OXFORD. Etimologia. Ford è il guado in inglese: Ox-ford è il guado dei buoi.
ROMA. Fontana dei Libri (Via degli Staderari)*
(per leggere gli art., cliccare sul rosso)
MESSAGGIO EV-ANGELICO E SANTO PADRE?! ABUSO DEL TITOLO E MENZOGNA. L’ERRORE DI RATZINGER.
CRISI FINANZIARIA, ECONOMICA E POLITICA. CHE "PARADISO": UN LUNGO DEFICIT DI LOGICA E DI ETICA!!!
AL DI LA’ DEI FONDAMENTALISMI LAICI E RELIGIOSI: UNA SECONDA RIVOLUZIONE COPERNICANA
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Fontana dei Libri (Roma, Via degli Staderari) |
INVERTIRE IL PRESENTE. CON FERNANDO PESSOA, SEGUENDO OMERO VIRGILIO E DANTE, RITORNO AL FUTURO: "NON BASTA APRIRE LA #FINESTRA".
CAMBIARE ROTTA E SVEGLIARSI DAL #SONNODOGMATICO (#KANT): #INVERTIRE LA #DIREZIONE (#CarloRovelli) E USCIRE DALLA TRAGICA E "LUCIFERINA" #CAVERNA DI #PLATONE (E DI TUTTI I #PLATONISMI PER IL #POPOLO), DALLA #FILOSOFIA "COSMOTEANDRICA" DEL "MONDO COME VOLONTA’ E RAPPRESENTAZIONE" DI OGNI #UOMOSUPREMO:
"Non basta aprire la finestra *
Non basta aprire la finestra
per vedere la campagna e il fiume.
Non basta non essere ciechi
per vedere gli alberi e i fiori.
Bisogna anche non aver nessuna filosofia.
Con la filosofia non vi sono alberi: vi sono solo idee.
Vi è soltanto ognuno di noi, simile ad una spelonca.
C’è solo una finestra chiusa e tutto il mondo là fuori;
E un sogno di ciò che potrebbe esser visto se la finestra si aprisse,
che ai è quello che si vede quando la finestra si apre.
PIANETA TERRA. LO SPIRITO DELL’EUROPA .... *
Elezioni Gb, Johnson trionfa: ’Ora realizzeremo la Brexit’. Vola la sterlina
Ai Tory la maggioranza assoluta. Shock LibDem, la leader Jo Swinson non rieletta
di Redazione ANSA*
Le elezioni britanniche consegnano a Boris Johnson e ai Tory un’ampia maggioranza assoluta a Westminster, le chiavi di Downing Street per i prossimi 5 anni e il lasciapassare per una Brexit che, a 3 anni e mezzo dal referendum del 2016, diventa irreversibile. La sterlina vola sui mercati valutari nel cambio con il dollaro e l’euro dopo: la valuta inglese passa di mano a 1,3446 sul dollaro (+2,1%) e a 0,8303 sull’euro (+1,8%). La moneta unica è scambiata invece in avvio di giornata senza sensibili variazioni sul dollaro.
"Mi congratulo con Boris Johnson e mi aspetto che il Parlamento britannico ratifichi il prima possibile l’accordo" negoziato sulla Brexit, ha detto il presidente del Consiglio Ue Charles Michel.
La Ue "è pronta a discutere gli aspetti operativi" delle relazioni future, ha aggiunto, spiegando che i leader avranno una discussione sulla Brexit oggi.
Il partito conservatore ha incassato oltre 360 seggi su 650, mentre al Labour di Jeremy Corbyn ne vengono attribuiti circa 200. "Una decisione inconfutabile dei britannici", commenta Johnson che aggiunge: "Con questo mandato realizzaremo la Brexit".
Un risultato che non si vedeva dai tempi di Margaret Thatcher e segna invece la disfatta peggiore da decenni per il Labour.
Ed è guerra all’interno del partito, ma Jeremy Corbyn rimanda le dimissioni. Non guiderà il partito "in un’altra elezione", ma per ora resta in Parlamento e "guiderà il Labour in una fase di riflessione".
Il verdetto è chiarissimo. Il messaggio di BoJo, sintetizzato nella promessa-tormentone ’Get Brexit done’, è passato. E il controllo Tory sulla Camera nega ogni credibile spazio di manovra al fronte dei partiti che s’erano impegnati a convocare un secondo referendum sull’Europa per offrire agli isolani una chance di ripensamento.
Shock anche per i liberaldemocratici: la 39enne neo-leader del partito più radicalmente anti-Brexit del lotto, Jo Swinson, che aveva cercato di proporsi addirittura come una rivale diretta di Boris Johnson e di Jeremy Corbyn, non solo non è riuscita a far avanzare la sua formazione, ma è stata bocciata anche a livello personale nel collegio di Dumbartonshire East: scalzata per 149 voti da Amy Callaghan, indipendentista scozzese dell’Snp. Swinson non però annunciato le dimissioni da leader.
Nigel Farage non considera una sconfitta il risultato negativo - peraltro previsto dai sondaggi - del suo Brexit Party alle elezioni politiche britanniche. Il partito è rimasto al palo, con zero seggi secondo l’exit poll, di fatto riassorbito dal partito conservatore di Boris Johnson dopo il trionfo nel voto (proporzionale) delle Europee di maggio. Ma secondo Farage, intervistato a caldo dalla Bbc, ha comunque contribuito a favorire il successo Tory e a evitare lo spettro di un Parlamento senza maggioranza (hung Parliament): sia non presentando candidati in oltre 300 collegi già controllati dai conservatori, sia togliendo voti ai laburisti di Jeremy Corbyn in diverse circoscrizioni del cosiddetto ’muro rosso’ dell’Inghilterra centro-settentrionale e del Galles, tradizionalmente di sinistra, ma in maggioranza pro Brexit e contrarie a un secondo referendum.
Il partito laburista britannico tiene a Londra dove ha conquistato 49 su 73 seggi. Sia Boris Johnson che Jeremy Corbyn hanno vinto nelle loro circoscrizioni. I Tory hanno perso Putney ma hanno guadagnato Kensington ottenendo in totale 21 seggi. Fuori invece Chuka Umunna, ex astro nascente del Labour passato in queste elezioni ai LibDem.
* ANSA 13 dicembre 2019 (ripresa parziale).
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LO SPIRITO DELL’ EUROPA. "BUOI AL GUADO" AD OXFORD, "CERVI ALLA FONTE" DELLA "SAPIENZA" DI ROMA. TRACCE PER UNA SOLA GRANDE FESTA: "LA LUCE SPLENDE NELLE TENEBRE" DELL’INVERNO. E per proseguire il comune cammino "eu-ropeuo"
L’AMORE NON E’ LO ZIMBELLO DEL TEMPO: "AMORE E’ PIU’ FORTE DI MORTE" (Cantico dei cantici: 8.6). Un omaggio a William Shakespeare* e a Giovanni Garbini**
Federico La Sala
Chiesa Francia apre a riconoscimento figli sacerdoti
Le Monde, incontro segreto a febbraio, a giugno vedranno vescovi
di Redazione ANSA *
PARIGI. Apertura senza precedenti della Chiesa cattolica francese verso il riconoscimento dei figli di sacerdoti, secondo quanto annuncia oggi Le Monde. Stando a informazioni del quotidiano, alcuni figli di preti sono stati ricevuti per la prima volta da un responsabile ecclesiastico francese e a giugno testimonieranno davanti ad alcuni vescovi.
Tre figli di sacerdoti, membri dell’associazione francese Les Enfants du silence (in tutto una cinquantina di figli di preti) sono stati ricevuti per la prima volta - su loro domanda - da un responsabile ecclesiastico.
L’incontro, fin qui segreto, si è svolto il 4 febbraio a Parigi, nella sede della Conferenza episcopale di Francia (CEF). Per un’ora e mezzo, ad ascoltare la loro testimonianza, finora un tabù per la Chiesa, è stato il segretario generale, Olivier Ribadeau-Dumas. Una discussione "cordiale e costruttiva" secondo quanto spiegato dall’interessato, che ha ascoltato le "sofferenze" di questi uomini e donne abituati ad essere educati in una sorta di sentimento di vergogna e nel segreto, come "figli del peccato". Sempre secondo il quotidiano, gli esponenti di Les Enfants du Silence, "testimonieranno a giugno davanti ad alcuni vescovi".
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Europa ed Evangelo. Una buona-scelta e una buona-notizia ...
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". -SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI.
Federico La Sala
Questa civiltà è da difendere.
I saldi princìpi ribaditi dall’euro-sentenza
di Giuseppe Anzani (Avvenire, mercoledì 15 maggio 2019)
Uomini in fuga, il mondo ne è pieno. Non attratti da un miraggio, ma spinti da una disperazione. Si fa presto a dire che sarebbe meglio che ognuno restasse a casa sua, in pace e sicurezza. I rifugiati sono uomini (e donne e bambini) che nel loro Paese patiscono persecuzione, o vivono nella paura, per ragioni di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale, opinioni politiche.
A loro il mondo ha dedicato una Convenzione nel 1951, impegnando gli Stati, fra l’altro, a non prendere sanzioni penali, a motivo del loro ingresso o del loro soggiorno illegali, a carico di quei rifugiati che giungono direttamente da un territorio in cui la loro vita o la loro libertà erano minacciate. Già in questo originario principio brilla una sorta di gerarchia delle ragioni di giustizia sopra le formule legalistiche: le une e le altre stanno nel cerchio del diritto, simultanee, e però vita e libertà vincono non per violazione di disciplina, ma per giuridica preminenza.
Più vicino ai nostri anni, nel 2011, l’Unione Europea ha emanato una Direttiva che impegna gli Stati membri ad assicurare ai rifugiati «il pieno rispetto della dignità umana» e il diritto d’asilo. La parola "dignità" è pregnante, nel diritto europeo: essa dà titolo al primo capitolo della "Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea" e compendia una sorta di statuto elementare e insopprimibile degli esseri umani. Il trattamento che ne discende è un corollario coerente.
In Italia, benché se ne parli così poco che par dimenticato (o a bella posta negletto) l’articolo 10 della Costituzione dice che ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni di legge, lo straniero «al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana». Non dunque solo la fuga dalla persecuzione, dalla tortura, dalla guerra; persino la mancanza delle libertà democratiche garantite dalla nostra Costituzione, cioè il ventaglio intero dei diritti umani disegnato dai nostri Padri.
Questo sistema ispirato al soccorso irrinunciabile delle vittime dell’oppressione, così ben scritto, appare oggi contraddetto da una riluttanza che s’è gonfiata in ostilità; ha alzato muri di pietra e di filo spinato, ma non solo: ha costruito maglie fitte di editti e norme e grida e comandi volti a impedire, a ostacolare, a scacciare. Ma ieri la Corte Europea di Giustizia ha dato una sterzata.
C’erano tre rifugiati (un ceceno nella Repubblica Ceca, due africani in Belgio), che avevano commesso reati e subito condanne; per loro c’era il rifiuto o la revoca dell’asilo e della protezione, si profilava l’espulsione e il rimpatrio. Verso un destino pauroso. La risposta di giustizia è stata ’no’.
La Corte ha sentenziato che «gli Stati membri non possono allontanare, espellere o estradare uno straniero quando esistono seri e comprovati motivi di ritenere che, nel Paese di destinazione, egli vada incontro a un rischio reale di subire trattamenti proibiti dalla Carta europea», cioè torture o trattamenti inumani o degradanti. La sentenza, emessa dal massimo organo giurisdizionale dell’Unione, ora vincola tutti.
Anche il reo, il condannato che espia la pena, non può diventare uno scarto da riconsegnare ai suoi aguzzini. Perderà quel che perderà, ma non il suo essere uomo, e i diritti dell’uomo. C’è un’ultima pennellata, infatti che ce lo rammenta, e a suo modo sposta di nuovo l’attenzione dal legalismo alla realtà del diritto-giustizia: l’uomo cui è stato revocato lo ’status’ (legale) di rifugiato, se in concreto è un fuggiasco per i motivi di persecuzione che abbiamo visto, resta lo stesso un ’rifugiato’, e conserva il diritto umano alla ’protezione internazionale’ secondo la Carta europea. Prendiamone definitiva nota, difendiamo questa civiltà e siamone all’altezza: è nostra e condivisa col mondo.
L’ITALIA, IL SEDILE, LA SELLA CURULE, LA "X" DI "REX" E "DUX", HENRY W, LONGFELLOW, E IL "DVX" DEL FASCISMO.... *
AD AMPLIARE e a contribuire a rendere più comprensibili ed evidenti i nessi tra i vari livelli del brillante lavoro di Armando Polito sul SEDILE di Nardò (Lecce), è bene tenere presente e ricordare cosa era la SELLA CURULE nella società dell’antica Roma:
"La sella curule (in lat. sella curulis) era un sedile pieghevole a forma di "X" ornato d’avorio, simbolo del potere giudiziario, riservato inizialmente ai re di Roma e in seguito ai magistrati superiori dotati di giurisdizione, detti perciò "curuli".
I magistrati solevano portare con sé la sella curulis assieme agli altri simboli del loro potere (fasci, verghe e scuri) e ovunque disponessero questi simboli, lì era stabilita la sede del loro tribunale.
Durante il periodo della Repubblica, il diritto di sedere sulla sella curule era riservato a: consoli, pretori, edili curuli, sacerdoti massimi, dittatori e al magister equitum. In epoca imperiale l’uso della sedia curule fu ampliato anche all’imperatore, al praefectus urbi e ai proconsoli.
Il simbolo di potere rappresentato dalla sedia curule affonda le sue radici nell’antica Etruria; infatti già gli Etruschi consideravano lo scranno pieghevole a forma di sella una prerogativa di chi poteva esercitare il potere (giudiziario ed esecutivo) sul popolo. Fu portato a Roma dal quinto re, Tarquinio Prisco.[1]
RICORDARE CHI ERA HENRY W. LONGFELLOW:
"Henry Wadsworth Longfellow (Portland, 27 febbraio 1807 - Cambridge, 24 marzo 1882) è stato uno scrittore e poeta statunitense, tra i primi letterati americani ad assurgere alla fama mondiale.
Longfellow fu il più famoso poeta della scena del New England nell’’800 e scrisse numerose opere tra cui Evangeline e Il faro.
Fu un acceso promotore dell’abolizione della schiavitù negli anni prima e durante la Guerra Civile Americana insieme ad altri intellettuali che gravitavano nell’orbita di Harvard e soprattutto insieme all’allora Governatore del Massachusetts John Andrew.
Intorno al 1862 insieme ai letterati James Russell Lowell, Oliver W. Holmes e George Washington Greene diede vita al cosiddetto "Circolo Dante", atto a promuovere la conoscenza della Divina Commedia di Dante Alighieri negli Stati Uniti. Insieme ai suoi colleghi del circolo, Longfellow ne portò a termine la prima traduzione statunitense in inglese nel 1867.
Da allora il successo dell’opera di Dante in America fu costante ed in seguito il Circolo diventò la "Dante Society", una delle più famose associazioni di dantisti nel mondo [...]" (cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/Henry_Wadsworth_Longfellow).
LE PAROLE ("DVX-LVX, REX-LEX") SCRITTE SULLA "CROCE" INSCRITTA NEL "CERCHIO" SULLA TOMBA DI LONGFELLOW sicuramente - via Dante Alighieri (e probabilmente anche via Dante Gabriele Rossetti) - si ricollegano al filo della tradizione religiosa cristiana, e sono riferite a CRISTO, concepito come LUCE, LEGGE, RE, DUCE.
E, ANCORA, per capire come e perché siano apparse le scritte "REX" e "DVX" sulla parete del SEDILE di Nardò (Lecce), bisogna RICORDARE chi era MARGHERITA GRASSINI SARFATTI e rileggere il suo "DVX" (sul tema, mi sia consento, cfr IL MITO DELLA ROMANITÀ E IL FASCISMO: MARGHERITA SARFATTI E RENZO DE FELICE).
E, INFINE, PER CAPIRE MEGLIO, E ALLA LUCE DEL SOLE ("INVICTUS"), IL SENSO DELLE "QUATTRO PAROLE" (LVX, LEX, REX, DVX), LEGGERE E RILEGGERE E ANCORA RILEGGERE LA COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANA ....
Federico La Sala
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
EICHMANN A GERUSALEMME (1961). “come fu possibile la hitlerizzazione dell’Imperativo Categorico di Kant? E perché è ancora attuale oggi?” (Emil L. Fackenheim, Tiqqun. Riparare il mondo).
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
La “falsa tomba”
Si fa presto a dire Re Artù
di FRANCO CARDINI (Avvenire, 26 novembre 2015)
Sembra una notizia sensazionale, rivoluzionaria. Un’équipe di archeologi, dopo un’indagine durata ben quattro anni sotto la guida del professor Robert Gilchrist della Reading University, sarebbero riusciti ad appurare che il sepolcro di re Artù, che si supponeva trovarsi nel luogo nel quale un tempo sorgeva l’abbazia benedettina di Glastonbury, nel Somerset, è in realtà un falso.
Gli archeologi avrebbero in effetti localizzato una fossa che i loro studi assicurano corrispondente a quella che avrebbe dovuto contenere il sepolcro: ma è vuota e le sue dimensioni sono insufficienti ad accogliere un corpo inumato. Secondo la leggenda, re Artù sarebbe stato sepolto nel luogo stesso nel quale sarebbe poi sorta la più antica chiesa d’Inghilterra: un luogo prescelto per il fatto che là sarebbero giunti Gesù e Giuseppe d’Arimatea, il quale avrebbe ivi piantato un albero che da allora fiorisce ogni anno a Natale e un ramoscello del quale viene portato ogni volta in dono alla regina Elisabetta. In effetti, qualcosa di sensazionale in questa notizia c’è sul serio. Non tanto la localizzazione del supposto sepolcro, o di quel che ne rimane, che se fosse confermata avrebbe senza dubbio un suo interesse.
Gli archeologi avrebbero trovato le prove, in pratica, della falsa antichità della chiesa di Glastonbury, la quale sarebbe stata edificata non agli inizi della cristianizzazione dell’Inghilterra ma dai monaci benedettini che, dopo un incendio della loro abbazia nel 1184, avrebbero diffuso la leggenda sia dell’albero di Giuseppe d’Arimatea, sia della sepoltura di Artù. Cerchiamo di ristabilire il senso e la proporzione delle cose. L’abbazia di Glastonbury venne identificata nella mitica Insula Pomorum, l’Avallon delle leggende celtiche, in pieno XII secolo, ben prima dell’incendio del 1184, dai mitografi di corte del plantageneto Enrico II la figlia del quale e della celebre Eleonora d’Aquitania, Maria di Champagne, era la protettrice di Cristiano di Troyes, l’autore pochi anni prima del romanzo in versi Perceval.
Verso la metà del XII secolo i sovrani angioino-plantageneti stavano costruendosi un grande regno che, oltre all’Inghilterra, comprendeva gran parte della Francia. Il matrimonio tra Enrico II ed Eleonora d’Aquitania, nel 1152, giunse a sigillare un vasto programma egemonico: ora il regno di Luigi VII di Francia - che di Eleonora era stato il primo marito, e del quale il re d’Inghilterra era a vario titolo vassallo per i territori francesi - era molto meno esteso di quello del rivale d’Oltremanica, per quanto Luigi continuasse a esserne per vaste aree il signore feudale. Tale situazione generava uno stato di tensione e di emulazione continua, cui dev’esser aggiunto il disagio della monarchia angioino-plantageneta che regnava su quell’Inghilterra ch’era l’antica Britannia, nella quale i germani anglosassoni si erano sovrapposti ai celti e quindi, nell’XI secolo, i normanni (scandinavi francesizzati) agli anglosassoni.
Era dunque necessario per la dinastia anglofrancese rintracciare (o inventare) un precedente tanto dei celti insulari e degli anglosassoni quanto dei normanni capace di nobilitare e avvicinare entrambe le stirpi delle due sponde della Manica. E che al tempo stesso, per antichità e per sacralità, potesse competere tanto con la monarchia francese - che aveva i suoi centri sacrali in Reims, dove si conservava la Sacra Ampolla dell’olio recato dagli angeli con cui si ungevano i sovrani, e nell’abbazia di Saint-Denis, che custodiva il vessillo direttamente concesso da Dio a Carlomagno, l’Orifiamma - quanto con lo stesso impero romano-germanico, che trae- va la sua sacralità dalla Cappella Palatina d’Aquisgrana, dove riposavano le reliquie di Carlomagno. I sovrani romano-germanico e francese traevano pertanto entrambi dal culto del grande sovrano franco dell’VIII-IX secolo. I re anglofrancesi ebbero a quel punto la geniale idea di creare un emulo delle tradizioni sacrali francesi e germaniche individuandolo in un antico sovrano celtico (o celtoromano) cristianizzato, situabile verso il V secolo quando Roma aveva abbandonato la Britannia, negli antichi sovrani celtici cristianizzati, dei quali si diceva che i bretoni attendessero fedelmente il ritorno alla Fine dei Tempi.
Era la leggenda escatologica di Arcturus, rex quondam, rex futurus. Oggi si tende a ritenere che il nucleo storico dell’esistenza di un Arcturus Rex effettivo personaggio storico risieda nella figura di un funzionario romano della Britannia, Lucius Artorius. Le tradizioni arturiane sarebbero state raccolte verso il 1135 dalla Historia regum Britanniae di Goffredo di Monmouth, al quale s’ispirò Guglielmo di Malmesbury per la seconda edizione di un suo scritto, il De antiquitate Glastoniensis Ecclesiae, redatto tra il 1135 e il 1137 e nel quale la leggenda arturiana appare nella sua sostanziale interezza. Per Artù era necessario un centro sacrale che potesse rivaleggiare con Aquisgrana e con Saint-Denis: l’abbazia di Glastonbury nel Somerset, dove nel 1191 furono “scoperte” (una inventio, in termini tecnici) le tombe del re Artù e della regina Ginevra e che fu identificata con la leggendaria terra di Avalon. Che i benedettini di Glastonbury, sette anni dopo il disastroso incendio dell’abbazia che doveva essere riparata, si siano prestati di buon grado alla divulgazione della leggenda, appare del tutto ovvio.
Pressoché in contemporanea, tra 1181 e 1190, Cristiano di Troyes compose il suo ultimo romanzo, il Perceval, ou le Conte du Graal, nel quale la leggenda arturiana si univa al tema del misterioso Graal. Nessuna traccia di Giuseppe d’Arimatea fino a questo momento. La commistione è posteriore di un decennio, quando il Perceval di Cristiano, incompiuto, venne ripreso da altri autori. Fra questi il piccardo Roberto di Boron che scrisse in versi il Roman de l’Estoire du Graal, noto anche sotto il titolo di Joseph d’Arimathie. Il testo si discosta molto da quello di Cristiano e si ispira piuttosto a un testo evangelico apocrifo, il Vangelo di Nicodemo, fondato sulla Passione e sull’Eucarestia. In tale racconto si narra il trasferimento del sacro vaso in cui Gesù aveva celebrato l’Eucarestia nel corso dell’Ultima Cena da Gerusalemme in Inghilterra. È dunque un’altra tradizione, pure di successo, che ha come sfondo la translatio della sacralità da Oriente a Occidente, tipico di un’età di crociata. Gerusalemme era stata appena perduta (nel 1187) e tanto il re di Francia quanto quello d’Inghilterra si erano impegnati in quella che chiamiamo la “terza crociata”. Questo il quadro che dà un senso alla scoperta archeologica recente. Ch’essa sia o no attendibile, sta al vaglio della critica il dimostrarlo.
Quei monaci che inventarono il mito di Re Artù
La loro abbazia era bruciata in un incendio nel 1184, e servivano denari per ricostruirla
Un gruppo di studiosi britannici ha scoperto che i benedettini di Glastonbury crearono la leggenda per attirare pellegrini
di Enrico Franceschini (la Repubblica, 25.11.2015)
LONDRA È IL re d’Inghilterra forse più noto, il cui nome evoca un mondo da favola: la spada nella roccia, il regno di Camelot, il mago Merlino, i cavalieri della tavola rotonda, Lancillotto, la bella Ginevra. Ma, a quanto pare, la leggenda di king Arthur, come lo chiamano gli inglesi, o di re Artù, come diciamo in Italia, fu inventata dai monaci benedettini di Glastonbury, dopo che la loro abbazia bruciò in un incendio, come mezzo per attirare pellegrini e con essi il denaro per ricostruirla.
Lo rivela un’indagine lunga 4 anni e condotta da un gruppo di una trentina di storici e studiosi britannici, guidati da Robert Gilchrist, docente di archeologia della Reading University, che hanno esaminato reperti di scavi effettuati nell’area decenni or sono e mai analizzati prima.
La presunta tomba di Artù risulta essere stata nient’altro che un buco nel terreno, in cui nessuna bara o corpo furono mai calati, per la semplice ragione che non ci sarebbero neanche entrati. Non solo: gli scienziati hanno trovato le prove che, dopo il rogo del 1184, i monaci ricostruirono deliberatamente una chiesa di legno in stile arcaico per farla apparire molto più antica, nel tentativo di dare credito al mito che fosse stata la prima chiesa cristiana in Inghilterra. Rivelazione che abbatte pure un’altra leggenda, ancora più grande: quella secondo cui i piedi di Gesù Cristo in persona si posarono su un simile luogo, portato da suo zio Giuseppe di Arimatea quando era bambino a bordo di una nave fenicia.
Dal bastone piantato da Giuseppe sul posto sarebbe nato un albero che ancora fiorisce e ogni anno a Natale un suo ramoscello viene inviato in dono alla regina Elisabetta. Ora gli storici affermano che è tutto falso, scrive il Times di Londra, facendo crollare tra l’altro l’ispirazione di “Jerusalem”, il poema di William Blake considerato da molti una sorta di inno nazionale inglese: il titolo originale, And did those feet in ancient times (E davvero quei piedi in tempi antichi), si riferisce appunto al presunto viaggio a Glastonbury compiuto in tenera età dal Nazzareno, visto come atto di fondazione di una “nuova Gerusalemme”. Ovvero l’Inghilterra odierna.
Che questa fosse una storia apocrifa era da tempo l’opinione dominante: ma ciò non ha impedito che Glastonbury e i resti del suo monastero attirassero masse di fedeli. E non solo di fedeli, perché oggi la zona è diventata uno dei principali punti di riferimento del movimento New Age, convogliando nella placida campagna del Somerset i seguaci delle discipline esoteriche. La stessa cosa accadde 10 secoli fa, quando lo stratagemma dei benedettini servì allo scopo, portando a Glastonbury non solo i soldi per ricostruire l’abbazia ma facendone il secondo monastero più ricco di tutta l’Inghilterra.
Se Artù sia stato un re o un capoclan, se si chiamasse proprio così, se sia veramente esistito e in che periodo, è sempre stato un mistero. La scoperta degli archeologi inglesi lo colloca con più sicurezza nel novero delle leggende, ossia delle fiabe. In fondo, senza l’invenzione degli scaltri monaci, non ne avremmo mai avuta una meravigliosa come quella del piccolo Semola che estrae Excalibur dalla roccia per diventare re Artù.
La lingua della scienza. Non può essere Babele
Dopo la scomparsa del latino per un lungo periodo gli scienziati usarono varie lingue per comunicare finchè non prevalse l’inglese
di Arnaldo Benini (Il Sole-24 Ore, Domenica, 05.07.2015
«Per quanto inevitabile, la scomparsa del latino come linguaggio universale della scienza - scrisse l’allora direttore della rivista Endeavour Trevor Williams nel 1977 (Interdisciplinary Science Reviews 2, 165-172, 1977) - è stata una grande sventura». Deleterio fu l’intervallo fra il declino del latino e la prevalenza dell’inglese, perché, fra la fine del ’700 e gli anni ’70 del secolo scorso, prevalse la Babele di scrivere di scienza in diverse lingue.
Michael D. Gordin, dell’Università di Princeton, storico della chimica, della scienza russa e della guerra fredda, in un geniale e vastissimo studio di storia della comunicazione scientifica, che è anche un saggio di politica culturale, racconta la fine molto deplorata («a monument to human folly») del latino come lingua universale e la lenta marcia verso l’egemonia, ora incontrastata, dell’inglese.
Perché non si è continuato col latino, che era la lingua scritta della cultura in Europa, nel medio Oriente, in Russia (introdotto con la scienza, non essendoci tradizione cattolica), nella quale si leggevano anche traduzioni di testi greci e arabi? La ragione principale potrebbe essere che da secoli era scritto e non più parlato. Inoltre il latino classicheggiante degli umanisti del Rinascimento non si prestava ad esprimere i rapidi e radicali cambiamenti della scienza e della tecnologia.
Il latino, dice Gordin, fu la vittima più illustre della rivoluzione scientifica, anche se testi di Galilei e Newton sono in latino. Ancora nella seconda metà del ’700 il latino resisteva come lingua della scienza. Giambattista Morgagni, ad esempio, pubblicò nel 1761 la prima grande opera di anatomia patologica De sedibus et causis morborum e il medico napoletano Domenico Cotugno nel 1779 De Ischiade Nervosa Commentariis, il primo studio sulla sciatica come malattia dei nervi e non delle vene delle gambe. Carl Linnaeus, che scriveva in latino e svedese, a metà del ’700 introdusse la nomenclatura binomiale latina per tutte le piante, in uso universale e obbligatorio fino al 2012.
Al latino non giovò, nel XIX secolo, d’essere identificato col dogmatismo della Chiesa cattolica. Nel XIX e fino alla metà del XX secolo le lingue più usate nella comunicazione scientifica furono il “triunvirato” di inglese, francese e tedesco, ma nessuna ebbe il ruolo che era stato del latino. Il russo, che fuori dalla Russia pochi conoscevano, fu rilevante nella chimica di fine ’800.
Gordin racconta per esteso una delle più furibonde dispute nella storia della scienza del XIX secolo. Essa scoppiò per un errore nella traduzione tedesca, di un chimico bilingue russo-tedesco di Gottinga, del testo russo di Dmitrii Mendeleev (che aveva pasticciato alcuni lavori scritti in un francese approssimativo) del 1869 sulla tavola della periodicità degli elementi. La parola russa per periodico fu tradotta non con periodisch, ma con stufenweise, cioè graduale, progressivo. Il traduttore non aveva afferrato che la periodicità era la caratteristica cruciale e la scoperta della tavola.
In Russia, nel XVIII secolo, le lingue in uso nella scienza furono francese e tedesco. Il francese ebbe difficoltà ad imporsi, anche perché, ancora nel XVII e XVIII secolo, era la lingua dominante solo in 15 degli 89 dipartimenti del paese, dove si parlava tedesco, occitano, basco, provenzale ed altre lingue. Uno dei compiti della Rivoluzione, dice Gordin, fu di rendere il francese lingua universale in tutta la Francia.
Dal 1900 fino alla fine degli anni ’20, si pubblicarono nel mondo più lavori scientifici in tedesco che in inglese e il doppio e il triplo che in francese, nonostante l’avversione per la cultura e la società tedesche durante e dopo la prima guerra mondiale. In quegli anni la scienza tedesca, in particolare la fisica e la chimica, quest’ultima anche sul piano industriale, fu al culmine della creatività, testimoniata dal numero di premi Nobel. L’ignoranza del tedesco comportava, a quel tempo, di non essere al corrente di molto di ciò che scienza e tecnologia producevano.
Il declino della preminenza della lingua tedesca cominciò col nazifascismo, per l’esodo massiccio verso gli Stati Uniti e l’Inghilterra non solo di ebrei, ma anche di non ebrei ostili alla barbarie dei regimi in Italia e in Germania. L’inglese prevalse, sostiene Gordin, non per la preminenza economica e militare dei paesi anglofoni, ma perché l’Inghilterra e ancor più gli Stati Uniti avevano favorito il trasferimento nei loro istituti e università, che ebbero uno sviluppo enorme, di scienziati, umanisti e artisti dall’Europa, anche se molti di loro sapevano poco o niente inglese. L’inglese prevale non perché è la lingua dei padroni, ma perché è la lingua di paesi che hanno creduto nella cultura.
La preminenza dell’inglese fu favorita anche dalla decisione delle colonie britanniche di mantenerlo come lingua ufficiale dopo l’indipendenza e dall’occupazione di parte della Germania sconfitta di inglesi e americani. In Germania il bilinguismo nelle aree occupate era diffuso. L’inglese è oggi non solo la lingua delle pubblicazioni scientifiche e delle comunicazioni in conferenze, congressi e laboratori, ma è corrente nelle istituzioni scientifiche, anche nei paesi dell’Europa dell’est.
Dagli anni ’70 del secolo scorso in poi quasi tutte le riviste scientifiche pubblicano in inglese e, in molte Università di paesi non anglofoni, insegnamenti, interrogazioni, tesi di laurea e pubblicazioni si tengono in inglese. Così si evita la Babele che si ebbe dopo il tramonto del latino. Per i non anglofoni sapere solo la lingua madre è una mutilazione culturale e professionale, per gli anglofoni è più la regola che l’eccezione. Sono comunque avvantaggiati.
Il neuroscienziato sudtirolese Valentino Braitenberg sostenne, molti anni fa, che chi non è anglofono, nei congressi e nei rapporti con i colleghi non deve lasciarsi intimidire. Impari l’inglese basico della scienza, prepari la conferenza, si eserciti nella pronuncia corretta e parli senza remore. Verrà ascoltato con interesse, se quel che dice lo merita. Oggi spesso non è così: chi, in una discussione, non interviene in un fluent English, è spacciato in partenza.
È un bene che ci sia una lingua sola? È un bene per la scienza, perché la Babele nella scienza è inimmaginabile. Sta agli anglisti giudicare se è un bene per l’inglese. Gordin sospetta che l’egemonia dell’inglese non durerà a lungo e specula sulla successione. È probabile invece che l’inglese come lingua della scienza durerà più del latino perché è parlato, scritto e letto come lingua madre in paesi di tutto il mondo. Circa la successione: nessuno, nell’Europa del XV o XVI secolo, poteva prevedere che il latino sarebbe stato sostituito dalla lingua di un’isola dell’Oceano Atlantico.
Tullio De Mauro
«Sì all’inglese lingua europea. Allarme rosso per la scuola»
De Mauro: l’Italia ignora il tema dell’istruzione, specie quella degli adulti
intervista di Paolo Di Stefano (Corriere della Sera, 3.11.2014)
Punto primo: l’Europa è, storicamente, un’entità multilingue sia pure con importanti spinte di convergenza.
Punto secondo: la questione della lingua in Europa non riguarda solo gli aspetti istituzionali e burocratici, ma è una questione di democrazia, perché è difficile costruire una grande comunità politica democratica se i suoi cittadini non dispongono di una lingua comune.
Punto terzo: come tale, la questione linguistica è un problema che riguarda la cultura e che investe la scuola.
Punto quarto: gli Stati e l’Ue nel suo insieme se ne disinteressano totalmente.
Sono queste, a grandi linee, le tesi che Tullio De Mauro espone nel suo libro, In Europa son già 103 , in uscita per Laterza. Sottotitolo: Troppe lingue per una democrazia? . Con i suoi 82 anni portati appassionatamente, in poco più di 80 pagine, coniugando leggerezza e profondità, De Mauro affronta cronologie, mutamenti, contaminazioni, aspetti geopolitici. Senza dimenticare il caso italiano, per molti aspetti esemplare.
Professore, perché la questione della lingua in Europa è diventata cruciale?
«Se la prospettiva verso cui vogliamo andare è quella di una federazione di Stati, bisogna che ci sia, come già Aristotele insegnava, un terreno linguistico comune. Non è possibile che uno svedese e un napoletano discutano di politiche finanziarie in lingue diverse. E non è possibile delegare la discussione a un’élite ristretta».
Il guaio è che il multilinguismo, come lei mostra nel libro, è un tratto distintivo europeo. Come si può conciliare questa storia con l’aspirazione unitaria?
«Le due cose non si escludono. Ricordo che l’aspirazione all’unità nazionale, statale, intorno all’italiano è stata un filo conduttore della nostra storia. Tanti, compreso qualche linguista, pensavano che l’unità linguistica, raggiunta negli anni Sessanta, avrebbe spazzato via i dialetti, ma non è successo: oggi, dopo cinquant’anni, i dialetti sono ancora vivi. Così, adottando diffusamente una lingua comune in Europa, non è prevedibile che vengano lese le lingue nazionali radicate nella storia e nella cultura».
Lei si sofferma sulle affinità genetiche tra le lingue indoeuropee, sulla prossimità grammaticale e lessicale. Questo cosa significa?
«Già il linguista francese Antoine Meillet diceva, a proposito del vocabolario, che a dispetto dei nazionalismi miopi, tra le lingue europee c’è un fondo comune molto superiore alle differenze, che si è creato grazie a una rete fitta di condivisioni. E lo stesso Leopardi nello Zibaldone scrisse che guardando al vocabolario della cultura intellettuale, ci si accorgerebbe che esiste una specie di “piccola lingua” che accomuna, nelle diversità, tutte le lingue europee e che deriva in gran parte dal latino e dal greco. Il vocabolario inglese oggi è composto al 75% di prestiti dal francese o direttamente dal latino. Ci sono consonanze profonde. L’inglese è tutt’altro che vuoto di spessore culturale, e qualcuno l’ha definito una lingua neolatina ad honorem. Anche per questo sostenere che la sua adozione cancelli le identità nazionali è sbagliato».
Resta il problema della scuola, che in Italia ha già difficoltà a tenere un accettabile livello di formazione nella lingua materna.
«L’insegnamento della lingua materna resta prioritario. Ma il dato più preoccupante riguarda la popolazione adulta. Anche in Germania o nei Paesi del Nord (e persino negli Stati Uniti) più della metà della popolazione ha gravi difficoltà nel leggere e capire un testo semplice o nell’adoperare banali strumenti di calcolo. In Giappone e in Finlandia si arriva al 38%, in Italia si supera il 70. Direi che è un dato costante l’alto tasso di problemi nell’uso completo delle lingue materne: appena uscite dalla scuola, le persone finiscono per perdere ogni capacità».
Dal documento del governo sulla «Buona Scuola» si intravedono segnali in questo senso?
«Semplicemente la “Buona Scuola” ignora il problema linguistico e non fa alcun cenno alla dimensione dell’istruzione degli adulti, che è cruciale per la vita produttiva e per la vita sociale, perché ricade necessariamente sui figli. Una cosa è sicura: il livello di cultura sostanziale in famiglia è determinante sull’andamento scolastico dei ragazzi. Di istruzione degli adulti parlava la legge Berlinguer del 1999, ma da allora è rimasto tutto sulla carta».
La detrazione fiscale sui libri potrebbe servire?
«Se ne parla da anni, i tecnici temono che diventi una fonte di microevasione, ma sarebbe certamente utile, anche se ormai una pizza costa più di un Meridiano».
Al di là della questione lingua, la «Buona Scuola» come le sembra?
«Lasciamo stare la sovrabbondanza di anglicismi persino ridicoli tipo “gamification”... In sé è un documento accattivante, c’è un’atmosfera scherzosa, nello stile di Renzi, piacevole, con contenuti bizzarri. Io non voglio buttarla sul tragico, ma i problemi della scuola purtroppo lo sono: le strutture edilizie, le lacune del personale tecnico, il rapporto con il mondo del lavoro, le prospettive didattiche... Bisognerebbe rimettere mano all’impianto della scuola media superiore, formare gli insegnanti, che hanno ancora una visione disciplinarista e che invece dovrebbero collaborare tra di loro in funzione di una prospettiva trasversale, sul saper ragionare, argomentare, parlare... La “Buona Scuola” tace su questi argomenti, ma in compenso ne parla la finanziaria, che continua a tagliare sulla scuola, per non dire dell’università che è prossima a defungere».
Cosa pensa del Clil, cioè quel metodo che prevede l’insegnamento di una disciplina in lingua straniera?
«Va usato con parsimonia. È già difficile avere dei buoni insegnanti di storia, figurarsi averne pure che parlino bene inglese. Diciamo che è un metodo auspicabile per alcuni insegnamenti universitari, ma per gli altri livelli mi pare poco realizzabile».
La «Buona Scuola» vorrebbe estendere il Clil alle elementari.
«La riforma Gelmini prevedeva corsi di formazione inglese, per insegnanti, di 30 ore faccia a faccia e 20 ore via internet: ma con 50 ore complessive non si arriva neanche all’Abc. Le primarie sono le scuole in cui si lavora meglio, in cui le discipline sono strumentali alla maturazione complessiva del bambino. Nei test internazionali i nostri si collocano al vertice: toccare le elementari sarebbe un delitto, perché i guai cominciano dopo. Le analisi Invalsi mostrano che tra i ragazzi usciti dalla media di base e i maturandi lo scarto di competenze è minimo».
L’iniziativa del Politecnico di Milano di adottare solo l’inglese per gli insegnamenti di master la convince?
«No, neanche nei master si può rinunciare alla lingua materna. Nel mondo ci sono masse di studenti che si spostano, sono i nuovi clerici vagantes : ma è difficile pensare che dei giovani trovino suggestive le università italiane perché offrono corsi in inglese. Quel che conta sono altri fattori: la qualità scientifica e le condizioni dell’accoglienza, ma questi aspetti vengono ignorati».
Tornando alla Babele europea, lei accenna al modello indiano e a quello del plurilinguismo svizzero.
«Lo ripeto: sono contro l’immagine catastrofista secondo cui l’inglese diffuso come lingua standard metterebbe a rischio le lingue nazionali. In India, nonostante le diversità etniche e religiose, l’inglese è diventato negli ultimi 60 anni una lingua secondaria affiancata al sanscrito come lingua nazionale: questo però non ha comportato la morte delle parlate locali, l’urdu e l’hindi. In Parlamento si parla in inglese, nei comizi in una delle 45 lingue locali. L’esempio indiano è interessante per l’Europa».
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Il rischio è perdere il patrimonio del latino
di P.D.S. (Corriere della Sera, 03.11.2014)
Anche le nuove ondate migratorie contribuiscono a cambiare le 103 varietà linguistiche presenti in Europa: gli arabofoni in Francia, i turchi in Germania, i romeni in Italia, i cinesi a Londra, a Manchester, a Parigi, a Berlino, a Prato... Il panorama linguistico europeo presenta una fisionomia eccezionale: i circa 740 milioni di persone dei 50 Stati dall’Atlantico agli Urali usano 62 lingue ufficiali. Di queste, 50 hanno lo status di lingue nazionali ufficiali, altre sono lingue di minoranza. -Ricorda De Mauro che, al di là delle differenze, c’è un patrimonio comune che va valorizzato: «Mentre in India c’è una ripresa molto forte dello studio del sanscrito, mentre nelle zone arabofone resta importantissimo lo studio dell’arabo classico e in Israele c’è un rilancio dell’ebraico biblico, nei Paesi europei si tende a trascurare la tradizione latina. È un’autentica sciocchezza, perché la conoscenza del latino classico resta indispensabile per tutti, anche per gli anglofoni».
In quella che De Mauro definisce l’«innovatività permanente» di ogni realtà linguistica, intervengono oggi, come si sa, i linguaggi tecnologici.
A questo proposito, dal 6 all’8 novembre si terrà a Firenze, organizzato dall’Accademia della Crusca, la VII edizione della Piazza delle Lingue su «L’italiano elettronico». Per informazioni sul convegno www.accademiadellacrusca.it. (p.d.s.)
Nella storia di Obama il vigore degli ibridi
Oggi sappiamo che la divisione degli uomini in "razze" non è giustificata e che la "purezza genetica" nella realtà non esiste. Ma sappiamo anche che sull’incontro tra "diversi" si fonda la forza della vita e della cultura e sono state modellate le più grandi civiltà
di Luca e Francesco Cavalli-Sforza (la Repubblica, 16.11.2008)
Ciò che ci dà più speranza nell’elezione di Barack Obama è che questo grande Paese, che più di mezzo secolo fa ci ha liberato da Hitler, sia anche riuscito a cancellare una delle sue vergogne più gravi: il secolare sfruttamento e disprezzo dei neri. Solo quarant’anni fa negli Stati Uniti la legge ha riconosciuto e imposto la parità di diritti civili. Da noi è prevista dalla Costituzione: eppure, lo immaginate qui un presidente di origine senegalese o keniota, pronipote di uno schiavo?
Resta naturalmente il terribile pericolo che uno dei tanti matti sfrutti un’altra debolezza del sistema americano: l’antica quanto ferrea convinzione dei pionieri che il cittadino debba essere libero di procurarsi qualunque arma ritenga necessaria. La sopravvivenza di questo costume, che mantiene pazzescamente elevata la frequenza di omicidi negli Usa, ha dato occasione a diversi maniaci di uccidere, nel secolo scorso, politici e militanti molto simili a Obama per colore, progetto politico e fascino.
Questa elezione porta anche a riflettere su un fatto importante: Obama è un "ibrido", è cioè il risultato di un incrocio fra due "razze" diverse, un meticcio. Fra gli aristocratici, quando la nobiltà era "di sangue", si diceva anche "bastardo", parola poi diventata un insulto generico.
Oggi sappiamo che la divisione della specie umana in razze non è giustificata. La prova più semplice è che chi vuole farlo non riesce a mettersi d’accordo: le classificazioni vanno da due a trecento razze. Darwin lo aveva già notato, e ne aveva indicato il motivo: la variazione che si osserva da una "razza" all’altra è praticamente continua, oltre che molto piccola. Questo non è vero per gli animali e le piante domestiche, in cui l’identità e la "purezza" genetica di una linea prodotta artificialmente hanno anche, spesso a ragione, un valore economico. Proprio in campo applicato, però, si è scoperto quasi un secolo fa che l’ibrido, anziché soffrire di uno svantaggio, ha maggiore vitalità e valore economico rispetto alle "linee pure" o "razze pure" che sono state incrociate per produrlo.
La "purezza genetica" nella realtà non esiste, con eccezioni molto speciali. Se con "purezza" si intendono individui tutti geneticamente identici fra loro, la si può produrre a volontà solo in specie capaci di riprodursi per via asessuata, come è vero di molte piante e di qualche animale, ma non dell’Uomo, dove solo i gemelli identici sono geneticamente uguali: per il resto, la diversità genetica fra individui di una stessa popolazione, qualunque essa sia, è molto più grande di quella fra due qualsiasi popolazioni del mondo.
Il "vigore degli ibridi", come è chiamato, si nota in varia misura per molti caratteri studiati. La prima specie in cui lo si è scoperto è stato il granoturco: quello che si coltiva oggi è praticamente tutto ibrido. Il contadino è costretto a comprare ogni anno il seme e non può tenerlo da parte da un anno all’altro, ma ne ha chiaramente la convenienza. La pratica di produrre ibridi per uso commerciale è stata poi estesa a parecchie altre piante ed animali.
E nell’Uomo? In passato, il "divino" sangue reale non si doveva diluire: la pratica di sposarsi fra regnanti imparentati diffuse nelle famiglie reali europee alcune malattie ereditarie, come l’emofilia. Nell’antico Egitto e in altri reami vicini si affermò in più dinastie, nella speranza di perpetuare caratteri desiderabili, l’usanza di sposare fratello e sorella. È una pratica che provoca un’elevata incidenza di malattie ereditarie tra i figli, un aumento della mortalità e una diminuzione di fecondità che alla fine estinguono la "linea pura" che si formerebbe continuando così per parecchie generazioni. Non sorprendentemente, queste dinastie non durarono a lungo.
Oggi in più parti del mondo il matrimonio fra parenti molto stretti non è ammesso; però in altre, non meno numerose, le unioni fra consanguinei (anche cugini primi) raggiungono il cinquanta per cento di tutti i matrimoni. Anche questo diminuisce la fecondità e aumenta la mortalità, ma in misura assai più modesta. Qui però la vera ragione non è il desiderio di aumentare la purezza genetica, ma quello di non disperdere il capitale di famiglia.
È molto probabile che il "vigore degli ibridi" valga anche per l’uomo, almeno sul piano genetico. Il meticcio può avere uno svantaggio sociale, se il suo ibridismo viene riconosciuto, e quello fra popolazioni che provengono da continenti lontani è difficile da nascondere. Soprattutto là dove l’immigrazione da paesi distanti è rara, i tipi fisici insoliti si notano di più, e l’individuo "diverso" all’aspetto può colpire sfavorevolmente chi non vi è abituato. Ne nasce diffidenza, se non timore, dettato dall’ignoranza o da pregiudizi fuorvianti su quel che ci si può attendere da una persona superficialmente un po’ "diversa" da noi.
Un’ipotesi difficile da controllare, ma interessante da tenere presente, è che l’eccellenza intellettuale e spirituale dimostrata da Obama nella sua lunga e combattuta campagna presidenziale possa essere dovuta a "vigore degli ibridi". Non è il primo caso di uomo politico, meticcio di origine, eccezionalmente dotato. Martin Luther King è un esempio molto simile. Nelson Mandela, cui si deve una svolta storica in Africa del Sud, è un ibrido fra due "razze" africane parecchio diverse, entrambe nere, che entrambe godono di poca stima fra i razzisti (anche quelli africani, che pure sono numerosi). In Sud Africa vi sono due sole popolazioni antichissime, lì stanziate da decine di migliaia di anni: i Boscimani e gli Ottentotti (i loro veri nomi sono San e Khoi-Khoi). Mandela dev’essere per metà circa di origine ottentotta, e per il resto bantù, una popolazione che giunse in Sud Africa molto tardi,al termine di una lunga espansione, poche centinaia di anni fa.
Il vigore degli ibridi è dovuto a un fenomeno genetico chiamato "vantaggio degli eterozigoti": un’espressione tecnica che ha lo stesso significato, ma riferito alle singole unità di dna. Per comprendere di cosa si tratta risaliamo a Mendel, lo scopritore delle leggi dell’eredità biologica (1865), che eseguì decine di migliaia di incroci tra "linee pure" di piselli, studiando separatamente caratteri ben visibili e costanti, che non mostravano variazione tra individui della stessa linea, per esempio il colore e la forma dei semi o dei fiori, l’altezza del fusto e così via. Vide che nell’incrocio fra linee diverse compare nella prima generazione di solito soltanto il carattere di uno dei due genitori, per cui tutti gli ibridi di prima generazione sono eguali fra loro e eguali a uno solo dei due genitori. Cioè, se uno dei genitori ha fusto alto e l’altro ha fusto nano, tutti gli ibridi hanno fusto alto, ma il carattere fusto nano non è affatto scomparso e ricompare in proporzioni precise nei successivi discendenti, mostrando chiaramente che entrambi i genitori danno sempre un pari contributo ereditario ai figli.
Oggi chiamiamo dna il patrimonio ereditario, e sappiamo che è molto ricco nell’Uomo: ogni genitore contribuisce circa 3,3 miliardi di unità di dna, dette nucleotidi. I caratteri del tipo studiato da Mendel sono di solito prodotti da differenze, fra i due genitori dell’ibrido, in uno solo dei nucleotidi. Il carattere che Mendel chiamò "dominante" perché compare negli ibridi della prima generazione (il fusto alto rispetto a quello nano, per esempio) è sovente più utile all’organismo di quello dominato (che i genetisti chiamano "recessivo", cioè "che si nasconde").
Nella nostra specie, al livello che osserviamo nella vita quotidiana, la fisionomia esterna dell’individuo e parecchi aspetti del suo carattere sono almeno in parte controllati dal dna. In un ibrido fra individui di popolazioni molto lontane il dna dei genitori mostrerà un maggior numero di differenze tra i dna che riceve da padre e madre, rispetto a un individuo i cui genitori sono nati in luoghi vicini. Questo può donare un vantaggio all’ibrido, portando più corde al suo arco: per esempio, una migliore resistenza a un maggior numero di malattie, perché la dominanza fa sì che non sia necessario ricevere da entrambi i genitori il tipo di nucleotide che ci protegge contro una certa malattia, infettiva o meno. Basta riceverlo da uno dei due. Lo stesso ragionamento si può applicare a numerose altre caratteristiche ereditarie, anche di comportamento, compresa la capacità di imparare. L’ibrido può avere insomma un maggior numero di doti, per esempio può essere più adattabile a condizioni ambientali diverse ed eccellere in più capacità.
I politici hanno particolare bisogno di saper lavorare in molte diverse direzioni, data la complessità del loro compito, che richiede di essere buoni oratori, diplomatici, capaci di rispondere rapidamente in situazioni difficili e a persone difficili, di saper analizzare e valutare con buonsenso problemi complessi in campi molto diversi. All’opposto invece un artista, un letterato, un matematico, un musicista, un ingegnere, un industriale hanno bisogno di doti ben sviluppate in una o poche direzioni altamente specializzate.
Ai vantaggi genetici dell’ibrido Obama se ne devono aggiungere anche altri, non genetici, che però hanno un effetto simile: il vantaggio di essere cresciuto in più culture, in ambienti sociali e geografici lontani fra loro - Hawaii, Indonesia, Stati Uniti - ricevendone esperienze e insegnamenti assai diversi. Di avere conosciuto le vite dei neri, dei bianchi, dei meticci, dei ricchi e dei poveri. La sua condizione di ibrido potrebbe forse renderlo più capace della media di ascoltare voci disparate e di parlare a tutti, come la campagna elettorale ha dimostrato. Di avere la visione di un bene comune, fatto di lavoro, istruzione, democrazia e dignità per tutti.
A differenza, in questo, da quei politici bianchi, spesso cresciuti nelle migliori università e nei circoli del potere, che non vedono al di là di ciò che occorre dire a coloro da cui sperano il voto. È forte la tentazione di ipotizzare che il vigore degli ibridi e la varietà delle sue esperienze abbiano contribuito allo sviluppo intellettuale e morale di Obama. Se la diversità è la forza della vita, e il vigore degli ibridi deriva dall’incontro di stirpi diverse, la diversità è anche la forza della cultura e è stata l’humus delle maggiori civiltà. Le sfide che attendono il nuovo presidente degli Stati Uniti sono immani: è incoraggiante pensare che le sue origini e la sua storia lo abbiano attrezzato per affrontarle.
La nazione meticcia così gli immigrati ci cambieranno
di Massimo Livi Bacci (la Repubblica, 16.11.2008)
Ci sono prerogative naturali proprie di ciascun individuo che esistono da che mondo è mondo. Spostarsi, scegliere un partner, riprodursi. Spostarsi in cerca di contesti di vita più convenienti: habitat, clima, cibo, relazioni. La scelta del partner e la riproduzione, per vivere e trasmettere la vita. Prerogative che le società hanno condizionato in vario modo, imponendo regole e comportamenti, ma che non possono essere negate o costrette se non alterando i principi naturali della convivenza. Da queste originano le migrazioni e le unioni "miste" tra persone portatrici di caratteristiche diverse, che generano figli nei quali questi tratti confluiscono e si mischiano.
L’umanità si è formata, plasmata, sparsa e articolata sul pianeta, per la forza di questi processi, ora vorticosi, ora più lenti. Ma quanto "diverse" debbono essere le caratteristiche dei partner perché si abbia una mescolanza, un’ibridazione? Questa diversità è senza dubbio una "distanza" fisica (colore della pelle, degli occhi, dei capelli, statura, altre caratteristiche somatiche) ma è anche una "distanza" culturale e sociale (lingua, religione, nazione) che cambia nel tempo e nella storia. Distanze incolmabili in un’epoca si accorciano in un’altra, e viceversa. Così il grado di mescolanza di una società è difficile da definirsi perché il metro che la misura cambia nel tempo.
Siamo ancora lontani dalle cifre degli Stati Uniti, dove tra una generazione la somma delle minoranze sarà la maggioranza della popolazione. Ma anche da noi - oggi è tra coppie miste un matrimonio su dieci e da coppie miste una nascita su otto - una parte importante del futuro si costruirà sui bambini "extraitaliani"
Si usa contrapporre un’America molto mescolata a un’Europa, e un’Italia, assai più omogenee. L’elezione di Barack Obama rappresenta il pretesto mediatico per contrapporre due civiltà, una dinamica e mescolata, l’altra più stagnante e rinchiusa: ma questa rappresentazione rischia di sconfinare in un biologismo deteriore. Tutta l’America - dall’Alaska alla Patagonia, composta da società dinamiche e società stagnanti - è il risultato di un gigantesco processo di mescolanza iniziato con il tremendo shock della Conquista, con la catastrofe degli indios, con il trasporto forzato di dieci milioni di schiavi africani, con l’immigrazione degli europei, con le mescolanze (spesso forzate) tra padroni e schiavi. Negli Stati Uniti questo processo di ibridazione ha avuto un’accelerazione nell’ultimo mezzo secolo, con la rottura della segregazione dei neri e la nuova immigrazione di ispanici e asiatici: minorities numeriche che tra una generazione diventeranno majority secondo le valutazioni recentissime del Bureau of the Census.
In Europa questi processi hanno avuto una storia assai diversa. Prima dell’età moderna l’Europa è un continente aperto che riceve ondate di immigrazione per la via d’accesso del Mediterraneo e attraverso le steppe tra gli Urali e il Mar Caspio, la grande porta orientale. A partire dalle grandi esplorazioni atlantiche, l’Europa cessa di essere meta di immigrazioni e diventa prevalentemente esportatrice di donne e di uomini. Fin verso la metà del secolo scorso, i non rari tratti mongolici tra i nostri compatrioti non erano dovuti a mescolanze recenti, ma alle unioni illegittime di mercanti e signori, veneziani, fiorentini o genovesi, con schiave tratte dall’Oriente. Il fondamentale atlante antropometrico di Ridolfo Livi (pubblicato nel 1896), basato sulle caratteristiche dei coscritti rilevati alla visita di leva, mostrava inequivocabilmente la permanenza di caratteristiche somatiche (occhi chiari, capelli biondi) derivate dall’immigrazione normanna in alcune aree isolate del Sud. Tuttavia, fino alla metà del secolo scorso - prima che la decolonizzazione riportasse in Europa africani, berberi e arabi, assieme ad antillani, indiani o indocinesi - il nostro continente e l’Italia avevano conservato il loro patrimonio umano quasi intatto da influenze extraeuropee, che millenni di immigrazioni e mescolanze avevano contribuito a formare prima dell’età moderna.
Negli ultimi cinquanta anni il corso della storia è cambiato nuovamente. Dopo mezzo millennio, l’Europa ha cessato di esportare risorse umane e ha iniziato a importarne. Consistenti flussi di immigrazione sono affluiti prima dalle ex colonie, poi dalle più varie provenienze man mano che la globalizzazione si è rafforzata. Nel mezzo miliardo di persone che conta l’Unione Europea, gli stranieri non europei sono un numero imprecisato, tra i venti e i venticinque milioni. In Italia gli stranieri superano abbondantemente i quattro milioni, contando anche la numerosa comunità rumena. Si tratta di una collettività in forte crescita (anche se la crisi ne rallenterà temporaneamente il ritmo) per ragioni demografiche ed economiche, che determinerà una nuova fase di mescolanza e ibridazione della nostra popolazione.
Si tratta di un processo complesso, nel quale si debbono distinguere due modalità nettamente diverse. La prima, la più visibile e immediata, consiste nel formarsi e nel crescere delle varie comunità legate dall’origine nazionale, dalla religione, dalla lingua: rumena, marocchina, cinese, albanese, filippina o ecuadoriana. Queste comunità potrebbero perdere gradualmente la loro caratteristica nazionale con il conseguimento della cittadinanza italiana. È un processo non agevole date le regole nel nostro sistema giuridico, ma destinato ad accelerare con l’aumento delle nascite da cittadini stranieri, e soprattutto qualora lo jus soli sostituisse lo jus sanguinis. Tuttavia queste comunità potrebbero restare nettamente separate e "segregate" di fatto, qualora rimanessero strettamente endogamiche. Come è avvenuto negli Stati Uniti, per gli afro-americani, fino a tempi recenti. Oppure per le comunità degli Amish e degli Hutteriti, gruppi riformati emigrati dall’Europa centrale, e rimasti chiusi ed autonomi per secoli.
Tuttavia è dubbio che nel contesto delle società occidentali queste separazioni e distanze possano durare a lungo, senza essere gradualmente erose dalla contiguità, da una vita sociale comune nelle scuole, nei luoghi di lavoro, di culto, di svago. È però vero che la velocità con cui questi processi di mescolanza reale avverranno - l’indice più rappresentativo è la frequenza dei matrimoni misti - sarà determinato dal vigore delle politiche d’integrazione. Le mescolanze saranno tanto più frequenti quanto più verrà perseguita una politica di insediamento abitativo diffuso e non segregato. Se si rafforzeranno le esperienze educative comuni. Se verrà favorita l’ascesa sociale delle seconde generazioni di immigrati e si combatterà il formarsi di una classe subalterna. Se si opererà in modo che le disuguaglianze tra gruppi immigrati e autoctoni si indeboliscano. Nel 2004 i matrimoni misti (per nazionalità, tra italiani e stranieri) furono il nove per cento del totale (per i quattro quinti si tratta di uomini italiani che sposano una donna straniera), tuttavia quasi due terzi degli sposi e spose stranieri erano europei, appena il cinque per cento asiatici, il dodici per cento africani (in prevalenza Nord Africa) e un residuo venti per cento americani del centro e del sud del continente. Sui loro figli - una nascita su otto proviene da coppie miste - si costruirà una parte importante del nostro futuro.
Giovedì, 13 Novembre 2008 L’UNITÀ DI OGGI
Scuola, l’Onda arriva in Europa: gli Erasmus contro la 133
di Alessia Grossi
Era arrivata già alla ribalta delle cronache il 7 novembre con l’irruzione nel Consolato italiano a Londra. Ora, in occasione della manifestazione degli studenti universitari contro la 133 del 14 novembre a Roma, la «European Anomalous Wave», l’Onda anomala europea, si organizza e si unisce in un unica protesta per manifestare davanti ai consolati italiani delle maggiori città europee. È la rete Erasmus del “No alla 133” che da Parigi, Lione, Madrid, Valencia, Granada, Londra, Bruxelles, Monaco, Amburgo, Copenaghen e Leida, si riunisce in rete per manifestare il dissenso contro i tagli di Tremonti e la “riforma” della Gelmini.
A Valencia, già lunedì gli studenti italiani si sono riuniti in assemblea e hanno prodotto il testo che consegneranno al console italiano perché lo faccia avere al Ministro italiano. «Ci siamo anche noi», dice il testo del video che hanno postato anche su Youtube, che nessuno pensi che gli studenti Erasmus si sentano esclusi. Oltre al documento, per l’occasione gli Erasmus valenciani hanno stabilito un’Assemblea permanente. “Da Valencia contro la 133”, infatti, scrivono nel documento gli studenti, è un «contenitore e di idee e strumento di coordinamento della mobilitazione nata spontaneamente dall’incontro di numerosi erasmus italiani» tutti «uniti, indipendentemente dalle diverse provenienze geografiche e eterogeneità ideologica dal comune senso di disagio nei confronti di una legge che mina le basi, già traballanti dell’Università Italiana».
Insomma, l’Onda dilaga e si fa sentire anche fuori dai confini italiani, si raduna su Facebook, crea siti internet e blog per l’occasione e venerdì molte città europee l’avranno sotto gli occhi.
A Parigi, dove l’Onda «l’onda anomala raggiunge l’attuale sede del presidente di turno dell’UE» come si legge nel comunicato stampa degli Erasmus parigini, la voce studentesca inizialmente si è scoperta molteplice, come dire, prima ancora di coordinarsi, si erano già formati spontaneamente diversi gruppi di protesta.
Anche gli erasmus francesi, come il resto dell’Onda Anomala ha organizzato per venerdì un sit-in sotto al Consolato italiano per consegnare al console «Luca Maestripieri un documento che esprime rifiuto e indignazione verso le riforme della scuola e dell’università proposte dal governo italiano. In seguito, una rappresentanza di studenti si sposterà all’ambasciata italiana portando lo stesso all’ambasciatore Ludovico Ortona». Dopo il sit-in l’Onda sfilerà poi lungo la Senna, non senza sperare nella solidarietà dei Collettivi francesi che starebbero decidendo di manifestare in segno di solidarietà con gli studenti italiani. Questo, perché l’Onda, ha come obiettivo centrale quello di opporsi al fenomeno delle riforme dei Paesi della Comunità europea a discapito della cultura e della ricerca. È per questo motivo che, anche dopo il 14, l’Onda promette di non sciogliersi ma di continuare a lavorare per un sistema universitario e scolastico migliore.
«Religulous» si scaglia contro i predicatori e le celebrità che ostentano la fede
Attacco laico
Le religioni in un documentario «comico»
Cristiani, ebrei e musulmani nel mirino
di Giovanna Grassi
LOS ANGELES - «La religione è una sovrastruttura dell’uomo e del potere. È sempre foriera di traumi, inibizioni, gerarchie. Non solo è pericolosa, ma nasconde anche una ricattatoria fandonia: quella di far diventare gli esseri umani buoni». Questo è l’assioma che sostiene Bill Maher nel documentario che ha scritto e prodotto, Religulous, e di cui ha affidato la regia a Larry Charles (Borat) - il miglior amico di Michael Moore - che, ironia della sorte, con la sua gran barba e sempre vestito di nero sembra proprio un predicatore.
Maher è il «comedian/reporter » più politicamente scorretto d’America: nato a New York nel 1956, è figlio di un noto giornalista della Nbc di adamantina fede cattolica e di una signora di religione ebraica. È stato radiato dalla ABC, con il suo popolare show di interviste e dibattiti (intitolato Politically Incorrect), dopo aver innescato uno scandalo nazionale per aver detto che i terroristi dell’attacco alle Due Torri non erano «vili né codardi ».
Religulous non sarà sicuramente in corsa per gli Oscar, ma resta nella top ten degli incassi Usa a diverse settimane dal debutto; in Italia uscirà il 5 dicembre, dopo essere passato al morettiano Festival di Torino. Il New York Times lo ha definito «il più irriverente, divertente documento sulla fede», ma è anche molto angoscioso e «foriero di interrogativi profondi», ha ribattuto il Los Angeles Times.
Il film è imperniato su una carrellata di predicatori, sette, religioni ufficiali, ortodosse e non dell’ America. Racconta Bill: «Da sempre volevo girare un documentario sulla fede essendo io stato segnato da una crescita divisa tra due religioni. Ho girato il mondo e volevo, non è un paradosso, che il nostro lavoro fosse anche divertente e che, nell’analizzare il potere spesso corrotto che si nasconde dietro tanti culti, instaurasse un dibattito tra intelligenza e stupidità con i suoi discutibili idoli, spesso simili a rock star nella loro leva sulle folle. Ho intervistato centinaia di persone, scienziati, letterati, intellettuali, vescovi, ciarlatani... Ho utilizzato migliaia di spezzoni, compresi quelli di Bush quando afferma, per i suoi tornaconti e crimini di guerra «Dio e Gesù Cristo sono esistiti per dare libertà agli uomini». E anche McCain, che di religione non parla, ma dichiara di credere al diavolo. Tom Cruise seguace di Scientology ha rifiutato l’incontro, ma appare in alcune sue dichiarazioni, come John Travolta, adepto della fede di L. Ron Hubbard».
Che cosa ha divertito e preoccupato di più l’indomito Bill, che da bambino litigava con la madre ebrea e con il padre cattolico, decisi entrambi a imporgli la loro fede (ma per rispetto e amore ha dedicato il film a mamma Julie, defunta)? «Sicuramente - risponde - gli incontri con i predicatori americani, che hanno migliaia e migliaia di fedeli ». Ed ecco gli esempi che più l’hanno colpito: «Due soprattutto rappresentano l’assurdità del bisogno di fede. Il miliardario predicatore Josè Luis de Jesus Mirada che, coperto di oro e con abiti di sartoria ("Perché Cristo è stato e resta una icona fashion") proclama di essere il nuovo Gesù a folle adoranti; l’ex leader gay oggi sposato John Wescott, che ha creato il suo business di fede per convertire tutti i gay alla cristianità e che nega che Gesù abbia mai parlato della materia. E, poi, gli islamici integralisti da me intervistati, i cittadini dell’ America profonda che dichiarano di aver parlato con il loro angelo custode, gli scienziati, gli analisti della religione autori di best seller, il capo della Cannaba Religion, Ferre van Beveren".
Ce n’è per tutti e genitori e figli fanno la fila per vedere e contestare il documentario con striscioni «God helps us» (Dio ci aiuta) o poster irridenti. Dice Maher: «Mi interessa molto la reazione della platea italiana, cattolica e no. Perché avevo solo un obiettivo nel realizzare il nostro lavoro. Far confrontare i popoli con la fede, quindi con la politica, il potere e la propria coscienza ». Scusi, una o due regole di fede per lei?: «Stimolare controversie, essere frugale e sempre ragionare con i fatti».
* Corriere della Sera, 11.11.2008
VIDEO - Rissa tra monaci a Gerusalemme
Fonte Reuters
Una violenta rissa tra monaci armeni e greci ortodossi è scoppiata nella Basilica del Santo Sepolcro, uno dei siti più sacri del cristianesimo. Si tratta dell’ultimo di una serie di scontri tra monaci delle sei diverse confessioni che si contendono il controllo del sito dove secondo la tradizione si trova la tomba di Gesù. - PER VEDERE IL FILMATO, CLICCARE SUL ROSSO.
IL CASO. Il crollo demografico in molti Paesi del Continente avrà effetti decisivi molto presto. Ecco il «j’accuse» dello storico Walter Laqueur
Cara Europa come sei vecchia
DI LORENZO FAZZINI (Avvenire, 12.11.2008)
« È una situazione deprimente, e le prospettiva di un cambiamento per il meglio sono scarse. Resta solo la domanda se ci sarà un peggioramento lento o un collasso. Si diceva un tempo che l’Europa era un gigante economico e un nano politico; ora c’è il pericolo che essa perda anche il suo peso economico». Non fa mistero del proprio pessimismo Walter Laqueur, storico di fama mondiale, nel testo che Marsilio manda oggi in libreria, il cui titolo - Gli ultimi giorni dell’Europa. Epitaffio per un vecchio continente (pagine 224, euro 19,50) - è uno schiaffo a chi crede nelle «magnifiche sorti e progressive» dell’Ue (il guru dell’idrogeno Jeremy Rifkin, tanto per citare un nome).
In questo libro a metà strada tra il pamphlet e l’analisi geopolitica, Laqueur, ebreo nato in Germania nel 1921, poi emigrato in Israele e docente alla Georgetown University di Washington, tratteggia un futuro oscuro per i Paesi dagli Urali all’Atlantico, stretti in un assedio su due fronti. Anzitutto uno interno, il crollo demografico in Germania, Spagna, Italia e non solo (Francia e Gran Bretagna avranno in futuro un tasso demografico simile a quello odierno grazie alle coppie immigrate islamiche). Secondo stime Onu, nel 2100 i tedeschi saranno solo 32 milioni a fronte degli 82 attuali; gli spagnoli raggiungeranno appena i 12 milioni e a casa nostra si conteranno solo 15 milioni di ’indigeni’. Per non parlare dell’inverno demografico che sta attanagliando l’Europa orientale, Russia in testa.
Laqueur critica i «falsi allarmi sulla sovrappopolazione» che andavano di moda negli anni Sessanta e che hanno fatto scuola a livello politico: «La favola della sovrappopolazione in Europa trovò sostenitori influenti come il Club di Roma». E segnala che in concomitanza a questa ’bolla ideologica’ si è andato perdendo il valore della famiglia: «Molti hanno preferito divertirsi piuttosto che essere legati a ogni sorta di obblighi e responsabilità. Proprio quando gli europei avrebbero potuto permettersi più figli, ne hanno invece avuti di meno». Corollario di tale situazione ’fredda’ sul piano della popolazione è la crisi del walfare europeo: la popolazione invecchia, gli immigrati pretendono di usufruire della rete sociale dei Paesi senza un’integrazione che rispecchi, ad esempio, quella degli ispanici negli States. Ciò che si profila dunque all’orizzonte è «un’Europa ormai emarginata e solo spettatrice», in pratica ’un museo’, visto che il turismo è ormai uno dei settori economici più floridi del Vecchio Continente.
L’altro fronte, si diceva: quello esterno è l’immigrazione, principalmente islamica, resa possibile - secondo l’affondo dello storico ebreo - da una certa ’ingenuità’ dei governi europei. Laqueur non rigetta in toto le migrazioni che «possono essere state un fattore di declino delle nazioni, ma spesso le hanno anche rafforzate», si veda i casi Usa, i flussi polacchi in Francia o cinesi nel Sudest asiatico. Quello che l’autore boccia sono i modi con cui gli Stati europei si sono rapportati con tali processi: ha fallito il modello multiculturalista british che «non ha creato l’Islam militante, ma ha creato per esso uno spazio nelle comunità musulmane della Gran Bretagna che non esisteva prima.
Esso ha favorito la formazione di una nazione più tribale, ha ostacolato le tendenze progressiste nelle comunità musulmane e ha dato forza ai leader religiosi conservatori». Perdente è stato anche il filone assimilazionista francese, che ha portato ai noti scontri delle banlieues: «In Francia ci sono più zone escluse ai non musulmani che in Gran Bretagna - scrive Laqueur - e i politologi pensano che il paese vada verso la balcanizzazione in un futuro non lontano». Scartata anche per la modalità di accoglienza dei musulmani in Germania: «La situazione nelle comunità turche è peggiore che in molte città della Turchia, per esempio riguardo alla pozione delle donne». Per non parlare di Spagna e Italia, accomunate da una ’benevola noncuranza’ rispetto al problemaimmigrazione.
Ebbene, dopo tale spietata, e condivisibile, disamina, la cura che offre Lequeur non pare la più appropriata. Egli propone una sorta di appeasement (’pacificazione’) con l’immigrazione islamica, una sorta di ’machiavellica finzione’ con cui ingraziarsi gli europei seguaci di Maometto. Forse ci sarebbe un’altra strada: provare ad imitare gli Usa dove una sana separazione tra religione e politica non impedisce alle organizzazioni religiose di dare il proprio contributo per lo sviluppo sociale sotto l’architrave di una Costituzione da tutti riconosciuta e una cittadinanza che fa di un immigrato un americano di origine ispanica o asiatica, e non un cinese (o messicano) che abita in America.
Dopo decenni di abbandono dello studio della «lingua inutile», il governo britannico si è reso conto che invece aiuta a comprendere ogni idioma: così entro due anni 60 scuole elementari lo reintrodurranno
Londra ci ripensa: più spazio al latino
Bowman (Oxford): «Finalmente si è capito che senza fondamenta salde le case crollano»
Beard (Cambridge): «Il latino è un nuovo mondo culturale che si apre davanti agli occhi dei bambini»
DA LONDRA ELISABETTA DEL SOLDATO (Avvenire, 11.11.2009)
Se l’attrazione nei confronti dell’Antica Roma non è mai tramontata tra gli scolari del Regno Unito, lo studio della lingua latina ha certamente visto tempi migliori al punto che l’insegnamento di questa lingua è quasi scomparso dal curriculum nazionale per dare spazio a lingue moderne considerate ’più utili’ come il francesce, lo spagnolo e il tedesco e più recentemente il mandarino e l’arabo.
Ora però il latino sta tornando alla ribalta e a partire dal prossimo anno sarà insegnato in almeno sessanta scuole statali. Lo ha stabilito il ministero dell’Infanzia, scuola e famiglia nell’ambito di un progetto il cui scopo è quello di rendere, entro il 2011, le lingue straniere obbligatorie già dall’età di sette anni. «Finalmente - ci dice il professore di Storia antica Alan K Bowman, della facoltà di Studi classici dell’Università di Oxford - il governo ha capito che senza le giuste fondamenta le case crollano. Il latino è essenziale per capire la struttura di una lingua. Purtroppo in Gran Bretagna lo studio della grammatica, quella inglese intendo, è stato abolito nelle scuole molto tempo fa, già dagli anni Settanta, e da allora i ragazzi hanno perso la capacità di ordinare le parole, riconoscere le forme verbali, le concordanze e i generi. È ovvio che oggi, messi di fronte all’apprendimento di una lingua straniera, sono in difficoltà».
È d’accordo la baronessa O’Cathain, che da anni si batte affinché nella lista dei corsi di lingue straniere offerti ai membri della Camera dei Lord venga inserito anche il latino. «È un arricchimento - spiega - perché ci permette di capire più a fondo la nostra storia culturale e spirituale. Ci permette, per esempio, di leggere in lingua originale testi considerati pietre miliari della letteratura e filosofia occidentali».
Peter Downes, che dirige il progetto promosso oltre che dal ministero dell’Infanzia, scuola e famiglia anche dal sindacato dei presidi e dalla Esmèe Fairnbairn Foundation , ha chiesto espressamente che il latino venga incluso in tutte le scuole, in quanto fornisce agli insegnanti un metodo efficace per far imparare ai bambini la struttura di una lingua oltre ad avere, spiega, «molti legami interdisciplinari con lo studio della storia e delle civiltà».
Il progetto ha fatto tirare un sospiro di sollievo a quei professori, sempre più rari , che pensavano di avere una carriera segnata da una fine imminente. Meno del quindici per cento delle scuole statali del Regno Unito attualmente insegnano il latino e il numero di insegnanti qualificati sta crollando a picco. Ogni anno sono trentacinque i professori di latino che vengono chiamati a fare il tirocinio ma ogni anno più di sessanta lasciano la professione. «L’insegnamento nelle scuole di questa lingua - continua il professor Bowman - è in declino da anni, al punto che fino a oggi temevamo che nei giro di una decade sarebbe scomparsa definitivamente dal curriculum. Purtroppo qui, ma anche altrove nel Vecchio continente, questa lingua classica ha da anni la reputazione di essere una lingua morta, inutile o d’élite. Non è così, metodi di insegnamento adottati da alcune scuole statali, come quello di insegnare attraverso l’uso di fumetti per esempio, si sono dimostrati non solo produttivi ma anche divertenti ed estremamente coinvolgenti. È inoltre interessante notare come nelle zone meno agiate i ragazzi si sentano particolarmente attratti a questa materia, come se conferisse loro una sorta di orgoglio o dignità».
Qui a Oxford, continua il professore, «il latino è sempre stata una materia importante, ma è nelle scuole primarie e secondarie che deve diventare più accessibile. Fino a oggi le maturità con il latino sono tra le più difficili ed è per questo che molti dei ragazzi dotati per le lingue alla fine scelgono di portare il francese». Anche Mary Beard, professore di Studi classici all’Università di Cambridge, si dice entuasiasta del progetto del governo: «Il latino è un nuovo mondo culturale che si apre davanti agli occhi dei bambini e, anche se questi non vanno avanti a leggere Virgilio, possono sempre trarne piacere e benefici».
Prof nei guai per versione di latino sul premier
In un liceo di Trani testo tratto da Internet, interrogazione Pdl *
TRANI - Una versione di latino da tradurre con protagonista Silvio Berlusconi. E’ l’esercizio che una professoressa del liceo scientifico ’V. Vecchi’ di Trani, in Puglia, ha proposto agli alunni della sua 3a C, secondo quanto riferisce oggi il Giornale, e che le è costato un mare di guai. Un testo, scrive il quotidiano, riferito all’attualita’ dal titolo ’Silvius Berlusconi apud iudices vocabitur’, cioe’ ’Silvio Berlusconi sara’ chiamato davanti ai giudici’. Il Giornale, poi, riporta alcuni passaggi del testo, dove si parla del Lodo Alfano (’’Legem nomine ministri Alfano appellatam’’) e della sua incongruenza con la Costituzione italiana (’’Legi supremae incongruam esse’’). C’e’, inoltre, un riferimento alla richiesta per Berlusconi di comparire davanti ai giudici per i reati di cui e’ accusato (’’In ius vocabitur’’).
La versione è stata tratta da un notiziario internet in lingua latina, Ephemeris. Il testo, pubblicato in rete nello scorso mese di ottobre, descrive la situazione creata dalla bocciatura da parte della Corte costituzionale del lodo Alfano. Nella home page Ephemeris presentava ai suoi lettori insieme con la questione di Berlusconi e del lodo Alfano i titoli dei principali servizi sugli avvenimenti della settimana. Compresa l’attribuzione del premio Nobel per la Pace al presidente Usa, Barack Obama, e del Nobel per la letteratura alla "scriptrix germana Herta Müller". Nella Wikipedia in lingua latina (Vicipaedia-Libera encyclopaedia) si spiega che "Ephemeris est periodicum latinum interretiale latine scriptum". Creato in Polonia il sito viene pubblicato dal 2004.
"Mi rivolgerò ad un avvocato perché l’articolo e i commenti ad esso, su internet, mi offendono e mi diffamano. Io una militante? Sì, lo sono, della parrocchia di San Giuseppe, da 25 anni". Piange e respinge tutte le accuse che le sono state rivolte la professoressa di lettere Angela Di Nanni, di Trani, che è finita oggi sulla prima pagina de Il Giornale che l’accusa di avere redatto per i suoi studenti una versione in latino dedicata al lodo Alfano e alle vicende giudiziarie del premier. L’accusa del quotidiano di Vittorio Feltri è di essere politicizzata, una "militante" anti-Berlusconi. "Questa persona, che non posso definire giornalista visto che non ha verificato quanto riporta - afferma Di Nanni - vorrei guardarla negli occhi e capire perché ha mentito". "Nel testo che ho fatto tradurre - spiega - il nome Berlusconi non c’era perché il titolo non l’avevo dato ai ragazzi". "A me - continua - interessava il periodo che comincia da ’tribunal’ in poi, con la sentenza della corte costituzionale, mi interessava dal punto di vista del tipo di costrutto sintattico, appena spiegato ai ragazzi". La professoressa si sente offesa anche molto "per la frase sul ’latino fai da te’, perché - spiega - io faccio studiare e tradurre i classici. Questo era un modo per iniziare con una classe che ho preso quest’anno". "Quanto accaduto è grave - conclude - e sono convinta che i miei ragazzi non c’entrino, apprezzo la loro solidarietà e quella dei colleghi e del preside, amo il mio lavoro, lo faccio anche dedicandogli, gratuitamente, il mio tempo libero, e non mi sarei mai immaginata nulla di simile".
Sulla versione di latino riguardante Silvio Berlusconi data da una docente ai suoi alunni di terza nel Liceo scientifico ’W.Vecchi’ di Trani, l’on.Gabriella Carlucci, vicepresidente della Commissione bicamerale per l’infanzia, ha annunciato un’interrogazione, definendo l’episodio ’’un atto gravissimo’’. ’’E’ una vergogna - ha detto - che si usi la cattedra per fare propaganda politica e per dileggiare e offendere il presidente del Consiglio’’. Carlucci annuncia che nell’interrogazione chiedera’ al ministro dell’istruzione, Mariastella Gelmini, di ’’aprire immediatamente un’inchiesta sull’accaduto e di verificare se vi siano gli estremi per richiami ufficiali e sanzioni disciplinari’’. ’’Tentare di orientare ideologicamente le menti di giovani ragazzi in formazione - conclude Carlucci - significa tradire la propria missione di educatori. Come parlamentare eletta nella zona di Trani sono davvero indignata. Spero che i dirigenti scolastici regionali e provinciali vogliano prendere anche loro immediati provvedimenti’’.
Se le foglie sono malate, il male è nelle radici! Errori di ortografia, grammatica, sintassi derivano da un tipo di apprendimento “naturale”della lingua come avveniva un tempo per il dialetto parlato in famiglia. Non è difettoso il metodo naturale, ma il fatto che l’apprendimento della lingua non è stato, con molta probabilità, accompagnato da adeguate letture per consolidare la conoscenza.
Lo studio delle regole stimola la riflessione sulla lingua, sul suo uso e sull’elaborazione del pensiero: tre livelli strettamente connessi. Ora pare che il latino sia, in tal senso, l’ultima spiaggia, l’ultima salvezza... Speriamo che non lo snaturino, che non lo usino, che non lo tramutino in “tecnicismo”, ma che lo "vivano" e, soprattutto, che vivano l’Humanitas...