «venuta al mondo»), sia quella dei doveri che avremmo verso la «vita» e il suo naturale diritto a svilupparsi comunque.
Sembra significativo che, mentre esce il libro decisamente «laico» di Jervis, venga ripubblicato anche, insieme a un lungo dibattito inedito tra Josef Ratzinger, allora semplice cardinale, Paolo Flores d’Arcais e Gad Lerner, un testo dello stesso Ratzinger che risale al 2000, intitolato significativamente La verità cattolica (in Dio esiste?, Il Fondaco di Micromega, pp. 111, €8).
E’ un testo di straordinaria chiarezza e di grande impegno teoretico, che si legge con viva ammirazione e che, anche per coloro che guardano con preoccupazione al papato di Ratzinger (il quale è pur sempre l’ex prefetto del Santo Uffizio, il guardiano dell’ortodossia cattolica, e anche della disciplina all’interno della Chiesa), giustifica la solida speranza che il pontificato che si apre ora sia in definitiva più ricco di discussione teologica, e quindi di libertà, di quello che si è appena concluso.
Come il lavoro di Jervis, anche il testo di Ratzinger insiste nel rivendicare la forza della ragione e la sua capacità di conoscere la verità, contro ogni tentazione relativistica. Naturalmente, mentre Jervis ha in mente la ragione come luogo delle verità scientifiche, delle quali i relativisti dubiterebbero anche per un malinteso senso di rispetto verso la pluralità delle culture, Ratzinger (e forse qui non si può che stare con lui) ha in mente un concetto di razionalità molto meno legato alle scienze sperimentali.
La ragione a cui egli pensa è quella che sa riconoscere l’esistenza di Dio e costruire una teologia naturale che la rende disponibile ad ascoltare la rivelazione che Dio fa di sé nella Bibbia e nell’insegnamento della Chiesa. Ratzinger ripete qui, in qualche modo, il discorso di Paolo all’Areopago, aspettandosi però un esito diverso.
La teologia naturale, già nel pensiero classico greco, incontraDio come fondamento supremodelmondo. Questo Dio rimane però una entità relativamente astratta, al punto che stoicismo e neoplatonismo, culmini della teologia antica, ammettono che egli si dia in simboli molteplici di stampo mitico, senza che con lui vi possa essere una vera relazione personale, nemmeno un vero e proprio culto.
Al Dio dei filosofi, come dirà più tardi Heidegger, non si rivolgono preghiere, né ci si prostra davanti a lui. E’ con l’annuncio evangelico che si unificano le due dimensioni sempre separate nella esperienza filosofica antica, quella del Dio garante dell’ordine del mondo e quella del bisogno di salvezza e di una relazione personale con lui. «Le due dimensioni della religione, che erano sempre separate l’una dall’altra, la natura eternamente dominatrice e il bisogno di salvezza dell’uomo che soffre e lotta, sono legate l’una all’altra» (p.57).
Come si stabilisca questo legame - quello che Paolo non riuscì a far riconoscere dai suoi ascoltatori ateniesi - non è detto chiaramente nel testo ratzingeriano. Difficile immaginare che la ragione operi da se stessa questo riconoscimento; tanto che, come hanno pensato tanti teologi e scrittori cristiani, anche il suo trovare Dio come fondamento della natura sembra possibile solo in virtù della rivelazione e della Grazia. Ma ciò che importa a Ratzinger non è dimostrare «razionalmente» la verità del cristianesimo, bensì mostrare che la rivelazione biblica risponde a una specie di attesa, o di vocazione, della ragione stessa.
La coincidenza delle due verità - quella della teologia razionale e quella della parola rivelata - si radica per lui nella unità del logos che, secondo il prologo di San Giovanni, era «in principio ». Quel logos è insieme razionalità e amore, e nell’unione di questi due aspetti del Verbo divino consiste tutta la verità del cristianesimo.
L’essere stesso, dunque, conformemente alla più radicata convinzione della metafisica (a cominciare da Socrate: il giusto non ha nulla da temere, né in questa vita né nell’altra, perché il mondo è retto da un principio razionale), è strutturato razionalmente, e per questo con la nostra ragione lo possiamo conoscere e ci possiamo conformare ad esso.
Qui però vale la pena di richiamarsi al razionalismo che permea il libro di Jervis: la verità oggettiva di cui egli parla, in contrasto con la molteplicità delle interpretazioni, ha alla propria base la stessa fede metafisica che ispira il discorso del cardinale. Come mai, però, in Jervis (e in tanto razionalismo moderno, anche in quello espresso da Flores d’Arcais nella discussione riportata nello stesso volume) non incontriamo alcuna apertura al messaggio cristiano e alla rivelazione biblica? Si badi che qui non poniamo una domanda polemica né a Jervis né a Ratzinger.
Rileviamo solo che quella razionalità che si è imposta nella tradizione occidentale con il pensiero greco, e che aveva tra i suoi esiti anche la teologia naturale, ha dato luogo, nella modernità, al razionalismo illuministico e allo scientismo di Jervis. Come se, di nuovo, i due aspetti della religione che Ratzinger considera uniti nel cristianesimo (la verità razionale di Dio e la rivelazione del suo amore per noi), si fossero di nuovo profondamente separati.
E’ lecito pensare che in questa separazione (forse mai davvero superata, nonostante San Tommaso e la teologia di Ratzinger), proprio il relativismo stia dalla parte dell’amore: la fede in Gesù e nella sua parola non ha bisogno di nessuna verità razionalmente dimostrata, e anzi, quando crede di allearsi ad essa rischia sempre di cadere nella violenza: amicus Plato, sed magis amica veritas. Se Platone diffonde l’errore, è giusto farlo tacere..).
Solo per l’amicizia che proviamo verso Cristo possiamo perdonare a Dio (senza le acrobazie della teodicea...) la tanta ingiustizia che ancora sempre domina nel mondo. Appunto perché, come dice un proverbio, l’amore è cieco: altro che razionalità rigorosa di impronta greca.
L’ostinazione con cui la Chiesa, anche per bocca del nuovo Papa, rivendica la forza cogente della ragione è sicuramente ispirata (oltre che da meno nobili motivi: se l’etica che la Chiesa predica coincide con quella della pura ragione umana, si può vietare il divorzio anche ai non credenti; eccetera) dalla volontà di affermare la dignità dell’uomo. Ma allora non si vede perché questa dignità dovrebbe consistere nell’assoggettarsi a un ordine oggettivo che così spesso non coincide, anzi per lo più confligge, con le esigenze della carità e della libertà.
Gianni Vattimo
Straparlando
GIANNI VATTIMO. Che fatica trovarsi a un millimetro dalle parole.
di Antonio Gnoli (la Repubblica, Robinson, 25 febbraio 2023, pp. 38-39).
La vecchiaia di un celebre filosofo, come tutte le vecchiaie verrebbe da aggiungere, andrebbe protetta dalle bagarre mediatiche. Quelle che da alcuni anni hanno visto coinvolto Gianni Vattimo. Era da un po’ che con Gianni non ci si vedeva e quando gli ho telefonato l’ho sentito disponibile all’idea che sarei andato a trovarlo. Ci siamo visti per pranzare nella sua grande e accogliente casa di via Po. Dove tutto è come l’ultima volta.
Tranne il gatto fulvo che non c’è più. Ci sono i libri, la grande televisione dove il professore segue a volume piuttosto alto un telegiornale. Le immagini corrono davanti a una specie di indifferenza dello sguardo. Mi riceve Simone Caminada. Presenza per molti ingombrante, per alcuni necessaria. Il giorno dopo la visita, una sentenza giudiziaria lo condanna a due anni di carcere per circonvenzione. In pratica avrebbe approfittato della fragilità del filosofo per mettere le mani sul suo patrimonio. Non entro nella questione che è stata già ampiamente trattata dai giornali. Mi limito a osservare la padronanza con cui Caminada - un adulto di 40 anni di Salvador Bahia - gestisce il rapporto con Vattimo.
Perché sono qui? Perché al Circolo dei lettori di Torino, su iniziativa del centro studi Pareyson, Lopera completa di Vattimo (edita dalla Nave di Teseo) ed era appunto un’occasione vederlo qualche ora prima, parlargli, intervistarlo fuori da ogni clamore giudiziaario. Poche settimane fa Gianni ha compiuto 87 aqnni. E’ smagrito. Guardo i suoi occhi di una fissità vaga e ascolto i suoi prolungati silenzi. Non so bene da dove iniziare. Forse dal fatto che l’antico allievo Maurizio Ferraris si sia rappacificato con il maestro.
Ho letto l’articolo che Ferraris ha scritto su di te.
«Non credo di averlo capito bene quell’articolo».
Cosa hai pensato?
«A una mozione di affetti, e che alla fine si torna un po’ bambini. Senza più l’obbligo di dover capire tutto».
Che vuoi dire?
«Non lo so, mi sento un po’ bambino. Sono accudito come un bambino. Lo vedi, di mio faccio poco».
Perché non puoi o non vuoi?
«Non posso, è chiaro. Parlo a fatica, a volte sono a un millimetro dalle parole».
Dalle parole per esprimerti e spiegarti?
«Avverto il suono e il senso di quelle altrui. Le mie escono strane».
Strane come?
«Come se la mia voce fosse cambiata. si strozzano in gola, poi escono come un sospiro pesante».
Vorrei tornare all’articolo di Ferraris.
«Ti ho detto, quell’articolo uscito sul Corriere della sera, non l’ho ben capito».
Dice che sei un cattolico, ma io ti vedo poco come cattolico.
«No, no. Lo sono».
Sei dentro il cristianesimo.
«Sono cattolico apostolico romano».
Non te l’ho mai sentito dire in modo così netto.
«Per me il cristianesimo è il cattolicesimo romano».
Il cristianesimo è molto di più.
«Ma sono nato qui. Fossi nato altrove sarei probabilmente un’altra cosa».
La Chiesa è tutt’altro che salda.
«Principi e la gerarchia non mi interessano».
E cosa ti interessa?
«Vivere la mia condizione periferica».
Di Ratzinger che cosa pensi?
«Mi pare sia morto».
Sì ma che giudizio ne dai?
«Negativo. La sua rinuncia, per quel che si è scritto, è stato un gesto bello. Ma troppa teologia impositiva».
Faceva il suo mestiere.
«Fin dall’inizio mi è parso respingente».
E di Papa Francesco cosa dici?
«Una grande figura. È la sola che mi interessa. So che ha letto alcuni miei libri. Prima della pandemia ci sentimmo telefonicamente».
Cosa vi diceste?
«Non lo ricordo».
Posso dirtelo io. Gli era piaciuto il tuo “Essere e dintorni”.
«Un libro che non chiude la mia opera, la lascia aperta».
L’opera aperta mi fa pensare al tuo amico Umberto Eco.
«Come me veniva dal mondo cattolico».
Vi ha condizionati questa educazione?
«Penso di sì. Un’educazione è una forma di disciplina. Ne restano tracce difficilmente cancellabili. Si sarebbe laureato su San Tommaso o avrebbe scritto Il nome della rosa senza quella educazione?».
Quanto a te?
«Ho sostenuto un cristianesimo senza verità».
Un cristianesimo debole, intendi dire?
«Debole, certo. Al punto che dovendo scegliere tra Gesù e la verità sceglierei lui. Era una strepitosa battuta di Dostoevskij».
Ma non si dice che Gesù sia la verità?
«Certo, ma quale? Non la verità che abbiamo ereditato dalla tradizione filosofica. Gesù ci ha liberati da quella verità. Ci ha chiesto di aderire al suo messaggio. Che è anche un messaggio profondamente politico».
Hai scritto molto di politica.
«È così».
Così come?
«La mia ermeneutica - il modo di interpretare i testi, gli eventi, la vita - si serviva dello sguardo politico. Non puoi limitarti a interpretare il mondo, devi provare a cambiarlo».
Pensi di esserci riuscito?
«Ho i miei dubbi. Anzi la certezza di avere fallito».
E’ il destino degli intellettuali, dei filosofi. Da Platone in poi. Vogliono dare la linea. «Ma non volevo servire i politici. Che sono per lo più penosi. Volevo muovermi nell’ordine di un mondo fatto in parte di esclusi».
Segui ancora la politica?
«Guardo i telegiornali. La politica non mi interessa più. Non saprei da che parte collocarmi. Sapevo stare dal lato dei più deboli. Ma chi sono i deboli oggi?».
Beh, sfruttati, emarginati, poveri non mancano, il discorso sulle disuguaglianze è più che mai attuale.
«Si sono riempite biblioteche di testi, io stesso vi ho contribuito. Ho spinto perché la sinistra, oltre che ai vecchi diritti pensasse anche ai nuovi. È una sinistra senza contenuti. Dovrebbe occuparsi degli ultimi».
Gli ultimi del messaggio evangelico? «Chi se no? ».
De André, in una canzone, scritta con De Gregori, parlava di un francescanesimo a puntate.
«Che vuol dire?».
Una carità automatica, seriale, esibita, con il tornaconto.
«Va bene, sono contro la carità pelosa».
A favore di cosa?
«Dei diritti, di tutti i diritti. Ricordo che contro l’inquinamento acustico nelle città, anni fa proposi alla sinistra di farsi sostenitrice del diritto del silenzio».
Forse c’è anche molto rumore mediatico.
«Assordante, non c’è dubbio».
Tu come lo hai vissuto, come lo vivi?
«Con fastidio. Si sono dette troppe cose. E il processo che mi ha riguardato è sembrata una cosa arbitraria».
C’era chi temeva per il tuo patrimonio.
«Dei miei soldi faccio quello che voglio. Si sono create troppe aspettative attorno a me. Non è giusto finire sui giornali per fatti che riguardano la mia vita privata».
Ti ha tolto serenità?
«Un po’ sì, ma neanche tanto. Vorrei essere più autonomo, più libero. Ma sono in queste condizioni di semi immobilità. Ho bisogno di aiuto. E Simone svolge il compito egregiamente».
È qualcosa di più di un assistente?
«Lo considero il mio compagno».
Simone mi ha detto che il tuo Parkinson è una balla. Un’invenzione.
«Ti ha detto questo? Non lo so. So che mi muovo a fatica e che debbo usare la carrozzina per spostarmi».
Ha aggiunto che se mai ci sia stato è regredito.
«Forse un po’ è regredito, chi lo sa».
Sono anche regredite le polemiche sulla tua filosofia.
«Non so se considerarlo un bene, Mi divertivano quelle accese discussioni. Credo di aver rotto le scatole a tanti conclamati filosofi».
Ormai sei considerato quasi un classico.
«Toglierei il quasi. Lo sono. È il solo diritto di cittadinanza che mi riconosco».
Le polemiche sul postmoderno e il pensiero debole sono ormai tramontate.
«Restano i libri, i miei, quelli di Rorty e di Lyotard».
A quale dei tuoi scritti ti senti più legato?
«Ai primi, in particolare a Il soggetto e la maschera. E’ quello in cui mi riconosco. Il più organico nella visione».
Uscì a metà anni Settanta. Il pamplet sul Pensiero debole, scritto con Pier Aldo Rovatti, nel 1983.
«I detrattori pensavano che debole volesse dire arrendevole, superficiale, stolto. Pensavano che la nostra filosofia fosse adatta ai gagà e ai bellimbusti».
E invece?
«Fu un modo per togliere il peso opprimente ai concetti, dar loro quella leggerezza necessaria dopo la deflagrazione concettuale della metafisica. Quella roba lì, che da Platone in poi era stata predicata, non funzionava più».
Ricordi il tuo esordio in pubblico?
«Credo di averne avuti più d’uno».
Mi riferisco a te poco più che venticinquenne mentre tieni una lezione all’università di Torino.
«Sinceramente non ricordo, dammi qualche indizio».
Era il novembre del 1960 e tu parlavi per la prima volta davanti a una schiera di autorevoli professori torinesi.
«Chi c’era?».
Tra gli altri c’erano Guzzo, Abbagnano, Chiodi, Bobbio e il tuo maestro Pareyson.
«Ero fresco della lettura dei seminari di Heidegger su Nietzsche che erano usciti quell’anno. Allora ero un dirigente dell’Azione cattolica e parlare di Nietzsche e Heidegger poteva sembrare una stravaganza».
Quale dei due è stato più importante per te?
«Oggi ti risponderei Heidegger. Nietzsche ha svolto il ruolo di accompagnatore. Ha funzionato da melodia».
Come vivi questa fase finale?
«Provo a non pensarci, le conseguenze sono pesanti».
Hai fatto testamento biologico?
«No c’ho pensato. Ne dedurrai che sono un ottimista».
E lo sei?
«Lo ero, qualcosa è rimasto di quell’ottimismo».
Forse la gentilezza e il saper accogliere gli altri.
«La chiamerei predisposizione cristiana».
Com’è una tua giornata?
«Mi alzo tardi, faccio fisioterapia, la colazione, leggo i giornali e poi l’attesa del pranzo. Guardo le notizie in televisione leggo qualche libro. Sono molto noioso».
Che libri leggi?
«Narrativa poliziesca, non vado molto più in là».
Ti manca il non poter scrivere come vorresti?
«Moltissimo. Avrei voglia di scrivere, di continuare a lavorare alle mie cose. Ma non ce la faccio».
Ti rassegni?
«A volte mi dispero, ma so che è inutile. E mi rassegno».
Oltre alla scrittura cos’altro ti manca?
«I compagni che non ci sono più, i miei».
Intendi i tuoi genitori?
«Mio padre praticamente non l’ho conosciuto. Mi manca mia madre. Una figura importante per me».
Una volta mi raccontasti del suo lavoro da sarta e che ti insegnò a cucire.
«È vero. Ero un bambino cresciuto con le conseguenze della guerra. La fame e le bombe. Un misto di paura e precarietà. L’aiutavo a confezionare abiti».
Hai detto all’inizio di questo nostro incontro che si torna quasi sempre bambini.
«La magia è avere dentro di sé il bambino che eri».
Pensi di averlo conservato in te?
«Penso che quello che sono diventato lo devo a quello che fui. E se lo so è perché è ancora dentro di me».
NOTA: MESSAGGIO EVANGELICO E INFANZIA: COME SI RI-NASCE?! Se si dimentica l’essere stati bambini ("ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi") e di essere stati al-levati, dell’essere ri-nato grazie a tutta la comunità, come è più possibile vivere?!
***
LE "TRE #METAMORFOSI" DELLO #ZARATHUSTRA DI #NIETZSCHE E IL #SAPEREAUDE! DELL’ILLUMINISMO DI #KANT. Appunti... [...] *
PSICOLOGIA E FILOSOFIA. Carl Gustav #Jung ha fatto un brillantissimo lavoro su «Lo Zarathustra di Nietzsche. Seminario 1934-39», ma alla fine la sua stessa ombra gli ha impedito di giungere a fondo e a capo dell’enigma di #Edipo, della domanda (la "question") di #Amleto, della "#visione e l’#enigma di Zarathustra e, infine, di accogliere il #bambino nato dalla metamorfosi del cammello e del leone (cfr. Federico La Sala, "La #menteaccogliente. Tracce per una #svolta_antropologica", Antonio Pellicani Editore, Roma 1991).
Il “pensiero debole” compie 40 anni
di Stefano Oliva *
Ricorrono nel 2023 i quarant’anni dalla pubblicazione della fortunata raccolta di saggi, a cura di Gianni Vattimo e Pier Aldo Rovatti, intitolata Il pensiero debole (Feltrinelli, 1983). Al volume, destinato a rappresentare un punto di riferimento per il dibattito filosofico e culturale del nostro Paese, contribuirono autori di diversa provenienza teorica: oltre ai curatori, parteciparono Leonardo Amoroso, Gianni Carchia, Giampiero Comolli, Filippo Costa, Franco Crespi, Alessandro Dal Lago, Umberto Eco, Maurizio Ferraris e Diego Marconi.
Nel “pensiero debole”, seppur restio a costituirsi come un indirizzo di ricerca omogeneo e tanto meno come una scuola filosofica, si incontravano diverse istanze teoriche riconducibili alla presa d’atto novecentesca di una crisi della ragione che non trovava altra via d’uscita se non nel definitivo abbandono della metafisica. Erede della “morte di Dio” proclamata da Nietzsche e della critica di Heideggeralla onto-teologia occidentale, il “pensiero debole” intendeva radicalizzare gli esiti dell’orientamento ermeneutico rinunciando a ogni riferimento “forte” alla verità per rivolgersi, con «sguardo amichevole» e «pietas» alla tradizione e alle forme simboliche della nostro panorama culturale, intese come «luogo di una possibile esperienza dell’essere» [1]. Un essere che, secondo la concezione heideggeriana di differenza ontologica, non poteva più essere concepito come un ente, né come oggetto né come soggetto, ma come evento, manifestato essenzialmente all’interno della dimensione linguistica.
Nel suo contributo, Gianni Vattimo esponeva le linee caratteristiche di questa «nuova ontologia» [2] caratterizzata dalla presa d’atto di un essere debole, caduco, costantemente aperto a interpretazioni plurali e a negoziazioni dialogiche. Indebolito l’essere, anche la verità veniva conseguentemente ridimensionata rispetto alle sue pretese di validità e stabilità: «il vero [...] non ha natura metafisica o logica, ma retorica» [3] e, secondo quanto suggeriva Vattimo, si costruisce solamente nel processo interpretativo. Gli esiti nichilisti della radicalizzazione dell’ermeneutica - vale a dire la destituzione di ogni riferimento normativo e vincolante, una volta compiuta la rinuncia all’essere e al vero intesi in senso forte - non sfuggivano al filosofo, che già in quel saggio inaugurale si interrogava sulla possibilità che il pensiero debole avesse come risvolto etico-politico uno svilimento anche della capacità di critica e dunque una passiva «accettazione dell’esistente» [4]. In effetti se, come affermava Nietzsche, «non ci sono fatti, solo interpretazioni» [5], ogni stato di cose potrà essere reso accettabile attraverso una opportuna narrazione (il giusto story-telling, come si dice oggi) e ogni forma di rivendicazione potrà esser spenta a vantaggio del mantenimento dello status quo.
Di questo e di altri inconvenienti del “pensiero debole” si è dimostrato consapevole il “nuovo realismo”, orientamento filosofico inaugurato da Maurizio Ferraris e dettagliatamente presentato dal filosofo nel Manifesto [6] pubblicato nel 2012. Una vera e propria reazione, a tratti eccessivamente semplificante, a un periodo di notevole influenza del “pensiero debole” tanto nel dibattito filosofico quanto - cosa forse più interessante - nel clima culturale italiano, in cui forme di relativismo e prospettivismo, nutrite da una certa diffidenza nei confronti della nozione di verità e da un atteggiamento di sufficienza per filosofie d’istanza metafisica, hanno trovato negli anni notevole spazio.
A distanza di quarant’anni, dopo che il principale animatore del “pensiero debole” ha specificato la sua riflessione in molti interventi e ulteriori scritti, peraltro recentemente raccolti in un importante volume [7], è possibile proporre qualche osservazione, se non propriamente fare un bilancio, rispetto quello che è stato un orientamento filosofico discusso e influente.
Scelgo qui di riprendere alcuni spunti presenti nel saggio Credere di credere [8], in cui Vattimo mette in relazione il “pensiero debole” con una personale rilettura del messaggio cristiano.«Il pensiero filosofico dell’essere come evento è anche intrinsecamente orientato in senso religioso» [9] scriveVattimo, riconducendo la tesi dell’indebolimento dell’essere alla nozione teologica di kenosis, lo svuotarsi e l’abbassarsi di Dio nell’Incarnazione.
In quest’ottica, la secolarizzazione altro non sarebbe che il compiuto dispiegamento di un processo iniziato proprio con il cristianesimo, inteso come religione della carità e come demitizzazione del sacro. In questo saggio, ancor meglio che in quello pubblicato nel volume Il pensiero debole, si coglie la motivazione etica (una «etica della non-violenza») dello sforzo teorico compiuto da Vattimo, ed è qui forse che il nucleo problematico della sua riflessione emerge con maggior chiarezza. Ancora una volta, il filosofo è il primo a rendersi conto sia del paradosso per cui «anche la tesi dell’indebolimento è una filosofia della storia, che pretende di dire la verità», sia della «circolarità tra ontologia dell’indebolimento ed eredità cristiana» [10].Vattimo tuttavia reputa questo paradosso del tutto accettabile e la circolarità perfettamente in linea con un pensiero che programmaticamente rinuncia alla compattezza e all’oggettività, viste come retaggi di una tradizione metafisica destinata al declino.
Ancora, la tensione tra l’ispirazione etico-religiosa del pensiero debole e la sua formulazione nei termini di una tesi filosofica è rintracciabile nel saggio Pensiero debole pensiero dei deboli [11], in cui Vattimo, richiamandosi ancora una volta a Heidegger, si interroga sulla dicibilità stessa del pensiero debole, vale a dire sulla possibilità o meno di esprimere nel linguaggio - e dunque in forma proposizionale - il contenuto del punto di vista di cui il pensiero debole si fa portatore: «Il problema che il pensiero debole cerca a suo modo di risolvere è anche quello di trovare un modo di ricordare l’Essere che non finisca nel misticismo» [12]. Il carattere intimamente problematico del “pensiero debole”, la sua paradossalità che sfiora l’impossibilità di essere formulato in quanto tesi filosofica, sta nel cortocircuito tra etica e metafisica cui l’affermazione dell’indebolimento dell’essere e della verità pare andare incontro.
Tutto ciò senza entrare affatto nel merito degli esiti che il “pensiero debole” avrebbe determinato: «ciò che hanno sognato i postmoderni l’hanno realizzato i populisti» [13] scriveva Ferraris, e alcuni anni fa papa Francesco esortava a non sposare «un pensiero debole, un pensiero uniforme, un pensiero secondo i nostri gusti» [14], impiegando dunque la dizione “pensiero debole” come sinonimo di relativismo e misconoscimento della verità. Bisogna notare d’altra parte un nuovo importante paradosso, ovvero come, nell’attuale dibattito pubblico, alla debolezza e al relativismo si siano gradualmente sostituiti nuovi “pensieri forti”, minacciosi e intransigenti, rivendicazioni identitarie -plurali e fluide, o viceversa monolitiche e sclerotizzate - che nulla hanno dello «sguardo amichevole» e della «pietas» che, nelle intenzioni di Vattimo, avrebbero contraddistinto il declino della metafisica. La storia degli ultimi anni ha poi mostrato come, in assenza di una verità condivisa, c’è il rischio che valga l’opinione del più forte.
Al relativismo del «non ci sono fatti, solo interpretazioni» si sostituisce oggi un arcipelago di assolutismi per cui «non ci sono interpretazioni ma solo una verità»: la mia, quella del mio gruppo di appartenenza, quello della mia “bolla” (impossibile trascurare il ruolo dei social network in questo genere di dinamiche).Passata la temperie culturale della fine del secolo scorso, e misurata l’impraticabilità filosofica di alcune tesi ontologiche nichiliste, bisogna fare però attenzione a non sostituire un pensiero “debole” con una pressoché totale assenza di pensiero.
[1] P.A. Rovatti, G. Vattimo, Premessa, in Il pensiero debole, a cura di G. Vattimo e P.A. Rovatti, Feltrinelli, Milano 1983, p. 9.
[2] G. Vattimo, Dialettica, differenza, pensiero debole, in Il pensiero debole, cit., p. 20.
[3] Ivi, p. 25.
[4] Ivi, p. 27.
[5] Cfr. G. Vattimo, Effetto Nietzsche, in Id., Della realtà, Garzanti, Milano 2012, p. 25.
[6] M. Ferraris, Manifesto del nuovo realismo, Laterza, Roma-Bari 2012.
[7] G. Vattimo, Scritti filosofici e politici, La nave di Teseo, Milano 2021.
[8] G. Vattimo, Credere di credere. È possibile essere cristiani nonostante la Chiesa?, Garzanti, Milano 1996.
[9] Ivi, p. 96.
[10] Ivi, p. 39.
[11] G. Vattimo, Pensiero debole pensiero dei deboli, in Id., Della realtà, Garzanti, Milano 2012, pp. 208-216.
[12] Ivi, p. 213.
[13] Ferraris, Manifesto del nuovo realismo, cit., p. 6.
[14] Francesco, Meditazione mattutina nella Cappella della Domus Sanctae Marthae, Pensiero libero, 29 novembre 2013
* Stefano Oliva. Professore Associato di Estetica, Università Niccolò Cusano, Roma;
Coordinatore generale, DISF Educational. Marzo 2023
Straparlando
Gianni Vattimo
Ho rottamato il pensiero forte
di Antonio Gnoli (“Robinson - la Repubblica”, 28.12.2019) *
Ora che da un po’ ha superato gli ottant’ anni dice che non se li aspettava così. Dice che essendo stato un giovane brillante - per alcuni perfino un enfant prodige - che ha smosso le acque provinciali in cui di solito navighiamo, forse è un modo di pagare un conticino. A chi? Boh. Non lo sa. Dio e gli uomini hanno un modo strano di esercitare la giustizia: tu fai una cosa bella e ricevi un premio. Ne fai una brutta e paghi pegno.
Questo almeno in teoria. Ma quando sei vecchio, quando, diversamente da altri vecchi, senti il peso della materia che si disgrega, allora ti chiedi perché proprio a me? «Sai, ho fatto un sogno l’ altra notte», dice Gianni Vattimo. «Ho sognato che stavo giocando con la mia vecchiaia e che mi sentivo leggero. E bello come un tempo. Poi quando mi sono svegliato ho pensato: ma ero io quello? Ero proprio io? E se ero io che cazzo mi significava quel sogno?».
Partiamo se vuoi da questo interrogativo chi sei oggi?
«Non lo so, vorrei saperlo. Ci sono vari strati di me. Vari dolori. Alcuni lontani, altri recenti. I dolori raccontano la tua storia, la circoscrivono, a volte. Oppure l’ amplificano. E poi, ci sono i dolori della memoria e quelli del corpo».
Quali prevalgono in questo momento?
«Mi vedi, no? Faccio fatica a camminare. Quattro o cinque anni fa mi hanno diagnosticato un Parkinson. Allora che faccio? Provo a convivere con il signor Parkinson. Gli dico, beh vediamo di non farci troppo male. Io non dò fastidio a te e tu non ne dai a me. Poi scopro che quel signore lì è molto esigente. Paziente ma insidioso. Ti giuro che se fosse stato per me non l’ avrei mai invitato. Si è presentato senza neanche farsi annunciare, senza un biglietto da visita, senza un mazzo di fiori. Capisci?»
Capisco. Però siamo qui, nella tua casa, mentre parliamo e mangiamo quello che è stato apparecchiato a tavola. E non mi sembri così malandato.
«Non lo sono, è vero. Ti piace il risotto?».
Mi piace il risotto. Ma mi piacciono anche altre cose di te.
«Cosa ti piace? Scusa la curiosità».
Beh alcune cose che hai scritto sono state importanti per questo paese. Hai sdoganato Heidegger, ti sei inventato il "pensiero debole", e non hai mai tromboneggiato da accademico.
«Sai è stata la scuola di Luigi Pareyson da cui provengo a formarmi. Rigorosa ma anche molto appartata. Lo scelsi perché era il professore più giovane della facoltà. Esistenzialista e cattolico.
Amico di Karl Jaspers. Io, allora, ero sedotto da Adorno. Dai tedeschi che erano usciti dalla guerra.
Ma se lei vuole studiarli veramente si dedichi a Nietzsche, mi disse Pareyson. Era un personaggio complicato. Bisogna farsi le ossa con i maestri e poi lasciarli andare. Se non lo fai finisci nella gabbia».
Eri molto brillante?
«Credo di sì. Provengo da una famiglia dignitosa ma povera. Padre carabiniere. Madre sartina. Ho frequentato l’ Azione Cattolica. Posso dire che all’ università ero decisamente brillante».
Il tuo cattolicesimo ha conosciuto alti e bassi. Ora dove si colloca?
«Non lo so, onestamente non saprei collocarlo. Adoro questo papa che mi pare sia rimasto il solo anticapitalista in circolazione. Qualche tempo fa gli ho fatto avere il mio ultimo libro Essere e dintorni nella speranza che lo leggesse. Ci sono, infatti, diverse considerazioni sul cristianesimo».
E Francesco l’ ha letto?
«Letto non lo so, certo lo ha sfogliato. Tramite un amico comune, un argentino, Luis Liberman, gli è arrivato il libro. Mi ha telefonato per ringraziarmi del dono. E io gli ho spiegato che era un libro su Heidegger».
La tua ossessione.
«Bisogna pur vivere di qualche passione intellettuale. E poi come lui ha detto: soltanto un Dio ci può salvare».
Ma questo Dio dove lo andiamo a cercare?
«Certo non nelle costruzioni metafisiche e neppure in quelle mitologiche. Dio non può essere ispirato da ragioni teoretiche».
Tu hai scritto che "Essere e Tempo" - l’ opera più importante del primo Heidegger - rispondeva a una domanda storica e non a una esigenza astratta e universale. A questo pensi?
«L’ essere di cui parla Heidegger non è quello di cui discute la metafisica. È l’ evento. Dire evento significa che qualcosa accade. Dove? Nel linguaggio, nella storia, nel mondo. Dell’ evento non puoi dare una spiegazione scientifica, oggettiva. La nascita di Gesù non è dimostrabile. Eppure è un evento che accade nella storia ed è all’ origine della cristianità. Io mi sento tanto cristiano quanto heideggeriano. E tutto questo non ha niente a che vedere con la verità oggettiva. Per cui l’ unica ragione che mi consente di chiamarmi cristiano è perché non credo nell’ oggettività delle cose, non credo, come non crede Heidegger, nella metafisica».
Secondo te papa Francesco ha chiaro in testa questo tuo ragionamento?
«Non lo so e non lo pretendo. Però so che lui ha rimesso la Chiesa al centro di una discussione profonda. Mica facile, perché un corpaccione bimillenario non lo sposti facilmente. Le resistenze che il suo magistero incontra sono pazzesche».
È in corso un forte scontro religioso in seno allo stesso cristianesimo.
«C’ è una posta in gioco altissima. Né la scienza né la filosofia tout court sono in grado di vincere il piatto. Penso che Heidegger fosse consapevole di questo quando nella meditazione degli ultimi anni in maniera drammatica non vedeva soluzione umana al problema della desertificazione del mondo».
E affidava la salvezza a un Dio?
«Proprio così, nella direzione indicata da Lutero, e prima ancora da Paolo, per cui non sono le nostre opere che ci salveranno ma la grazia di Dio».
In questo modo viene meno la responsabilità dell’ atto umano. Puoi essere nazista o decidere di bruciare l’ Amazzonia tanto non dipende dalle tue opere la salvezza.
«Ma è proprio perché ti salvi che le tue opere avranno un senso tutt’ altro che nichilista. Siamo irresponsabili nella misura in cui saremo costretti a restare inautentici. E inautentico è il nostro mondo dominato dalla metafisica, dall’ oggettivazione, dal calcolo, dall’ utilitarismo, dalla tecnologia che tutto divora. Ci sarà un nuovo inizio? È ciò che Heidegger spera, ma non dipenderà dalla decisione dell’ uomo. Del resto, cose in parte analoghe le pensava Wittgenstein, almeno il Wittgenstein che si ribella a Russell e al pensiero anglosassone».
Ci sono due Heidegger come pure due Wittgenstein.
«Mi sono occupato della "svolta" di entrambi. Però Ludwig era certamente più tormentato. La frequentazione dei suoi amici analitici non lo aiutava. Era credente, frocio e pieno di sensi di colpa. Quando cede tutti i suoi beni alle sorelle lo fa anche perché ribolle di turbe mentali».
Tu hai mai avuto sensi di colpa?
«Ma sì, ogni volta che ti scompare una persona che ti è cara ti chiedi cosa hai fatto per essa. E perché gli sopravvivi».
Pensi a qualcuno in particolare?
«Penso ai miei due compagni di vita. Giampiero morto tragicamente di Aids e Sergio per un cancro ai polmoni. Sono stati rapporti bellissimi, importanti. Sergio morì in volo, tornavamo dagli Stati Uniti, aveva espresso il desiderio di vedere il museo di San Francisco. Spirò tra New York e Francoforte. È buffo andarsene mentre sei su un aereo e ho pensato che il cielo in quel caso era la via più breve per il paradiso. Mi chiedevi dei sensi di colpa».
Sì.
«Ho paura di essere diventato un po’ cinico. Se mi raccontano una sciagura il primo impulso è di pensare sì vabbè ma allora io, io che ne ho viste e passate di molto peggio che dovrei dire?».
Ti infastidisce la gente che si lamenta?
«Ma no, la sto ad ascoltare. Però loro che ne sanno della mia stanchezza, della mia vecchiaia che mi ha sorpreso come un ladro nella notte».
Ti viene mai il dubbio che come filosofo avresti potuto dare di più?
«Credo di aver smantellato, decostruito, rottamato buona parte del pensiero forte. Sulla scorta di Nietzsche e di Heidegger mi sono preso la briga di porre un freno alla filosofia come etica del dominio».
Eppure proprio Nietzsche con il superuomo e Heidegger con l’ adesione al nazismo hanno facilitato quel dominio.
«Ma il superuomo di Nietzsche non è volontà di potenza è l’ oltreuomo che libera se stesso e l’ Heidegger nazista si riduce a qualche frase di adesione allo spirito del tempo».
Non sei un po’ riduttivo?
«La giro in un altro modo: se li vuoi trattare come due fanatici sanguinari allora brucia pure le loro opere. Ma è questo che vogliamo? Ho trascorso dei lunghi periodi in Germania, lavorato con Gadamer, penso che la filosofia sia un’ esperienza ermeneutica. Non c’ è verità che non sia interpretazione».
Cosa vuoi dire?
«Che la verità è legata al linguaggio. E che non ci sono fatti ma solo interpretazioni».
Prima accennavi a Pareyson e alla sua scuola.
«Fui fortunato. Venimmo da lì io e Umberto Eco e poco dopo si aggiunsero Mario Perniola e Sergio Givone».
Però ognuno per la sua strada.
«Avevamo la libertà di scegliere. Con Umberto siamo restati amici. Facemmo insieme il concorso in Rai. Ci siamo frequentati fino all’ ultimo. Non so però se l’ ho davvero conosciuto. Per certi versi era imperscrutabile. Io non gli avevo mai rivelato le mie tendenze sessuali. Però una volta ebbi l’ impressione che mi prendesse in giro. Siccome ero con un amico mi disse, forse scherzando, ma allora ti sei deciso. Fu l’ unica volta che sfiorò l’ argomento. Dietro la sua grande estroversione c’ era molto riserbo».
Dovuto a cosa?
«Aveva orrore di dover parlare di sé. Credo che tutta la sua verve barzellettistica discendesse da questa cesura: il comico che uccide o rimuove una parte della vita. Del resto si può leggere perfino Il nome della rosa in questa chiave».
Hai mai avuto la tentazione del romanzo.
«Mi piace leggerli non scriverli».
Meglio la filosofia?
«Chi può dirlo? Se lo chiedi a uno scrittore ti ride dietro».
E tu?
«Non ho messo la mia vita nelle mani della filosofia. Semmai ho messo un po’ di filosofia nella mia vita. Sono obliquo come il volo degli uccelli».
Dove ti vorresti posare con il pensiero?
«Mi piacerebbe scrivere su cristianesimo e heideggerismo. Ho pensato di cominciare con una frase: se non fossi heideggeriano non sarei cristiano, e se non fossi stato cristiano non sarei stato heideggeriano. Ma ogni tanto mi vengono dei dubbi sull’ utilità di un discorso del genere».
Perché?
«A parte il peso o la fatica dell’ argomentazione, a chi interesserebbe? A volte mi metto davanti al computer e sto lì fisso, come un babbeo. La mia vita è fatta ormai di pause. Un sogno ce l’ ho».
Quale?
«Che la mia opera, per quel tanto o poco che vale, non vada dispersa».
QUALE CRISTIANESIMO, QUELLO DELLA "CHARITAS" EVANGELICA O DELLA "CARITAS" COSTANTINIANA?! *
Senza dono società fragile. Giornata (e realtà e dati) su cui riflettere
di Leonardo Becchetti (Avvenire, venerdì 4 ottobre 2019)
Il dono non svolge affatto un ruolo marginale nel sistema sociale ed economico contemporaneo, e la ricerca sociale ci conferma che è e resta l’architrave della qualità delle relazioni all’interno di organizzazioni sociali e produttive ed è una componente fondamentale della soddisfazione di vita.
Ieri, alla vigilia della Giornata nazionale del dono, sono state presentate stime aggiornate che parlano di una crescita delle somme donate e delle donazioni di carattere informale in Italia assieme, però, a una marcata difficoltà delle donazioni orientate alla cooperazione allo sviluppo: le organizzazioni operanti in questo settore che dichiarano di aver aumentato i fondi raccolti rispetto all’anno precedente sono scese dal 43 al 23%.
Un dato, quest’ultimo, che misura gli effetti della ben nota campagna politico-mediatica, costruita soprattutto sui social, che negli ultimi tempi ha stravolto e trasformato quasi nel loro opposto i significati delle parole e degli atti di bontà, accoglienza e solidarietà. Una campagna organizzata con metodi manipolativi degli stessi social media e dalla quale il mondo del Terzo settore è stato colto di sorpresa, tardando a reagire con una risposta collettiva. Ma questo vuol semplicemente dire che la sfida è più che mai aperta.
C’è poco da cantar vittoria, infatti, anche da parte di chi ha armato quell’aspra campagna. Perché svilire e sottovalutare il valore del dono può produrre effetti devastanti in una società, finisce per snaturarne l’identità e per infragilirla.
George Akerlof ha vinto il Nobel per l’Economia spiegandoci come i meccanismi di scambio di doni (gift exchange) all’interno di organizzazioni produttive cementino la squadra e rinforzino le motivazioni intrinseche dei dipendenti.
Il Rapporto 2019 sul Dono in Italia segnala, non per nulla, la forte crescita del volontariato aziendale come strumento di rafforzamento della squadra di lavoro, delle motivazioni intrinseche dei dipendenti e del senso della loro presenza all’interno dell’azienda.
E i risultati del Rapporto mondiale sulla Felicità identificano nella "gratuità" una delle sei variabili chiave che spiegano il 75% delle differenze di soddisfazione di vita tra Paesi. Il Rapporto italiano sul dono conferma questa realtà, sottolineando come chi dona è più soddisfatto della propria vita, ha una visione più positiva del futuro e crede maggiormente nell’efficacia trasformativa di gesti anche piccoli.
Ma ci può essere innovazione nel dono in grado di renderlo più efficace? L’analisi delle buone pratiche presenti nel nostro Paese (indagate lungo il percorso delle Settimane Sociali dei cattolici) nonché il lavoro di laboratorio con gli imprenditori che si propongono di coniugare creazione di valore economico con responsabilità sociale ed ambientale suggeriscono una risposta assolutamente positiva a questa domanda.
Come ricordano gli antichi, il dono è tuttavia ambivalente e non privo di insidie. Escludendo quei meccanismi pseudo-mafiosi dove esso obbliga a una contropartita, l’insidia principale nella società odierna è quella del dono che umilia perché trasforma il ricevente in mero terminale passivo del nostro obolo. Un padre conciliare come Jean Danielou amava dire paradossalmente «se ami qualcuno chiedigli qualcosa in cambio» avendo bene a mente che, se siamo felici nel dare, chi è nel bisogno può acquisire dignità ed essere felice solo se messo anche lui in condizioni di dare.
Per questo esperienze innovative come quelle degli Empori Solidali non si limitano a raccogliere dalla grande distribuzione prodotti ancora commestibili eppure non più vendibili per ridistribuirli a famiglie bisognose, ma trasformano piuttosto queste famiglie e i loro componenti in membri di un’associazione.
Dove si coltiva l’orgoglio di poter contribuire all’opera sociale con il proprio lavoro e si costruiscono rapporti di reciprocità e solidarietà tra gli stessi associati. Le nuove piattaforme digitali consentono di raccogliere tanto da pochi, rendendo potenzialmente molto più efficaci le tradizionali collette (crowdfunding), stimolando la capacità di comunicare e raccontare la propria storia che si trova a competere con tante altre storie alternative. Nascono così i ’ broker’ dello spreco (AvanziPopolo è un bell’esempio a Bari) che mettono in contatto eventi e luoghi potenziali dello spreco (ricevimenti, banchetti, ristoratori) con tutte le organizzazioni del territorio che esprimono bisogni, consentendo agli eventi sostenibili di esibire il proprio marchio di qualità etica.
Ed è in arrivo l’app che metterà assieme consumo nella grande distribuzione e 5 per mille, dando l’opportunità a chi va nei punti vendita convenzionati di scegliere a quale organizzazione destinare una donazione che il supermercato associa alla sua spesa. Chi dona pensa in genere che il suo piccolo gesto abbia una efficacia trasformativa, ma il senso del dono per la persona ’cercatrice di senso’ è più profondo. Ed è colto molto bene da una frase di Vaclav Havel: «La speranza non è ottimismo. Non è la convinzione che ciò che stiamo facendo avrà successo. La speranza è la certezza che ciò che stiamo facendo ha un significato. Che abbia successo o meno». Il dono, di sicuro, lo ha.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA PRASSI DELLA CARITÀ E LO SPIRITO CRITICO. G.B. VICO AL DI LÀ DELLA BORIA DI L.A. MURATORI E DEI DOTTISSIMI DI OGGI.
Papa Francesco telefona a Gianni Vattimo, il filosofo del “pensiero debole”
Lo studioso italiano invia una copia del suo ultimo libro a Francesco che lo chiama per ringraziarlo. Una conversazione breve e piacevole sulla Chiesa e la filosofia: «Con questo Papa non mi vergogno a dirmi cattolico».
di ANDRÉS BELTRAMO ÁLVAREZU (La Stampa, Vatican Insider, 09/07/2018)
CITTÀ DEL VATICANO. Una conversazione spontanea, breve ma piacevole. Così è stata la chiacchierata tra Papa Francesco e Gianni Vattimo, avvenuta qualche giorno fa via telefono. Il Pontefice ha voluto ringraziare il filosofo italiano, ex politico di sinistra e “padre” del cosiddetto pensiero debole, per un libro regalatogli tramite un amico comune. «Questo Papa mi toglie la “vergogna” di dichiararmi cattolico», dice lo studioso a Vatican Insider a cui racconta alcuni dettagli della conversazione con il Papa, con il quale condivide anche l’anno di nascita (1936).
Gianni Vattimo. Le geniali provocazioni d’un ottantenne dall’indomabile spirito
Vade retro sionista di un metafisico!
di Maria Bettetini (Il Sole-24 Ore, Domenica, 17.06.2018)
«Se la risposta è no, vuol dire che è un problema metafisico, tipo religioso, quindi non vale manco la pena pensarci» dice Secco a Zero Calcare, che disegna entrambi. La domanda era sulla possibile soluzione di un problema con l’uso di un paio di bombe. Il tono ironico e intelligente di questa striscia mi è tornato alla mente leggendo l’ultimo libro di Gianni Vattimo, una raccolta assai godibile di trentuno brevi interventi, alcuni inediti, altri pubblicati in libri o giornali, in italiano o altre lingue, tutti scritti in anni recenti.
Il tono in certo senso leggero del volume, senza note, con brevissime bibliografie alla fine, contrasta con i contenuti che ci si aspetta da uno dei filosofi italiani più noti all’estero: antisionismo, anticlericalismo, la difesa di Heidegger e Marx, le accuse all’occidente, e quell’essere «contro ogni tentativo di metafisica» che lo accomuna a Secco, se mi è consentito l’azzardato confronto. Non sarà la metafisica a intervenire sulla storia, sostengono entrambi. Ecco perché alla filosofia (ai filosofi) oggi tocca interrogare il presente, proporre prassi, non scrivere trattati ma romanzi da cui il lettore possa trarre indicazioni per il qui e ora. Anche se “non si arriva da nessuna parte e ci si aggira sempre nei dintorni”, come ricorda il titolo della raccolta (che si legge proprio come un romanzo).
Piaccia o no, questo è il portato di quel pensiero debole che nel 1983 arrivava a sconvolgere la filosofia italiana e poi tedesca e francese. Studiare Nietzsche e Heidegger, lavorare con Gadamer, che sempre grazie a Vattimo divenne noto e poi amato in Italia, aveva condotto il filosofo torinese a pubblicare con Pier Aldo Rovatti una famosa antologia intitolata, con fortunata intuizione, al pensiero debole. Uno scardinamento di ogni sistema, di ogni certezza incontrovertibile, di ogni vittoria della razionalità impositiva, contro i totalitarismi e le chiese di qualsivoglia genere. Si eclissavano le ideologie, si scopriva l’importanza di riconoscersi piccoli di fronte a una storia infine non gestibile da parte di alcun potere “forte”, non giustificabile, non comprensibile a partire da concetti certi e immutabili.
Al di là degli estremismi e dei gusti personali, questo è stato un grande regalo per chi senza accorgersene stava per essere trascinato nella liquidità di cui oggi tanto si parla, ma che allora ebbe origine. Gli strumenti di un’ermeneutica che non è relativismo, bensì comprensione di come ogni interpretare lavori sull’essere di ciò che ha interpretato, non sono inutili mentre tutto sembra sgretolarsi, si tratti della fiducia nella politica, nella solidità di una Chiesa che oggi per esempio a molti sembra essere messa in discussione da questo papa (e invece solo dal suo scardinare si potrà fortificare), nel benessere o nella famiglia.
Come si sa e come si ritrova in queste pagine, il pensiero di Vattimo è sempre anche autobiografico, anzi, meglio, forse è la biografia che si adegua al pensare e al sentire. L’occasione del libro, per esempio, è il resoconto della crisi sopravvenuta con la pubblicazione dei Quaderni neri di Heidegger. Vattimo non nega le parole (abbastanza poche, peraltro) in cui si vede negli ebrei e nella loro cultura l’origine di ogni male. Certo non per questo - e sarebbe davvero assurdo - si permette di invocare una censura su tutto quello che Heidegger ha scritto, oppure giustifica i decenni di silenzio che la Germania sconfitta impose al più grande dei suoi filosofi del Novecento.
Vattimo si proclama, con la pervicacia di chi sa di provocare ed è contento di scandalizzare, antisionista, non antisemita. Israele - afferma Vattimo - è uno stato fondato sulla religione (lui parla di razza, ma mi rifiuto anche solo di trascrivere quelle sue parole), per questo non potrà mai convivere pacificamente con altri, per questo cerca di eliminare i palestinesi, per questo è strettamente legato al potere economico statunitense e a Hollywood che mantiene viva l’epopea della nascita di Israele come novella resistenza, nonché rinfocola il senso di colpa dell’intero occidente per l’Olocausto.
Non è la prima né sarà l’ultima sortita dell’indomabile ottantenne, che in queste pagine mostra come sempre fortissimo il legame con una spiritualità ufficiosa, che molto sa di cattolicesimo della nonna, con tutto il rispetto per le nonne. Gli hanno dato del marcionita, lui si dice credente, chissà. Ricordo che si era candidato, lui, figlio di un poliziotto calabrese, a sindaco di San Giovanni in Fiore, il paesino della Sila sorto dove Gioacchino da Fiore fondò il primo monastero. Amato da Dante e dai papi, Gioacchino dopo la morte fu alternativamente giudicato eretico e santo, oggi siamo in fase di processo di beatificazione. Sic transit quella gloria mundi di noi deboli umani.
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI ... *
Vattimo a Teheran per salvare Heidegger
di Donatella Di Cesare (Corriere della Sera, La Lettura, 3 Giugno 2018)
Il nuovo libro di Gianni Vattimo Essere e dintorni (La nave di Teseo) comprende 31 saggi che sono altrettanti tentativi di interpretare l’attualità. Ecco perché il volume non è un trattato metafisico, bensì un «breviario teologico-filosofico», o meglio, il «diario di una crisi», quella provocata dalla pubblicazione dei Quaderni neri di Martin Heidegger.
In tempi in cui si parla di un «ritorno» della filosofia al centro dello spazio pubblico, le pagine di Vattimo sono esempio di stile, chiarezza, accessibilità. Perché se i filosofi vogliono contribuire a riflettere sulla situazione presente, bisogna che parlino e scrivano in modo comprensibile.
Il «breviario» ruota intorno al nesso stretto fra interpretazione ed emancipazione. Si ricorderà la celebre frase di Karl Marx contenuta nelle Tesi su Feuerbach: «I filosofi hanno finora solo interpretato il mondo in modi diversi; si tratta ora di cambiarlo». Ebbene, questa tesi - così commenta Vattimo - va presa con la dovuta cautela. Perché interpretare è già cambiare. Lo mostra l’ermeneutica, che non è un relativismo tradizionalista. Chi la fraintende in tal senso, presume che ogni interpretazione rispecchi in modo imperfetto e mutevole la «verità oggettiva» del mondo là fuori.
Al contrario, l’interpretazione - come insegna già Aristotele - è l’apertura in cui, di volta in volta, la verità si costituisce articolandosi. Ogni interpretazione è un contributo alla verità condivisa. Si intuisce il valore democratico dell’ermeneutica. Perché il totalitarismo attecchisce là dove una sola interpretazione vorrebbe imporsi come la verità. Meglio, dunque, diffidare di chi sostiene di possederla.
D’altronde già all’epoca de Il pensiero debole, nel 1983, Vattimo aveva avanzato l’esigenza di un pensiero in grado di farsi carico della dissoluzione di princìpi e strutture forti.
L’ultimo Vattimo rilancia: se non c’è emancipazione senza interpretazione, ogni interpretazione porta sempre con sé una carica liberatoria. E suggerisce: «Finora i filosofi hanno creduto di descrivere il mondo, ora è venuto il momento di interpretarlo...». Per essere coerente il pensiero debole non potrà rivendicare una «posizione di sovranità», tanto meno nella prassi politica. Ma l’ermeneutica è emancipazione anche perché racconta un’epoca che sa di essere ineluttabilmente contingente, profondamente storica. Sulle orme di Heidegger, Vattimo ripercorre la storia del lungo addio all’Essere, che può restare solo nel ricordo. Così l’ermeneutica si aggira «nei dintorni dell’Essere» - come suggerisce il titolo.
Che avviene, però, all’indomani dei Quaderni neri? Negli ultimi saggi Vattimo ricostruisce l’intenso dibattito esploso non tanto sull’adesione al nazismo, quanto sull’antisemitismo e sull’interpretazione della Shoah. Evita le due scorciatoie più frequenti: quella di coloro che vorrebbero gettare l’opera di Heidegger alle ortiche e quella di chi banalizza fino a negare persino l’antisemitismo.
Chiaro è tuttavia il suo tentativo di «salvare» Heidegger. Come? Facendone un «teologo cristiano». A Vattimo non interessa tanto la politica di Heidegger, che pure emerge da quelle pagine. Risuona allora la sentenza che suggella l’intervista allo «Spiegel» uscita postuma: «Ormai solo un dio ci può salvare».
La via di salvezza sarebbe quella di un cristianesimo paolino. Ma a parlare è Vattimo oppure Heidegger? Le parti sembrano confondersi. Tanto più che l’ultimo Vattimo, fulminato sulla via di Damasco, interpreta l’emancipazione in chiave religiosa. Questo sostanzia anche le sue scelte politiche, più che discutibili. Con un salto mortale nella metafisica il pensiero debole si fa pensiero dei «deboli», una categoria reificata senza considerare che debole rinvia a una relazione - si è deboli sempre rispetto a qualcun altro e i deboli non hanno sempre ragione.
La Siracusa di Vattimo si chiama Caracas, se non addirittura Teheran. Per un verso le lodi a Chávez, fulgido esempio di socialismo, per l’altro l’apprezzamento per Ahmadinejad nonché il giudizio su Israele: «Tra i peggiori danni prodotti dalla politica hitleriana e dall’Olocausto».
L’antisionismo di Vattimo - è bene dirlo a chiare lettere - si nutre di un vecchio antiebraismo marcionita, che la Chiesa ha già più volte condannato, si alimenta di una teologia della sostituzione - bandire la vecchia legge per far trionfare lo spirito - che tanti danni ha prodotto nella storia.
L’ermeneutica viene sacrificata sull’altare di un cattolicesimo che vorrebbe cancellare il messianismo ebraico, tradita in nome di forti prese di posizione, che hanno tratti categorici e assiomatici. In futuro bisognerà chiedersi come salvare Vattimo dopo aver salvato Heidegger.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Per dizionario Oxford ’post-verità’ è parola del 2016
Scelta fatta sullo sfondo di elezioni Usa e referendum Brexit
di Redazione Ansa *
LONDRA E’ ’post verità’, in inglese ’post-truth’, il neologismo dell’anno secondo gli esperti di Oxford Dictionaries. La scelta e’ quella di un’espressione che secondo un comitato di esperti ha segnato profondamente la scena politica internazionale durante il 2016, con riferimento in particolare alle polemiche legate alla campagna referendaria britannica sfociata a giugno nella vittoria della Brexit (il divorzio dall’Ue) e a quella americana per le presidenziali appena culminata nel trionfo di Donald Trump.
L’annuncio è arrivato in queste ore, riporta la Bbc: ’post-truth’ ha prevalso in una short list finale che comprendeva anche termini come ’Brexiteer’ (sostenitore della Brexit). Si tratta, ha sentenziato Casper Grathwohl, fra i curatori dei prestigiosi dizionari editi a Oxford, "di una di quelle parole che definiscono il nostro tempo".
Le piccole verità di una vita piena
Saggi. «Non essere Dio. Un’autobiografia a quattro mani» di Gianni Vattimo e Giorgio Paterlini per Ponte alla Grazie
di Nicolas Martino (il manifesto, 09.07.2016)
Non essere Dio, ovvero rifiutare gli assoluti, ecco il compito di un’intera vita, quella di Gianni Vattimo, filosofo, ripercorsa insieme a Giorgio Paterlini in Non essere Dio. Un’autobiografia a quattro mani (Ponte alle Grazie, pp. 224, euro 15). Un ritratto di sé che può ricordare i «Saggi» di Montaigne, non solo per l’ironia che percorre tutta la narrazione e per lo stile che varia in continuazione, dall’anedotto biografico, al saggio filosofico breve e fulminante, all’intervento sull’attualità, ma anche e soprattutto per lo scetticisimo di fondo che è la cifra filosofica del nostro come già del gentiluomo perigordino del XVI secolo.
Allora erano stati soprattutto i conflitti religiosi e la scoperta del Nuovo Mondo a indurre la crisi scettica di Montaigne, quando il vecchio mondo era ormai morto e quello nuovo iniziava appena a configurarsi in una condizione sospesa tra il non più e il non ancora. Una condizione che torna a proporsi oggi, quando la forza propulsiva della modernità si è consumata e un mondo nuovo inizia lentamente a prendere forma dalle macerie di quello vecchio, tra scosse telluriche e molteplici contraddizioni. È la globalizzazione, ciò che culturalmente chiamiamo il postmoderno, da sempre tema vattimiano per eccellenza.
Nell’avventura filosofica di Vattimo, come è noto, da sempre lo accompagnano Nietzsche e Heidegger, il primo a confermare che se il mondo vero è diventato favola, allora anche il mondo apparente non è più meno vero, e che se ci si libera dalle verità assolute quello che ci rimane sono le interpretazioni. Il secondo, il mago di Messkirch, a ricordare che l’Essere si da nascondendosi, ovvero, e qui interviene l’interpretazione di Vattimo che aggiunge l’accento sulla congiunzione heideggeriana, che l’Essere è tempo, e quindi è linguaggio perché coincide con gli orizzonti storico-linguitici che si succedono nelle diverse epoche storiche, secondo la lezione di Gadamer «urbanizzatore» di Heidegger.
Ora se l’Essere, sottoposto a una cura dimagrante, si è fatto leggero, e la verità forte della metafisica si è dissolta a favore di una verità debole, l’Essere che la metafisica occidentale ha scordato a favore degli enti non va certo restaurato, ma piuttosto rammemorato. E proprio questo mondo esploso in cui le verità sono tante quante le differenze, in cui ciò che è in gioco è un conflitto di interpretazioni, questo mondo globalizzato in cui la tecnica ha colonizzato definitivamente l’esistente, è anche e soprattutto un’occasione di liberazione per Vattimo, fedele in questo al celebre verso di Hölderlin secondo il quale «là dove cresce il pericolo cresce anche ciò che salva».
Un’occasione di liberazione dalle verità forti che sono sempre anche violente, dalle identità blindate e dalle tradizioni autoritarie. Eppure, qui l’obiezione critica, questo pensiero «libertario» che scommette sulla globalizzazione e la differenza, seppur eticamente schierato dalla parte dei più deboli, rischia di diventare apologia dell’esistente quando nel suo scetticismo sembra dimenticare la verità «dura» del Capitale e dei suoi rapporti sociali, quando la celebrazione della fine della Verità con la maiuscola sembra dimenticare che la verità, dopo il moderno, non si perde in un caleidoscopio multicolore, ma è quella verità scritta con la minuscola eppure potente e concreta, quella verità materialista costruita con le nostre mani.
Un pensiero, insomma, che da libertario tende ad accomodarsi nella più classica delle tradizioni liberali quando si nasconde dietro il fumo di una «destinalità» che non è mai politicamente innocente.
In conclusione, per tornare a Montaigne, questa è una sorta di «circumnavigazione» di sé, che va dalla periferia torinese dove Vattimo è nato, figlio di un poliziotto calabrese e di una sarta, alla militanza cattolica, anche lui come molte delle menti migliori del Belpaese, nella Giac, dall’Università dove è allievo prediletto di Pareyson, alla scoperta della propria omosessualità vissuta inizialmente con difficoltà, ma senza mai rinunciare ad affermarla tanto da diventare un militante del «Fuori».
Passando per la Rai degli esordi dove lavora insieme a Colombo ed Eco, alle scuole serali dove gli operai delle grandi fabbriche si preparavano alla licenza media e capitava che regalassero al giovane insegnante indimenticabili lampi di poesia, attraverso la carriera accademica internazionale, il successo mediatico, l’impegno politico e la riscoperta del comunismo. Per arrivare, infine, all’organizzazione di una vita privata retta da un’architettura amorosa delicata e commovente, attraversata dal dolore, fatta di equilibri fragili ma sempre appasionati e fondati sulla «cura» reciproca. Una vita «libera», raccontata qui con autentico trasporto.
Marx più Heidegger. Ecco il comunismo 2.0
È uscito il saggio di Gianni Vattimo e Santiago Zabala sull’idea d’una società alternativa. A differenza dal passato però la violenza rivoluzionaria è esplicitamente rifiutata
di Franca D’Agostini (La Stampa, 28.11.2014)
Comunismo ermeneutico, di Gianni Vattimo e Santiago Zabala, è un libro che è necessario leggere, per chiunque sia interessato alla filosofia, alla politica, e ai rapporti tra l’una e all’altra. Non perché sia ineccepibile (al contrario avrei da eccepire a diverse tesi presentate dai due autori) ma per un’altra ragione, più seria e profonda.
Dal punto di vista ideologico-politico viviamo in un’epoca di morti viventi: teorie già morte e finite, che però continuano a fare danno (si possono tralasciare gli esempi: chiunque potrebbe citare due o tre casi, da destra o da sinistra). Ma viviamo anche in un’epoca di sepolti vivi: teorie e ipotesi che sono state affrettatamente tumulate, prima che riuscissero a svilupparsi pienamente e a manifestare i loro meriti e le loro ragioni. E uno di questi sepolti vivi è precisamente, io credo, quella variante dell’ermeneutica che Vattimo pensò come «pensiero debole»: una posizione filosofica che è stata troppo rapidamente liquidata, quando aveva ancora qualcosa da dire, o anzi (mia opinione) non aveva ancora incominciato a dire il meglio di quel che doveva-poteva dire.
Uno degli aspetti centrali del debolismo ermeneutico era la sua ricaduta politica, e in particolare l’idea che l’ermeneutica (la filosofia dell’interpretazione elaborata da Hans Georg Gadamer, Paul Ricoeur, Luigi Pareyson) potesse configurarsi non tanto come «pensiero debole», ma come «pensiero dei deboli»: voce delle parti più sfortunate della società, e parola pronunciata in loro difesa. Questo aspetto legava il pensiero debole di Vattimo al Cristianesimo, creando l’idea paradossale ma plausibile di un Gesù «nichilista», pronto a mettere in discussione le (false) verità degli scribi, dei sacerdoti, dei farisei.
In Comunismo ermeneutico i due autori non sviluppano molto le basi filosofiche della loro prospettiva. E non c’è molto, nel libro, delle posizioni originarie di Vattimo. C’è invece una rapida liquidazione delle problematiche della verità, del realismo, della metafisica, semplicemente identificati come i tre costituenti della «politica delle descrizioni» che secondo gli autori starebbe alla base del capitalismo. E per tutto il libro con ostinazione si ripete che «l’imposizione della verità e la difesa del realismo» sono i grandi nemici della giustizia globale.
L’ermeneutica, in quanto pensiero interpretativo e non descrittivo, si contrapporrebbe a tali nemici, in una guerra che è la nostra attuale «emergenza», secondo gli autori. Si tratta allora di contrastare il ferreo ordine capitalistico mondiale con un pensiero che non aspira né alla verità né all’oggettività, e neppure alla forza rivoluzionaria, ma si concede libero al conflitto delle interpretazioni.
Non so se davvero il capitalismo in questa fase storica terminale debba davvero descriversi (interpretarsi) come «politica delle descrizioni». Non so se i nemici che i poveri del mondo devono combattere siano davvero la metafisica, il concetto di verità, o quella astrazione che gli autori chiamano «realismo», e che a me sembra una specie di caricatura del cosiddetto «realismo ingenuo». Dubito che sia così.
Inoltre, i due autori citano la politica di Chávez come «la grande novità della politica mondiale». Ma ci chiediamo: davvero il «nuovo» di Chávez, e di Morales, Correa, Mujica e dei Kirchner, e «persino Papa Bergoglio» ha come sfondo filosofico il rifiuto della verità e il contrasto tra descrizioni e interpretazioni? L’aggancio tra l’ermeneutica debolista e il decisionismo forte, veritativo e descrittivo, necessario per una politica concreta (specie di stampo comunista) sembra delineato nel libro in modo piuttosto vago.
Ma è ovvio che Vattimo e Zabala lavorano in un linguaggio speciale, che hanno ereditato da interpretazioni e reinterpretazioni di Rorty, Derrida, Heidegger, Nietzsche; e per capire la loro proposta occorre entrare in questo linguaggio, e condividerne le regole.
Per esempio, ciò che unisce Marx e Heidegger, dicono, è la critica della metafisica, ma «metafisica» non è la disciplina filosofica che ha questo nome, bensì un modo di vedere la realtà funzionale agli interessi dei potenti della Terra. Ciò che chiamano «descrizioni» non è il semplice descrivere cose più o meno reali o immaginate, ma la pretesa «oggettivistica» di catturare il mondo «dall’alto», con le parole i discorsi i concetti, e imprigionare in tale cattura anche le libere esistenze dei singoli umani.
E il comunismo a cui pensano Vattimo e Zabala non è ciò che canonicamente si può intendere per comunismo ma il principio della comunanza, quale si esprime nel vangelo di Matteo: «Dovunque due o tre sono radunati nel nome mio, quivi son io in mezzo a loro». E «nel nome mio», spiegano gli autori, significa «nel nome della giustizia, della fraternità, e della solidarietà».
Iniziamo dunque a vedere la ragione per cui occorre leggere Comunismo ermeneutico: per riprendere il discorso sul rapporto tra filosofia e «pensiero dei deboli», e se mai confermare che la filosofia (anche nella variante quasi «anti-filosofica» delineata da Vattimo e Zabala) in definitiva è sempre stata e dovrebbe continuare a essere, come diceva Jean-François Lyotard, la force des faibles.
Ermeneutica o nuovo realismo?
2013, nov 27*
Della terra, il brillante colore
Il libro di Federico La Sala offre un punto di vista raro. Quello di un pensiero maschile che osserva e riflette e su alcuni pilastri del pensero filosofico occidentale in modo non neutro ma a partire dal riconoscimento della propria parzialità - di individuo e di genere.
Il libro si compone di più saggi che affondano nel profondo delle nostre radici culturali come “carotaggi” a campione. La sensazione all’inizio spaesante di saltare da un frammento all’altro in campi diversi del sapere e in momenti diversi della storia è ricomposta nel filo conduttore che pian piano si manifesta. Più che un filo conduttore teorico, la tensione etica, intellettuale, di cuore, di un essere umano in ricerca.
Nella prima parte del testo l’autore si spinge in regioni dove la religione cattolica si intreccia con la tradizione ermetica. Incontriamo Ermete Trismegisto e la grande stagione Rinascimentale poi affogata nel rigore censorio della Controriforma. Incontriamo diverse manifestazioni delle Sibille, qui visibili nella riproduzione di xilografie di Filippo Barberi (1481) - una versione inedita. Percorsi incrociati tra Kabbalah, carmelitani e profeti islamici.
Sembra di navigare su un fiume sotterraneo che congiunge Oriente e Occidente. Così arriviamo alle note su Parmenide, Freud, Kant, Rousseau - tra gli altri. L’autore offre spunti e visioni prendendoli da un bagaglio di conoscenze che spazia dalla storia della religione alla filosofia alla psicoanalisi. Si alternano luce solare e lunare. Tra le tante le citazioni, il ritmo conciso e il gesto schietto, senza pose accademiche, rendono la lettura scorrevole. Nella pennellata di Fulvio Papi nell’introduzione, sulla spinta della lettura di questo “testo in piena”:
La Sala, con una mossa certamente ad effetto e piena di provocazione, dice: “guardiamo il nostro ombelico”, riconosciamoci come figli di una maternità e di una paternità che siano la terra del nostro fiorire e non i luoghi delle nostre scissioni.
Della terra, il brillante colore. Parmenide, una “Cappella Sistina” carmelitana con 12 Sibille (1608), le xilografie di Filippo Barbieri (1481) e la domanda antropologica
di Federico La Sala,
Edizioni Nuove Scritture, Milano, 2013
156 p., 15€
* E.C.
Vattimo: «Quelle sue parole sono di origine divina»
di Gianni Vattimo (Avvenire, 03 luglio 2013)
Io ritengo che Gesù venga da Dio perché le cose che dice sono davvero di origine divina, cioè sono davvero il meglio, il più divino che ho trovato nella mia storia. Quello che mi impressiona è la perfezione del suo messaggio, prima e più che i suoi miracoli. Non mi faccio impressionare, ad esempio, dalla risurrezione di Lazzaro, perché tutto dipenderebbe dalla fede che presto agli scritti che me ne parlano: infatti, chi mi parla della risurrezione di Lazzaro? È difficile pensare all’esistenza di altri documenti antichi, oltre ai Vangeli, in cui si parli di uno che ha risuscitato un tale di nome Lazzaro...
Credo che Schleiermacher non si esprimesse in termini molto diversi (anche se più attenuati dei miei) quando scriveva che Gesù Cristo è l’uomo che ha realizzato il più possibile la vicinanza e il senso di dipendenza da Dio: Gesù sarebbe l’esempio più grande, sotto questo profilo, e noi ci salveremmo in quanto in contatto storico-sacramentale con lui (mediante i Vangeli, il culto) come massimo eroe della coscienza religiosa dell’umanità.
Io non seguirei per intero il percorso di Schleiermacher, ma nemmeno mi interessa granché stabilire se Gesù sia di natura divina o di natura umana, se in lui vi siano due nature e una persona, o tutte le altre questioni in cui si avviluppa la teologia di oggi. (...)
Io credo nella divinità di Gesù Cristo soprattutto per ciò che lui mi ha detto; anzi, posso persino ammettere che egli sia resuscitato sulla base del fatto che tutte le altre cose che mi dice sono così attraenti che non posso non credergli. Insomma, è come se, avendolo visto, mi sia innamorato di lui e sia quindi divenuto capace di dargli ascolto. Del resto è proprio san Paolo ad affermare che la fede è sempre fides ex auditu. Non è quindi inverosimile pensare alla propria fede come all’essere presi da un messaggio affascinante - per dirla con un aggettivo certamente inadeguato - insomma capace di prenderti. (...)
Se qualcuno mi chiedesse perché preferisco Gesù Cristo a Buddha, risponderei: «Perché sono stato educato nel cristianesimo». E se mi si obiettasse che questo è un limite, risponderei che non posso certo cavarmi gli occhi per vedere meglio. Io ho una tradizione e vivo al suo interno: anzi, per proseguire con l’esempio della preferenza a Cristo anziché a Buddha, direi che il buddhismo ancora non l’ho giudicato perché non è una religione positivamente dogmatica, e che piuttosto solo nel cristianesimo trovo le ragioni per interessarmi anche al buddhismo e ad altre tradizioni.
Sono quindi convinto, in primo luogo, che la mia fedeltà al Vangelo è anche (o soprattutto, chi lo sa?) fedeltà a una tradizione umanistico- culturale- politica che è la tradizione europea; non riesco a separare nettamente queste due realtà, quasi esistesse un cristianesimo esterno all’Occidente e ad esso invece non profondamente avviluppato.
Sono poi convinto che la verità dell’Occidente è il cristianesimo, e, viceversa, che la verità del cristianesimo è oggi l’Occidente (non necessariamente in senso per così dire eterno, ma considerando che il «cristianesimo » è anche la «cristianità », al cui interno peraltro il fermento cristiano opera criticamente, rimettendo in discussione assetti stabiliti, invitando all’ascolto di altre tradizioni religiose, ecc.).
In definitiva io non ho scelto di stare nella tradizione cristiana: vi sono dentro, prendendo atto dell’esistenza di una quantità di cose che ho pensato come separate da questa tradizione mentre in realtà ad essa mi riconducono. Di ciò prendo atto anche criticamente, ovvero senza alcun esclusivismo o integralismo, quasi che ora si dovesse smettere di leggere tutti gli autori contemporanei e fermarsi solo al Vangelo o a certi contenuti dell’insegnamento della Chiesa.
Piuttosto, io rimango nella tradizione cristiana perché ritengo che anche Voltaire si trovava al suo interno, e, con lui, tutta la democrazia moderna. Semmai contrappongo talvolta un brano di questa tradizione - che a me sembra dotato di qualche autenticità - ad altri che magari trovo più autoritari, dogmatici; in ogni caso, è sempre all’interno di questa tradizione che mi muovo. Per me essere cristiano è come accettare la mia finitezza, peraltro descritta dalla Sacra Scrittura.
Il pensiero debole è ancora “forte”
Un intervento sul dibattito filosofico intorno al Nuovo realismo
Nell’agosto scorso Ferraris ha lanciato su queste pagine il manifesto del New Realism che ha aperto il dibattito sul superamento del Pensiero debole
di Pier Aldo Rovatti (la Repubblica, 16.06.2012)
Non possiamo far finta che non si stia combattendo un sintomatico conflitto di idee. Esso esisteva ancor prima che venisse alla superficie attraverso articoli, saggi e libri. Con il Manifesto del nuovo realismo ( Laterza) Maurizio Ferraris ha il merito di averlo fatto emergere e di avere surriscaldato la scena. Umberto Eco, nel suo intervento intitolato Di un realismo negativo (in “alfabeta2”, n. 17, e su questo stesso giornale), ha stemperato i toni.
Gianni Vattimo, pubblicando (da Garzanti) Della realtà, cioè quello che ha detto e scritto nell’ultimo decennio, ha documentato la propria dissidenza filosofica con la consueta chiarezza, ed è a partire da questo libro che vorrei esprimere alcune mie considerazioni. Lascio perdere le punte polemiche (per esempio, Vattimo che pubblica sul manifesto una lettera a Eco, e Ferraris che gli risponde contestualmente, come a dire «se vuoi parlare con me, fallo direttamente»). E vengo subito al conflitto delle idee: in gioco mi pare soprattutto la domanda «dove sta andando la filosofia? » e, più precisamente, «che fine stanno facendo il “sociale” e il “politico” in questa svolta di pensiero? ».
Nessuno dei contendenti si sogna di dichiararsi “contro il realismo”: da una parte, però, si propone di salvare il nocciolo “ontologico” della questione sbarazzandosi di tutto quanto è avvenuto dal ’68 a oggi, dall’altra si valuta con preoccupazione quel che si perderebbe procedendo così.
A detta di Vattimo si rinuncerebbe al potenziale di trasformazione che la filosofia può ancora avere e che anzi, proprio adesso, in tempi in cui la crisi tende a comprimere anche gli spazi di pensiero, dovremmo cercare di attivare e valorizzare. Il suo punto di vista è netto: per lui rischiamo di ingabbiarci in un atteggiamento ultraconservativo dal sapore accademico, se togliamo alla filosofia quel mandato sociale e politico costruito in decenni di lavoro ermeneutico e fenomenologico, attraverso la rilettura critica di Nietzsche e di Heidegger, gli apporti mutuati dalla microfisica del potere di Foucault e dal decostruzionismo di Derrida, senza dimenticare il ruolo non marginale giocato da Benjamin.
Tutto questo percorso - che ora si vorrebbe devitalizzare (omologandolo in un generico postmodernismo) - conduce secondo Vattimo proprio a una descrizione critica della “realtà”, nella sua complessità ma soprattutto nei suoi dispositivi oggettivanti e che limitano la libertà dei soggetti in quanto cittadini in lotta per i loro diritti.
Come è noto, anche se non mi sono mai del tutto identificato filosoficamente con Vattimo (per formazione e scelte specifiche), ne condivido nella sostanza l’impianto (cfr. in Della realtà soprattutto le “Lezioni di Glasgow” del 2010): è una posizione che permette, nell’attuale conflitto di idee, di vedere bene i rischi del disboscamento in atto e soprattutto di illuminare il tratto più sorprendente di questa “pulizia” culturale, e cioè la rimozione della soggettività.
Sembra infatti che il realismo ora rilanciato voglia e possa fare a meno della soggettività, quasi fosse inglobata o sottintesa e non una questione aperta e cruciale. Un realismo senza soggetto, per dir così, chiude o comunque squalifica come irrilevanti i problemi che, secondo Vattimo (e secondo me), dovrebbero invece essere considerati vitali per il discorso filosofico: quelli, per esempio, dell’identità e dell’alterità e di cosa può significare oggi socializzazione o legame sociale; oppure quelli della prossimità e della distanza e di cosa, appunto, può voler dire “soggetto” nel momento in cui è chiaro che nessuno può essere più padrone a casa propria e che l’idea di individuo neoliberale sembra ormai andare in frantumi.
Ipotizzo che Vattimo si sia rivolto a Eco (nella lettera che ho sopra ricordato) perché gli attribuisce una sensibilità sull’intera questione, nonostante il fatto che Eco appaia schierato nel campo avverso. Una sensibilità innanzi tutto “storica”: una cautela nel buttar via il bambino con l’acqua sporca, salviamo almeno l’insegnamento in fatto di “ironia” che ci arriva da quella stagione che ora vorremmo frettolosamente cancellare. E poi una sensibilità verso un “realismo minimo”, inteso come un limite «che non ci garantisce che noi possiamo domani possedere la verità».
Ecco gli ulteriori e imprescindibili fronti della battaglia in corso, molto evidenti nel libro di Vattimo: la storia e la verità. Storia significa provenienza, genealogia, processo sociale attraverso cui si forma la coscienza politica del presente e al di fuori del quale la parola “critica” e anche la stessa parola illuminismo (invocata da Ferraris) rischiano di restare parole senza spessore. “Verità” (con le virgolette!) vuol dire appunto negazione della pretesa di possedere una volta per tutte la verità (senza virgolette).
Le due questioni sono ovviamente intrecciate: per combattere le pretese di chi ha creduto o ancora crede di avere in mano la verità, occorre che gli “eventi” vengano ogni volta attraversati dalla storicità e che i soggetti storici ne siano i responsabili effettivi, concreti, politici: tutti i soggetti, non solo quei supposti “funzionari dell’umanità” che chiamiamo filosofi. Vattimo ha costantemente combattuto questa battaglia e continua a farlo anche in Della realtà. Qualcuno ritiene che sia ormai passato il suo tempo. A me pare lampante che la sostanza del suo programma filosofico sia ancora incisiva, oggi - forse - ancora più di ieri.
Dedicati al dono i «Dialoghi sull’uomo» di Pistoia
di Redazione (il manifesto, 3 maggio 2012)
«In un momento di crisi gravissima come quella che sta attraversando il nostro paese, e più in generale il cosiddetto “sistema occidentale”, sembra utile porsi da un’angolatura antropologica per analizzare il perché del primato dei rapporti economici nella nostra società. Diviene dunque importante ed urgente parlare del “dono” in una società in cui l’immaginario è totalmente condizionato dall’ideologia del mercato e in cui sembra impossibile uscire dagli schemi dominanti, dove i rapporti fra esseri umani sono subordinati ai rapporti fra uomini e cose, e dove i valori che orientano l’agire non sono più basati su legami sociali ed etici».
Così Giulia Cogoli, ideatrice e direttrice di «Dialoghi sull’uomo» (www.dialoghisulluomo.com) ha presentato il tema della terza edizione del festival di antropologia del contemporaneo, che si terrà dal 25 al 27 maggio a Pistoia. In programma tre giornate con una ventina di appuntamenti - incontri, dialoghi e letture - nel centro storico della città toscana.
Tra gli ospiti della manifestazione, gli antropologi Marco Aime, Mark Anspach, Fabio Dei e Marino Niola; il sociologo Zygmunt Bauman; Alessandro Bergonzoni; Padre Enzo Bianchi; la filosofa Laura Boella con Gherardo Colombo; Anna Bonaiuto con Stefano Bartezzaghi; gli economisti Luigino Bruni e Stefano Zamagni; i filosofi Maurizio Ferraris, Salvatore Natoli ed Elena Pulcini; la medievalista Chiara Frugoni; gli scrittori Daniel Pennac e Stefano Benni; lo storico dell’arte Salvatore Settis.
Dio è morto torniamo a Dio
L’Ana-teismo di Richard Kearney: così l’esperienza del vuoto ci riapre al problema della trascendenza
di Gianni Vattimo (La Stampa, 16.03.2012)
Anateismo è l’atteggiamento religioso che Kearney sostiene e raccomanda per la spiritualità del nostro tempo. [... ] Il prefisso greco ana-, che a prima vista potrebbe essere inteso in senso negativo (come se si trattasse di negare l’a-teismo, pensate al termine an-alcolico...), significa invece, oltre che «salita», anche «ritorno». Due sensi che Kearney non sottolinea insieme, preferendo il secondo senso, il ritorno; non direi però che il primo senso, la salita, sia del tutto scomparso, giacché il ritorno implica sempre per Kearney un qualche momento di illuminazione piena, diremmo di arrivo alla cima, che coincide bensì, nella mistica, con la notte oscura di cui tanti mistici ci parlano, ma che ha comunque il carattere di un momento decisivo - una sorta di evidenza che Kearney pensa sempre in base all’eredità della fenomenologia assimilata attraverso il suo maestro Ricœur. Il senso del prefisso, dunque, non è solo una questione di filologia, segna anche, pare a me, la differenza - leggera ma non insignificante - attraverso cui io mi introduco nel discorso di Kearney, e perciò la via che, solo, posso indicare ai lettori.
Dunque: la cultura dentro la quale ci capita di vivere è orientata a considerarsi il punto di arrivo di uno svolgimento che, negli schemi filosofici dominanti, di origine hegeliana, ma anche genericamente illuministici e positivistici, si pensa come proveniente da fasi primitive teistiche, caratterizzate da una religiosità non di rado superstiziosa, che poi, attraverso scienza e tecnica, si evolve progressivamente verso quella che Nietzsche chiamerà la «morte di Dio» (il quale per lui si rivela una menzogna non più necessaria all’uomo tecno-scientificamente evoluto), e cioè verso un ateismo teorico-pratico sempre più generalizzato. Questo schema illuministico-storicistico è quello da cui Kearney parte per negarne la validità, alla luce non solo della propria esperienza personale, ma di quella che gli sembra, giustamente, una diffusa ripresa, o sopravvivenza, del problema di Dio al di là di ogni approdo ateistico. Non solo a causa di quelle che si potrebbero chiamare le autocontraddizioni performative del «progresso» (dalla bomba atomica all’Olocausto), ma per l’incertezza e l’esperienza di finitezza che il nostro mondoconosce e che lo richiamano, appunto, a quel senso di vuoto e di sospensione di ogni certezza che l’autore chiama anateismo.
Ancora in armonia con la propria formazione fenomenologica, Kearney pensa a questo stato d’animo come all’ epoché husserliana, quella sospensione dell’atteggiamento «naturale» nei confronti delle cose che permette di elevarsi alla visione delle essenze. Si va oltre l’ateismo «naturale» del nostro mondo quando facciamo esperienza di questo vuoto che è anche l’apertura a una epifania, a una illuminazione, che ci riapre all’esperienza di Dio. Qualunque Dio esso sia. Nel vuoto e nell’incertezza che ci apre all’anateismo e a un nuovo possibile incontro con Dio entra anche la consapevolezza moderna e tardo-moderna della pluralità delle religioni, dunque il problema del dialogo interreligioso e delle molteplici vie che in esso si confrontano e spesso si scontrano. L’anateista di Kearney è inoltre un uomo del dialogo con gli dèi stranieri. La religiosità ritrovata nella sospensione degli assoluti sia teistici sia ateistici è anche caratterizzata da una apertura all’altro che è sempre stata preclusa alle fedi non passate attraverso la notte oscura - non solo mistica, ma culturale di cui noi moderni siamo figli e prodotti.
Kearney, nelle non rare digressioni autobiografiche del libro, ricorda anche di aver a lungo lottato contro l’autoritarismo della sua Chiesa e poi delle Chiese e sette che ha incrociato. Di modo che l’anateismo non è solo, in definitiva, il momento di sospensione e di vuoto destinato a trovare «di nuovo» una fede «piena» più o meno affine alle fedi tradizionali, ma un atteggiamento che deve accompagnare (sembra di parlare dell’« io penso» kantiano!) ogni fede ritrovata. Di ogni fede comunque ritrovata deve far parte la preghiera che domanda di essere aiutati a credere: Signore, credo, aiuta la mia incredulità. Che era anche la preghiera persino di Madre Teresa, come ricorda Kearney. Ma potremmo pensare a Pascal, che consigliava ai non credenti di pregare per ottenere la fede.
Trent’anni dopo «Il pensiero debole»: la lunga fedeltà all’ermeneutica, mancando i fatti
Vattimo, la libertà il nostro abisso
«Della realtà»: il nichilismo come caratteristica saliente della cultura contemporanea Un mondo che moltiplica vorticosamente le sue prospettive, venuta meno ogni ipotesi metafisica
di Federico Vercellone (La Stampa TuttoLibri, 03.03.2012)
Sono ormai trascorsi quasi trent’anni da quando apparve presso Feltrinelli, a cura di Gianni Vattimo e di Pier Aldo Rovatti, un volume che ha smosso gli animi e fatto epoca, Il pensiero debole. Fu subito chiaro che si era toccato un nervo scoperto. In breve la questione era la seguente: si doveva constatare che la società di massa era andata trasformandosi in una civiltà dei media dominata dall’ immagine. I grandi guru della critica della cultura, non importa se di sinistra e di destra, avevano guardato al fenomeno con un occhio implacabilmente critico. Ma, come sempre, non tardò ad arrivare il tradimento di un chierico. E non poteva che essere un transfuga di grande livello a difendere l’avversario di sempre.
L’interrogativo posto da Vattimo era se davvero il mondo immaginario dominato dai media fosse un vuoto fantasma. O se non si trattasse invece di un universo che possedeva impreviste chances di emancipazione. Se non si trattasse di una cultura - era questa l’ipotesi «debolista» - che consentiva davvero il realizzarsi del sogno liberale e illuminista di un mondo pluralista, ove tutte le individualità potevano esser contemplate e riconosciute nella loro peculiarità. E’ il sogno postmoderno.
Gianni Vattimo enunciò l’idea che la possibilità di possedere molte televisioni si configurava come un pluralismo inedito, sconosciuto ai mondi precedenti che si erano fissati sull’unicità della verità. Grazie a questo passo egli incarnò, agli occhi di una parte consistente dell’élite culturale, l’immagine di colui che ha cambiato sponda per unirsi ai vincitori. La polemica contro il pensiero debole divenne così una polemica contro la cultura dominante da parte di un settore significativo della casta dominante della cultura. E la cosa è continuata sino a tempi recentissimi anche grazie al recente dibattito sul «nuovo realismo».
E’ venuto dunque il momento di fare bilanci equilibrati di una vicenda filosofica in trasformazione e ancora in atto, che ha attraversato fasi diverse e anche autocritiche. Proprio Gianni Vattimo ci fornisce questa occasione grazie al suo libro più recente, Della realtà, pubblicato ora da Garzanti nel quale raccoglie e rielabora scritti degli ultimi quindici anni raccolti intorno a due nuclei di lezioni tenute nel 1998 a Lovanio e nel 2010 a Glasgow (le prestigiosissime «Gifford Lectures»). Com’è ben noto, il pensiero di Vattimo fa riferimento a una tesi di Nietzsche, secondo la quale «non ci sono fatti, solo interpretazioni», laddove anche questa «è un’ interpretazione».
Le obiezioni principali formulate contro questa tesi sono due. La prima è di natura epistemologica: su questa via viene messa in questione la verità della scienza. La seconda è invece di ordine pratico-morale: se tutto è interpretazione, ogni cosa diviene opinabile. Così diventa lecito negare l’Olocausto ma anche, perché no?, viaggiare in controsenso sull’autostrada. Ora, per quanto mi risulta, né Gianni Vattimo né altri rappresentanti del pensiero ermeneutico hanno mai rifiutato di farsi visitare dal medico a causa di una sfiducia preconcetta nei confronti della scienza o, anche tralasciando l’Olocausto, hanno attentato in automobile, emuli di Marinetti, alla vita propria e a quella altrui. Se le cose stanno così, ci sarà qualche buon motivo per rivisitare la questione da un altro punto di vista.
Anche in questo libro Vattimo afferma che il nichilismo, che si prospetta con forza nella tradizione Nietzsche Heidegger, costituisce una caratteristica saliente della cultura contemporanea (postmoderna e oltre...). Il nichilismo comporta che l’universo abbia perduto il proprio cardine, l’idea di Dio come Essere Supremo, certezza ultima della consistenza del creato, della sua coerenza, garanzia della verità delle nostre conoscenze, sigillo di un ordine buono e giusto. Quando il fulcro di quest’ordine grandioso viene meno, quando, per dirla con Nietzsche, si scopre che «Dio è morto», si spalanca un abisso. Alla verità ultima sancita dalle salde architetture della metafisica, si sostituisce un mondo che, in assenza di un fuoco dello sguardo, moltiplica vorticosamente le proprie prospettive.
In questo ambito si diviene consapevoli della radicale storicità dell’esistenza, dei saperi, e di tutto il tessuto di concetti che li compongono. E’ il mondo totalmente tecnicizzato che ci è consueto, nel quale tuttavia si spalanca un’altra volta, grazie alla consapevolezza profonda del carattere divenuto di noi stessi e del mondo, l’abisso della libertà.
Quali criteri, per scegliere secondo verità e giustizia, vanno adottati in questo contesto nel quale non siamo confortati da alcuna oggettività stabile? Probabilmente, per cominciare a sbrogliare la matassa, dobbiamo ricordarci, come ci insegna molta biologia contemporanea, che neppure la natura è «oggettiva», ma è attraversata da moti di autorganizzazione creativa che la rendono molto prossima alla cultura.
La metafisica è finita filosofiamo in pace
La verità come favola. Finzione utile in determinate condizioni di esistenza: che oggi sono venute meno" - L’ipotesi di Nietzsche. Destinati a trionfare i più moderati, a cui non servono principi di fede estremi - La Conclusione di Vattimo a un volume di saggi in suo onore Una “questione di metodo” contro ogni pretesa di dominio
di Gianni Vattimo (La Stampa, 23.02.2012)
Un problema preliminare, con cui la filosofia contemporanea non può non fare i conti se vuole esercitarsi ancora come filosofia, e non solo come saggistica o come industriosità storiografica sul pensiero del passato, né ridursi a pura disciplina ausiliaria delle scienze positive (come epistemologia, metodologia, logica), è quello posto dalla critica radicale della metafisica. Bisogna sottolineare qui l’aggettivo «radicale», perché solo questo tipo di critica della metafisica costituisce davvero un problema preliminare ineludibile per ogni discorso filosofico consapevole della propria responsabilità. Non sono radicali quelle forme di critica della metafisica che, più o meno esplicitamente, si limitano a considerarla come un punto di vista filosofico fra altri, una scuola o corrente, che per qualche ragione filosoficamente argomentata bisognerebbe oggi abbandonare. [...]
La critica della metafisica è radicale, e si presenta come un problema preliminare ineludibile, una vera e propria «questione di metodo», là dove si formula in modo da non colpire solo determinati modi di far filosofia o determinati contenuti, ma la stessa possibilità della filosofia come tale, come discorso caratterizzato da un suo statuto logico e anche, inseparabilmente, sociale. Il maestro di questa critica radicale della metafisica è Nietzsche. Secondo lui, la filosofia si è formata e sviluppata come ricerca di un «mondo vero» che potesse fare da fondamento rassicurante alla incerta mutevolezza del mondo apparente. Questo mondo vero è stato di volta in volta identificato con le idee platoniche, con l’aldilà cristiano, con l’ a priori kantiano, con l’inconoscibile dei positivisti, finché la stessa logica che aveva mosso tutte queste trasformazioni - il bisogno di cercare un mondo vero autenticamente tale, capace di resistere alle critiche, di «fondare» - ha condotto a riconoscere la stessa idea di verità come una favola, una finzione utile in determinate condizioni di esistenza; tali condizioni sono venute meno, e questo fatto si esprime nella scoperta della verità come finzione.
Il problema che Nietzsche vede aprirsi a questo punto, in un mondo dove anche l’atteggiamento smascherante è stato smascherato, è quello del nichilismo: dobbiamo davvero pensare che il destino del pensiero, una volta scoperto il carattere non originario, ma divenuto e «funzionale», della stessa credenza nel valore della verità, o della credenza nel fondamento, sia quello di installarsi senza illusioni, come un «esprit fort», nel mondo della lotta di tutti contro tutti, nel quale i «deboli periscono» e si afferma solo la forza? O non accadrà piuttosto, come Nietzsche ipotizza alla fine del lungo frammento sul Nichilismo europeo (estate 1887), che in questo ambito siano destinati a trionfare piuttosto «i più moderati, quelli che non hanno bisogno di principi di fede estremi, quelli che non solo ammettono, ma anche amano una buona parte di caso e di assurdità»?
Nietzsche non sviluppa molto di più questa allusione ai «più moderati», ma è probabile che, come appare dai suoi appunti degli ultimi anni (gli stessi da cui proviene questo frammento sul nichilismo), l’uomo più moderato sia per lui l’artista, colui che sa sperimentare con una libertà che gli deriva, in definitiva, dall’aver superato anche l’interesse alla sopravvivenza. [...]
La questione circa la fine della metafisica, la sua improseguibilità, non è ineludibile solo o principalmente in quanto si riesca a dimostrare che essa costituisce il movente, esplicito o implicito, delle correnti principali della filosofia novecentesca; ma soprattutto perché pone in discussione la stessa possibilità di continuare a filosofare. Ora, questa possibilità non è minacciata tanto dalla scoperta teoretica di altri metodi, altri tipi di discorso, altre fonti di verità ricorrendo alle quali si potrebbe fare a meno di filosofare e di argomentare metafisicamente. Ciò che getta una luce di sospetto sulla filosofia come tale e su ogni discorso che voglia riprenderne su piani e con metodi diversi le procedure di «fondazione», di afferramento di strutture originarie, principi, evidenze prime e cogenti, è la smascherata connessione che queste procedure di fondazione intrattengono con il dominio e la violenza.
Il riferimento a questa connessione, sebbene possa apparire accidentale, è invece quello che, preso sul serio, rende davvero radicale la critica della metafisica; senza di esso, tutto si riduce a sostituire semplicemente alle pretese verità metafisiche altre «verità» che, in mancanza di una dissoluzione critica radicale della stessa nozione di verità, finiscono per riproporsi come istanze di fondazione. È difficile, come pure si sarebbe tentati di fare richiamandosi a Hegel, opporre a una tale «questione di metodo» l’invito a provare a nuotare gettandosi in acqua, cioè a cominciare di fatto a costruire argomentazioni filosofiche cercando se non sia possibile, contro ogni eccesso di sospettosità, individuare alcune certezze sia pure relativamente «ultime» e generalmente condivise. Tuttavia l’invito a gettarsi in acqua, l’invito a filosofare, non può provenire dal nulla; esso si richiama necessariamente all’esistenza di una tradizione, di un linguaggio, di un metodo. Ma le eredità che riceviamo da questa tradizione non sono tutte equivalenti: tra di esse c’è l’annuncio nietzschiano della morte di Dio, la sua «esperienza» più che teoria, della fine della metafisica e, con essa, della filosofia.
Proprio se si vuole accettare la responsabilità che l’eredità della filosofia del passato ci impone, non si può non prendere sul serio anzitutto la questione preliminare di questa «esperienza». Proprio la fedeltà alla filosofia è ciò che impone di non eludere, anzitutto, la questione della sua negazione radicale; questione che, come si è visto, è indistricabilmente connessa a quella della violenza.
Il tramonto della Verità approda nei Paesi arabi
di Emanuele Severino (Corriere della Sera, 14 aprile 2011)
Quanto sta avvenendo nel Nord Africa è un tipico fenomeno del nostro tempo, dove nei modi più diversi ma tutti convergenti l’Occidente volta le spalle alla propria plurimillenaria tradizione. Il mondo arabo, infatti, dopo aver riattivato nel Medioevo la civiltà europea, ricollegandola alla grande cultura greca, di tale civiltà ha poi sentito e subìto la presenza, con un’intensità tanto maggiore quanto più ampia e profonda, rispetto ai popoli dell’Africa subsahariana, è stata la dimensione che il mondo arabo ha avuto in comune con l’Europa (si pensi anche al retaggio comune delle scritture veterotestamentarie).
Intendo dire che quanto sta avvenendo nel Nord Africa è il modo specifico in cui anche quel mondo incomincia a voltare le spalle alla tradizione dell’Occidente. Tra i più visibili dei fenomeni tipici del nostro tempo, le due guerre mondiali. Nella prima le democrazie distruggono l’assolutismo degli Imperi centrali e di quello ottomano, contribuendo a determinare le condizioni che conducono alla fine dell’assolutismo zarista. Nella seconda le democrazie distruggono l’assolutismo nazionalsocialista e fascista. Ma anche la fine dell’assolutismo sovietico appartiene a quest’ordine di fenomeni.
Gli appartiene anche, in Europa e sia pure in minor misura in America, la crisi del cristianesimo e dei costumi che ad esso si ispirano. Il cristianesimo intende infatti essere l’ordinamento assoluto che rende possibile la salvezza dell’uomo. A quell’ordine di fenomeni appartiene anche la crisi del capitalismo: non tanto quella relativa alle difficoltà in cui oggi si trova, quanto piuttosto quella per cui è sempre meno inteso come una «legge naturale eterna» - cioè come l’ordinamento assoluto che rende possibile la salvezza economica - e sempre più come un «esperimento» storico dai molti meriti, ma dall’esito incerto, anche per la devastazione della terra a cui esso conduce.
A quell’ordine di fenomeni - all’abbandono cioè della tradizione dell’Occidente - appartengono anche grandi eventi degli ultimi due secoli della storia europea, che sebbene meno visibili sono tuttavia altrettanto e anzi in certi casi ancora più decisivi.
Tra l’Otto e il Novecento l’arte europea si rifiuta di doversi adeguare al modello costituito dal bello assoluto e imposto dalla cultura tradizionale: si propone come libera invenzione di un mondo nuovo, nascono l’arte «astratta» e la musica atonale (cioè essa stessa «astratta» , separata dall’ordinamento sonoro della tradizione).
Ma in modo eminente è la filosofia a rompere col passato, e innanzitutto col proprio, mostrando l’impossibilità di quell’Ordinamento degli ordinamenti che è l’esistenza stessa di una Verità assoluta e di un Essere assoluto che intenda valere come Principio del mondo. «Dio è morto» , e alla radice è morta quella Verità assoluta che presume di potersi mantenere stabile e inalterabile al di sopra della storia, del tempo, del divenire.
Di questo atteggiamento del pensiero filosofico risentono le scienze naturali e logico-matematiche, che nei modi loro propri non si presentano più come Verità assolute, ma come ipotesi o leggi statisticoprobabilistiche di cui è sempre possibile la falsificazione. Anche le scienze giuridiche abbandonano il concetto di «diritto naturale» , nella misura in cui esso vuol essere un diritto assoluto, assolutamente vero e presente nella coscienza di ogni uomo, e portano in primo piano il concetto di «diritto positivo» , posto dall’uomo in determinate circostanze storiche.
L’abbattimento della tradizione dell’Occidente è un turbine gigantesco a forma di piramide, i cui strati diventano sempre più visibili man mano che si scende verso la base e sempre meno visibili - ma anche sempre più decisivi - man mano che si sale verso il vertice della piramide. Che è costituito dal pensiero filosofico e che, anche se per lo più si tiene nascosto, guida il turbine. Sia pure guardando, con perspicacia diversa, verso l’alto, i popoli dell’Occidente abitano la base della piramide. Anche i popoli del Nord Africa. Della filosofia non sanno ovviamente nulla, ma in qualche modo ne intravvedono l’ombra che essa lascia sulle cose e sugli eventi del mondo.
Per completare la metafora della piramide, si aggiunga che la base soffia sulle convinzioni, i costumi, le opere, le istituzioni della tradizione occidentale, e che anche se non lo si percepisce, la potenza travolgente del soffio proviene dal vertice. Si dice che soprattutto i giovani del Nord Africa guardano latelevisione e si servono di Internet e dei cellulari.
Ma ciò che più conta rilevare è il loro intuire che il mondo sta cambiando in un senso del tutto particolare e non solo molto più profondamente e rapidamente di quanto non si sospettasse: intuiscono che nei mezzi di comunicazione tutte le prospettive sono poste sullo stesso piano, che quindi non esiste una prospettiva capace di prevalere e di dominare le altre, che permanga quando esse svaniscono e abbia pertanto quell’assolutezza di cui i popoli possono intuire il senso anche se ignorano la parola. Ognuno dei messaggi massmediatici assicura di comunicare i contenuti più importanti; ma, proprio perché sono tutti ad assicurarlo, il livellamento dei contenuti è inevitabile.
Per chi abita la base del turbine a piramide che investe il passato, la preminenza dei valori tradizionali illanguidisce proprio perché essi appaiono sui teleschermi. Con ciò non si vuol dire che la tradizione dell’Occidente non possa essere Verità assoluta per il fatto che i messaggi mass-mediatici operano quel livellamento, ma che il modo in cui il tramonto degli assoluti è messo in luce dal pensiero filosofico del nostro tempo si fa in qualche misura sentire anche da chi, ascoltando quanto stiamo dicendo, non sarebbe in grado di capirlo. E, certo, quel modo di tramontare si è fatto sentire più chiaramente nella distruzione degli assolutismi e totalitarismi politico-economici operata nell’Europa del XX secolo.
Rilievi, questi, che mettono in luce come le guerre e le rivoluzioni del Novecento europeo tendano ad avere un carattere del tutto diverso da quelle dei secoli precedenti, che per quanto profonde e anticipatrici, rovesciavano sì vecchi ordinamenti assoluti, ma lasciando che i nuovi conservassero il carattere dell’assolutezza.
Per questo è più difficile - ma non tanto - che le rivoluzioni del Nord Africa, che in qualche modo possono dirsi europee, abolendo regimi totalitari abbiano a sfociare in nuove forme di assolutismo, quale l’integralismo islamico. - all’interno del turbine a piramide, il rapporto della cultura non filosofica con il pensiero filosofico degli ultimi due secoli è ovviamente di gran lunga più diretto di quello che può essere instaurato stando alla base o negli strati più bassi della piramide.
Tale cultura ne abita gli strati intermedi. Ma quindi è ancora dall’esterno che essa può sentire la voce di quel pensiero. Una critica scientifica, religiosa, artistica, ecc. degli assoluti che sono affermati innanzitutto dalla tradizione filosofica può mostrare che quest’ultima afferma contenuti diversi e opposti rispetto a quelli che tale critica intende difendere, ma non per questo essa può concludere che quei contenuti debbano venire abbandonati. Ad esempio sarebbe una grossa ingenuità ritenere che la filosofia di Aristotele o di Hegel debba esser lasciata da parte perché è comparsa la fisica moderna o perché sono state scoperte le geometrie non euclidee e la fisica quantistica. Solo una critica filosofica della tradizione filosofica e delle dimensioni in cui l’assoluto filosofico si è rispecchiato degradando fino alla base della piramide, può essere irrefutabile.
Quanto si è detto sin qui è infatti soltanto la descrizione di un fatto, sia pure di enormi proporzioni: il fatto in cui la piramide consiste. Ma non si è detto ancora nulla della irrefutabilità, ossia della verità di tale fatto: non si è ancora detto nulla di quell’altra forma di verità che è la verità della distruzione della Verità della tradizione occidentale - ossia della Verità che, si è detto, pretende porsi, inalterabile e immutabile, al di sopra del tempo e della storia. Questo giro di concetti è decisivo.
Proviamo a chiarirlo per quel che qui è possibile. Le democrazie parlamentari hanno distrutto gli Stati totalitari del Novecento, che, appunto, si presentano come la forma terrena della Verità e del Dio assoluti. Questo, dal punto di vista delle scienze storiche, si può considerare un fatto. Ma da ciò non si può concludere che le democrazie siano verità e i totalitarismi errore! Concludere così significa confondere i criteri della lotta politica con quelli del pensiero critico filosofico - che invece in proposito può dire ben di più (quando lo si sappia capire). Dice infatti che, da un lato, lo Stato assoluto, controllando l’intera vita dei sudditi, predetermina il loro futuro, lo occupa interamente e gli impone la propria legislazione inviolabile; e che, dall’altro lato, lo Stato assoluto, ma anche i suoi sudditi, sono tuttavia più o meno consapevolmente convinti che il futuro esiste ed è la dimensione di tutto ciò che ancora non esiste, non è predeterminato, non è già occupato da alcuna inviolabile legislazione.
Lo Stato assoluto è dunque una gigantesca contraddizione, in cui l’esistenza del futuro è, insieme, affermata e negata. E la contraddizione non solo è uno stato di essenziale instabilità, prima o poi destinata a crollare, ma è anche la forma essenziale dell’errore. Solo se si sa scorgere in modo appropriato la contraddizione da cui è avvolta una certa situazione storica è possibile prevedere il crollo di quest’ultima, senza che la previsione decada al rango didivinazione o di profezia (si può mostrare che il marxismo scorge in modo inappropriato la contraddizione dell’assolutismo capitalistico e imperialistico).
La distruzione dello Stato totalitario (e della sua presunta Verità) da parte della democrazia ha dunque verità solo se la democrazia è consapevole della contraddizione del totalitarismo. Altrimenti (ed è questa la situazione) la democrazia è una forma di violenza che si contrappone a quella totalitaria e che in Occidente ha vinto solo «di fatto» - provvisoriamente, apparentemente-, non «di diritto» . La contraddizione dell’assolutismo politico è presente anche in tutte le altre forme di assolutismo (alle quali si è fatto cenno sopra) della tradizione occidentale. Ma, la loro, rispecchia in forma derivata la contraddizione estrema e grandiosa che avvolge la Verità della tradizione filosofica.
Tale Verità intende infatti essere l’Ordinamento di tutti gli ordinamenti. Tutto deve esistere conformemente alla Verità assoluta: essa non è soltanto la legge che domina il futuro dei sudditi dello Stato assoluto, ma è la Legge che predetermina e dunque occupa e domina (oltre al presente e al passato) il futuro di tutte le cose, lo riempie completamente con sé stessa; e quindi lo vanifica nel modo più radicale, perché, così riempito, il futuro non è più futuro. Ma, insieme, la Verità della tradizione occidentale è il riconoscimento dell’esistenza del tempo e quindi del futuro: è la fede più incrollabile e profonda in tale esistenza: intende essere appunto la Legge del tempo, sopra il quale pone la dominazione del Dio esso stesso eterno e assoluto. La Verità assoluta è cioè fede intransigente nell’esistenza e, insieme, nell’inesistenza del tempo e della storia. Dunque è contraddizione estrema. L’essenza per lo più nascosta della filosofia del nostro tempo è il vertice del turbine che spinge al tramonto la tradizione occidentale. Nel vertice quella estrema contraddizione viene portata in piena luce. Ma, anche, è il vertice a cui non riesce a sollevarsi nemmeno la maggior parte della stessa filosofia contemporanea, che ripete sì il proclama della morte della Verità e di Dio, ma che solo raramente sa mostrare il fondamento senza di cui il proclama è soltanto fede, dogma, retorica.
D’altra parte, se si riesce a scorgere in modo appropriato che la Verità assoluta della tradizione è contraddizione estrema e dunque estrema instabilità, si è in grado di affermare che tale Verità è destinata al tramonto. Questa- all’interno della cultura dell’Occidente, che ormai è la cultura del Pianeta - è la previsione fondamentale con cui ogni altra forma di previsione deve fare i conti (e alla cui chiarificazione lavoro da quasi mezzo secolo).
Ma fino a che tale previsione rimane invisibile, restando lassù, al vertice del turbine, la potenza con cui essa guida l’intero turbine resta indebolita. Ne è un segno lo stupore, l’irritazione, se non la commiserazione, che anche i lettori possono provare leggendo qui che alla filosofia compete una funzione così decisiva nella storia del mondo.
Gli strati della piramide sono immagini del vertice, e quindi ne sono l’alterazione, non ne lasciano vedere la potenza, e sempre meno quanto più si scende verso la base: incapaci di vedere e far propria la potenza del proprio vertice, tendono a somigliare a un esercito che vada al fronte portando con sé, invece delle proprie armi, le loro fotografie. In questo senso il vertice del turbine è un sottosuolo.
Appunto per questo i grandi protagonisti della tradizione occidentale non si sentono ancora sconfitti: teocrazia, Stato assoluto ed «etico» , paleocapitalismo, democrazia (intesa sia come unione di libertà e Verità, sia come democrazia procedurale fondata tuttavia sulla metafisica dell’individuo), e anche comunismo marxista, continuano a rivendicare l’insopprimibilità dei loro valori e a sentirsi essi in diritto di guidare il mondo: dinanzi a loro si presenta la forma debole del turbine, mentre la voce della potenza del vertice - cioè l’essenza del sottosuolo del pensiero del nostro tempo, costituita dai pochi pensatori essenziali- rimane per lo più soverchiata dalle voci di quella debolezza. Anche per questo, nonostante la differenza radicale tra le rivoluzioni del passato e quelle del presente, non solo i popoli del Nord Africa, ma anche quelli dell’intero Occidente sono soltanto all’inizio del processo che è destinato a condurli all’abbandono della loro tradizione.
La Chiesa di Roma e i paesi del nord Africa
di Filippo Gentiloni (il manifesto, 10 aprile 2011)
Soprattutto, ma non soltanto, sulle rive del Mediterraneo. Stanno crollando governi che si credevano consolidati, sicuri, inamovibili, come quello libico e quello egiziano. Uno sconvolgimento soprattutto politico, ma anche inevitabilmente religioso. È in gioco la stabilità e la persistenza dell’islam, la religione di gran lunga dominante su tutto il bacino meridionale del Mediterraneo. Proprio là dove il cristianesimo è in assoluta minoranza, quasi insignificante. Il cristianesimo è dunque in crisi insieme ai regimi occidentali, di importazione. La crisi dell’Africa settentrionale comporta il consolidamento del dominio dell’islam.
Di fronte a questa situazione in parte nuova, quale la reazione del cristianesimo, in particolare di Roma (le altre forme di cristianesimo non sono particolarmente interessate)? Roma non può non ricordare le difficili vicende della sua storia con l’islam. Una storia molto contrastata e nella quale Roma è stata spesso perdente, di fronte a un islam aggressivo e spesso vincente. Proprio in quelle regioni dell’Africa che oggi sono in prima pagina.
In Asia, invece, il rapporto fra l’islam e Roma è stato generalmente più incerto e controverso. Quale è oggi l’atteggiamento di Roma di fronte all’attuale ripresa vincente dell’islam? Un atteggiamento che si potrebbe dire prudente e quasi gentile. I toni decisi e contrastanti che erano tipici dei secoli precedenti si potrebbero dire abbandonati. Soprattutto perché inutili, se non addirittura dannosi.
Roma cerca di mantenere quel tono cortese e magnanimo che da qualche anno caratterizza i suoi rapporti con le altre religioni. Dal giorno, più o meno, del famoso incontro di Assisi guidato da Papa Giovanni XXIII. Da allora domina un atteggiamento che cerca di affratellare le diverse religioni, compreso l’islam e nonostante una lunga storia di incomprensioni e di avversità.
Quella storia oggi, di fronte alle vicende dell’Egitto, della Libia e della Tunisia, sembra dimenticata. Dimenticata soprattutto di fronte alle migliaia di profughi e di «richiedenti asilo». Ai cristiani europei si chiede, più che una affermazione di fede, un gesto di accoglienza e di carità. Proprio quel gesto che i cristiani - soprattutto cattolici - hanno difficoltà a compiere. Il discorso religioso si sta spostando dalla verità alla carità.
Come vivere senza Berlusconi?
di Philippe Ridet (Le Monde, 7 settembre 2010 - traduzione: www.finesettimana.org)
Si deve ad un teologo discreto una delle cose più vivaci dell’estate italiana. Approfittando di una - molto - breve pausa sul fronte delle polemiche politiche, Vito Mancuso si poneva un grave problema tramite una lettera aperta al quotidiano la Repubblica del 21 agosto: poteva continuare a pubblicare, “in pace con la coscienza” i suoi libri da Mondadori, mentre a questa casa editrice, controllata da Mediaset - il settore dei Media della holding finanziaria della famiglia Berlusconi (Fininvest) -, veniva consentito un ristorno fiscale di svariate centinaia di milioni di euro? La sua risposta è no.
Bisogna riconoscere che questa presa di posizione, piuttosto rara, e questa denuncia di un ennesimo conflitto di interessi non ha scombussolato nessuno più di tanto. Gli scrittori e gli intellettuali sollecitati dalla stampa a reagire non si sono precipitati ad esprimere la loro solidarietà ad un uomo che ormai si rifiuta che il proprio lavoro possa, in qualsiasi modo, arricchire Berlusconi. Al contrario, non sono mancate le riserve, né i sarcasmi. Perché una presa di coscienza così tardiva? gli si è rimproverato, sospettandolo di avere orchestrato una campagna pubblicitaria. Perché tanta ingenuità? gli hanno detto altri, per i quali questa battaglia individuale è persa in partenza.
Dal 1994, data della presa di controllo di Mondadori e della vecchia casa editrice torinese Einaudi da parte della Fininvest (per mezzo di un giudice la cui corruzione è stata accertata in seguito) nessuno ignora chi sia il proprietario di queste aziende. Questo non vuol dire tuttavia che gli autori pubblicati dalle case editrici del presidente del Consiglio non si siano posti il problema.
Roberto Saviano, l’autore del best-seller Gomorra, si è posto la questione della propria fedeltà alla Mondadori, quando, in primavera, Berlusconi aveva accusato gli scrittori che trattavano di “Mafia” di “rovinare l’immagine del paese”. Rassicurato da una lettera del presidente della Mondadori, Marina Berlusconi, figlia del Cavaliere, Saviano aveva messo a tacere i propri dubbi.
Ad oggi, quattro autori delle case editrici controllate da Mediaset - tra cui il Premio Nobel della letteratura del 1998 José Saramago (morto a giugno) - si sono visti rifiutare un libro a causa del contenuto ritenuto troppo ingiurioso nel confronti dell’azionista di maggioranza. Vuol dire forse che gli scrittori pubblicati da Mondadori o Einaudi hanno perso ogni capacità di indignazione, preferendo venire a patti col nemico per assicurarsi delle buone vendite?
In verità, è piuttosto un diffuso senso di stanchezza quello che si potrebbe notare. Stanchezza di fronte ad un dibattito continuamente rilanciato a partire dalla prima apparizione di Silvio Berlusconi al potere. Stanchezza all’idea di affrontare questo problema ricorrente: si può boicottare Berlusconi, vivere senza Berlusconi? Bisogna dire che l’impresa non è semplice. Se è facile denunciare l’onnipresenza del suo impero nell’economia italiana, è più difficile farne a meno.
Prendiamo il caso di un antiberlusconiano duro e puro, che per nulla al mondo vorrebbe contribuire all’arricchimento del Cavaliere. Chiamiamolo signor Rossi. Per la televisone è abbastanza semplice, il signor Rossi dovrà evitare i tre canali del “Cavaliere” (Canale 5, Italia 1, Rete 4). Il sacrificio non è particolarmente costoso vista la mediocrità dei programmi. Tuttavia dovrà usare con parsimonia i canali della TV pubblica: il capo del governo ha nominato la maggior parte dei dirigenti.
Al cinema il signor Rossi non andrà a vedere i film prodotti da Mediaset o distribuiti da Medusa. Per la stampa eviterà il Giornale, di proprietà del fratello di Silvio Berlusconi. Il signor Rossi rinuncerà ugualmente al settimanale Panorama, come pure ad una quarantina di riviste.
Andando oltre, le cose si complicano. Occorrerà al signor Rossi l’attenzione puntigliosa del vegetariano alla ricerca dei grassi animali. La Finivest possiede infatti partecipazioni in due società italiane, la banca Unicredit e l’assicurazione Generali, che sono tra i maggiori investitori italiani. Con un effetto a cascata, queste partecipazioni piazzano la Fininvest al centro dell’economia e dell’industria del paese. Qualche esempio: se il signor Rossi deve cambiare i pneumatici dell’automobile o il materasso, dovrà rinunciare a Pirelli. Per un conto in banca eviterà Intesa San Paolo, la più grande banca italiana. Se prende l’autostrada, deve evitare la Milano-Torino. Tifoso di calcio, eviterà gli incontri del Milan, di cui Berlusconi è proprietario e presidente. Si vede da questo che la vita senza Berlusconi non è cosa agevole in Italia.
Vito Mancuso è comunque deciso a tentare la sorte. Venerdì 3 settembre, in un nuovo scritto su la Repubblica, ha rinnovato la sfida chiamando gli scrittori di Mondadori e Einaudi a “liberarsi da questo conflitto di interessi nel quale sono tutti prigionieri”. Ma aggiunge: “so bene che non tutti possono sempre permettersi questa battaglia, perché esprimere pubblicamente il proprio pensiero è un privilegio abbastanza raro. Primum vivere deinde philosophari, questa antica massima di saggezza vale per tutti, nessuno è chiamato a fare l’eroe”. Il signor Rossi ne sa qualcosa.
Socrate e Ratzinger
di Ferdinando Camon (il Fatto Quotidiano, 13 aprile 2010)
La lettera del cardinale Ratzinger, pubblicata ieri da tutti i giornali, con la quale l’allora responsabile della Congregazione per la Dottrina delle Fede risponde sul problema di dispensare dagli oneri sacerdotali il reverendo Miller Kiesle, colpevole di pedofilia, invitando a prender tempo e a tener presente anche il bene della Chiesa cattolica, è un importantissimo documento storico. Perché dimostra che il cardinale (come il Papa precedente, e quello precedente ancora) avvertiva nell’affrontare i casi di pedofilia tra i preti lo scontro tra due beni: il bene delle vittime e il bene della Chiesa. I due beni non vanno d’accordo, chi ha il potere di decidere deve scegliere: o protegge le vittime danneggiando la Chiesa, o protegge la Chiesa abbandonando le vittime.
Una sconosciuta lettrice ha mandato a un giornale una letterina semplice semplice in cui espone un problema terribile per il cattolico credente. Dice: “Anch’io, se sapessi che un prete commette atti di pedofilia, non lo denuncerei alla giustizia civile ma solo alla chiesa, perché prima di dire o fare qualcosa, mi pongo sempre la domanda: a chi giova, a Dio o a Satana?”. Non denunciando, eviti un oltraggio alla Chiesa, e questo è bene, Dio lo gradisce e lo chiede. Denunciando, fai uno scandalo enorme, la Chiesa resta colpita, e questo è Satana che lo chiede e lo gradisce.
C’è un librino esile che nessuno cita (e questo mi stupisce), centrato in pieno sul problema di fronte al quale si trova Ratzinger, e prima di lui gli altri papi. È un dialogo di Socrate intitolato “Eutifrone”. Eutifrone è un sacerdote, Socrate lo trova per strada (il sacerdote sta andando a testimoniare in non so qual processo), lo ferma e impianta una discussione su questo tema: un’azione è buona perché piace a Dio, o piace a Dio perché è buona? Eutifrone, da buon sacerdote, risponde: un’azione è buona se piace a Dio. Socrate cerca di spostarlo sull’altra risposta, ma non fa in tempo, il dialogo s’interrompe.
C’è un film di qualche anno fa intitolato “Water”, acqua, e ambientato in India, in cui per pochi minuti, trequattro, appare Gandhi. Non c’entra niente con la trama del film, ma passa in treno, la gente accorre per salutarlo, lui scende per compiacerla, fa pochi passi e regala una briciola si saggezza. Dice: “Fino a ieri credevo che Dio fosse la verità, oggi so che la verità è Dio”. È un salto enorme. Il salto che Socrate cerca di far fare ad Eutifrone. Il salto che Paolo VI non ha fatto, né Giovanni Paolo II, né Ratzinger fino alla lettera ai fedeli irlandesi di poche settimane fa. Se una cosa è buona perché piace a Dio, allora non-denunciare non solo non è una colpa, ma è un merito. Se c’è da scegliere tra Dio e la Giustizia, scegliendo il primo scegli anche la seconda.
Solo la lettera ai fedeli irlandesi rovescia questo principio. Perché dice ai preti pedofili: “Dovete rispondere davanti a Dio onnipotente, come pure davanti ai tribunali debitamente costituiti”. Non è più vero che, se c’è da scegliere tra Dio e giustizia, scegliendo il primo scegli anche la seconda. È vero l’inverso: scegliendo la giustizia scegli Dio.
La lettera pubblicata ieri e firmata da Ratzinger è del 1985, allora tutta la cultura cattolica (tranne quella del dissenso) era vincolata a scegliere Dio, con ciò scegliendo il bene. Spostarla a scegliere il bene, nella convinzione che lì sta Dio, è un’operazione titanica, per la quale ci vorrà un lungo tempo. Con la lettera agli irlandesi questo tempo comincia. Incolpare Ratzinger di essersi formato nel tempo precedente non ha senso. È più giusto dargli atto di aver inaugurato il grande transito, cominciando a spingere la Chiesa fuori dall’etica pre-socratica.
(fercamon@alice.it )
Siate voi stessi il cambiamento che vorreste
Il nuovo saggio di Jacques Attali è una guida alla sopravvivenza alla crisi
Sette i principi della strategia da seguire: dal rispetto per se stessi all’empatia, dalla resistenza all’applicazione del pensiero rivoluzionario
Lezioni di vita
«Sopravvivere alla crisi. Sette lezioni di vita» di Jacques Attali è edito da Fazi (pagine 185, euro 17,50, traduz. E. Biotossi). «Il mio scopo scrive l’autore è quello di suggerire strategie precise e concrete che permettano a ognuno di “cercare uno spiraglio nella sventura” e di sapersi destreggiare tra gli ostacoli che si presenteranno, senza affidarsi ad altri per sopravvivere, per vivere meglio».
L’autore
Economista, scrittore e banchiere francese, Jacques Attali è nato ad Algeri il 1 novembre 1943. Ha vissuto ad Algeri fino al trasferimento della sua famiglia a Parigi nel 1956.
di Jacques Attali (l’Unità, 11.4.2010)
Un giorno o l’altro questa crisi si concluderà, come tutte le altre, lasciando dietro di sé innumerevoli vittime e qualche raro vincitore. Ma ciascuno di noi potrebbe anche uscirne in uno stato di gran lunga migliore di quello con cui ci siamo entrati. Questo a patto di comprenderne la logica e il percorso, di servirsi delle nuove conoscenze accumulate in vari settori, di contare soltanto su se stessi, di prendersi sul serio, di diventare attori del proprio destino e di adottare audaci strategie di sopravvivenza personale. (...)
Ma, nel frattempo, occorre salvarsi dalla crisi attuale. Perché, contrariamente a quanto vogliono far credere le grida di trionfo di qualche politico e di un ristretto gruppo di banchieri, la crisi finanziaria del 2008 che non faceva altro che rivelare quella economica che veniva da molto più lontano è lungi dall’essere terminata. (...)
L’incapacità dell’Occidente di mantenere il suo tenore di vita senza indebitarsi, che è la causa più profonda di questa crisi, è lungi dall’essere stata riassorbita. E la strategia messa in atto finora dai governi per rimediare è riassumibile nel far finanziare dai contribuenti di dopodomani gli errori dei banchieri di ieri e i bonus dei banchieri di oggi.
Di fronte ai pericoli del prossimo decennio, chi vorrà sopravvivere dovrà, come le avanguardie del passato, accettare il fatto di non doversi più attendere nulla da nessuno; e che qualsiasi minaccia è anche un’opportunità per ognuno di noi, in quanto lo costringe a riconsiderare il proprio posto nel mondo, ad accelerare i cambiamenti nella sua vita, a mettere in atto un’etica, una morale, dei comportamenti, delle attività e delle alleanze radicalmente nuovi. Costui saprà che la sopravvivenza non implica per forza la necessità di aspettare questa o quella riforma generale, quella grazia o quel salvatore; che non esige la distruzione degli altri, ma soprattutto la costruzione di sé e l’attenta ricerca di alleati; che non risiede in un ottimismo illimitato, ma in un’estrema chiarezza in relazione a se stessi, in un desiderio selvaggio di trovare la propria ragion d’essere; la quale non è da costruire soltanto nel singolo momento, ma anche sul lungo periodo; la quale non è finalizzata alla conservazione di ciò che si è acquisito, ma può riguardare il superamento dell’ordine attuale; la quale non si limita soltanto a mantenere l’unità del proprio io, ma esige di prevedere tutte le possibili diversità.
Per arrivare a questo punto, costoro dovranno cominciare un lungo apprendistato relativo al controllo del sé, a cui nulla, per il momento, li prepara. (...) I sette principi di questo apprendistato saranno applicabili a qualsiasi epoca, qualsiasi minaccia e qualsiasi tipo di crisi. (...)
Questa strategia, frutto di un lungo ragionamento su quelle utilizzate finora, permetterà di sopravvivere in particolare ai rischi di disoccupazione, fallimento e declino. Essa si snoda, a mio parere, attorno a sette principi da attuare nell’ordine suggerito qui di seguito. Va da sé che la loro messa in opera richiede sforzi considerevoli e che pure io, come tutti, fatico molto a metterli in pratica.
1. Il rispetto di sé: innanzitutto, voler vivere, e non soltanto sopravvivere. Quindi, prendere pienamente coscienza di sé, attribuire importanza alla propria sorte, non provare né vergogna né odio verso se stessi. Rispettarsi e dunque cercare la propria ragione di vivere, imporsi un desiderio d’eccellenza in relazione al proprio corpo, alla propria conservazione, al proprio aspetto, alla realizzazione delle proprie aspirazioni. Per raggiungere questo scopo, non bisogna attendersi nulla da nessuno; occorre contare soltanto su se stessi per definirsi; non bisogna avere paura davanti a una crisi, quale che sia la sua natura; occorre accettare la verità anche se non è piacevole da ammettere; e bisogna voler essere protagonisti, né ottimisti né pessimisti, del proprio futuro.
2. L’intensità: proiettarsi sul lungo periodo; formarsi una visione di sé, per sé, da qui a vent’anni, da reinventare incessantemente; saper scegliere di compiere un sacrificio immediato se può rivelarsi benefico sulla lunga distanza; nello stesso tempo, non dimenticare mai che il tempo è prezioso, perché si vive una volta sola, e che bisogna vivere ogni momento come se fosse l’ultimo.
3. L’empatia: in ogni crisi e di fronte a ogni minaccia, a ogni cambiamento radicale, bisogna mettersi al posto degli altri, avversari o potenziali alleati; comprendere le loro culture, i loro modi di ragionare, le loro motivazioni; anticipare i loro comportamenti per identificare tutte le minacce possibili e distinguere tra amici e potenziali nemici; bisogna essere amabili con glialtri, accoglierli per stringere con loro alleanze durature, praticare un altruismo interessato e, a tale scopo, fare mostra di una grande umiltà e di una piena disponibilità intellettuale; essere in particolare capaci di ammettere che un nemico può avere ragione senza provare vergogna o rabbia per questo.
4. La resilienza: una volta identificate le minacce, diverse per ogni tipo di crisi, occorre prepararsi a resistere mentalmente, moralmente, fisicamente, materialmente, finanziariamente se una di esse dovesse concretizzarsi. Di conseguenza, bisogna pensare a costituire difese, riserve, piani alternativi, abbondanza e sicurezza a sufficienza, ancora una volta a seconda del tipo di crisi da affrontare.
5. La creatività: se gli attacchi persistono e diventano strutturali, se la crisi si radicalizza o si iscrive in una tendenza irreversibile, bisogna imparare a trasformarli in opportunità; fare di una mancanza una fonte di progresso; volgere a proprio vantaggio la forza dell’avversario. Ciò esige un pensiero positivo, il rifiuto della rassegnazione, un coraggio e una creatività pratica. Queste qualità si forgiano e si allenano come i muscoli.
6. L’ubiquità: se gli attacchi continuano, sempre più destabilizzanti, e non è possibile nessun loro impiego positivo, bisogna prepararsi a cambiare radicalmente, a imitare il migliore di quelli che sanno resistere, a rimodellare la rappresentazione di sé per poter passare nel campo dei vincitori senza perdere il rispetto di se stessi. Occorre imparare a essere mobili nella propria identità e, perciò, tenersi pronti a essere doppi, dentro l’ambiguità e l’ubiquità.
7. Il pensiero rivoluzionario: infine, occorre essere pronti, in una congiuntura estrema, in situazione di legittima difesa, a osare il tutto per tutto, a forzare se stessi, ad agire contro il mondo violando le regole del gioco, pur persistendo nel rispetto di sé. Quest’ultimo principio rinvia dunque al primo e tutti insieme formano così un sistema coerente, un cerchio. (...) Come diceva il Mahatma Gandhi: «Siate voi stessi il cambiamento che volete vedere nel mondo».
Traduzione di Emilia Bitossi © 2010, Fazi Editore
Il medioevo che ci attende
La profezia di Jacques Attali
Sono le classi dirigenti ad alimentare l’incertezza, ingrediente fondamentale per mantenere il potere
Nel suo ultimo libro l’economista francese fornisce alcune ricette contro la crisi
L’impossibilità dell’Occidente di mantenere questo tenore di vita senza indebitarsi
Dovremo adattarci alla mancanza di solidarietà e alla necessità di cavarcela da soli
di ANAIS GINORI(la Repubblica, 09.04.2010)
PARIGI. Dopo la crisi, le crisi. «Nel prossimo decennio il mondo attraverserà cambiamenti radicali, solo in parte collegati all’attuale situazione finanziaria. Ciascuno di noi sarà minacciato e dovrà trovare gli strumenti per salvarsi».
Nel suo ultimo libro (Sopravvivere alle crisi, Fazi Editore), Jacques Attali profetizza un mondo sempre più precario e ostile, nel quale le classi dirigenti sono incapaci di pensare nel lungo periodo e anzi alimentano l’incertezza, ingrediente fondamentale per mantenere il potere. «Dovremo abituarci a cavarcela da soli, come le avanguardie del passato» spiega l’economista, ex consigliere di François Mitterrand e primo presidente della Banca europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo.
Attali è uno degli intellettuali francesi più eclettici, capace di pubblicare opere su Karl Marx o sull’amore, ed è uno scrittore seriale. Si vanta di avere decine di libri già pronti nel cassetto, firma rubriche su molti giornali, colleziona consulenze e si occupa di Planet Finance, una Ong specializzata in progetti di microcredito. Instancabile, sempre di corsa. Come il mondo che prefigura.
Quali altre crisi ci aspettano?
«La crisi finanziaria del 2008 non è affatto terminata, nonostante i proclami trionfanti di qualche politico e banchiere. Quelli che gli anglosassoni definiscono "germogli" di ripresa sono, a mio avviso, soltanto segnali passeggeri. Molte banche continuano a essere insolventi, i prodotti speculativi più rischiosi si accumulano come e più di prima, i disavanzi pubblici sono ormai fuori controllo, il livello della produzione e il valore dei patrimoni restano in grandissima parte inferiori a quelli precedenti la crisi. La causa più profonda di questa crisi è l’impossibilità per l’Occidente di mantenere il suo tenore di vita senza indebitarsi: su questo non è stata avviata un’adeguata riflessione».
Il peggio deve ancora venire?
«Nel 2020 la popolazione mondiale passerà da 7 a 8 miliardi e la classe media mondiale rappresenterà circa la metà degli individui che vorranno allinearsi al modello occidentale. Questo comporterà nuovi punti di criticità a livello ecologico. Nello stesso periodo assisteremo a progressi scientifici considerevoli, come le nanotecnologie, le neuroscienze, le biotecnologie. Ogni nuova scoperta scatenerà problemi etici e di possibili utilizzi secondari per scopi criminali o militari».
Tornando all’economia, dove finisce il tunnel?
«La congiuntura economica ci riserverà altre brutte sorprese. Personalmente, temo il ritorno dell’iperinflazione scatenata all’enorme liquidità creata dalle Banche centrali, la possibile esplosione della "bolla cinese" per colpa degli eccessivi crediti concessi e della sovraccapacità produttiva della Repubblica Popolare. Il sistema pubblico della sanità e dell’istruzione, per come l’abbiamo conosciuto finora, diventerà insostenibile per gli Stati. Il nostro stile di vita, sempre più precario e meno solidale. Chi vorrà sopravvivere dovrà accettare il fatto di non doversi più attendere nulla da nessuno. Andiamo verso un mondo che assomiglia al Medioevo».
Non le sembra esagerato parlare di un ritorno al passato remoto?
«Come nel Quattrocento, il potere sarà concentrato in alcune città e alcune corporazioni. Già oggi 40 città-regioni producono due terzi della ricchezza del mondo e sono il luogo dove si realizza il 90 per cento delle innovazioni. In mancanza di una vera organizzazione globale, si diffonderanno epidemie e catastrofi naturali climatiche ed ecologiche. Ci saranno sempre più zone "fuori controllo", dove imperverseranno organizzazioni criminali e bande armate. I ricchi dovranno rifugiarsi in moderne fortezze».
E tutto questo sarebbe dovuto anche all’incapacità delle classi dirigenti e al fallimento del sistema di governance mondiale?
«Di fronte a una crisi, qualunque essa sia, la maggioranza degli individui comincia con il negare la realtà. Purtroppo questo meccanismo si applica perfettamente anche alle imprese e alle nazioni. Finora i governi hanno adottato una strategia che fa finanziare dai futuri contribuenti gli errori dei banchieri di ieri e i bonus di quelli di oggi».
Lei ha presieduto la Commissione per la liberazione della crescita voluta dal governo Sarkozy, ma le riforme che aveva proposto sono state disattese. Anche nel caso della Francia manca il coraggio di preparare il futuro?
«Quello che più mi colpisce è che molti potenti vorrebbero tornare rapidamente al vecchio ordine, anche se è quello che ha scatenato la crisi finanziaria. Nell’attuale modello economico l’impresa è passata al servizio del capitale, a sua volta manipolato dalle leggi della Borsa. Le cose stanno così dal 1975, data dell’invenzione delle stock-options negli Stati Uniti».
Non è una visione troppo apocalittica?
«Non bisogna farsi prendere né dall’ottimismo né dal pessimismo. Negli ultimi 650 milioni di anni, la vita è praticamente scomparsa sette volte dalla superficie della Terra. Oggi rischiamo che succeda un’altra volta. Ma qualsiasi minaccia è anche un’opportunità. Quando si arriva a un punto di rottura siamo costretti a riconsiderare il nostro posto nel mondo e a cercare un’etica dei comportamenti completamente nuova. Sopravviverà di noi solo chi avrà fiducia in se stesso, chi non si rassegnerà. Ho affrontato parecchie crisi. E per questo ho pensato anche di raccogliere le mie lezioni di sopravvivenza».
Lei suggerisce il dono dell’ubiquità: cosa significa?
«I miei principi sono sette, da attuare nell’ordine. Innanzitutto bisogna partire dal rispetto di sé, e quindi prendere consapevolezza della propria persona, e dall’intensità, ovvero vivere pienamente sapendo proiettarsi nel lungo periodo. Ci sono poi l’empatia, indispensabile per capire gli altri, avversari o potenziali alleati, la resilienza che ci permette di costruire le nostre difese e la creatività per trasformare le minacce e gli attacchi in opportunità. Se questi cinque principi non funzionano bisogna cambiare radicalmente, coltivando l’ambiguità o persino l’ubiquità, imparando a essere mobili nella propria identità».
Ci lascia insomma un po’ di speranza...
«L’ultima lezione riguarda il pensiero rivoluzionario. In condizioni estreme, bisogna osare fino anche a violare le regole del gioco. Nessun organismo può sopravvivere senza operare una rivoluzione al suo interno. Ma tutto dovrà sempre partire dall’individuo. Come diceva Mahatma Gandhi: "Siate voi stessi il cambiamento che volete realizzare nel mondo"».
Ha appena pubblicato il primo "iperlibro", un volume cartaceo integrato da contributi audio e video. È questo il futuro della lettura?
«Non credo alla morte dei libri tradizionali. Ma è evidente che i giovani crescono imparando a leggere su uno schermo. Per loro sarà normale sfogliare una tavoletta elettronica come noi sfogliamo un libro. Anche quella dell’editoria è una crisi che si supera solo con il cambiamento».
Se la verità diventa un optional
L’uso politico della menzogna
di Francesca Rigotti (l’Unità, 8.4.2010)
La libertà - scriveva Albert Camus - consiste in primo luogo nel non mentire». Proviamo a pensarci su perché qui si tratta di cose serie, mica di canzonette. Qui sono in gioco termini/concetti come libertà e verità. E la libertà è, insieme alla giustizia, una delle grandi virtù delle istituzioni politiche, come la verità è la virtù principale dei sistemi di pensiero, e chi viola il principio di verità lede anche quello di libertà. Ora, l’uso politico della menzogna viene parzialmente accettato dalla filosofia politica, per esempio da Hannah Arendt, che la giustifica nel caso di delicate operazioni di segretezza.
A una corretta pratica democratica non è invece perdonata né la torbidezza né la menzogna e tantomeno il falsificare i fatti per ragioni di immagine, quando queste attività - sempre Arendt - vengano praticate nei confronti dei concittadini e non del nemico in guerra. Se in politica, il luogo delle scelte collettive e che interessano la collettività, si può mentire, non si deve per questo farlo, né la pratica del mentire deve essere, in politica, tollerata e perdonata, o addirittura incoraggiata.
La verità è infatti una virtù preziosa - come spiega Franca D’Agostini nel dotto quanto affascinante saggio «Verità avvelenata. Buoni e cattivi argomenti nel dibattito pubblico» (Bollati Boringhieri). La verità del nostro mondo, che vive nella legge della terra e nella radicale pluralità degli uomini da tale legge contemplata, è la verità che percepiamo con le nostre facoltà logiche.
Poi c’è la «verità» riferita da una parte politica e magari accettata da un gruppo di persone che non hanno la coscienza attiva di partecipare a un inganno. Questa è una «verità» allestita a fini di opportunità ma lesiva della libertà dei cittadini, anche di quelli che si lasciano volentieri ingannare, per il semplice motivo che la menzogna distrugge la fiducia, anche questa una delle grandi e dimenticate virtù della vita sociale democratica.
Un punto in più per la tesi che sostiene che la destra italiana che ci malgoverna non partecipa dei principi del pensiero liberale - quelli socialisti, poi, non sa neanche dove stiano di casa - benché proclami gli uni e gli altri.
Questo perché un pensiero fondativo non ce l’ha e può perciò praticare la menzogna e il mendacio pensando che chi caninamente latra più forte e in numero più alto riesca a sopraffare anche la verità. Ma questo non è vero e mentire per non voler riconoscere l’errore può costare caro, molto più caro che dover ricorrere al trapianto di capelli per aver commesso l’errore di non aver mai usato la brillantina Linetti.❖
"Io, la religione e la lettura biblica"
di Marco Vannini (la Repubblica, 26 gennaio 2010)
Repubblica del 19 gennaio, ha pubblicato un articolo di Vito Mancuso sul mio Prego Dio che mi liberi da Dio, in cui mi si accusa, tra l’altro, di antigiudaismo. È un’accusa che respingo fermamente, chiamando a testimonianza la mia intera vita di studioso, che ha passato anni a tradurre commentarii biblici: in Israele, nella foresta Giovanni XXIII-Jules Isaac, ci sono cinque alberi piantati in mio onore dall’Amicizia Ebraico-Cristiana di Roma (Keren Kayemeth Leisrael). Tale accusa si fonda infatti sul metodo di citare frasi mutile, avulse dal contesto, o addirittura di attribuire a me quelle che sono invece citazioni di ben più alte autorità. Quest’ultimo è, ad esempio, il caso della teologia definita come "animalesca": non da me, ma da Meister Eckhart (da cui il libro stesso prende il titolo), e il contesto spiega bene in che senso: bestialità in quanto ignoranza, giacché la teologia è presuntuoso discorso su Dio, che è invece al di là di ogni possibile discorso. È anche il caso del «cristianesimo purificato dall’eredità di Israele»: citazione, questa, di Simone Weil, altro punto di riferimento fondamentale del libro - e meraviglia che Mancuso lo taccia, visto che le ha dedicato un suo libro: forse teme l’accusa di "sinistro antigiudaismo"?
Mi viene soprattutto rimproverato, a proposito della condanna di Gesù, l’errore di parlare di "ebrei", senza specificare che si trattava dei soli sadducei collaborazionisti, mentre invece proprio nella riga precedente a quella incriminata si dice che Gesù fu condannato dal «potere sacerdotale ebraico, alleato di quello politico dei romani», ovvero lo stessa tesi che sostiene Mancuso. È comunque evidente da tutto il contesto che non intendo affatto attribuire assurde responsabilità storiche collettive, ma solo sottolineare che il cristianesimo si è costituito sull’affermazione della identità tra Gesù e il Padre - bestemmia, questa, per l’ebraismo, che marcava in modo netto l’opposizione tra le due religioni. Che la storia biblica sia costruita su falsità - invenzione i Patriarchi, invenzione l’Esodo, invenzione il Tempio, invenzione la Legge, ecc. - e che ciò sia stato fatto per fini politici, è un dato acquisito dalla più moderna ricerca storico-critica (nel mio libro si cita tra gli altri Mario Liverani, Oltre la Bibbia. Storia antica di Israele, Laterza), e che si sia così costruita «una comunità chiusa non solo per religione ma anche per razza» (ibid. p. 391), lo è altrettanto.
Perché non si tratta infatti di criticare un libro biblico piuttosto che un altro, accettando ciò che piace e rifiutando quel che dispiace, ma di riconoscere che «la vera suprema bestemmia è chiamare sacro ciò che proviene da mano umana», come diceva l’umanista Cornelio Agrippa. Nel momento in cui il maggiore editore cattolico italiano presenta la Bibbia come «via, verità, vita» attribuendo a un libro ciò che Cristo dice di se stesso, credo sia legittimo parlare di religione come menzogna, accanto a religione come verità. Di questo, e non d’altro, tratta il mio libro, che perciò rivendica l’importanza della fonte greca, e del platonismo in particolare, nella formazione del cristianesimo.
Platonismo significa il primato dell’interiorità contro l’esteriorità; significa non costruire
teologie/mitologie, ma cercare di "farsi simili a Dio" nella giustizia. Significa conoscenza della
malizia insita nell’io, nel suo quasi insopprimibile egoismo, e dunque della necessità di una
conversione, di una "morte dell’anima", ossia di un radicale distacco dall’egoità. Significa, in
conclusione, l’esperienza tanto della natura quanto della grazia, e del primato di quest’ultima - ed è
su questo che il cristianesimo si è fondato - e che la mistica - unica vera erede della filosofia greca
ha mantenuto nei secoli.
Non si tratta quindi di me o di Agostino, col suo "gelido pessimismo", come vuole Mancuso, quanto e soprattutto di Cristo stesso: odiare la propria anima/vita, rinunciare a se stessi, morire a se stessi come muore il chicco di grano e esperimentare la rinascita e la nuova vita nello spirito, sono infatti i passi e i tratti essenziali del messaggio evangelico e le condizioni della sequela Christi. Se si cancellano questi, Gesù, ormai solo uomo, viene ridotto a un maestro new-age, e il cristianesimo (ma ha senso chiamarlo così?) a una melassa insulsa e insignificante.
LA CRITICA ERRANTE DI UN PENSIERO RIBELLE
Lo scandalo DELLA VERITÀ
di Alessandro Dal Lago (il manifesto, 23.10.2009)
Il corso di Michel Foucault raccolto nel volume edito da Feltrinelli «Il governo di sé e degli altri» articola il tema di una prassi teorica che si presenta come critica all’esistente e atto ribelle rispetto al potere. Un testo che, assieme a «Il coraggio della verità» in corso di pubblicazione, smentisce le interpretazioni che hanno presentato il filosofo francese come un teorico del neoliberismo
Il coraggio della verità è il titolo del corso tenuto da Michel Foucault al Collège de France dal febbraio al marzo del 1984. Pochi mesi dopo, nel mese di giugno, il filosofo sarebbe morto. La morte aleggia sulle ultime parole pubbliche pronunciate da Foucault e non solo perché all’inizio del corso egli ammette di essere seriamente malato o si moltiplicano i riferimenti agli ultimi giorni di Socrate. Piuttosto, le lezioni si concludono all’insegna della finitudine, come consapevolezza di un senso terreno e irripetibile da dare all’esistenza tra gli uomini. Continuazione esplicita di Il governo di sé e degli altri, uscito in Francia nel 2008 e in Italia da pochi giorni presso Feltrinelli, Il coraggio della verità (di cui l’editore milanese ha annunciato la pubblicazione in italiano) corona una meditazione sobria e analitica ma non di meno radicale su ciò che Hannah Arendt avrebbe definito l’esistenza politica.
Qui dobbiamo essere chiari. I due corsi, e soprattutto il secondo, mandano all’aria le interpretazioni edificanti e parrocchiali, essenzialmente revisioniste, che nell’ultimo decennio, in base alla pubblicazione dei corsi, si sono volute dare della ricerca foucaultiana. Laddove Foucault ricostruiva le peripezie dell’etica antica in chiave di progressiva spoliticizzazione (e quindi giustificazione di un governo pastorale o se vogliamo del dominio), alcuni interpreti contemporanei hanno voluto vedere una sorta di filosofia pratica dell’interiorità - come in quella parodia degli esercizi spirituali che va sotto il nome di consulenza filosofica. Uno storico e filosofo scettico e libertario è stato così ridotto a una sorta di pedagogista o maestro di saggezza, caricatura che Foucault avrebbe aborrito. Basterebbe la sobrietà con cui ha affrontato gli ultimi mesi di vita a mostrare come per Foucault la «cura di sé» fosse qualcosa di squisitamente privato di cui non fare commercio intellettuale e materiale.
Gli idoli del cinico
Nel Governo di sé e degli altri, Foucault indica, basandosi su Euripide, Platone, Plutarco ecc.come la parresia fosse in origine un concetto politico - la parola che l’uomo libero pronuncia al cospetto della polis contro la tirannia e l’ingiustizia. Dunque, qualcosa che ha senso in pubblico e presuppone un coro. Successivamente, in sintonia con il declino della polis, la parresia entra a far parte degli arcana imperi. Come si vede nei rapporti di Platone con i due Dionigi, il «parlar franco» diventa quello del filosofo al tiranno; in altri termini, si tratta di qualcosa al tempo stesso tecnico e segreto (da qui l’affinità con il tema platonico della supremazia della sapienza orale).
La fine della libertà greca è il contesto storico in cui la parresia perde qualsiasi sapore politico per divenire «franchezza» teoretica, «verità» personale e interpersonale. Si gettano qui le premesse per quel rimpatrio dei filosofi in se stessi alla base di gran parte dell’etica ellenistica e in particolare dello stoicismo. Ma, se si hanno in mente le altre ricerche di Foucault, è impossibile non pensare alla fondazione della soggettività teoretica. A partire dal Noli foras ire di Agostino si dipana una strada che passa da Cartesio e transita dalle parti di Husserl per finire nel ricettario edificante contemporaneo.
Le prime lezioni del corso del 1984 riprendono e rielaborano il Governo di sé e degli altri. Come se sentisse l’urgenza di fissare un materia delicatissima (in fondo si tratta di ripensare in chiave di conflitto etico-politico, e non più di mero disvelamento della razionalità, le origini del pensiero occidentale), Foucault ritorna sulle diverse declinazioni della parresia, si sofferma sulle interpretazioni della morte di Socrate, tira i fili che da quelle antiche discussioni portano direttamente ai dilemmi d’oggi, mostra come in ultimo la psuché sia il terreno cui è approdato il «parlar franco». È nell’interiorità dell’anima che il saggio vedrà in ultimo manifestarsi il logos. Simone Weil ha potuto parlare, a proposito della filosofia platonica, di intuizioni precristiane. Foucault ci mostra quanto classica sia l’idea (che si vuole moderna) dell’io come terreno privilegiato della verità.
Era possibile un’altra storia? Attraverso un’analisi originalissima della svolta cinica, Foucault sembra suggerire di sì - portandoci su un terreno che non è quello della mera nostalgia della polis e tanto meno del ripiegamento stoico. Il cinico non è qualcuno che esercita all’occasione la parresia o tanto meno la teorizza, ma è quello che la pratica sempre - qualcuno cioè che vive, si potrebbe dire, in uno stato di parresia.
Il cinico pertanto, smaschera con il suo esempio gli idoli privati e pubblici. Esemplare, a questo proposito, quel filosofo cinico trascinato in giudizio perché si rifiuta di accettare i misteri. Se i misteri sono cattivi, egli dice, il filosofo deve dire la verità su di loro. Se sono buoni, dovrà attirarvi più gente possibile; in ogni caso, deve conoscerli e quindi non possono darsi misteri. Con una battuta, i cinici smascherano la mitologia religiosa e la prosopopea del potere. In questo modo, corrono dei rischi, esattamente come Socrate, di cui portano alle estreme conseguenze il metodo, ma senza quell’aura di superiorità un po’ tortuosa che già aveva sollevato su Socrate le ironie di Aristofane.
I cinici, infatti, danno soprattutto l’esempio, incarnano la verità con il loro comportamento. In un capitolo straordinario sulla posterità dei cinici, Foucault mostra quanto il loro esempio sia affine allo spirito rivoluzionario moderno. Il cinico è, in ultima analisi,un filosofo pratico sovversivo e, in questo senso, si erge contro il conservatorismo platonico e aristotelico e il loro supremo senso dell’ordine.
Lo spirito antistituzionale
Povertà nella vita quotidiana, corpi coperti di stracci, mancanza di dimora, nomadismo... In questa filosofia praticata in basso Foucault vede giustamente i prodromi di un cristianesimo popolare e primitivo, ma anche delle eresie che germineranno ai margini dell’istituzionalizzazione del cristianesimo e contro di essa. Come non pensare, oltre ai valdesi citati da Foucault, alle sette gnostiche, ai catari e via via ai levellers o agli anabattisti? C’è nel cosiddetto cinismo, sembra dire Foucault, uno spirito anti-istituzionale e anti-aristocratico che, pur provenendo direttamente dall’esperienza filosofica classica, mira direttamente al cuore di un’altra modernità.
I cinici si rifanno a Socrate, ma lo liberano delle mitologie filospartane e autoritarie di un Senofonte, lo de-platonizzano e così facendo lo superano. Ecco il senso del motto di Diogene «cambiare il valore della moneta». Non un’apologia della falsificazione, ma - verrebbe voglia dire - una trasvalutazione dei valori democratica, popolare, rivoluzionaria.
Ascesi, verità come scandalo, militantismo: sono questi i tre aspetti che il cinismo consegna alla posterità. Non solo nella religione o nelle dottrine sociali. Si pensi - dice Foucault - alla pretesa degli artisti moderni di vivere una vita esclusiva, e cioè di vivere l’arte, di non accettare una separazione tra arte e vita. «C’è un anti-platonismo dell’arte moderna che (...) è stata una tendenza che si ritrova in Manet sino a Francis Bacon, da Baudelaire sino a Samuel Beckett o Burroughs; anti-platonismo: l’arte come irruzione dell’elementare, messa a nudo dell’esistenza» (Le courage de la verité).
La pedanteria dell’esempio
Certo, nel cinismo filosofico, dice Foucault c’è anche l’annuncio di un altro tipo di pedagogismo, che non si manifesterebbe attraverso il razionalismo socratico-platonico e poi storico, cristiano ecc., ma con la pedanteria dell’esempio. Il militante è pronto a trasformarsi - come l’esperienza storica ci mostra sino alla nausea - in funzionario, magari dell’umanità. Il sovversivo in moralista. L’eretico in tutore di un ordine che non può che invecchiare fatalmente.
Ma si tratta di una dialettica squisitamente moderna, che è alla base delle nostre illusioni e delle innumerevoli delusioni contemporanee. E tuttavia, la «ragion cinica» - per citare un vecchio libro del filosofo tedesco Peter Sloterdijk - continua a lavorare contro l’eternizzazione del presente. Perché, come nota giustamente Frédéric Gros nelle note conclusive a Le courage de la verité, il gesto dei cinici consiste nell’appello alla trasformazione del mondo e quindi alla possibilità di un mondo «altro». Con ciò, crediamo, il senso della ricerca di Foucault si emancipa dalla patina insopportabilmente perbenista e confessionale da cui è stato ricoperto da una ventina d’anni.
Viene voglia di dire che il significato profondo della parresia per noi non è affatto nel ripiegamento interiore che Foucault ha ricostruito sino alle soglie del cristianesimo, ma nell’indifferenza di Diogene di fronte ad Alessandro e al suo seguito; nel disprezzo delle convenienze teoriche e politiche; nell’appello alla verità contro la falsità mediale e istituzionale. In definitiva, in un’esistenza autenticamente ribelle. Dopotutto, poco prima di morire, Foucault ha notato che il vero significato della ribellione non è nella sua vittoria, che è sempre problematica, ma nel fatto che solo essa rende possibile la storia.
Una riflessione del teologo Bruno Forte
La parabola dell’umanesimo ateo
È possibile un’etica che non faccia riferimento a Dio? E allora come si spiega l’esigenza di fare il bene ed evitare il male?
DI BRUNO FORTE (Avvenire, 19.08.2009) *
Nel dibattito accesosi in questi giorni sulla stampa intorno al concetto di nichilismo e di umanesimo ateo, a partire dalla frase pronunciata da Benedetto XVI nell’Angelus del 9 agosto riguardo ai «lager nazisti, simboli estremi del male, come il nichilismo contemporaneo», vorrei inserirmi concentrandomi su un’unica domanda, quella che dal punto di vista delle conseguenze pratiche mi appare la più decisiva: è possibile un’etica senza Trascendenza? Può esserci un codice morale normativo e condiviso senza il riferimento a Dio, all’«ultimo Dio»? Se sì, dove fondare l’esigenza assoluta di fare il bene e di evitare il male, dal momento che non esisterebbe alcun assoluto a cui ancorarla? O il bene si giustifica da sé e si impone con un’evidenza tale da non richiedere ulteriori motivazioni? E il male? È anch’esso così evidente da non supporre alcun imperativo categorico, rispetto a cui porsi come controcanto, negazione ostinata e perfino beffarda del «cosiddetto bene»? Miriadi di voci in secoli di storia hanno risposto a queste domande in una stessa direzione: il bene c’è ed è assoluto; esso si identifica anzi con l’Assoluto stesso, di cui è il volto attraente, lo splendore irradiante, l’esigenza amabile, il dono perfetto. Il male è la resistenza opposta a questo richiamo, l’appassionato permanere nella negazione, la lotta vissuta in nome di una causa falsa, quella della propria libertà eretta come assoluto contro l’Assoluto. Fra il male e il bene la scelta non sarebbe allora che una: con Dio o contro Dio; per l’Assoluto o per le onnivore fauci del nulla. Dall’ethos classico, alla morale delle Dieci Parole, legate al Grande Codice dell’alleanza con il Dio biblico, dal discorso della montagna alle esigenze di giustizia del diritto romano, è quest’impianto di una morale fondata nella trascendenza che ha retto le sorti della vita personale e collettiva dell’Occidente.
È con l’emergere moderno del valore centrale della soggettività che cambiano anche i termini del problema: dall’eteronomia - in cui si vorrebbe costringere tutto il complesso accennato di un’etica dalla fondazione oggettiva ed assoluta - si intende uscire per passare al mondo dell’autonomia, verso i pascoli di una vita morale emancipata, dove il coraggio di esistere autonomamente sia esteso dal conoscitivo «sapere aude!» - «osa sapere!» al decisionistico «libere age!» - «agisci secondo il codice di un’assoluta libertà!» L’autonomia appare come la sfida irrinunciabile su cui misurare qualsivoglia imperativo morale, per verificare se esso renda più o meno liberi, più o meno umani. Farsi norma a se stessi, essere soggetto e non oggetto del proprio destino, questo appare il progetto da perseguire. L’ebbrezza di questo sogno contagia gli spiriti più diversi, in forme borghesi o rivoluzionarie, di progresso o di conservazione, di freddo calcolo o di passioni emotive. Ben presto, tuttavia, la coscienza dell’impossibilità di un’etica tutta soggettiva si impone alla riflessione dei moderni: che bene sarebbe il bene che fosse tale solo per me? E in nome di quale criterio valido per tutti sarebbe da evitare il male? Non è il confine fra la mia libertà e l’altrui anche il limite di ogni autonomia? E perché se una scelta mi risultasse più vantaggiosa - in termini morali o economici o politici - dovrei seguire un criterio diverso dal semplice profitto e agire in maniera differente?
Se poi un comportamento scorretto è diffuso - giustificato dal «tutti lo fanno!» - in nome di quale valore morale dovrei evitarlo, se la scelta è lasciata all’arbitrio personale? È a partire dal crogiuolo di queste domande - quelle di una modernità ferita, insoddisfatta del passato e inquieta di sé - che si profila come tema veramente urgente quello della fondazione dell’etica, in un’epoca in cui il passaggio dal fenomeno al fondamento appare tanto necessario, quanto spesso evaso. Oltre il tramonto delle pretese assolute di una certa modernità e l’incompiutezza del nichilismo della post-modernità debolista, ritorna in tutta la sua forza il bisogno di un’etica della trascendenza, mancando la quale tutto è permesso. Quattro tesi potranno aiutare a coglierne il senso, che a mio avviso chiarisce e motiva nella maniera più adeguata le parole del Papa. Formulerei così la prima tesi:
non c’è etica senza trascendenza.
Non può esserci agire morale, lì dove non ci sia l’altro, riconosciuto in tutto lo spessore irriducibile della sua alterità. La fondazione dell’etica è inseparabile da questo riconoscimento: chi afferma se stesso al punto da negare consapevolmente o di fatto ogni altro su cui misurarsi, nell’atto stesso di questa affermazione sazia, idolatrica, nega se stesso come soggetto morale, nega anzi la possibilità stessa di una scelta eti- ca fra bene e male, perché annega ogni differenza nell’oceano asfissiante della propria identità. Nessun uomo è un’isola: e chi pensasse o volesse essere tale, nell’atto stesso di pensarsi o volersi così annullerebbe se stesso come soggetto di relazione, e perciò di vita e di storia reale. La negazione dell’altro è negazione di sé; fare dell’altro lo «straniero morale» è farsi stranieri alla verità di se stessi, è rinnegare la più profonda dignità del proprio essere personale e del proprio destino. Non c’è responsabilità e vita morale senza un movimento di esodo da sé per andare verso l’altro, soprattutto se debole, indifeso e senza voce o capacità di far valere i propri diritti. A questa prima tesi si congiunge direttamente la seconda:
non c’è etica senza gratuità e responsabilità.
Questa seconda tesi ricorda come ogni movimento di trascendenza ha un carattere gratuito e potenzialmente infinito: uscire da sé in vista di un ritorno, calcolare con l’altro al fine di un proprio interesse è svuotare di ogni valore la scelta morale, facendone semplicemente un commercio o uno scambio tra pari. Qui la lezione di Kant conserva tutta la sua verità: l’imperativo morale o è categorico, e dunque incondizionato, o non è. O il destinarsi ad altri è un atto gratuito e senza condizioni, da null’altro motivato che dall’esigenza e dall’indigenza dell’altro - «exode de soi sans retour», direbbe Lévinas - , o non è auto-trascendenza, ma riflesso, proiezione di sé fuori di sé in vista dell’egoistico ritorno a sé. In questo carattere gratuito e potenzialmente infinito della trascendenza morale si coglie come l’anima più profonda di essa sia l’amore, il dare senza calcolo e senza misura per la sola forza irradiante del dono. Il bene è ragione a se stesso!
La terza tesi dilata la seconda alle forme dell’oggettività sociale e comunitaria:
non c’è etica senza solidarietà e giustizia.
È nello stesso movimento di auto-trascendenza che si scopre la rete degli altri che circonda l’io come sorgente di un insieme complesso di esigenze etiche: contemperarle in modo che il dono compiuto all’uno non sia ferita o chiusura ad altri è coniugare la morale con la giustizia. Regolare in forma collettiva questa rete di esigenze è misurarsi sul bisogno del diritto: non l’astratta oggettività della norma, né il dispotismo del sovrano fonda l’autorità della legge, ma l’urgenza di contemperare le relazioni etiche perché nessuna sia a vantaggio esclusivo di alcuni e a scapito della dignità di altri. L’etica della solidarietà integra qui la sola etica della responsabilità, strappandola al rischio sempre incombente di un suo stemperarsi nell’assolutismo infecondo della sola intenzione. Il bene comune è misura e norma dell’agire individuale, specialmente nel campo dei doveri civili. Infine, quando si riconosce che il movimento di trascendenza verso l’altro e la rete d’altri in cui siamo posti presentano un carattere di esigenza infinita, sull’orizzonte dell’etica si profila un’altra trascendenza, ultima e nascosta, di cui quella prossima e penultima è traccia e rinvio:
l’etica rimanda alla trascendenza libera e sovrana, ultima e assoluta.
Nel volto d’altri è l’imperativo categorico dell’amore assoluto che mi raggiunge, e nell’assolutezza dell’urgenza della solidarietà con il più debole è un amore infinitamente indigente che mi chiama. Questa trascendenza assoluta, questo assoluto bisogno d’amore sono la soglia che salda l’etica filosofica all’etica teologica: qui l’etica della responsabilità e l’etica della solidarietà appellano all’etica del dono, alla morale della Grazia. Qui l’amore - sovrana esigenza morale - rimanda all’Amore come eterno evento interpersonale dell’unico Dio. Qui, nelle forme dell’essere l’uno- per-l’altro, è il possibile impossibile amore, gratuitamente donato dall’alto, che viene a narrarsi nel tempo: la carità, che «non avrà mai fine» (1 Cor 13,8). Su di essa si misurerà la verità profonda delle nostre scelte: alla sera della vita saremo giudicati sull’amore! Si comprende così come il Papa della Deus caritas est e della Caritas in veritate sia la chiave interpretativa più autentica e illuminante della frase pronunciata all’Angelus del 9 agosto scorso. «Dalle Dieci Parole all’ethos classico e cristiano: l’impianto di una morale fondata nella trascendenza ha retto l’Occidente»
* IL DIBATTITO
Lager e nichilismo, le parole del Papa fanno discutere
Le parole pronunciate da Benedetto XVI all’Angelus del 9 agosto hanno suscitato un dibattito animato sulla stampa italiana. Emanuele Severino sul «Corriere della Sera» e Adriano Sofri su «Repubblica» hanno criticato l’espressione del Papa riguardo ai «lager nazisti, simboli estremi del male, come il nichilismo contemporaneo». A loro ha poi risposto Giovanni Reale su «Liberal»: «Non hanno capito il nichilismo. Non hanno compreso la terribile annunciazione fatta da Nietzsche, il filosofo per eccellenza del nichilismo: la morte di Dio, la trasmutazione di tutti i valori, la fedeltà alla terra come unico principio di realtà». Infine ancora su «Repubblica»,Vito Mancuso pur prendendo le distanze dall’espressione di Ratzinger su lager e nichilismo, ha condiviso la critica all’antropocentrismo moderno e l’impossibilità di un’etica senza trascendenza. Su questo tema pubblichiamo in questa pagina una riflessione di Bruno Forte, arcivescovo di Chieti Vasto.
L’amore divino, estasi della carità
DI FRANCESCO TOMATIS (Avvenire, 04.07.2009).
P roseguendo le ricerche di teologia fondamentale svolte in costante confronto con la filosofia trascendentale, rosminiana in particolare, il teologo Giuseppe Lorizio, con il suo recente volume Le frontiere dell’amore, intende estendere il dialogo fra filosofia e teologia, ragione e fede, a quello fra città e Chiesa, toccando temi come quelli della testimonianza, della bellezza, della nomadicità e marginalità del pensiero credente. Attraverso la consapevolezza del carattere di frontiera del sapere, dell’umiltà della persona, della marginalità dello stesso credere, ecco che allora emerge l’orizzonte agapico, di amore trinitario in cui si staglia ogni sforzo umano, per quanto limitato, di vera benevolenza. Come indicò sant’Agostino: se vedi la carità, vedi la Trinità.
Ma ciò non perché la Trinità cristiana sia riducibile alle relazioni interpersonali umane d’amore. Resta infatti essenziale, come sottolinea Lorizio, l’asimmetria fra Dio e uomo, fra iniziativa divina e persone umane, benché in queste si trovi la traccia dell’infinito, proprio nella loro umile marginalità. Infatti è l’amore di Dio stesso a essere estatico, come affermò lo pseudo Dionigi l’Areopagita o come nell’idea paolina di kénosis divina è profondamente inteso, tanto che l’amore kenotico umano non ne è che cristiana imitazione. L’orizzonte agapico-erotico trinitario, secondo Lorizio, ispira l’elaborazione filosofica di una vera e propria metafisica della carità, che nell’analogia charitatis coglie la possibilità di comprendere la verità della marginalità del finito.
Ma sarebbe davvero impossibile, da parte di filosofie estranee alla fede cristiana, elaborare un’ontologia trinitaria, relazionale e interpersonale agapica? Lorizio stesso sostiene, seguendo Rahner e Rosmini, che la conoscenza di Dio, il cui vertice speculativo ha per proprio ambito il mistero trinitario, si compone di un aspetto trascendentale e, al tempo stesso, di uno a posteriori, a sottolineare il primato della grazia sovrannaturale rispetto, tuttavia, a un ancoraggio antropologico. Proprio l’analisi antropologica trascendentale conduce a quell’idea rosminiana dell’essere, innata all’uomo, all’idea insensibile di bianchezza, invisibile eppure lucente fonte sintetica d’ogni colore, che nell’estaticità kenotica a cui espone rivela esperienzialmente, senza positiva prensione conoscitiva, la potenzialità di una onnicorrelazionale, agapica ontologia. Come, con profonda intelligenza esteticoteologica, coglie Lorizio nel sacrificio di Isacco raffigurato da Marc Chagall: Abramo stesso sospende la propria esecuzione, leva in alto la mano nel biancore trascendente, dunque misticamente esperibile all’uomo umile, kenoticizzato, così posto fra rosso del dramma personale e azzurro della divina Shekhinah, a comprendere la immanente trama divina nella stessa finita, amorevole interpersonalità.
Giuseppe Lorizio
LE FRONTIERE DELL’AMORE
Pontificia Università Lateranense Pagine 368. Euro 25,00
L’aiuto può essere soltanto disinteressato
Condividendo le responsabilità si difende la dignità umana
di CARLO MARIA CARD. MARTINI (La Stampa, 5/7/2009)
Sono stato in Africa per la prima volta nel 1980. Si trattava di una visita in Zambia, che mi fece conoscere le bellezze di quel Paese e il suo lento ma sicuro procedere per la via della stabilità economica e finanziaria. In seguito fui in molti altri Paesi. Mi impressionò favorevolmente soprattutto lo stato di benessere raggiunto da molte parti del Kenya, che visitai nel 1985. Si aveva l’impressione di una continua e solida crescita nella qualità della vita.
Poi tutto questo cammino si fermò, e ogni volta ritrovai un’Africa più povera e diseredata. Molte ragioni furono addotte per questo cambiamento in peggio. Lo scatenarsi di lotte tribali, il ripiegarsi sul proprio clan, la corruzione di non pochi funzionari pubblici, ecc. ecc. L’Africa ha certamente molte debolezze, come la molteplicità eccessiva delle lingue, la carenza cronica di acqua in certe regioni, la difficoltà dei collegamenti ecc. Ma ha anche grandi risorse, un clima che permette in particolare molte coltivazioni di frutta, dei paesaggi stupendi e soprattutto una umanità, una cordialità e una solidarietà parentale che non si dimenticano anche dopo molti anni.
L’Africa in questo momento ha grande bisogno di aiuto disinteressato, che le permetta di ricostruire le istituzioni venute meno e la provveda di uomini politici attenti al benessere del continente e del loro Paese, al di là degli interessi puramente tribali. Ci si augura che il prossimo G8 sia attento anche a queste realtà, come lo sarà per tante altre in difficoltà, in particolare per la città e la regione dell’Aquila. Un mondo che proceda in unità e corresponsabilità è un mondo che può preparare ai futuri cittadini un modo di vivere più conforme alla dignità umana, con tutte le conseguenze che seguono da tale situazione.