Materiali per riflettere
un ’libro’ da esplorare e da leggere
(ogni articolo rimanda a molteplici approfondimenti. Buona esplorazione)
a cura di Federico La Sala:
SBATTEZZARSI: "USCIRE DAL GREGGE".
Federico La Sala
NUOVE IPOTESI SULL’ETIMOLOGIA DEL NOME DEL NOSTRO PAESE
Italia. Terra dei tori... o dei bestioni?
La tradizione lega il nostro etnonimo all’antica parola per «toro» («Vitulus», «Italòs») usata da Latini, Umbri e Greci. Ma si affacciano alternative: per alcuni, il significato è tutt’altro (Italia sarebbe la terra «fumante», «l’infuocata»); per altri, la parola vorrebbe sì dire «toro», ma nella lingua degli Etruschi. Che ci chiamavano così per dileggio
di Gian Enrico Manzoni (Avvenire, 13.04.2008)
« L’ Italia non è solo un nome», titolava un editoriale giornalistico dei giorni scorsi, relativo alla presenza del nome dell’Italia nei programmi della campagna elettorale. In effetti, se si tratta solo di un nome che viene evocato di necessità, senza una reale convinzione della ricerca del bene comune, è solo un appello a valori ripetuti e sbandierati, ma non condivisi. Però l’Italia è anche un nome, e il glottologo si interroga sulla sua origine e il suo significato. Diciamo subito che l’origine della parola è avvolta da molti dubbi, e le conclusioni cui i linguisti sono giunti non sono univoche.
Esiste un’etimologia tradizionale, da tempo diffusa, ma accanto a quella vengono avanzate spesso nuove, divergenti (e qualche volta bizzarre) ipotesi. La spiegazione tradizionale connette il nome della nostra penisola al latino vitulus e all’umbro vitlu, che significavano ’vitello’, così come il greco italòs, che voleva dire ’toro’. La lettera viniziale è presto caduta, con un fenomeno che è ben noto anche alla lingua greca, per cui alla fine gli Itali e la loro terra, cioè l’Italia, deriverebbero il nome dai vituli, i vitelli.
In base a tale spiegazione l’Italia è la terra dei vitelli o dei tori, perché secondo gli antichi studiosi come Timeo, Varrone, Gellio e Festo nel nostro territorio questi animali venivano allevati in grande abbondanza. Come si diceva, però, sono state avanzate in epoche diverse nuove spiegazioni, anche del tutto alternative a questa: per esempio Domenico Silvestri una decina di anni or sono ha proposto di collegare il nome dell’Italia alla radice aithalche significava ’fumante, infuocata’. Da Aithal-ia si sarebbe passati gradualmente alla forma Italia, e la spiegazione del nome risiederebbe nelle numerose fornaci di metalli un tempo esistenti nella Magna Grecia; oppure, sosteneva lo studioso, il nome deriverebbe dalla pratica della debbiatura, cioè di bruciare il terreno per poi disboscarlo e predisporlo a una nuova semina. Per l’uno o l’altro dei motivi, o per la somma di entrambi, l’Italia sarebbe la terra fumante, dove si brucia.
In data più recente il linguista Massimo Pittau è ritornato sulla questione, smentendo sia l’ipotesi di Silvestri sia altre nel frattempo avanzate e recuperando la tradizionale etimologia. Ma introducendo nella spiegazione anche un elemento linguistico nuovo, cioè la componente etrusca. L’etrusco è per molti di noi ancora una lingua misteriosa, alternativa a quelle indoeuropee del territorio italico; invece le connessioni lessicali sono frequenti, come è logico che sia accaduto tra parlanti vicini, con frequenti scambi commerciali e sociali tra un territorio e l’altro.
Pensiamo per esempio al nome di Roma, la cui etimologia da tempo viene ricostruita, non certo (come voleva la leggenda) sul nome di Romolo, il mitico fondatore, ma su Rumon, il nome etrusco del Tevere. Pittau ha dei dubbi sull’origine dai vitelli ( vitlu) degli Umbri e dai vituli dei Latini, per via della vocale -u- dei loro nomi, mentre gli Itali e l’Italia hanno la - a-.
Egli valorizza invece la testimonianza dello scrittore greco Apollodoro, che attesta che Pitalòs, il toro, non era parola greca, come sempre si è creduto, ma tirrenica, cioè etrusca. Anche i Sardi primitivi, la cui lingua era forse imparentata con l’etrusco, chiamavano prima dell’arrivo dei Romani bittalu il vitello e il toro: era una parola del tutto collegata con l’italòs degli Etruschi e, con qualche modifica fonetica, anche con il vitlu e il vitulus, che contenevano chiaramente la stessa radice.
Da queste forme, in particolare da quelle etrusche e protosarde, deriverebbero dunque sia l’etnico Itali sia il corònimo (cioè il nome del territorio) Italia. In termini culturali, non deve stupire il fatto che siano stati gli Etruschi a dare il nome di Itali agli antichi abitanti della nostra penisola e di Italia alla loro terra: essi erano a stretto contatto con i popoli della Gallia, del Piceno, dell’Umbria, del Lazio, della Campania, e la loro superiorità economica e culturale favorì l’acculturazione degli Italici vicini.
Se è vera questa ipotesi, che appare certamente convincente, l’Italia era la terra degli italòi, cioè dei tori. Ma vale ancora la giustificazione già data prima, ovvero dell’abbondanza degli allevamenti di bovini? Qui le ipotesi divergono, perché Pittau suggerisce che si potrebbe trattare anche di una forma di dileggio: chiamare tori, come sinonimo di bestioni, i popoli vicini nasceva probabilmente da una volontà di offesa, soprattutto perché espressa da chi si sentiva superiore socialmente e culturalmente. Ma forse non è necessario rincorrere la connotazione negativa ed è meglio attenerci a quanto dicevano gli antichi sulla diffusione di tori e vitelli nei territori dell’antica Italia: che immaginiamo perciò verde di pascoli e ricca di mandrie.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
ROMA BRUCIA. GRAZIE AL "TIMES" PER L’ALLARME, MA LONDRA NON RIDA (E ABBIA MIGLIOR CURA DI FREUD). L’incendio è generale. Un omaggio alla Sapienza di Oxford
Elezioni Gb, Johnson trionfa: ’Ora realizzeremo la Brexit’. Vola la sterlina
Ai Tory la maggioranza assoluta. Shock LibDem, la leader Jo Swinson non rieletta
di Redazione ANSA*
Le elezioni britanniche consegnano a Boris Johnson e ai Tory un’ampia maggioranza assoluta a Westminster, le chiavi di Downing Street per i prossimi 5 anni e il lasciapassare per una Brexit che, a 3 anni e mezzo dal referendum del 2016, diventa irreversibile. La sterlina vola sui mercati valutari nel cambio con il dollaro e l’euro dopo: la valuta inglese passa di mano a 1,3446 sul dollaro (+2,1%) e a 0,8303 sull’euro (+1,8%). La moneta unica è scambiata invece in avvio di giornata senza sensibili variazioni sul dollaro.
"Mi congratulo con Boris Johnson e mi aspetto che il Parlamento britannico ratifichi il prima possibile l’accordo" negoziato sulla Brexit, ha detto il presidente del Consiglio Ue Charles Michel.
La Ue "è pronta a discutere gli aspetti operativi" delle relazioni future, ha aggiunto, spiegando che i leader avranno una discussione sulla Brexit oggi.
Il partito conservatore ha incassato oltre 360 seggi su 650, mentre al Labour di Jeremy Corbyn ne vengono attribuiti circa 200. "Una decisione inconfutabile dei britannici", commenta Johnson che aggiunge: "Con questo mandato realizzaremo la Brexit".
Un risultato che non si vedeva dai tempi di Margaret Thatcher e segna invece la disfatta peggiore da decenni per il Labour.
Ed è guerra all’interno del partito, ma Jeremy Corbyn rimanda le dimissioni. Non guiderà il partito "in un’altra elezione", ma per ora resta in Parlamento e "guiderà il Labour in una fase di riflessione".
Il verdetto è chiarissimo. Il messaggio di BoJo, sintetizzato nella promessa-tormentone ’Get Brexit done’, è passato. E il controllo Tory sulla Camera nega ogni credibile spazio di manovra al fronte dei partiti che s’erano impegnati a convocare un secondo referendum sull’Europa per offrire agli isolani una chance di ripensamento.
Shock anche per i liberaldemocratici: la 39enne neo-leader del partito più radicalmente anti-Brexit del lotto, Jo Swinson, che aveva cercato di proporsi addirittura come una rivale diretta di Boris Johnson e di Jeremy Corbyn, non solo non è riuscita a far avanzare la sua formazione, ma è stata bocciata anche a livello personale nel collegio di Dumbartonshire East: scalzata per 149 voti da Amy Callaghan, indipendentista scozzese dell’Snp. Swinson non però annunciato le dimissioni da leader.
Nigel Farage non considera una sconfitta il risultato negativo - peraltro previsto dai sondaggi - del suo Brexit Party alle elezioni politiche britanniche. Il partito è rimasto al palo, con zero seggi secondo l’exit poll, di fatto riassorbito dal partito conservatore di Boris Johnson dopo il trionfo nel voto (proporzionale) delle Europee di maggio. Ma secondo Farage, intervistato a caldo dalla Bbc, ha comunque contribuito a favorire il successo Tory e a evitare lo spettro di un Parlamento senza maggioranza (hung Parliament): sia non presentando candidati in oltre 300 collegi già controllati dai conservatori, sia togliendo voti ai laburisti di Jeremy Corbyn in diverse circoscrizioni del cosiddetto ’muro rosso’ dell’Inghilterra centro-settentrionale e del Galles, tradizionalmente di sinistra, ma in maggioranza pro Brexit e contrarie a un secondo referendum.
Il partito laburista britannico tiene a Londra dove ha conquistato 49 su 73 seggi. Sia Boris Johnson che Jeremy Corbyn hanno vinto nelle loro circoscrizioni. I Tory hanno perso Putney ma hanno guadagnato Kensington ottenendo in totale 21 seggi. Fuori invece Chuka Umunna, ex astro nascente del Labour passato in queste elezioni ai LibDem.
* ANSA 13 dicembre 2019 (ripresa parziale).
Corte, illegale la sospensione. Parlamento riprende i lavori
Verdetto unanime. Schiaffo a Boris Johnson, accolte le ragioni dei ricorsi. Corbyn, si dimetta
DI Redazione ANSA *
LONDRA. Schiaffo a Boris Johnson. La Corte Suprema britannica ha dichiarato non legale la sospensione (prorogation) del Parlamento voluta dal primo ministro Tory fino al 14 ottobre, nel pieno della crisi sulla Brexit, accogliendo gli argomenti dei ricorsi di oppositori del governo e attivisti pro Remain. Il verdetto è stato raggiunto all’unanimità dal collegio degli 11 giudici.
Lo speaker della Camera dei Comuni, John Bercow, ha annunciato la ripresa dei lavori parlamentari domani, sulla base della sentenza "esplicita" della Corte Suprema che ha dichiarato oggi "illegale" e mai avvenuta la sospensione del Parlamento voluta dal governo di Boris Johnson. Bercow ha precisato che si tratta di una "ripresa" dei lavori e non di una "riconvocazione". Ha aggiunto che non ci sarà il Question Time del mercoledì del premier (a New York all’Onu), ma vi sarà spazio per interrogazioni urgenti ai ministri.
La sospensione prolungata del Parlamento britannico decisa Boris Johnson è "illegale, nulla e priva di effetti". Lo ha stabilito la Corte Suprema nel duro verdetto letto dalla presidente lady Brenda Hale. E’ come se il Parlamento non fosse "mai stato prorogato", ha decretato la Corte, attribuendo ora agli speaker di Comuni e Lord il potere di riconvocare ora le Camere quanto prima e dichiarando ’l’advice’ del premier alla Regina immotivato e inaccettabile in termini di limitazione di sovranità e poteri di controllo parlamentari
Il Parlamento britannico va riconvocato subito e Boris Johnson deve "valutare la sua posizione" di primo ministro: così il numero uno laburista e leader dell’opposizione parlamentare a Westminster, Jeremy Corbyn, ha commentato il verdetto della Corte Suprema. Corbyn parla di un verdetto "storico" che certifica "il disprezzo del Parlamento" di Johnson.
Parlando alla platea congressuale, fra le ovazioni del delegati laburisti che inneggiavano alle dimissioni di Johnson, Corbyn ha annunciato di voler prendere contatti con lo speaker dei Comuni, John Bercow, per chiedergli di riaprire la Camera - come la Corte Suprema lo ha autorizzato a fare - al più presto. Il Parlamento deve in ogni caso tornare "a chiedere conto" subito al governo delle sue azioni, ha detto il leader del Labour, e assicurare che esso "obbedisca alla legge" approvata nelle scorse settimane su iniziativa delle opposizioni per imporre che non vi sia una Brexit no deal e - in assenza di accordo di divorzio - Londra chieda a Bruxelles un rinvio dell’uscita dall’Ue oltre il 31 ottobre.
Corbyn si è infine detto fiducioso che le prossime elezioni possano portare al potere un governo laburista, assicurando che "un governo laburista accetterà lo scrutinio del Parlamento e la democrazia".
* ANSA, 24 settembre 2019 (RIPRESA PARZIALE).
Il Regno Unito, l’Europa e la chiarezza costituzionale
Tra le nebbie di Dover
di Francesco Palermo (il Mulino, 02 settembre 2019)
La scorsa settimana circolava un tweet che andava al punto. Diceva pressappoco così: l’Italia ha trovato una nuova maggioranza parlamentare, il Regno Unito ha perso la sua monarchia parlamentare.
Il nuovo Primo ministro Boris Johnson è entrato nell’agone politico come un elefante in una cristalleria. Un atteggiamento molto in voga negli ultimi tempi, a tutte le latitudini. Entrato a Downing Street sulla scia del suo atteggiamento duro sulla Brexit, deciso a portare avanti l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea anche senza un accordo con Bruxelles, nel giro di pochi giorni ha compiuto due passi coordinati ed estremamente pericolosi. Dapprima ha posto all’Europa una (a suo dire) alternativa secca: o Bruxelles accetta un confine reale in Irlanda del Nord, o Londra è disposta a un’uscita senza accordo. -Questo almeno a parole, perché da autorevoli previsioni una hard Brexit, quindi un’uscita senza accordo, avrebbe conseguenze catastrofiche per il Regno Unito, almeno inizialmente, e a poco servirebbe la partnership privilegiata che il presidente americano Donald Trump dichiara di voler offrire a Londra una volta uscita dalle presunte grinfie dell’Unione europea. Anche questa tutta da verificare, ma contano i messaggi semplificati e di facile appiglio. Tanto che in alcune cancellerie si sta studiando l’ipotesi di andare a vedere le carte di Londra, e accettare la provocazione di una Brexit senza accordo. Scommettendo sulla necessità di Johnson di frenare all’ultimo.
Il secondo passo il Primo ministro britannico lo ha compiuto sul piano interno, di fatto sospendendo i lavori del Parlamento fino al limine della Brexit, per evitare che l’assemblea possa condizionare i suoi movimenti. Il senso della mossa è chiaro. La Corte suprema ha chiarito che il processo di distacco dall’Unione è in capo al Parlamento, ed è stato il Parlamento ad affossare per ben tre volte l’accordo negoziato da Theresa May con l’Unione europea, costringendo la ex premier alle dimissioni. Il decisionista Johnson non vuole correre il rischio di restare impiccato al Parlamento come accaduto a chi lo ha preceduto. E come può sempre accadere nelle democrazie parlamentari.
Chi non ha familiarità con i complessi meccanismi costituzionali britannici si chiederà come sia possibile, in un sistema così marcatamente parlamentare, che un Primo ministro, senza alcun contrappeso, blocchi per mesi i lavori del Parlamento.
La costituzione britannica è uno strano animale, che viene direttamente dal Medioevo senza troppe modifiche formali. Il sistema si basa su un equilibrio di poteri tra Parlamento e Corona, emerso all’esito di un secolare processo di limitazione dei poteri monarchici da parte del Parlamento.
Così il Parlamento è sì sovrano, ma molti poteri sono ancora formalmente in capo alla Corona, che li esercita attraverso il Primo ministro. Tra questi il potere di sciogliere il Parlamento e di convocarlo. Per questo è bastato che il Primo ministro (attraverso la Regina che regna ma non governa, e quindi non avrebbe potuto opporsi pena una crisi ancora più grave) stabilisse un periodo inusitatamente lungo tra la fine della sessione estiva e l’inizio di quella autunnale per mettere in scacco l’intero sistema. E provocare una crisi costituzionale gravissima, che mostra quanto sia facile che da un delicato equilibrio tra Parlamento e Corona si passi ad una pericolosa concentrazione di poteri in capo a chi tra questi due dovrebbe stare nel mezzo, il Primo ministro.
Una dinamica già vista ai tempi di Weimar, dello Statuto albertino e della terza Repubblica francese.
Una volta di più la spirale autolesionista della Brexit sta prendendo a spallate la Costituzione più antica e finora più solida del mondo. E non potrà che portare a una maggiore formalizzazione dei rapporti tra le istituzioni. Come avvenuto in Europa dopo la seconda guerra mondiale. Paradossalmente, almeno sul piano costituzionale, il processo di separazione dall’Europa sembra poter avvicinare il Regno Unito al continente.
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Gaffe della Casa Bianca su Theresa May, diventa pornostar
Nei suoi comunicati, l’ufficio stampa ha dimenticato di mettere la ’h’
di Redazione ANSA *
Nuova gaffe dell’amministrazione Trump in politica estera. Dopo aver confuso il ministro degli Esteri australiano Julie Bishop per il premier Malcolm Turnbull, l’ufficio stampa della Casa Bianca ha ’dimenticato’ la ’h’ nel nome della premier britannica Theresa May. Risultato: in due documenti l’inquilina di Downing Street è diventata la nota star del soft-porn Teresa May.
L’errore, poi corretto, è stato ripetuto due volte nel comunicato di ieri con il quale la Casa Bianca annunciava l’agenda odierna degli incontri Trump-May e una volta in un comunicato dell’ufficio del vice presidente. "Nel pomeriggio il presidente parteciperà ad un incontro bilaterale con il primo ministro del Regno Unito, Teresa May", recitava la nota dell’ufficio stampa della Casa Bianca.
E qualche riga dopo la ’h’ era di nuovo sparita nel previsto "pranzo di lavoro con Teresa May...". Ancora una volta, nella nota dell’ufficio di Mike Pence il nome di battesimo di May è diventato quello della star di un video per la canzone ’Smack My Bitch Up’ del gruppo The Prodigy. "E’ per questo che Donald Trump era eccitato di incontrarla?", commenta ironico il tabloid britannico Mail online riferendosi al previsto colloquio di oggi tra il neo presidente e la premier britannica a Washington. Sempre ieri, ricorda il Mail online, in un altro comunicato la Casa Bianca ha definito il ministro degli Esteri australiano Julie Bishop il ’primo ministro degli Esteri’ del Paese.
Se Londra mette in discussione l’idea di libertà
di Massimiliano Panarari (La Stampa, 26.06.2016)
E terremoto è stato. Così, se la Brexit è il combinato disposto di una serie di nuove fratture sociali e politiche (oltre che anagrafiche) e di leadership miopi e dal fiato corto, per ritornare a nutrire un po’ di speranza occorre probabilmente rivolgersi alla filosofia. Nel senso letterale del termine, quello del pensiero, che in Gran Bretagna, nelle sue manifestazioni più alte, ha sempre riconosciuto la centralità della libertà.
Ora, voltare le spalle a un’Europa considerata terra di regolamentazioni e burocrazia ossessive, come hanno voluto fare i votanti del «Leave», può legittimamente venire ritenuta come una rivendicazione di libertà. Ma proprio la migliore filosofia britannica contiene una nozione di libertà alternativa, fondata su un’idea dell’interrelazione e dell’interdipendenza - oltre che della responsabilità - di qualità assai differente dalla volontà solipsistica di bastare a se stessi.
Una visione, che si identifica nel liberalismo inglese capace di confrontarsi con quello continentale, nella cui elaborazione la libertà è salvaguardia dell’individuo da qualunque forma di coercizione - compreso il potere delle maggioranze - ed espansione delle libertà positive e dei diritti (la cui contrazione sta infatti pesando molto, in negativo, sulla fiducia nel futuro dei cittadini-elettori occidentali).
Un liberalismo positivo per il quale, ancora, la democrazia è sempre stata governo di opinione e un insieme di contrappesi e garanzie rispetto alle ingerenze di uno Stato prevaricatore, ma nella piena consapevolezza dell’utilità dell’intervento pubblico per correggere le storture - precisamente come servirebbe oggi di fronte alle domande sociali pressanti che vengono da ceti medi impoveriti e da classi popolari che non riescono a beneficiare della globalizzazione, accomunati dalla richiesta di sicurezza e di politiche efficaci in materia di immigrazione.
La politica inglese ha sempre vissuto di un’oscillazione tra l’egoismo nazionalista (derivante anche dalla condizione di insularità) e una grande apertura (legata al suo essere una potenza marittima e commerciale). In questi giorni, malauguratamente, il pendolo si è fermato sul primo di questi poli e, allora, di fronte agli spaventati calcoli di corto respiro possiamo provare a rivolgerci ai pensieri lunghi. Perché, giustappunto, le matrici della filosofia inglese sono il pragmatismo, da un lato, e il realismo empirico (l’adesione al dato di realtà, e il confronto serrato con la scienza), dall’altro.
Tutta la grande, e varia, tradizione del liberalismo britannico - da John Locke ad Adam Smith e Jeremy Bentham, da John Stuart Mill ai positivisti, da Bertrand Russell a Karl Popper (appunto non inglese di nascita) - si è ritrovata nel concetto di società aperta. A sua volta indissolubile dall’idea del mercato, che ha bisogno del talento, mentre alla politica spetterebbe il compito di ridurre la forbice delle disuguaglianze e scongiurare, coi fatti, il dilagare del senso di esclusione.
È di qui che il pensiero liberale deve ripartire per riaprire le frontiere (mentali e geografiche): rilanciando la battaglia per l’allargamento dei diritti, che valgono per tutti e non sono in competizione reciproca. E, così, aumenteranno le chances - e l’appeal - di realizzare una società dell’inclusione.
I cittadini europei riprendano il progetto europeo tra le proprie mani
Salviamo l’Europa, adesso!
Domenica 9 ottobre marciamo da Perugia ad Assisi per costruire una nuova Europa solidale e nonviolenta
Non è uno scherzo. E’ la vittoria dell’egoismo, della paura e del nazionalismo. L’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea è un eccezionale terremoto politico ed economico che cambia la storia dell’Europa e del mondo. Le sue conseguenze sono immense. Ora si apre un periodo difficilissimo che aggiunge instabilità ad instabilità.
I responsabili di questo disastro sono da ricercare tra tutti quelli che hanno spento il sogno europeo di pace, prosperità e diritti umani.
Da decenni chiediamo ai responsabili dei governi e delle istituzioni dell’Europa di cambiare strada, di rimettere al centro le persone e il lavoro dignitoso, di promuovere equità e giustizia, inclusione sociale e sviluppo sostenibile. Lo abbiamo fatto con tutta l’energia e la passione che abbiamo avuto a disposizione. Senza essere ascoltati.
Ma un’Europa che abbandona i suoi cittadini in difficoltà, un’Europa stanca e rassegnata, senza un forte progetto, incapace di rispondere alla crisi economica, ai grandi drammi delle guerre e delle migrazioni, prigioniera di lobby irresponsabili, non ha futuro.
E senza l’Europa anche per l’Italia sarà tutto più difficile. Per questo è urgente cambiare. Chi si ostina a non sentire, deve farsi da parte!
C’è stato un tempo in cui i cittadini europei si sono uniti contro il pericolo di guerra atomica e la mancanza di libertà e sono riusciti a far cadere il muro di Berlino e a mettere fine a cinquant’anni di guerra fredda. E’ tempo che i cittadini europei riprendano il progetto europeo tra le proprie mani e costruiscano una nuova Europa.
Dopo il grande dibattito sull’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea è indispensabile aprire il grande dibattito sull’Europa che vogliamo, i nostri valori, la sua ragione di esistere in un mondo sempre più complesso, globalizzato e interdipendente, i nostri interessi comuni, il nostro ruolo nel mondo.
Lo abbiamo detto mille volte e lo ripetiamo ancora: è tempo di cambiare! Con coraggio e lungimiranza. Per questo invitiamo tutti a partecipare alla Marcia PerugiAssisi della pace e della fraternità del prossimo 9 ottobre. Ri-uniamo tutte le energie positive. Riflettiamo sulle cose che dobbiamo fare ma poi rimettiamoci in cammino. Insieme. Per una nuova Europa solidale e nonviolenta.
Flavio Lotti, Coordinatore della Tavola della pace
Perugia, 24 giugno 2016
Tavola della Pace
Cell. 3356590356 - segreteria@perlapace.it
www.perlapace.it - www.perugiassisi.org
Sadiq Khan, musulmano attento ai diritti gay ed ecologista favorevole al business. Ecco chi è il nuovo sindaco di Londra
Il 45enne avvocato dei diritti umani è nato in una famiglia proletaria di immigrati pachistani. Il suo programma punta all’incremento dell’edilizia sociale ma anche alla lotta contro il terrorismo e ogni tipo di estremismo
di Daniele Guido Gessa (Il Fatto, 6 maggio 2016)
Londra ha ora un sindaco musulmano, laburista, ecologista ma attento anche al business e alle imprese, almeno stando alle promesse. E soprattutto da venerdì 6 maggio la capitale ha un primo cittadino che è forse l’unica vera magra consolazione per il Labour di Jeremy Corbyn, il leader dell’opposizione dallo scorso 12 settembre, che è stato accusato da più fronti di aver fatto virare il partito troppo a sinistra. Mentre si leccano ancora le ferite per i brutti risultati a livello locale (nel Regno Unito si votava anche per i parlamenti nazionali di Scozia, Galles e Irlanda del Nord e per diversi consigli comunali, nonché per due seggi parlamentari riassegnati in due elezioni suppletive), i laburisti possono ora vantare un amministratore che, nel panorama europeo, è veramente rivoluzionario.
E Sadiq Khan, avvocato per i diritti umani 45enne, non è dirompente solo per le sue origini pachistane e per la sua fede di musulmano praticante, ma anche per le sue aperture ai diritti gay, tanto da aver votato da parlamentare a favore della legge sui matrimoni fra persone dello stesso sesso, nel 2013, ricevendo diverse minacce di morte. Ma anche per la sua estrazione proletaria: figlio di un autista di autobus e di una umile sarta, avendo vissuto per anni in una casa di edilizia popolare, fra ‘lavoretti’ del fine settimana, molti sacrifici e una carriera tutta in salita e assolutamente guadagnata fino in fondo. Senza appoggi o ‘spintarelle’, si direbbe in Italia.
Al di là dell’agiografia del vincitore, comunque, Khan è stato in grado, scrive la stampa britannica, di intercettare le vere volontà dei cittadini londinesi, quasi 9 milioni di abitanti di cui almeno il 40% nato all’estero o comunque di origine straniera. Stop all’aumento spropositato delle tariffe del trasporto pubblico, già ora uno dei più cari al mondo, con l’introduzione di un biglietto della durata di un’ora sugli autobus. Non è così ora a Londra, dove se si prende più di un mezzo si paga un biglietto diverso - e lo si paga veramente, altrimenti non si sale sul bus - ogni volta che si passa dalla porta anteriore. Ancora, sì all’ambientalismo ma senza esagerare: la coscienza ‘verde’ di Khan non pare essere così sviluppata come quella di Zac Goldsmith, il candidato conservatore sconfitto, che dell’ecologismo ha sempre fatto il suo cavallo di battaglia. Rinnovo del parco auto, dei mezzi del trasporto pubblico e soprattutto un abbattimento delle emissioni domestiche sono comunque fra gli obiettivi del nuovo sindaco laburista, che aggiunge nel suo programma di voler far diventare Londra una città waste free, libera dalla schiavitù della produzione di rifiuti. Non si sa come, ma le promesse sono importanti. E Khan ci ha messo la faccia, dicendo di capire le ragioni degli ambientalisti soprattutto per la sua asma che spesso non gli dà pace.
Ancora, Khan, che da giovane lavorò anche in un negozio, promette di essere estremamente attento al business, che mai come oggi a Londra ha bisogno di essere protetto dai rischi della Brexit. L’eventuale uscita del Regno Unito dall’Unione europea, in seguito al referendum del prossimo 23 giugno, è uno spauracchio sempre più concreto considerando la relativa vittoria alle elezioni locali di giovedì 5 maggio dell’Ukip di Nigel Farage. Più che uno spauracchio, è un vero e proprio terrore per le aziende, con la Cbi, la ‘Confindustria britannica’, che più volte si è espressa contro l’eventualità. Ecco così che Khan promette incentivi, un ambiente ancora più internazionale e favorevole al business, se possibile, e una generale e maggiore attenzione alle ragioni degli uomini di impresa in quella che già da tempo è una delle capitali mondiali della finanza, dei servizi, delle startup, della ricerca, della scienza e della tecnologia.
Ancora, per Khan, uno dei temi vincenti riconosciuti dalla stampa, durante la sua campagna elettorale, è stato quello della casa, in una città dove i prezzi delle abitazioni sono alle stelle a causa degli investitori internazionali (sceicchi arabi, oligarchi russi ma anche molti italiani) che arrivano sotto il Big Ben solamente per comprare appartamenti e ville. Con il risultato che ormai il prezzo medio di un’abitazione londinese supera le 500mila sterline (650mila euro al cambio attuale), un fatto che ormai è un incubo persino per la classe media, sempre più impossibilitata a comprare casa. Le giovani coppie scappano sempre più da Londra, città dove già oggi una larghissima parte della popolazione vive in affitto, avendo spesso difficoltà a pagarlo. Ecco così che Khan ha promesso più edilizia sociale per tutti, con l’obiettivo di costruire anche fino a 80mila nuove abitazioni all’anno. Edilizia sociale (o popolare) ma anche case a prezzi calmierati e il rendere la vita più difficile a chi affitta case ed è senza scrupoli. Chissà se il ragazzo cresciuto in un council flat, e che proprio nel giorno delle elezioni ha visitato i suoi poveri ex vicini, riuscirà nell’impresa.
Infine, e non è roba di poco conto in una metropoli così multietnica, la lotta al terrorismo e all’estremismo di ogni genere. “Sarò il sindaco di tutti i londinesi”, ha promesso più volte Khan. Aggiungendo però di voler andare contro tutti quei londinesi che fanno preoccupare Scotland Yard, antiterrorismo e servizi segreti. Nel suo programma elettorale c’è la chiara volontà di “predisporre un piano per affrontare la diffusione dell’estremismo”. Nella sua carriera da avvocato per la difesa dei diritti umani, Sadiq Khan ha difeso tanti clienti dal passato oscuro e dai legami non molto chiari. E i tabloid hanno puntato molte volte sul presunto rischio dell’avere in città un sindaco musulmano.
Per ora una cosa è certa: i londinesi non si sono fatti prendere dalla paura e hanno votato in massa per il “ragazzo più sveglio del Labour”, come è stato più volte definito. Del resto era nello stesso suo proclama elettorale: “Scegliete la speranza e non la paura”, aveva scritto a chiare lettere il nuovo sindaco prima di essere eletto. Per ora i londinesi - e con lui anche i britannici europeisti e mezza Europa tutta - sperano con forza.
Londra ’caccia’ i poveri, via 50mila famiglie in 3 anni
"Pulizia sociale in stile Kosovo". Municipi spostano indigenti per austerità e caro affitti
di Redazione ANSA *
Più di 50mila famiglie povere sono state costrette a quello che appare come un vero e proprio esodo degli indigenti da Londra negli ultimi tre anni. E’ quanto denuncia in prima pagina l’Independent, che pubblica l’esito di una sua inchiesta in cui ha potuto vedere documenti sino ad ora mai pubblicati. Si parla di una sorta di "pulizia sociale" portata avanti, a causa dei tagli al welfare e del caro affitti, dai municipi che offrono alle famiglie senza casa un alloggio al di fuori della capitale. Ed ecco quindi che chi abita da sempre in un quartiere dell’est o del nord di Londra si può ritrovare in una città del tutto nuova, a centinaia di chilometri di distanza, come Manchester o Leeds, lontano da abitudini e affetti. Questo accade sempre più spesso a persone che non sono in grado di pagare i crescenti affitti della capitale.
L’Independent ricorda come questa situazione - che vede una media di 500 famiglie costrette a lasciare la capitale ogni settimana - doveva essere del tutto evitata stando alle parole pronunciate nel 2010 dal sindaco di Londra, Boris Johnson, che voleva scongiurare una "pulizia sociale in stile Kosovo".
Olimpiadi Londra 2012
La storia come un macigno
Show? No, esame di coscienza
Humour, classe e cultura: è stato un trionfo per lo spirito britannico.
È forte la speranza per il futuro, persino Elisabetta si prende in giro
di GIANNI RIOTTA (La Stampa, 28/07/2012 )
Londra «And was Jerusalem builded here among these dark Satanic mills...?» si chiede il poeta William Blake nell’inno Jerusalem, scritto nel 1808 e musicato da Sir Parry nel 1916: davvero è possibile costruire la Santa Città di Gerusalemme tra gli oscuri, diabolici mulini della rivoluzione industriale? È la domanda che il regista della cerimonia di apertura delle Olimpiadi a Londra, Danny Boyle, ha posto agli 80.000 spettatori dello Stadio Olimpico e ai milioni intorno al mondo con i versi di Blake e le note di Parry. Il nostro tempo, orfano dell’agricoltura, che ha aperto le scene con le rurali immagini di una fattoria dell’Inghilterra prima che ferrovia, vapore e industria tessile portassero all’industria, sopravviverà alla crisi?
Boyle, autore dei film Transpotting e Millionaire, aveva una sfida non facile, tutte le cerimonie dei Giochi sono noiose e banali come una festa del sabato al Villaggio Vacanze in Mondovisione, balletti mediocri per masse assonnate. Allora Boyle ha usato per la prima volta il pubblico non come comparsa scema cui fare alzare ogni tanto una bandierina colorata o chiedere una ola da Serie B, e neppure, come pure è stato ieri notte allo Stadio Olimpico, palette multicolori con luci elettriche. No, Boyle ha usato il pulpito che i Giochi gli hanno offerto per un dibattito politico in diretta globale. Abbiamo perduto le oche e i mulini che ha portato allo stadio, con pazienti cavalli e pecore così buone da sembrare sedate (gli animalisti han protestato, gli organizzatori negano maltrattamenti), stiamo perdendo quei mulini industriali che Blake trovava satanici ma che hanno dato da mangiare a generazioni, dopo secoli di fame agricola che i poeti cantavano invece come armoniosa. Che ci resta?
«Io non credo in Dio, ma credo nella gente che crede in Dio» dice Boyle. E agli spalti, ogni tanto spazzati da vera pioggia che ha irriso le false nuvole dello spettacolo e i palloni rilasciati fino alla stratosfera, non ha dato uno show, ma un esame di coscienza. Non freddo come il segretario Onu Ban-Ki Moon che mentre la guerra infuria in Siria chiede piatto «pace dai Giochi», ma ricordando come è finito il sogno agricolo, come sta finendo il sogno industriale. Chi è arrivato a Stratford, ultimo quartiere di Londra che portava ancora i segni del Blitz di Hitler e dei razzi V1 e V2, ha visto sotto gli occhi i militari, le crocerossine, gli scioperi, gli operai, le femministe del secolo che lo storico inglese Hobsbawm ha venduto a tutti in un suo libro come «secolo breve», il Novecento, ma che invece è stato lunghissimo, infinito, come mai nessuno prima cambiando la vita degli esseri umani. Perfino il Servizio sanitario inglese ha avuto un balletto, e magari il candidato repubblicano Romney che si oppone alla riforma sanitaria di Obama ha storto il naso.
C’erano allo stadio gli ultimi reduci dei Giochi del 1948, ricordavano una città che aveva perduto l’Impero e vinto la guerra, ma che doveva ritrovare, in pace e austerità una nuova anima. E mentre a Hyde Park, parco della democrazia, 60.000 persone seguivano i Duran Duran e al ponte di Waterloo la polizia arrestava i ciclisti di Critical Mass per invasione di corsia preferenziale olimpica, il premier David Cameron ha posto agli inglesi la domanda che i Giochi dovranno sciogliere: «Vogliamo essere il paese dei Blur e dei Beefeater?» Inglesi che amano i Guardiani della Torre, Beefeater, con le ancestrali divise rosse e nere, corpo fondato da Enrico VII nel 1485, o inglesi che si riconoscono nella musica rock alternativa dei Blur, il cui cantante Damon Albarn ha per divisa T-shirt nere, nati nel 1988?
Referendum: passato o futuro? E la Regina Elisabetta II, che come nonno Edoardo nel 1908 e papà Giorgio nel 1948 ha aperto i Giochi, ha detto a tutti gli inglesi a Londra e nel mondo: futuro. Accettando di recitare in un piccolo show con Daniel Craig 007, lei che finge di paracadutarsi con un elicottero Agusta da Buckingham Palace in diretta allo stadio. Guardate su Youtube il primo appello televisivo di Elisabetta ancora ragazza, Natale 1957, algida, maestosa. Ora, matriarca, la Regina è la star del videogioco in cui Boyle ha trasformato la cerimonia. Si prende in giro, come l’attore Atkinson, Mr Bean, prende in giro il film Oscar Momenti di Gloria.
E così tutti ci siamo presi in giro nel presepe di Boyle, chiuso a notte dal Beatles Paul McCartney, Hey Jude, don’t carry the world upon your shoulders, the movement you need is on your sholders... non portare il mondo sulle spalle... il movimento di cui hai bisogno è sulle tue spalle...
La storia che Boyle ha sceneggiato ci pesa addosso, ma come i nostri padri e nonni possiamo cambiare noi, se perfino la Regina è cambiata, ride di sé. E se, con il padre di internet, Berners Lee, appare la Rowling, mamma di Harry Potter, e legge Peter Pan, favole con la magia dell’umanità a salvare il mondo.
È stato un trionfo per lo spirito britannico, humour, classe, cultura. Shakespeare e Calibano dalla Tempesta, l’isola delle meraviglie, cantanti e balletti pop. Dateci pure degli anglofili a oltranza, ma davanti a gente con questo stile, perché non alzarsi con i londinesi a cantare God save the Queen, salvi l’ironia, la tradizione, l’innovazione, i Guardiani della Torre e il Rock duro dei Blur, la Regina, l’industria e 007? L’abbiamo fatto e quando, benissimo vestiti da Armani in blu, incasinati, goliardi, felici a scattare foto con l’iPhone son passati gli Azzurri d’Italia davanti al presidente Napolitano abbiamo di nuovo applaudito, come già con tutti gli atleti dello squadrone che si chiama Terra. Forza ragazzi.
London eye
Una passeggiata in paradiso
di Maurizio Crosetti *
Aveva ragione il vecchio Borges: "Ho sempre pensato che il paradiso sia una specie di biblioteca". Forse era passato almeno una volta alla British Library, dove un’ordinatissima coda di persone in fila per uno attende alle dieci di mattina che si spalanchino le porte del paradiso, appunto.
Se amate i libri dovete venirci apposta, trascurate pure tutto il resto che questa città offre, ed è ovviamente moltissimo, anzi di più. Cominciate da quella che chiamano "la stanza dei tesori": nelle vetrine immerse nella quiete di una penombra che s’interrompe solo sugli oggetti in mostra, con luce bianca, per avvolgere il resto, c’è tutto quanto un bibliofilo possa desiderare.
C’è il diario di Jane Austen bambina con la sua scrittura ordinata, accanto al banchetto da lavoro che le regalò il padre: un piano inclinato, foderato di pelle nera, il calamaio, i cassettini e gli occhiali di Jane, minuscoli. Come se la sua vocazione, i suoi desideri, forse il suo stesso talento spinto da papà, o magari solo rispettosamente incoraggiato, fossero tutti presenti e racchiusi in questo scrigno. Ogni pagina del futuro già scritta, solo da raccogliere su un prato, come un fiore.
Oltre i vetri ci sono cimeli inenarrabili (spartiti di Mozart, una Bibbia di Gutenberg, il Roman de la Rose), ma c’è soprattutto un percorso guidato sui sentieri del genio, e del tremendo lavoro che lo accompagna. Una pagina di "Lord Jim" di Conrad racconta come l’autore si arrovellasse su ogni frase, su ogni parola, e il suo tormento è ben chiaro nelle ripetizioni scoperte e smascherate, nelle cancellature, nei segni tirati sopra qualcosa che non gli piaceva dopo che lo aveva scritto.
L’identica sofferenza erompe dal pentagramma di una sonata per violino vergata da Beethoven: il pennino diventa un coltello, una vanga che si abbatte sulle note e le rovescia, le disintegra per ricostruirle nuove e perfette.
Ogni studente dovrebbe essere accompagnato qui: capirebbe, senza tanti discorsi, cos’è scrivere. Altro che "brutta" e "bella": è come se il bellissimo, il sublime di Conrad e Beethoven non potessero nascere altrimenti che passando nel bruttissimo di chi non è mai contento e soffre per creare e le parole e le note non vanno mai bene. Una lezione grandiosa.
Le vetrine sono tutte incastonate nel velluto viola, come gioielli. Una soltanto è rossa, color fuoco acceso, un rosso incendiario: contiene manoscritti dei Beatles. Perché in questo gli inglesi sono formidabili, mettono Ringo Starr e Shakespeare uno vicino all’altro ed è così che dev’essere. Oltre il cristallo, la prima versione di "Yesterday" scritta da Paul McCartney, il titolo bello grande, in stampatello sottolineato. Invece "Michelle" l’avevano scritta su una busta da lettere.
Ci sono cuffie, e bottoni da schiacciare: puoi scegliere una canzone, una sonata oppure una pagina per farti raccontare l’inizio di una storia, come quando eri piccolo. E come allora vorresti non finire mai. Il paradiso dev’essere così, sarebbe bello se fosse così, ci si potrebbe andare subito senza perdere altro tempo. O magari invece ci siamo già, se stiamo leggendo Lord Jim, o Fenoglio, un altro che non è alla British Library ma che pativa ogni pagina come un supplizio, prima di raggiungere il sublime.
Si passeggia tra i disegni di Leonardo e la Magna Carta, nell’oltremondo che è più mondo di quello vero, dietro le porte, nella remotissima strada. E tutti sono gentili, e parlano sussurrando, come se le pagine potessero stropicciarsi solo con la voce. Aveva ragione Borges, ma anche Tolkien nella frase scritta in grande all’ingresso, proprio sulla porta del paradiso. "Non tutti quelli che vagano sono perduti".
* la Repubblica, 02 agosto 2012
"DEUS-TRINITAS": AMORE ("CHARITAS") O RICCHEZZA ("CARITAS")?! PER LA CRITICA DELL’ANTROPOLOGIA E DELLA TEOLOGIA MAMMONICA E FARAONICA. E PER L’USCITA DA INTERI MILLENNI DI "PREISTORIA" E DI "LABIRINTO" ...
(...) una bella e soddisfacente conclusione della sua vita: ha dato alla luce una bambina che cammina da sola e sta imparando già a ballare! Con l’aiuto di Edipo ha gettato una grande luce su Mosè e con l’aiuto di Mosè ha gettato una grande luce su Edipo. Con questo doppio movimento, egli ha liberato il cielo (...)
Dopo decenni di abbandono dello studio della «lingua inutile», il governo britannico si è reso conto che invece aiuta a comprendere ogni idioma: così entro due anni 60 scuole elementari lo reintrodurranno
Londra ci ripensa: più spazio al latino
Bowman (Oxford): «Finalmente si è capito che senza fondamenta salde le case crollano»
Beard (Cambridge): «Il latino è un nuovo mondo culturale che si apre davanti agli occhi dei bambini»
DA LONDRA ELISABETTA DEL SOLDATO (Avvenire, 11.11.2009)
Se l’attrazione nei confronti dell’Antica Roma non è mai tramontata tra gli scolari del Regno Unito, lo studio della lingua latina ha certamente visto tempi migliori al punto che l’insegnamento di questa lingua è quasi scomparso dal curriculum nazionale per dare spazio a lingue moderne considerate ’più utili’ come il francesce, lo spagnolo e il tedesco e più recentemente il mandarino e l’arabo.
Ora però il latino sta tornando alla ribalta e a partire dal prossimo anno sarà insegnato in almeno sessanta scuole statali. Lo ha stabilito il ministero dell’Infanzia, scuola e famiglia nell’ambito di un progetto il cui scopo è quello di rendere, entro il 2011, le lingue straniere obbligatorie già dall’età di sette anni. «Finalmente - ci dice il professore di Storia antica Alan K Bowman, della facoltà di Studi classici dell’Università di Oxford - il governo ha capito che senza le giuste fondamenta le case crollano. Il latino è essenziale per capire la struttura di una lingua. Purtroppo in Gran Bretagna lo studio della grammatica, quella inglese intendo, è stato abolito nelle scuole molto tempo fa, già dagli anni Settanta, e da allora i ragazzi hanno perso la capacità di ordinare le parole, riconoscere le forme verbali, le concordanze e i generi. È ovvio che oggi, messi di fronte all’apprendimento di una lingua straniera, sono in difficoltà».
È d’accordo la baronessa O’Cathain, che da anni si batte affinché nella lista dei corsi di lingue straniere offerti ai membri della Camera dei Lord venga inserito anche il latino. «È un arricchimento - spiega - perché ci permette di capire più a fondo la nostra storia culturale e spirituale. Ci permette, per esempio, di leggere in lingua originale testi considerati pietre miliari della letteratura e filosofia occidentali».
Peter Downes, che dirige il progetto promosso oltre che dal ministero dell’Infanzia, scuola e famiglia anche dal sindacato dei presidi e dalla Esmèe Fairnbairn Foundation , ha chiesto espressamente che il latino venga incluso in tutte le scuole, in quanto fornisce agli insegnanti un metodo efficace per far imparare ai bambini la struttura di una lingua oltre ad avere, spiega, «molti legami interdisciplinari con lo studio della storia e delle civiltà».
Il progetto ha fatto tirare un sospiro di sollievo a quei professori, sempre più rari , che pensavano di avere una carriera segnata da una fine imminente. Meno del quindici per cento delle scuole statali del Regno Unito attualmente insegnano il latino e il numero di insegnanti qualificati sta crollando a picco. Ogni anno sono trentacinque i professori di latino che vengono chiamati a fare il tirocinio ma ogni anno più di sessanta lasciano la professione. «L’insegnamento nelle scuole di questa lingua - continua il professor Bowman - è in declino da anni, al punto che fino a oggi temevamo che nei giro di una decade sarebbe scomparsa definitivamente dal curriculum. Purtroppo qui, ma anche altrove nel Vecchio continente, questa lingua classica ha da anni la reputazione di essere una lingua morta, inutile o d’élite. Non è così, metodi di insegnamento adottati da alcune scuole statali, come quello di insegnare attraverso l’uso di fumetti per esempio, si sono dimostrati non solo produttivi ma anche divertenti ed estremamente coinvolgenti. È inoltre interessante notare come nelle zone meno agiate i ragazzi si sentano particolarmente attratti a questa materia, come se conferisse loro una sorta di orgoglio o dignità».
Qui a Oxford, continua il professore, «il latino è sempre stata una materia importante, ma è nelle scuole primarie e secondarie che deve diventare più accessibile. Fino a oggi le maturità con il latino sono tra le più difficili ed è per questo che molti dei ragazzi dotati per le lingue alla fine scelgono di portare il francese». Anche Mary Beard, professore di Studi classici all’Università di Cambridge, si dice entuasiasta del progetto del governo: «Il latino è un nuovo mondo culturale che si apre davanti agli occhi dei bambini e, anche se questi non vanno avanti a leggere Virgilio, possono sempre trarne piacere e benefici».