Si dice che non fosse possibile prevedere i rischi della finanza globale e le sue conseguenze. Non è vero. È vero invece che le previsioni di questi rischi hanno spiegazioni di carattere morale. Per questo sono state trascurate e delegittimate. La finanza ha in qualche modo voluto imporre una sua autonomia morale, con risultati che sono sotto gli occhi di tutti.
Già trent’anni fa era stata prevista l’impossibilità di assicurare lo sviluppo economico sostenibile con una crescita demografica pari a zero. Ci si domandava se fosse logico ed etico proporre l’illusione di uno sviluppo fondato solo sulla crescita individuale dei consumi. Se fosse logico ed etico far assorbire dalla crescita dei consumi la crescita dei costi sociali (pensioni e sanità) provocando l’aumento delle tasse. Se fosse logico ed etico trasformare un popolo di risparmiatori in un popolo di consumatori indebitati. Se fosse logico ed etico imporre all’uomo globalizzato di andare a cercare lavoro lontano da casa.
Si accettava poi come molto etico (anche se non molto logico) permettere a tutti di avere una casa, anche a chi non poteva permetterselo. Furono così inventati i mutui subprime, con le conseguenze che conosciamo. Questo modello è un classico esempio di fine buono - la casa per tutti - perseguito con mezzi cattivi, cioè con una struttura finanziaria insostenibile. Ci si domandava quindi se fosse etico finanziare questo modello con i risparmi dei cittadini, investiti spesso in prodotti finanziari incomprensibili. E ci si domandava anche se fosse logico ed etico accettare che le banche adottassero modelli concorrenziali centrati sulla crescita di valore per gli azionisti, costringendole così a produrre rischi eccessivi e poca trasparenza pur di dimostrare la crescita degli utili.
Le domande, dunque, erano moltissime. Ma a esse si è risposto con altre domande: cosa c’entra l’etica? E quale etica, poi? Ora però s’impone un altro quesito: quale sarà il costo di questo deficit etico? Dopo l’illusione di ricchezza di questi anni la prima conseguenza è che per un po’, finché non sarà assorbito il disavanzo prodotto, le banche finanzieranno meno il sistema economico, che, a sua volta, produrrà meno e pagherà meno. Noi consumeremo meno e risparmieremo meno. In pratica vivremo più poveramente. E saremo inoltre costretti ad accettare una qualche forma di statalismo a sorpresa, secondo gli strumenti che verranno adottati: maggiori tasse e inflazione, minori tassi e remunerazione dei risparmi - probabilmente sotto il tasso di inflazione - che rappresenteranno così un’imposta occulta di trasferimento della ricchezza.
L’invito di Benedetto XVI è quindi opportuno. Il Papa ci ricorda innanzitutto che il denaro è solo uno strumento e, in quanto tale, non deve distrarci dai fini. È vero che se non si crea ricchezza non la si può distribuire, ma se si crea male - come è successo in questi anni - si distrugge un doppio valore: quello della ricchezza e quello dell’uomo. Il modello di capitalismo inconsistente degli ultimi anni ha dato vita a un’utopia economica che a sua volta ha causato gravi degenerazioni.
Il valore dell’individuo è stato infatti valutato su quanto egli potesse guadagnare, spendere, consumare. Ma anche a questo, ormai, non crede più nessuno e regna la sfiducia. Nella società la fiducia è un valore economico fondamentale, ma lo si capisce quando viene a mancare. La fiducia si fonda sulla condotta etica degli operatori e produce miglioramento della concorrenza, credibilità, motivazione e cooperazione; consente stabilità, garantendo valore finanziario all’impresa e permette sviluppo, stimolando creatività ed efficienza. Il mercato oggi chiede soprattutto certezze e rispetto delle regole: la scorrettezza nella finanza produce infatti un costo inaccettabile per la collettività. Ma per risanare l’economia e generare nuova fiducia è necessario prima di tutto superare il deficit di logica e di etica che ha segnato questi anni. Altrimenti le soluzioni saranno solo temporanee.
* ©L’Osservatore Romano - 9 novembre 2008.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Federico La Sala
Il «dopo» sarà un mondo diverso: la nuova rotta si traccia insieme
Passata l’emergenza sanitaria, dovremo prepararci a una navigazione incerta. L’analisi di Sebastiano Barisoni nel nuovo libro «Terra incognita» (Solferino»)
di FERRUCCIO DE BORTOLI *
Sebastiano Barisoni è una voce nota e apprezzata. Dai microfoni di «Radio 24», di cui è vicedirettore esecutivo, dà corpo a un racconto dell’economia ricco più di testimonianze reali che di analisi accademiche. Barisoni privilegia le preoccupazioni e i sentimenti di chi soffre la crisi e rischia sé stesso e la propria attività sul mercato ogni giorno. E a volte ci lascia la pelle. La verve del cronista, cui non si dovrebbe mai abdicare, non gli fa trascurare il ruolo che hanno in economia le aspettative, le emozioni, gli umori e le ambizioni personali. Variabili non secondarie che nemmeno il più sofisticato degli algoritmi sa (per ora?) prevedere.
Nel suo ultimo libro Terra incognita. Una mappa per il nuovo orizzonte economico (Solferino), il vicedirettore di «Radio 24» si incarica di sfatare un luogo comune abbastanza diffuso. L’idea nostalgica - la retrotopia, nella definizione di Zygmunt Bauman - secondo la quale, passata l’emergenza pandemica, si riprenderà da dove la globalizzazione, nel bene e nel male, si era interrotta. Scordiamocelo. Sarà un mondo diverso. Inesplorato. Dovremo fare tesoro degli errori, tanti, commessi in questi anni. Ma non illuderci di riprendere vecchie abitudini come avviene dopo un evento atmosferico, per quanto devastante. Non si ricostruisce, si reinventa.
«Ci risvegliammo storditi in mezzo al mare come certi marinai inglesi
che venivano prima tramortiti mentre ballavano ubriachi nelle osterie del porto, e poi forzatamente imbarcati». Questa è la metafora che l’autore impiega per descrivere ciò che accadde nel mondo occidentale dopo la crisi finanziaria del 2008-9. Era già allora una rivoluzione, non una crisi passeggera. Lo è ancora di più oggi.
Abbiamo tratto un’utile lezione da quella «tempesta perfetta»? No perché il «patto faustiano», come lo chiama Barisoni, tra la finanza e la politica, che creò l’illusione del denaro facile e le perversioni della turbofinanza, non è stato oggetto di un ripensamento profondo e sincero. Quanti titoli tossici ci sono in giro oggi? Non li chiamiamo più così ma ci sono. Dalla crisi finanziaria dei cosiddetti subprime, nacquero negli Stati Uniti due movimenti, il Tea Party, a destra, e Occupy Wall Street, a sinistra, da cui eruttarono proteste che, tracimando nell’Europa flagellata dai debiti sovrani, diedero linfa ai vari populismi.
La rivolta dei ceti medi impoveriti, la paura dell’immigrazione disordinata. Oggi la sinistra progressista tenta di recuperare i consensi perduti sognando un asse ideale fra il neoeletto presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, e il fresco leader del Labour, Keir Starmer. Rievocando così sintonie antiche (dell’altro secolo) fra Bill Clinton e Tony Blair, dei quali si dimenticano spesso - come spiega bene Barisoni - le responsabilità nella deregulation finanziaria. Nel prepararsi a una navigazione incerta, che non può essere a vista, dobbiamo temere più l’incertezza del rischio. La prima produce l’angoscia. Quando non si sa dove andare, come scrive Seneca, non vi è alcun vento che possa essere favorevole. Ma il secondo, il rischio, è indispensabile. Per coltivare nuove ambizioni senza adagiarsi nell’illusione (accresciuta dal rinnovato ruolo dello Stato e del ritorno all’indebitamento facile) di essere comunque protetti perché cittadini. Senza rischi non c’è innovazione, non c’è crescita. Bisogna provarci. E poi ci sono i sacrifici. Necessari anche per temprare gli animi degli esploratori inconsapevoli. «Vorrei non sentire più genitori - scrive Barisoni - che dicono del figlio che si è dovuto sacrificare per fare carriera. No, ha reso sacro il rapporto con il lavoro. È molto diverso». Sono tre le «i» della rivoluzione tecnologica e sociale in corso, secondo Barisoni. È indistinta, dunque colpisce tutti. Irreversibile, la nostalgia non è solo fuori luogo è persino pericolosa. Infine, è imprevedibile. Non si tratta di rassegnarsi ai guai, ma di adattarsi come l’Italia ha fatto, bene, nei suoi anni migliori.
Il singolo cittadino è colto però da una sorta di schizofrenia. «La rivoluzione è bellissima - scrive Barisoni - fin quando possiamo scegliere il meglio, ma diventa un problema quando siamo noi ad essere scelti». Apprezziamo le libertà di comprare online, ma ci rammarichiamo quando ciò è causa della chiusura di un’attività commerciale e della perdita del lavoro. Sfruttiamo le mille opportunità di una società low cost ma non vorremmo mai pagarne le conseguenze in termini di minori salari e occupazioni ancora più precarie. Il consumatore ha il coltello dalla parte del manico ma spesso non si accorge che lo sta rivolgendo contro sé stesso.
La neosobrietà dell’era dei social network è una continua, a volte affannosa, ricerca del valore aggiunto. Una vita sul margine, spesso esiguo, sottile. Barisoni definisce i giovani «rabdomanti del valore aggiunto» per i quali condividere è meglio che possedere, ma nei quali matura la convinzione (rafforzata dal virus) del valore di una comunità coesa di valori.
«Non è la nave più grande ad avere maggiori possibilità di successo di fronte ai grandi cambiamenti ma quella che è più capace di adattarsi». Meno attraente di vascelli individuali, ma più sicura. Lo smart working è un’opportunità preziosa offerta dalla digitalizzazione ma non il destino ineluttabile di una società polverizzata in tante solitudini. Profonde anche se connesse. E individua nell’empatia e nell’intelligenza emotiva le bussole di un nuova cittadinanza più attenta all’ambiente, all’economia circolare, alla sostenibilità delle produzioni. -L’empatia non disegna - sostiene in fondo Barisoni - una mappa completa per viaggiare in sicurezza in acque sconosciute ma rappresenta dopotutto qualche stella nel buio. Indispensabile per orientarsi. E non è poco.
L’incontro su corriere.it
Il libro di Sebastiano Barisoni, «Terra incognita. Una mappa per il nuovo orizzonte economico», è pubblicato da Solferino (pp. 190, euro 16). L’autore, intervistato da Paolo Mieli, racconterà il suo libro online su corriere.it giovedì 10 dicembre alle ore 14.
*Corriere della Sera, 04 dicembre 2020 (ripresa parziale).
di Federico Rampini (la Repubblica, 11 agosto 2012)
«Gli scandali bancari hanno distrutto la fiducia del pubblico, ricostruirla sarà una sfida», commenta amaro il capo della vigilanza sulla City di Londra, Lord Turner. L’Economist ha coniato un neologismo, "banksters", facendo la fusione banchiere-gangster. Il New York Times sentenzia: «I banchieri non sentono né il vincolo della legge né quello della morale». Vi sembra di rileggerei titoli del 2008, l’anno del crac sistemico originato dai mutui subprime?
Invece sono cronache di questi giorni. Imperterriti, impuniti, i banchieri colpiscono ancora. Goldman Sachs era finita sotto inchiesta per frode da parte del Dipartimento di giustizia americano per aver venduto titoli legati ai subprime e al tempo stesso aver scommesso con dei derivati sul loro fallimento. Un guadagno da più di un miliardo di dollari. Ma ieri gli investigatori hanno rinunciato al processo penale. Come se nulla fosse accaduto, la finanza cattiva è più forte che mai.
L’ultima: Standard Chartered, gloriosa banca britannica molto radicata sui mercati asiatici, è stata colta in flagrante complicità con l’Iran. Calpestando le sanzioni, ha nascosto 60.000 operazioni per un valore di 250 miliardi di dollari con il regime di Teheran. Il mese scorso era stata la sua consorella Hsbc a confessare: riciclaggio di denaro sporco dei narcotrafficanti, e ripetute violazioni delle leggi bancarie americane.
E’ ancora fresca la vicenda della JP Morgan Chase, un buco di bilancio da 5,8 miliardi di dollari per speculazioni azzardate (e possibilmente illecite) sui derivati. Nel suo piccolo anche l’Italia si affaccia nell’elenco: vedi il caso dell’amministratore delegato di Medio-banca, Alberto Nagel, indagato per ostacolo all’autorità di vigilanza nel pasticcio Ligresti-Fonsai. Ma perfino questi scandali recenti impallidiscono di fronte alla "madre di tutte le truffe", la vicenda del tasso Libor. Una frode così gigantesca, operata con tale spavalderia e arroganza, che perfino il capo supremo della banca più coinvolta, il dimissionario Robert Diamond di Barclays, ha dovuto ammettere di sentirsi «nauseato, fisicamente sconvolto» di fronte alle email che i suoi trader si scambiavano nel corso della maxitruffa.
Lo scandalo del Libor sembra aver superato ogni limite. In confronto appaiono quasi veniali la vicenda dei mutui tossici che provocò il tracollo globale del 2008, o le frodi sui rating delle grandi agenzie S&P e Moodÿ s. Come spiega Gary Gensler, presidente di una delle authority di vigilanza sui mercati finanziari americani (la Commodity Futures Trading Commission), la manipolazione illegale del Libor «mette in discussione l’affidabilità di un tasso-chiave, un tasso che determina i rendimenti per i risparmiatori che cercano di assicurarsi un futuro, o i costi dei mutui per la casa». Accertare che veniva truccato il Libor, è come scoprire che qualcuno ha il potere di modificare la misurazione delle ore, o della temperatura, a fini di lucro. Se è così, non possiamo più essere certi di nulla.
Cos’è il Libor, esattamente? L’acronimo sta per London Interbank Offered Rate. E’ il più importante e universale di tutti i tassi d’interesse interbancari, una sorta di "termometro centrale" della finanza, da cui ne dipendono tanti altri che toccano la nostra vita quotidiana. Ogni mattina prima delle ore 11 di Londra, i dirigenti di 19 banche globali si coordinano per annunciare il "minor tasso di mercato" quale viene misurato in quella giornata. Sulla base di quel tasso le banche si regolano per farsi credito l’una con l’altra. A cascata, dal Libor dipendono i tassi sui prestiti ai consumatori, sul credito rateale per l’acquisto di automobili, sui mutui per la casa, sui fidi bancari alle imprese. Il Libor influenza in cento modi i bilanci dei fondi pensione, perfino delle finanze pubbliche.
Solo di recente la Barclays ha ammesso di avere sistematicamente truccato quel tasso "ufficiale" per almeno quattro anni consecutivi, dal 2005 al 2009. Lo ha fatto per interesse privato. Per ora ci ha rimesso la poltrona il suo chief executive Diamond, e la Barclays ha patteggiato il pagamento di 453 milioni di dollari di multe, ma presumibilmente questa vicenda è solo agli inizi. Si sospettano collusioni nelle authority di vigilanza, le accuse rimbalzano tra New York e Londra.
Già ora è chiaro che la Barclays non può avere agito da sola. Tra le banche sospettate di essere le sue complici nel "cartello" (definizione della Commissione Ue), sono sotto indagine Citigroup, JP Morgan Chase e Hsbc. L’economista John Stodder Jr. le descrive come «istituzioni un tempo rispettate, oggi infettate dall’avidità, che hanno sovvertito il capitalismo e rapinato i pensionati». Gli Stati della California, New York, Florida, Connecticut e Maryland sono pronti a costituirsi parte civile per i danni subiti nei loro bilanci. Si unirà a loro il Calpers, il più grande fondo pensione del mondo, che eroga gli assegni previdenziali per gli statali della California: anch’essi derubati dal "cartello" del Libor.
Ma processi e maximulte servono a qualcosa? L’interrogativo è legittimo, a quattro anni dalla «madre di tutte le crisi finanziarie»: era ragionevole pensare che il disastro del 2008 provocato dalla finanza tossica avrebbe vaccinato il sistema bancario dai comportamenti più distruttivi. Non è andata affatto così. La truffa del Libor, come si vede dalla sua cronologia, si è prolungata anche nel 2009 cioè dopo che le maggiori banche occidentali erano finite sotto tutela statale, assorbendo ingenti risorse pubbliche per i loro salvataggi. Erano istituti di credito semi-nazionalizzati, salvati dalla bancarotta con i soldi dei contribuenti, e continuavano a rubare.
Com’è possibile? Dov’è l’origine profonda di un degrado così diffuso, così pervasivo, così incurabile? Una rispostala fornisce l’analisi delle ultime sanzioni somministrate in America contro le aziende colpevoli di frode ai danni dello Stato. Magistratura e organi di controllo colpiscono con velocità e con severità negli Stati Uniti, eppure non basta. Dall’inizio di quest’anno siamo già a quota 8 miliardi di dollari di multe, più del doppio di tutte le multe del 2011 (nell’aggregato non ci sono solo le banche ma tutte le imprese sanzionate, incluse le aziende farmaceutiche e petrolifere). A seguire l’escalation degli scandali, sorge il dubbio che le sanzioni non siano un deterrente efficace. Forse perché colpiscono le società, ma non i loro capi.
Lo dice apertamente il senatore Jack Reed, democratico del Rhode Island: «II cittadino si chiede com’è possibile che tante imprese commettano reati gravi, e tuttavia nessuno dei dirigenti viene colpito individualmente». In realtà non è proprio così: la sola authority di Borsa, la Securities and Exchange Commission (Sec), ha perseguito 55 top manager con 2,2 miliardi di multe. E’ vero però che nella maggioranza dei casi la giustizia è impersonale, incrimina l’azienda anzi ché i suoi capi, i quali pur dimissionati a volte si ritirano con "paracadute d’oro", bonus e super-pensione. La spiegazione va cercata nel tradizionale pragmatismo dei sistemi giudiziari anglosassoni, in particolare quello americano, che preferisce "andare a caccia delle tasche più capienti" ("go after deep pockets"), cioè puntare dritto verso le finanze aziendali dove si possono estrarre le multe più pesanti.
Questo realismo, che bada al sodo e vuole massimizzare l’incasso di multe per lo Stato, ha un effetto collaterale perverso. Le grandi società per azioni spalmano le multe nei loro bilanci, scaricandole sugli azionisti e in ultima istanza sui clienti attraverso aumenti di prezzi, tariffe, commissioni e interessi.
Per il top manager dunque non c’è un disincentivo sufficiente. Un responsabile della vigilanza bancaria Usa di recente ha confessato al New York Times: «I banchieri oggi mi sembrano perfino più prepotenti di quanto fossero prima della crisi». L’impunità individuale alimenta l’arroganza. Lord Turner arriva a conclusioni analoghe: «La dimensione dell’attività finanziaria è aumentata, il suo peso sull’economia è sempre più largo, di conseguenza i potenziali benefici dalle frodi sono ancora maggiori». Il crimine paga, se a rapinare la banca è il banchiere stesso.
La metastasi è così grave e pervasiva, da provocare un clamoroso ravvedimento in uno dei più grandi banchieri d’America. Il caso del "banchiere pentito" è quello di Sanford Weill, colui che negli anni Novanta guidò la folle corsa verso il gigantismo della finanza. Weill fu l’artefice della fusione tra Citibank e Travelers, da cui nacque il colosso Citigroup. Ebbe un’influenza politica notevole, ispirando la "convergenza bipartisan" verso la deregulation finanziaria. Fu uno degli attori-chiave nell’iter della legge Gramm-Leach-Biley del 1999, che con il voto repubblicano e democratico, e la firma dell’allora presidente Bill Clinton, accelerò fusioni e acquisizioni. Quella legge segnava la fine della regola sacra contro la "mescolanza dei mestieri", applicata dopo il crac di Wall Street del 1929.
La storica legge Glass-Stegall del 1933, approvata per volere di Franklin Roosevelt nella Grande Depressione, vietava alle banche che raccolgono depositi dei risparmiatori, di usarli per investimenti speculativi o per acquisire partecipazioni azionarie. Era una sana divisione dei rischi, andata in frantumi nel 1999 sotto i colpi del pensiero unico neoliberista. Oggi Weill fa autocritica. «Dobbiamo tornare a separare i banchieri d’investimento dalle banche di deposito», ammette l’ex fondatore di Citigroup.
Prima di lui, lo va dicendo da quattro anni Paul Volcker, il grande saggio della finanza, che fu presidente della Federal Reserve. Volcker nel 2008 era uno dei consiglieri più ascoltati da Barack Obama. Poi il presidente dovette prendere le distanze dai suoi suggerimenti troppo radicali. Non sarebbero mai passati al Congresso, davanti allo sbarramento delle lobby bancarie. Il che ci riporta all’origine stessa della crisi, la rottura degli equilibri fra oligarchie finanziarie e governi. Sicuri della loro impunità, i banchieri hanno "investito" nella politica e ne sono diventati spesso i padroni, o almeno dei robusti azionisti con potere di veto. Senza aggredire il loro potere, e possibilmente smembrare le basi stesse del loro "perimetro aziendale", la lista degli scandali è destinata ad allungarsi, insieme al bilancio dei danni sociali e collettivi.
“Disfunzioni psicopatologiche Gotti Tedeschi va cacciato”
di Marco Lillo (il Fatto Quotidiano, 9 giugno 2012)
I documenti che pubblichiamo in esclusiva oggi sarebbero una buona base per un legal thriller dentro le mura leonine. Nemmeno John Grisham e Dan Brown avevano ipotizzato la seguente scena descritta in una delle lettere: Pietro Lasalvia, ‘psicoterapeuta e ipnoterapeuta’, come scrive nell’incipit della sua roboante carta intestata (nella quale prosegue vantando le seguenti specializzazioni: “psicoterapia occupazionale; perfezionato in psichiatria di consultazione, e clinica pscicosomatica; specializzazione in psicoterapia; iscritto nell’elenco degli psicoterapeuti presso l’Ordine dei medici; professore a contratto presso il corso di laurea nella professione sanitaria, seconda facoltà di medicina e chirurgia La Sapienza”) nel marzo scorso arriva a scrivere una sorta di diagnosi a scoppio ritardato sul conto del presidente dello IOR. Lasalvia è un medico che si occupa della salute sul lavoro dei dipendenti dello IOR ed è in ottimi rapporti con Paolo Cipriani, il direttore generale, il vero uomo forte dello IOR, che è in forte contrasto con Gotti Tedeschi.
La festa di Natale
Prima delle feste di Natale 2011 viene invitato a un rinfresco allo IOR e, casualmente, per tutta la serata osserva a sua insaputa il comportamento del presidente dello IOR sotto il profilo medico per poi stilare un rapportino che finisce però solo tre mesi dopo, casualmente quando infuria lo scontro su Gotti, tramite la direzione generale dello IOR, sul tavolo della Segreteria di Stato. Questa sorta di certificato diventa così un’arma che i nemici del presidente brandiscono sulla sua testa e che dà forza e fondamento medico ad altri due documenti che pubblichiamo: la lettera del segretario del consiglio dello IOR Carl A. Anderson e la missiva del vicepresidente Ronaldo Hermann Schmitz. Entrambe le lettere dei due uomini forti dello IOR sono dirette a Tarcisio Bertone e contengono accuse pesantissime a Gotti Tedeschi.
Complotto giudaico-massonico
Le due lettere sono scritte alla vigilia del consiglio del 24 maggio che segnerà la sfiducia e la cacciata di Gotti Tedeschi e sono indirizzate al ‘primo ministro’ del Vaticano per chiedere la testa di Gotti.
Nei giorni precedenti Gotti Tedeschi ha scritto una lettera al cardinale Tarcisio Bertone per affermare una tesi che non nasconde anche nei colloqui con alti prelati e personaggi delle istituzioni italiane. Il presidente dello IOR (che teme per la sua vita) sa di avere i giorni contati alla presidenza dello IOR. Con Bertone e i suoi referenti in Curia punta il dito contro un complotto massonico che vorrebbe farlo fuori. Indica anche i nomi dei suoi presunti nemici. Tra questi personaggi molto influenti non solo in Vaticano, come il notaio Antonio Maria Marocco di Torino, che in realtà è molto vicino al cardinale Tarcisio Bertone da decenni.
Il presidente dello IOR poi cita l’avvocato Michele Briamonte dello studio Grande Stevens, che sarebbe secondo lui vicino alla lobby ebraica perché è uno dei fondatori della camera di commercio Italo-israeliana della quale per la verità fanno parte anche personaggi di primissimo piano della vita pubblica italiana. I rapporti sono tesi con Gotti Tedeschi da quando aveva fatto dichiarazioni imprudenti, secondo la Segreteria di Stato, con la Procura di Roma, ammettendo l’esistenza de conti cifrati nello IOR.
Un mistero custodito con cura per decenni era stato spiattellato in un verbale dal presidente della Banca più riservata del mondo.
La fine
Da quel momento la fine di Gotti è segnata. Poi c’è il braccio di ferro a dicembre del 2011 sulla legge antiriciclaggio e i rapporti si fanno ancora più tesi quando le carte escono sul Fatto. Ma la goccia che fa traboccare il vaso è quando il neo nominato presidente del Monte Paschi di Siena, Alessandro Profumo, va a fare visita a Gotti Tedeschi e gli riferisce di avere ricevuto confidenze da personaggi influenti in Segreteria di Stato che Gotti Tedeschi di lì a pochi giorni sarà fatto fuori. Come a dire: “non parlargli di cose delicate che ormai non conta più nulla”.
Gotti Tedeschi viene fatto fuori il 24 maggio. Due giorni prima il vicepresidente Hermann Schmidt, che ora è diventato presidente scrive al Segretario di Stato Tarcisio Bertone: “Mi aspetto con fiducia che Sua Eminenza ponga fine immediatamente al mandato del presidente Gotti. Non desidero continuare a prestare servizio in un Consiglio con Gotti Tedeschi. Pertanto nel caso in cui il presidente non fosse sollevato dall’incarico dopo un voto di sfiducia da parte del Consiglio, rassegnerò le dimissioni entro e non oltre la fine di maggio 2012”.
Nelle stesse ore il segretario del consiglio Carl A. Anderson scrive “Sono giunto alla conclusione, dopo molte preghiere e riflessioni, che Gotti Tedeschi non sia in grado di guidare l’Istituto in tempi difficili come questi”. Le due lettere vanno lette alla luce del comunicato stampa di ieri del Vaticano. Il bollettino della Santa Sede, dopo la premessa banale sulla “sorpresa e preoccupazione per l’inchiesta” lancia un avvertimento allo Stato italiano “la Santa Sede ripone la massima fiducia nell’autorità giudiziaria italiana che le prerogative sovrane riconosciute alla Santa Sede dall’ordinamento internazionale siano adeguatamente vagliate e rispettate”.
Poi, dopo la conferma dell’appoggio incondizionato al direttore generale dello IOR Cipriani, che Gotti Tedeschi avversava (“la Santa Sede conferma inoltre la sua piena fiducia nelle persone che dedicano la loro opera con impegno e professionalità all’Istituto per le Opere di Religione e sta esaminando con la massima cura l’eventuale lesività delle circostanze, nei confronti dei diritti propri e dei suoi organi”) arriva la parte più interessante, dedicata a Gotti Tedesch:. “Si ribadisce, infine, che la mozione di sfiducia adottata nei confronti del Prof. Gotti Tedeschi da parte del Consiglio di Sovrintendenza è stata fondata su motivi oggettivi, attinenti alla governance dell’Istituto, e non determinata da una presunta opposizione alla linea della trasparenza, che anzi sta a cuore alle Autorità della Santa Sede, come allo IOR”.
Le perquisizioni
La linea di contrattacco del Vaticano dopo la perquisizione e il primo interrogatorio all’ex presidente dello IOR è arrivata ieri con un bollettino chiarissimo: Ettore Gotti Tedeschi non è stato cacciato dallo IOR perché voleva la trasparenza dei conti bancari e dei loro reali intestatari. I pm italiani non si azzardino a violare le prerogative dello Stato Vaticano andando dietro alle sue accuse, ai suoi memoriali, alle sue paure di essere ucciso e magari alle liste di conti correnti cifrati intestati ai vip laici che potrebbe avere compilato. Con il comunicato ufficiale emanato dalla Santa Sede ieri pomeriggio lo scontro tra Italia e Città del Vaticano sale di livello.
25mila correntisti
E le carte che oggi pubblichiamo in esclusiva dimostrano quanto è duro lo scontro interno al Vaticano tra le due fazioni che si sono contrapposte sulla legislazione dei presidi contro il riciclaggio dentro la Città del Vaticano. La posta è enorme. Lo Ior amministra in depositi una cifra che dovrebbe oscillare attorno ai 9 miliardi di euro di patrimonio. Ci sono 25 mila correntisti laici e questa indagine della magistratura italiana rischia di svelare anche i nomi dei vip. La vera partita in gioco è quella dei “conti laici anomali”, quelli dei quali Ettore Gotti Tedeschi ha parlato con i magistrati.
Tra le carte sequestrate a casa e nell’ufficio del banchiere ci sono anche elenchi di nomi di personaggi importanti, anche della politica, che potrebbero avere il conto presso lo IOR. Quella lista trovata a casa di Gotti Tedeschi sarebbe frutto di una sua ricerca. Probabilmente non si tratta di carte ufficiali o di contabili bancarie con il timbro IOR, perché a quelle il banchiere non aveva accesso. Bensì di informazioni che probabilmente aveva raccolto informalmente.
Comunque sia, quella lista fa paura perché potrebbe incrinare il muro di anonimato dello IOR. E ancora di più fanno paura Oltretevere le inchieste che potrebbero nascere dalle accuse dell’ex presidente dello IOR che pare disposto a collaborare. Per questa ragione ieri è arrivato i primo avvertimento, le lettere e i documenti inerenti all’attività della Banca del Vaticano non devono essere usate contro i manager IOR indagati dalla Procura di Roma, a partire da Paolo Cipriani. E non manca un messaggio per Gotti Tedeschi: la smetta di atteggiarsi a vittima della lobby ‘giudaico-massonica’ favorevole alla scarsa trasparenza bancaria. E non si azzardi a collaborare con i pm di Roma e Napoli, come sembra intenzionato a fare dopo essere stato scaricato da tutti Oltretevere, perché altrimenti ce ne sarà anche per lui.
Segrete stanze
La Segreteria di Stato ieri con il suo comunicato ha voluto lanciare il primo messaggio perché sia chiaro a tutti che il presidente dell’Istituto Opere Religiose non è entrato in lotta di collisione con il Segretario di Stato Tarcisio Bertone perché voleva svelare alle autorità italiane chi c’era dietro i conti cifrati della banca vaticana. Il banchiere è stato accompagnato alla porta il 24 maggio con una lettera del Cavaliere Supremo dell’Ordine dei Cavalieri di Colombo Carl A. Anderson perché non sapeva fare il presidente ed era anche un po’ fuori di testa. Così si regolano le faccende in Vaticano
Il dossier segreto nelle mani del Papa
di Marco Lillo (il Fatto Quotidiano, 8 giugno 2012)
Se mi succede qualcosa fate arrivare questo memoriale con tutte le carte allegate sulle questioni di cui mi sono occupato negli ultimi tempi al mio amico avvocato (...), al giornalista del Corriere della Sera, Massimo Franco e anche al Papa, tramite il suo segretario don Georg Ganswein. Queste erano le volontà apposte a margine del memoriale scritto da Ettore Gotti Tedeschi e trovato a Milano dai pm di Napoli. L’ex presidente dello IOR, rimosso all’improvviso dall’incarico era impaurito per la sua vita. Durante la battaglia durissima che lo aveva contrapposto alla Segreteria di Stato sulla questione della normativa anti-riciclaggio aveva consegnato alla sua segretaria una copia del memoriale con le carte più scottanti.
Oltre all’originale, trovato in casa del banchiere a Piacenza, i Carabinieri del Noe coordinati dal capitano Pietro Raiola Pescarini, martedì hanno trovato una seconda copia nell’ufficio di Gotti Tedeschi presso la sede del Banco Santander di Milano in via Boito, a due passi dalla Scala. I Carabinieri sono sobbalzati leggendo l’appunto: Gotti Tedeschi temeva davvero di potere essere ucciso. Lo si comprende dal livello dei destinatari del dossier che aveva preparato per spiegare le ragioni di un’eventuale morte sospetta.
Il banchiere pensava di far conoscere all’opinione pubblica i retroscena delle lotte intestine del Vaticano mediante uno dei giornalisti più importanti del Corriere della Sera come Massimo Franco. Il notista del principale quotidiano italiano negli ultimi tempi si era occupato a più riprese di Gotti e del Vaticano. Il giorno dopo la perquisizione era uscito sul Corriere un suo articolo nel quale si legge: “Gotti Tedeschi conosce ogni documento e i suoi avversari sanno che sa. Forse la spiegazione più plausibile è che aspetta un cenno dal Papa”.
E proprio al Papa, Gotti voleva fosse consegnato il memoriale che in realtà si compone solo di due pagine più decine di fogli allegati che ne costituiscono la parte più esplosiva. Nell’introduzione sono schematizzati gli avvenimenti più delicati nei quali il banchiere aveva avuto un ruolo di protagonista o di testimone. In corrispondenza di ogni passaggio delicato, nel breve memoriale c’era un rimando a un documento o a un appunto che precisava nel dettaglio gli avvenimenti sommariamente descritti. I magistrati di Napoli hanno sequestrato nell’ufficio del Santander, oltre ai contratti dei finanziamenti elargiti dalla banca spagnola a Finmeccanica, anche un intero armadio contenente 47 faldoni, più due computer. Tutto questo materiale è stato sigillato ed è a disposizione degli inquirenti che però ne prenderanno visione solo nei prossimi giorni, alla presenza del difensore e dei suoi consulenti.
L’inchiesta dei pm napoletani Vincenzo Piscitelli, Henry John Woodcock e Francesco Curcio riguarda le presunte mazzette pagate secondo l’accusa (partita dalle rivelazioni dell’ex direttore centrale di Finmeccanica Lorenzo Borgogni) a Lega e Cl in occasione della vendita al governo indiano di 12 elicotteri Agusta Westland nel 2010. E per questa ragione tutte le carte che, invece, sono inerenti allo IOR, saranno trasmesse alla Procura di Roma dove è aperto dal 2010 un fascicolo che vede indagati il presidente Gotti Tedeschi e il direttore generale Paolo Cipriani per violazione della normativa anti-riciclaggio. Da questa indagine ne è nata una seconda che vede indagati alcuni prelati per riciclaggio ma non il presidente Gotti Tedeschi. Proprio su questo secondo filone si concentrano il procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone, l’aggiunto Nello Rossi e il sostituto Stefano Fava. E, proprio nell’ambito di questa indagine per riciclaggio, Gotti Tedeschi sta collaborando. L’ex presidente dello IOR non aveva un ruolo operativo e infatti a lui si contesta solo la violazione minore degli obblighi formali e non i singoli episodi, puniti più pesantemente, di presunto riciclaggio. Gotti ha accettato di parlare mercoledì scorso con i pm romani che avevano la copia del memoriale e delle lettere trovati dai colleghi napoletani sul tavolo.
L’avvocato Fabio Palazzo però precisa che nel memoriale “Gotti Tedeschi non fa riferimento a nessun caso di riciclaggio, ma parla di come risolvere problemi relativi ai conti, adottando adeguate procedure anti-riciclaggio, che se applicate, avrebbero consentito al Vaticano di entrare nella white list, e che qualcuno aveva ostacolato, o comunque ne aveva criticato l’applicazione”. Per il legale dell’ex presidente dello IOR “Gotti Tedeschi non era a conoscenza di nessun caso di riciclaggio”.
Bufera sullo Ior. Sfiduciato Gotti Tedeschi
Il presidente lascia. Dimissionato dai laici a capo dell’Istituto: «È venuto meno ai suoi doveri»
di Roberto Monteforte (l’Unità, 25.o5.2012)
CITTÀ DEL VATICANO Lo hanno sfiduciato. Il presidente dello Ior, l’Istituto per le opere di religione, professor Ettore Gotti Tedeschi è stato messo alla porta dai cinque laici che compongono il Consiglio di sovrintendenza dell’istituto finanziario vaticano. All’unanimità il vice presidente Ronaldo Hermann Schmitz e da Antonio Maria Marocco, Manuel Soto Serrano e Carl Albert Anderson, tutti ecomomisti di grande prestigio, hanno deciso di non rinnovargli la fiducia. Non è stato un fulmine a ciel sereno.
Da tempo i rapporti all’interno dell’istituto si erano deteriorati, pare proprio per dissensi nell’applicazione della normativa per la trasparenza finanziaria che doveva portare la Santa Sede nella «white list» dei Paesi virtuosi in materia di antiriclaggio. In particolare sul ruolo dell’Aif, l’autorità di informazione finanziaria, alla cui testa è stato messo il cardinale Attilio Nicora. Sulla natura e sui poteri di questa autorità vi sono stati scontri che hanno coinvolto anche la segreteria di Stato e che sono arrivati anche sui giornali. Contrasti vi sarebbero stati pure sulla conduzione degli affari dell’ente gestiti dal direttore generale Paolo Cipriani che con Gotti Tedeschi nel 2010 è stato indagato dalla procura di Roma con l’accusa di riciclaggio.
Non ha voluto neanche confermare la cosa il professore Ettore Gotti Tedeschi. «Preferisco non dire nulla ha detto raggiunto telefonicamente dall’Ansa altrimenti dovrei dire solo brutte parole. Abbiate pazienza». Ma alla fine nel tardo pomeriggio la conferma ufficiale è arrivata dal Vaticano con una nota del direttore della Sala Stampa, padre Federico Lombardi.
LA GOVERNANCE
«Il 24 maggio 2012 il Consiglio di Sovrintendenza dell’Istituto per le Opere di Religione si è riunito in sessione ordinaria. Fra i temi in agenda spiega Lombardi -, c’era ancora una volta la governance dell’Istituto. Nel tempo questa ha destato progressiva preoccupazione nel Consiglio e, nonostante ripetute comunicazioni in tal senso al Prof. Gotti Tedeschi, presidente dello Ior, la situazione è ulteriormente deteriorata».
Sta qui la spiegazione della decisione assunta. «Dopo una delibera continua la nota -, il Board ha adottato all’unanimità un voto di sfiducia del Presidente, per non avere svolto varie funzioni di primaria importanza per il suo ufficio». Alla dichiarazione di padre Lombardi segue quella del Consiglio di Sovrintendenza dell’Istituto che dà conto della mozione di sfiducia adottata alle ore 14 nei confronti del presidente Gotti Tedeschi e ne «ha raccomandato la cessazione del suo mandato quale presidente e membro del Consiglio». «I membri del Consiglio continua sono rattristati». Si apre una nuova fase. «Il Consiglio adesso guarda avanti, al processo di ricerca di un nuovo ed eccellente Presidente, che aiuterà l’Istituto a ripristinare efficaci ed ampie relazioni fra l’Istituto e la comunità finanziaria, basate sul mutuo rispetto di standards bancari internazionalmente accettati».
Oggi si riunirà la Commissione cardinalizia di vigilanza presieduta dal segretario di Stato, cardinale Tarciso Bertone per trarre le conseguenze della delibera del Consiglio. Quanto fosse di peso, ascoltato e influente il professore Gotti Tedeschi, già consigliere dell’allora ministro Giulio Tremonti e chiamato nel 2009 da Benedetto XVI a mettere ordine nelle finanze vaticane, lo testimonia anche il recente e contestato libro del giornalista Nuzzi «Sua Santità». Si oppose anche alla costituzione di un polo sanitario Vaticano in Italia al quale lavorava il cardinale Bertone come soluzione al complesso «San Raffaele» di don Verzé.
Lotte di potere. Il presidente dello Ior, Gotti Tedeschi, licenziato dal cardinal Bertone
Ior: il Vaticano scomunica il banchiere di Dio
Vicino a Cl e Opus Dei, aveva promesso di rendere più trasparente la banca del Papa, poi indagato per violazione delle norme sul riciclaggio
di Stefano Feltri (il Fatto, 25.05.2012)
Il Vaticano licenzia Ettore Gotti Tedeschi, il presidente dell’Istituto Opere Religiose, lo Ior, il fondo sovrano dello Stato Pontificio che nei decenni ne ha rappresentato il lato più oscuro. La nota della sala stampa vaticana sottolinea che non si è trattato di dimissioni spontanee: “Il Consiglio di Sovrintendenza dello Ior ha adottato una mozione di sfiducia del presidente Gotti Tedeschi”. Le colpe del banchiere 67enne, professore della Cattolica ed editorialista dell’Osservatore Romano, non sono esplicitate nel comunicato ufficiale. Ma chi frequenta il Vaticano ne ha una lunga lista, così lunga che la cacciata di Gotti era attesa da mesi.
GOTTI TEDESCHI ha commesso alcuni peccati veniali e altri capitali. Nella prima categoria figura l’ineleganza con cui nel 2009, poco dopo la nomina allo Ior, faceva sapere a tutti di aver contribuito all’enciclica della “Caritas in Veritate”, dedicata soprattutto a temi economici. “Non si fa, all’enciclica collaborano in tanti, ma quando viene emanata è solo e soltanto del Santo Padre”, spiegano in Vaticano. Ma Gotti Tedeschi aveva bisogno di ribadire che era allo Ior non in quota del segretario di Stati Tarcisio Bertone, ma in quanto stimato da Joseph Ratzinger in persona.
Altri peccati veniali sono la pervicacia con cui ha sostenuto per anni che la vera soluzione alla crisi economica era nella demografia, fare più figli contro lo spread, lo scarso talento diplomatico: poco dopo la nomina a presidente Gotti ha rotto i rapporti con Intesa SanPaolo. Nell’estate 2010 lo Ior ha cancellato l’usufrutto concesso a Mittel sullo 0,2 per cento del capitale di Intesa e poi ha venduto le quote (eredità dei rapporti ai tempi dell’Ambrosiano). Una vendetta personale di Gotti nei confronti di Giovanni Bazoli, presidente del consiglio di sorveglianza di Intesa e di Mittel, finanziaria cattolica bresciana quotata in Borsa e base del potere bazoliano. Così Gotti Tedeschi si è rifatto per aver perso il posto quando Bazoli aveva guidato Intesa a fondersi con il San Paolo, nel cui cda sedeva per conto degli spagnoli del Santander. In Vaticano non hanno apprezzato. Bazoli, come dimostrano le carte pubblicate da Gianluigi Nuzzi in “Sua Santità” (Chiarelettere) è uno che a Natale manda 25mila euro - di Intesa - al Papa, che bisogno c’è di irritarlo?
MA GOTTI sta pagando soprattutto i peccati capitali, relativi alla trasparenza dello Ior e al tentativo di portare il Vaticano fuori dalla lista nera dei paradisi fiscali. Ci sono due punti di vista: Gotti Tedeschi ha esagerato con il tentativo di bonificare lo Ior (questo dicono i suoi sostenitori) e alla fine il cardinal Bertone lo ha rimosso per evitare che troppi segreti cadessero.
Seconda versione: Gotti ha attuato una trasparenza di facciata, perché in Vaticano nessuno ha mai voluto davvero rendere lo Ior un’istituzione limpida. Come ha denunciato il il cardinale Attilio Nicora, presidente dell’Autorità Informazione Finanziaria del Vaticano in dossier rivelato da Marco Lillo sul Fatto, il Papa ha spinto per la trasparenza, poi la legge vaticana ispirata da Bertone ha ridotto i poteri dell’Aif che vigila sul riciclaggio. Quel che è certo è che Gotti Tedeschi ha trascinato lo Ior in una strana vicenda, per la quale è anche indagato: 23 milioni di euro dello Ior che dovevano essere trasferiti all’estero dalla sede romana della banca del Credito Artigiano, 20 milione alla JP Morgan di Francoforte e 3 alla Banca del Fucino.
La Procura di Roma sequestra la somma (poi la restituirà) e indaga Gotti Tedeschi e il direttore generale Paolo Cipriani per violazione delle norme sull’antiriciclaggio. La cosa bizzarra è che il Credito Artigiano una banca legatissima allo Ior, l’allora presidente Giovanni De Censi era nel consiglio dell’istituto vaticano. Eppure è proprio il Credito Artigiano a segnalare l’operazione alla Banca d’Italia. Un pasticcio di Gotti che nei prossimi mesi temeva di veder sancita la permanenza dello Ior nella grey list dei paradisi fiscali. Comunque la si guardi, il banchiere non è riuscito a completare il processo di rinnovamento nello Ior.
Ulteriore peccato capitale di Gotti: prima spinge, in asse con Bertone, per coinvolgere lo Ior nel salvataggio del gruppo dissestato del San Raffaele di don Luigi Verzè, anche per arginare il laico Giuseppe Rotelli. Ma al momento decisivo lo Ior si tira indietro e Rotelli conquista un altro pezzo della sanità lombarda.
SI PUÒ DARE un’altra lettura: in Vaticano Comunione e Liberazione e l’Opus Dei sono in declino, mentre altri movimenti come quello dei Focolarini si stanno rafforzando. Gotti Tedeschi era espressione dell’Opus ma vicino a CL, la sua caduta è quindi sintomo della fine di un’epoca. Per la successione si era parlato di Cesare Geronzi, ma il favorito sarebbe il notaio torinese Antonio Marocco, da poco entrato nel consiglio di sovrintendenza dello Ior, vicino a Bertone.
DENARO E PARADISO: AGLI INIZI DEL MODERNO - A BOLOGNA, NEL 1257, IL DENARO SERVIVA PER RESTITUIRE LA LIBERTA’ AI SERVI E ALLE SERVE DELLA GLEBA, OGGI A ROMA SERVE PER ASSERVIRE BAMBINI E BAMBINE, UOMINI E DONNE LIBERE. Cfr.:
Il Papa riceve il presidente dello Ior
"Attestazione di stima e di fiducia"
Fonti della Santa Sede riferiscono di un "incontro al baciamano, davanti a molti testimoni", e lo definiscono "un modo per sottolineare pubblicamente la vicinanza e il sostegno del Pontefice". Gotti Tedeschi -insieme al direttore dello Io, Cipriani- è indagato dalla Procura di Roma per omissioni legate alla normativa anti-riciclaggio
CITTA’ DEL VATICANO - Viene interpretato dai più in Vaticano come una "evidente attestazione di stima e fiducia" da parte del Papa per il presidente dello Ior Ettore Gotti Tedeschi 1, in questi giorni sotto inchiesta 2, il breve incontro che i due hanno avuto questa mattina. "L’incontro al baciamano, davanti a molti testimoni - osservano fonti riservate - è stato chiaramente un modo per sottolineare pubblicamente, a soli cinque giorni dalla notizia dell’indagine avviata dalla Procura di Roma, la vicinanza e il sostegno da parte del Pontefice all’economista e banchiere scelto pochi mesi fa per guidare l’Istituto Opere religiose 3 in un percorso di totale e irreversibile trasparenza".
Benedetto XVI ha ricevuto Gotti Tedeschi dopo la preghiera dell’Angelus a Castelgandolfo. L’economista era accompagnato dalla moglie e ha presentato al Pontefice il libro Denaro e paradiso. I cattolici e l’economia globale, da lui scritto con Rino Cammilleri con una prefazione del segratario di Stato, cardinale Tarcisio Bertone.
Il presidente dello Ior e il direttore, Paolo Cipriani, massimi responsabili della banca vaticana, sono indagati dalla Procura di Roma per omissioni legate alla normativa antiriciclaggio. A loro si contesta di non aver fornito indicazione sulla tipologia di due movimentazioni di danaro, 20 milioni di euro destinati all’istituto di credito tedesco J.P. Morgan Frankfurt e 3 milioni alla Banca del Fucino, depositato in un conto presso la sede romana del Credito Agricolo.
In sostanza, lo Ior non avrebbe comunicato per conto di chi (ossia se in proprio o per terzi) avrebbe disposto il trasferimento di quelle somme. Ciò, in base ad una normativa antiriciclaggio del 2007, configura una violazione. Sulla vicenda, sono stati ascoltati alcuni esponenti del Credito Artigiano la cui segnalazione ha messo in moto l’Unità di informazione finanziaria (Uif), con la sospensione delle operazioni, definite "sospette", per cinque giorni, e successivamente la Procura della repubblica.
Gotti Tedeschi "è tranquillissimo", riferiscono le stesse fonti, e "attende serenamente di essere ascoltato in Procura", il che accadrà "entro la settimana".
* la Repubblica, 26 settembre 2010
L’INDAGINE
Ior, indagato Gotti Tedeschi
Sequestrati 23 milioni di euro
Il presidente della banca vaticana e un alto dirigente indagati per omissioni legate alla violazione della normativa antiriciclaggio. Nel mirino della Procura di Roma due trasferimenti operati da un conto aperto presso il Credito Artigiano: 20 milioni alla JP Morgan di Francoforte e 3 alla Banca del Fucino
ROMA - Il presidente dello Ior, Ettore Gotti Tedeschi, e un altro importante dirigente della banca vaticana sono indagati dalla Procura di Roma per violazione del decreto legislativo 231 del 2007, la normativa di attuazione della direttiva Ue sulla prevenzione del riciclaggio. E’ in assoluto la prima iniziativa che chiama in causa l’Istituto per le Opere Religiose e i suoi vertici da quando, nel 2003, la Cassazione ha attribuito alla giurisdizione italiana competenza sullo Ior.
L’iscrizione di Gotti Tedeschi e dell’altro dirigente nel registro degli indagati è legata al sequestro preventivo, firmato dal gip Maria Teresa Covatta su richiesta del procuratore aggiunto Nello Rossi e del pm Stefano Rocco Fava ed eseguito ieri, di 23 milioni di euro (su 28 complessivi) che si trovavano su un conto corrente aperto presso la sede romana del Credito Artigiano spa.
Nel mirino dell’autorità giudiziaria, due operazioni che prevedevano il trasferimento di 20 milioni alla JP Morgan Frankfurt e di altri tre alla Banca del Fucino. L’inchiesta della Procura prende il via dalla segnalazione di una operazione sospetta da parte dell’Unità di informazione finanziaria della Banca d’Italia, con sospensione della stessa operazione per cinque giorni lavorativi. Ciò ha consentito al nucleo di polizia valutaria della Guardia di Finanza e alla Procura romana di attivarsi.
Il sequestro, si precisa, non è stato disposto perché c’è una prova di riciclaggio ma perché, secondo gli inquirenti, è già stato commesso, da parte dei vertici dello Ior, il reato omissivo della norma antiriciclaggio. L’articolo 55 del decreto 231 del 2007 punisce con la reclusione da sei mesi a un anno e con la multa da 500 a 5000 euro "l’esecutore dell’operazione che omette di indicare le generalità del soggetto per conto del quale eventualmente esegue l’operazione o le indica false".
E ancora, lo stesso articolo prevede l’arresto da sei mesi a tre anni con l’ammenda da 5000 a 50mila euro "dell’esecutore dell’operazione che non fornisce informazioni sullo scopo e sulla natura prevista dal rapporto continuativo o dalla prestazione professionale o le fornisce false".
Da Porta Pia ai nuovi banchieri di Dio
Le vie dello Ior sono infinite
di Nicola Tranfaglia (l’Unità, 21.09.2010)
Lo Ior ritorna di attualità, e non a caso. Leggiamo la notizia battuta ieri dall’Ansa: «Ettore Gotti Tedeschi, presidente dell’Istituto Opere di Religione del Vaticano e un altro importante dirigente della stessa banca vaticana, sono indagati dalla Procura della Repubblica di Roma per violazione del decreto legislativo 231 del 2007 che è la normativa di attuazione della direttiva dell’Unione Europea sulla prevenzione del riciclaggio». È stato inoltre eseguito il sequestro preventivo di 23 milioni di euro (su 28 complessivi) dell’Istituto che si trovavano su un conto corrente aperto su un conto corrente aperto presso la sede romana del Credito Artigiano spa. Il sequestro, precisa la Procura di Roma, non è stato disposto perché esiste una prova di riciclaggio ma perché, secondo gli inquirenti, è stato già commesso il reato omissivo della norma antiriciclaggio.
Fin qui la cronaca. Ma se si va oltre si scopre subito che da due anni sono in corso accertamenti su una decina di istituti di credito che sono in rapporto con lo Ior e che scambiano operazioni tra loro e con l’Istituto di Religione Vaticano per centinaia di milioni di euro. E si apprende anche che controlli finanziari compiuti dalla Guardia di Finanza in questi ultimi anni si sono trovati di fronte alla difficoltà di identificare i beneficiari degli scambi o di verificare che quando la magistratura ha chiesto nomi e cognomi, ha verificato che quelli forniti non hanno retto alla verifica tanto da suscitare il sospetto che fossero fittizi e non corrispondenti alla realtà.
Ora, per chi ricorda i casi clamorosi che hanno portato alla luce della scena pubblica l’Istituto vaticano e hanno rivelato i rapporti che c’erano stati negli anni Ottanta con Michele Sindona, Roberto Calvi e con la P2 e che si erano conclusi con la messa fuori legge della loggia di Licio Gelli e l’inchiesta parlamentare voluta dal governo Spadolini terminata con relazioni di maggioranza e di minoranza, diverse tra loro ma tutte persuase dell’illiceità delle operazioni condotte dai “banchieri di Dio”, si guarda con un certo timore a quello che sta emergendo dalla nuova inchiesta giudiziaria.
Tutto questo avviene dopo la grottesca cerimonia di domenica per i 140 anni della breccia di Porta Pia che ha visto protagonista il cardinal Bertone, segretario di Stato vaticano e grande amico del presidente dello Ior Gotti Tedeschi. Una cerimonia grottesca perché, in nome di una ennesima riconciliazione tra lo Stato e la Chiesa, si è dimenticato il significato storico della conquista di Roma da parte dello Stato liberale per farne la capitale proprio in opposizione a quel potere temporale dei Papi che sembra proprio ora essere risorto nell’Italia governata da Silvio Berlusconi e dal suo populismo autoritario.
L’ultimo saggio del sociologo svizzero sui rapporti tra i paesi ricchi e il resto del mondo
Ziegler: "Ecco come nasce l’odio per l’occidente"
"Spero che le cose possano cambiare e migliorare: c’è più coscienza da parte di tutti"
di Giampaolo Cadalanu (la Repubblica, 01.02.2010)
Per capire l’odio non servono il linguaggio castigato, la prudenza, gli occhiali rosa. Danno un’idea del mondo che è una bugia, comoda solo a nascondere i privilegi. Jean Ziegler non ha bisogno di essere diplomatico. Non lo è stato in passato, come sociologo appassionato di Africa, come parlamentare critico verso la sua Svizzera, come docente e saggista. Non lo è stato fino al 2008, da relatore speciale delle Nazioni Unite per il diritto al cibo. Adesso è consigliere del Comitato Onu per i diritti umani e a 75 anni ha meno voglia che mai di moderare il suo sdegno. È un manifesto dell’indignazione il suo ultimo libro, "L’odio per l’Occidente", che in questi giorni va in libreria per l’editore Tropea. Toni forti in tempi di passioni avvizzite: «Bisogna tornare a Jean-Paul Sartre, quando diceva che per amare l’uomo bisogna odiare ciò che lo opprime. E non "chi", ma "ciò" che lo opprime». La ricetta di Ziegler è quella di voler capire a tutti i costi, per gridare la nudità non più dell’imperatore, ma dell’impero stesso.
Professor Ziegler, dove nasce l’odio per l’Occidente?
«Ci sono due tipi di odio, che vanno distinti. Il primo è l’odio patologico, quello di Al Qaeda, che porta al terrorismo. Si tratta, appunto, di una forma patologica da condannare senza scuse. E di quest’odio nel libro non mi occupo. C’è però un altro tipo di odio, che io chiamo ragionato, basato sulla rinascita di un’identità collettiva e sulla resistenza all’ordine capitalistico».
L’odio patologico si esprime con atti di terrorismo, con l’aggressione all’Occidente. Che cosa produce invece questo odio ragionato?
«Produce nazioni capaci di negoziare con l’Occidente. Da qui nasce per esempio l’elezione di un indio come Evo Morales alla presidenza della Bolivia. Quello che era il secondo paese più povero dell’America latina ora sta rinascendo, dopo che nei primi mesi di carica Morales aveva espropriato oltre duecento proprietà».
Ma quali sono le radici di questo sentimento?
«Tre sono le ragioni fondamentali. La prima è molto misteriosa: il recupero della memoria ferita, che affiora e diventa coscienza politica. È successo per esempio al primo vertice di Durban sul razzismo: all’improvviso i paesi del Sud e l’Africa hanno chiesto scuse e riparazioni. Prenda la vicenda di Haiti: quando gli schiavi si ribellarono, la Francia mandò l’esercito, che fu battuto. Allora Napoleone ordinò il blocco navale dell’isola e costrinse il paese a pagare 150 milioni di franchi d’oro, una somma enorme, agli ex proprietari degli schiavi. E Haiti pagò fino al 1883, fino all’ultimo centesimo. Nel settembre del 2001, a Durban, l’allora presidente di Haiti Aristide chiese la restituzione di quel denaro, che Parigi rifiutò. E poco tempo dopo Aristide fu rovesciato da un colpo di Stato con l’aiuto dei servizi segreti francesi».
Insomma, il passato diventa coscienza politica.
«Ha ragione Régis Debray a dire che oggi più che mai la memoria è rivoluzionaria».
Come reagisce l’Occidente a questa nuova coscienza?
«In maniera cieca e arrogante. Prendiamo Nicolas Sarkozy, che nel 2007 è andato a Dakar a dire che il colonialismo aveva parecchio di buono, ma l’Africa non ne ha approfittato. Ad Algeri ha causato una crisi dicendo "no" a Bouteflika che voleva le scuse per Setif, il massacro di manifestanti pacifici compiuto nel maggio 1945 dalla legione straniera».
La seconda ragione?
«È la doppiezza dell’Occidente in tema di diritti umani. Guardiamo al massacro iniziato il 28 dicembre 2008 da Israele a Gaza, con oltre 1200 persone uccise. Il 12 gennaio il consiglio dell’Onu per i diritti umani ha chiesto di fermare la strage e allo stesso tempo ha condannato il lancio di razzi da parte di Hamas. Ma gli occidentali non hanno voluto firmare. I diplomatici europei hanno esibito un’ipocrisia totale: due mesi dopo hanno chiesto una sessione speciale del consiglio per il Darfur, dove ci sono 2,2 milioni di sfollati. Gli africani si sono rifiutati».
Che effetto ha questo sugli organismi internazionali?
«Questa doppiezza paralizza l’Onu, allo stesso modo della memoria ferita. È una tragedia per la comunità internazionale».
Infine, qual è la terza ragione?
«È la dittatura mondiale del capitale finanziario, con cinquecento grandi società che controllano il 52 per cento del Prodotto interno lordo del pianeta. Nessuno mai - re, imperatori o papa - aveva accumulato un potere come quello dell’oligarchia bianca che fa profitti immensi, mentre ogni cinque secondi un bambino sotto i dieci anni muore di denutrizione nei paesi poveri. Secondo i dati Fao, muoiono 47 mila persone al giorno, e in totale gli affamati sono più di un miliardo. Eppure la stessa agenzia dell’Onu stima che l’agricoltura mondiale possa sfamare dodici miliardi di esseri umani, il doppio della popolazione globale».
Quindi la fame non è un problema di scarsità di risorse?
«No, assolutamente. Non c’è nessuna fatalità: ogni bambino che muore per fame è un bambino assassinato. Ucciso dall’assurdità dell’ordine mondiale cannibalistico di oggi».
Intendeva dire: capitalistico?
«No, cannibalistico. In fondo è la stessa cosa».
Lei non ha speranze per un mondo più giusto?
«La speranza c’è, perché mentre in Occidente cresce la coscienza della società civile, le nazioni del Sud stanno riscoprendo la loro identità, anche nei paesi islamici ci sono spinte per l’autocoscienza. I vecchi trucchi del colonialismo non funzionano più: i paesi poveri vogliono riparazioni. È la seconda indipendenza, la prima era superficiale».
Stiglitz: "Fanno soldi sul disastro che loro hanno creato"
Il Nobel per l’Economia: paradosso assurdo, colpa degli speculatori che prendono di mira i governi più deboli
di Stefano Lepri *
«E’ un paradosso assurdo, da voi in Europa - si infervora Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’Economia 2001 - una ironia della storia. Non lo vede? I governi hanno contratto molti debiti per salvare il sistema finanziario, le banche centrali tengono i tassi bassi per aiutarlo a riprendersi oltre che per favorire la ripresa. E la grande finanza che cosa fa? Usa i bassi tassi di interesse per speculare contro i governi indebitati. Riescono a far denaro sul disastro che loro stessi hanno creato».
Che può succedere ora?
«Aspetti. Non è finita qui. I governi varano misure di austerità per ridurre l’indebitamento. I mercati decidono che non sono sufficienti e speculano al ribasso sui loro titoli. Così i governi sono costretti a misure di austerità aggiuntive. La gente comune perde ancora di più, la grande finanza guadagna ancora di più. La morale della favola è: colpevoli premiati, innocenti puniti».
Come si può rimediare?
«Tre punti. Primo: niente denaro alla speculazione. Negli Stati Uniti come in Europa, bisogna fare nuove regole per le banche. Devono finanziare le imprese produttive, non gli hedge funds. Bisogna impedirgli di speculare».
Una parola. Se è il governo a dirigere il credito, il rischio è di distribuirlo ancora peggio.
«Non credo. Secondo me si può e si deve intervenire. Punto secondo: bisogna imporre tasse molto alte sui guadagni di capitale. Oggi è più vantaggioso speculare che lavorare per vivere. Deve tornare ad essere il contrario».
E poi?
«Punto terzo: in Europa dovete appoggiare i governi in difficoltà».
Si rischia di premiare i politici che governano male.
«No. La prova la dà la Spagna. Oggi è in difficoltà senza aver fatto errori. Il governo aveva un bilancio in attivo fino all’altr’anno; la Banca centrale ha sorvegliato le banche molto bene, tanto che viene citata ad esempio nel mondo. Che colpa hanno? Certo, anche loro hanno visto crescere la bolla, nel mercato immobiliare, e non l’hanno fermata. Ma è l’errore che hanno fatto tutti. Era nello spirito dei tempi. Lo ispirava l’ideologia neo-liberista che ha dominato per molti anni».
In Grecia però hanno sbagliato. Hanno anche truccato i conti.
«Non l’attuale governo, il precedente. Sono stati colpiti dalla crisi della navigazione commerciale, settore importante per loro, e dal calo del turismo. Insomma, perché dobbiamo costringere la gente a fare ancora più sacrifici, se non ha colpa?».
Il debito c’è. Prima o poi gli Stati dovranno ripagarlo.
«Ma perché mai dobbiamo dare retta ai mercati? I mercati non si comportano in maniera razionale, lo abbiamo visto nel modo in cui si è prodotta la crisi. Allora perché mai dovrebbero avere ragione, nel chiedere ancora più sacrifici ai cittadini di quei paesi? In più, anche se la avessero, si comportano in maniera troppo erratica. E per finire, qui è in corso un attacco speculativo: non è che se uno fa bene non lo colpiscono, è che se ti possono far fuori ti fanno fuori».
Come possiamo fare, in Europa?
«Dovete costruire dei meccanismi di solidarietà fra Stati. L’Unione deva avere più risorse a disposizione. Si spendono un sacco di soldi per la politica agricola comune, che è uno spreco, mentre...»
Si potrebbero emettere dei titoli europei, gli Eurobonds.
«Certo. E poi occorre tassare le attività nocive. Soprattutto due: la finanza e le emissioni di anidride carbonica. Anche negli Stati Uniti».
Obama riuscirà a imporsi alle banche?
«Sarà una lunga battaglia. Ma la rabbia della gente è forte, e il presidente lo sa. I banchieri hanno contro tutto il resto della popolazione».
Il Congresso è riluttante.
«Spero che non si debba arrivare ad un’altra crisi, prima di riuscire a mettere la finanza sotto controllo. Sarebbe davvero triste. Pensi a quanto danno hanno causato. Lo sa che secondo le rpevisioni del Cbo, l’Ufficio bilancio del Congresso, la disoccupazione comincerà a diminuire sono a metà del decennio? Queste sono cose che restano a lungo nella memoria della gente»
*
Stefano Lepri
Fonte: www.lastampa.it
Link: http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/economia/201002articoli/51924girata.asp
5.02.2010
Niccolò Machiavelli dichiara nei Discorsi (III, I), "è solenne principio che per riformare una società in decadenza è necessario riportarla ai principi che le hanno dato l’azione".
Anche Machiavelli sarebbe d’accordo con il Papa
di Ettore Gotti Tedeschi *
Una enciclica sociale è senza tempo perché affronta, in periodi diversi e condizioni che cambiano, un problema sempre prioritario: l’esigenza di dare un senso alle azioni umane. Esigenza che si soddisfa cercando e trovando la verità. Per questo motivo, la Caritas in veritate nei suoi principi è senza tempo: potrebbe essere stata scritta un secolo fa, così come potrebbe esserlo fra cento anni. Ma un testo papale di questo genere intende ovviamente anche rispondere ai problemi dei tempi in cui nasce.
Quando nel marzo 1891 Leone xiii pubblicò la Rerum novarum, molti vollero interpretarla in chiave anticapitalistica per le considerazioni che conteneva sugli eccessi della concentrazione del potere economico. Ma proprio nello stesso periodo, nel luglio 1890, il Governo statunitense aveva promulgato lo Sherman Act per regolare i monopoli che impedivano al mercato di funzionare. Era una curiosa coincidenza tra valutazione economica e giudizio morale che lascia intendere come le leggi dell’economia non possano prescindere da una naturale conformità con i principi etici.
Allo stesso modo si può interpretare la Caritas in veritate. Consapevole delle origini dell’attuale situazione economica, Benedetto XVI propone la sua analisi e mette in guardia sulla pericolosità di una crescita egoistica, consumistica e insostenibile. La stessa crescita fittizia che ha portato in questi anni a distruggere ricchezza e indebolire l’uomo. Curiosamente, come era avvenuto alla fine del xix secolo, anche questa volta è dagli Stati Uniti che è venuta un’indiretta adesione all’insegnamento del Pontefice. Il presidente Obama - riproponendo la complementarità tra valutazione economica e morale - ha infatti affermato che gli americani devono smetterla di vivere al di sopra delle proprie possibilità.
Ma quanto durerà l’attenzione alle raccomandazioni contenute nella Caritas in veritate? Il suo richiamo verrà dimenticato appena terminata l’emergenza? Il testo è stato pubblicato in un momento di grave recessione economica originata da una forte crisi dei valori morali. Tutti sono ora molto attenti e si dichiarano d’accordo con il suo messaggio. Ma ci vuole altro per consentire allo spirito dell’enciclica di radicarsi. È necessario comprendere cosa significhi in pratica applicare l’etica all’economia. È forse inutile sperare in un cambiamento delle persone a motivo di un ciclo economico negativo. Molti di quelli che oggi riconoscono l’importanza dell’etica in economia, appena ieri dileggiavano lo stesso richiamo, sottolineando l’esclusiva importanza di produrre profitto. E ignorando che l’aspetto etico riguarda soprattutto come e perché il profitto viene generato.
Le proposte della Caritas in veritate potranno quindi essere accettate e trovare realizzazione anche nei periodi successivi alla crisi attuale se si riconoscerà che esse corrispondono a un concreto interesse generale e individuale. Ci si deve cioè convincere che l’etica in economia produce risultati migliori. E ciò non è affatto impossibile se si regola la competizione sleale. Non è difficile dimostrare che l’etica applicata produce maggiore ricchezza, che è persino un vantaggio competitivo, che realizza risultati più sostenibili nel tempo. Il comportamento etico implica costi minori - si pensi solo a quelli di controllo - e permette di creare valore crescente grazie alla trasparenza e alla fiducia che a loro volta producono più certezze e meno rischi.
Qualcuno diffonde ancora l’idea che la civilizzazione dell’economia - l’applicazione cioè di principi etici alle attività economiche - significhi minore produzione di ricchezza, rallentamento del processo economico, meno vantaggi competitivi e una scarsa attenzione alla misurazione dei risultati in base al profitto. In realtà è vero il contrario. È la mancanza di etica a produrre rischi di distruzione di ricchezza, e la storia della crisi attuale non dovrebbe lasciare dubbi in proposito. È lo spreco di risorse a generare perdite per la comunità. È lo sviluppo truccato a innescare diseconomie e ingiustizie. È l’asservimento del cittadino agli esclusivi bisogni dello Stato a dare vita alla debolezza e alla conseguente sfiducia verso le istituzioni.
L’insegnamento della Caritas in veritate - a partire dalla fondamentale introduzione - può quindi trovare una concretissima e utilissima applicazione. Perché, come Niccolò Machiavelli dichiara nei Discorsi (III, I), "è solenne principio che per riformare una società in decadenza è necessario riportarla ai principi che le hanno dato l’azione". Anche lui sarebbe d’accordo con il Papa.
(©L’Osservatore Romano - 12 luglio 2009)
Sentenza esemplare per il finanziere autore di una frode da 65 miliardi di dollari
A breve all’asta l’appartamento, le ville, gli yacht, i quadri e i gioielli
Madoff condannato a 150 anni
Il giudice: "Crimine diabolico" *
NEW YORK - E’ stato condannato a 150 anni di carcere, la massima pena possibile, Bernard Madoff, il finanziare di 71 anni autore di una delle più grandi truffe della storia. La lettura della sentenza è stata accolta da un applauso. Madoff si è dichiarato colpevole di tutte le 11 imputazioni emerse da uno dei più grossi scandali della storia di Wall Street: le somme da lui frodate ammontano a 65 miliardi di dollari (l’equivalente di circa 46 miliardi di euro).
Si è anche scusato, nel corso dell’udienza odierna, l’ultima di un processo lampo durato pochissimi mesi (l’arresto del finanziere risale all’11 dicembre 2008), ma le scuse sono servite a ben poco. "Nessun altro caso di frode è comparabile con il caso Madoff", ha detto il giudice Denny Chin, precisando che "il simbolismo della sentenza è importante perché attraverso questa si invierà un messaggio".
Il giudice Chin ha definito quello di Madoff "un crimine straordinariamente diabolico". Dal 1995 Madoff, che era stato anche presidente del Nasdaq, aveva iniziato la sua attività privata promettendo tassi di interessi alti e sicuri (circa il 10%). Che puntualmente pagava, ma non perché il danaro venisse accortamente investito, ma soltanto perché arrivava danaro fresco dai nuovi clienti. E Madoff diventava sempre più ricco: se l’ammontare delle somme truffate è stimato in circa 65 miliardi di dollari, le cifre legate al suo impero economico ammontano a 171 miliardi di dollari.
Madoff, che ha passato gli ultimi mesi agli arresti domiciliari nel suo appartamento di lusso di Manhattan, del valore di 7 milioni di dollari, perderà tutto: le ville (una a Palm Beach, un’altra in Florida, una da 13 milioni a Montauk, sulla punta di Long Island), gli yacht e i beni personali, che verranno messi all’asta nei prossimi giorni. La moglie, Ruth, 68 anni, rimarrà senza casa e dovrà vivere d’ora in poi con i 2,5 milioni di dollari che le sono stati assegnati dal tribunale.
L’avvocato del finanziere, Ira Sorkin, puntava a una pena mite, al massimo 12 anni, dal momento che il suo cliente aveva ampiamente collaborato alle indagini. Ma si aspettava il peggio, anche sulla base delle richieste dei tanti truffati che hanno preso la parola in tribunale: "La cella deve diventare la sua bara", ha affermato uno degli investitori truffati. Un’altra vittima è scoppiata in lacrime dopo aver denunciato perdite per 5 milioni di dollari.
In questo clima l’appello e le scuse di Madoff sono cadute nel vuoto, e semmai sono state accolte con scherno: "Vivrò con questo dolore per il resto della mia vita - ha detto Madoff - Non posso chiedervi scusa per il mio comportamento: come puoi chiedere scusa per aver ingannato un’industria che hai contribuito a costruire? Come puoi chiedere scusa per aver ingannato una moglie dopo 50 anni di matrimonio?".
"Lascio alla mia famiglia un’eredità di vergogna, come hanno detto alcune delle mie vittime - ha proseguito il finanziere - Sono responsabile di molta sofferenza e molto dolore. Chiedo scusa alle mie vittime. Mi dispiace".
* la Repubblica, 29 giugno 2009
E ora il processo al sistema
MARIO DEAGLIO (La Stampa, 30/6/2009)
Chiaro. Limpido. Indiscutibile. Un truffatore perfido, uomo di successo, con una faccia da attore di successo. Una condanna colossale, 150 anni di galera, assurdi a orecchi europei, per una truffa colossale, assurda anch’essa nella sua semplicità con cui sono stati gabbati per decenni alcuni tra i più preparati investitori del mondo, le autorità di vigilanza, gli analisti, i guru, i media, i controllori, molte banche. Un giudice che parla di crimine diabolico e un imputato-diavolo che faceva il benefattore, era membro dei consigli di numerose istituzioni benefiche. E viene denunciato dai figli, terrorizzati dall’entità della frode. Quest’imputato-diavolo chiede il permesso di essere presente - impassibile - alla lettura della sentenza in camicia bianca, giacca e cravatta che, per il duro regolamento del carcere in cui sarà rinchiuso, probabilmente non indosserà mai più, o meglio indosserà tra 150 anni. Ex ricchi che si mettono a piangere, pubblico che applaude, un imprigionamento che diventa un atto liberatorio per un’America che vuole condannare, ripartire, dimenticare e continuare a fare finanza.
Fine del discorso. Fine della scena. Seconda scena in Italia. È fin troppo plateale il confronto tra una giustizia americana che ti scova il malfattore l’11 dicembre, lo rimanda agli arresti domiciliari dietro una cauzione gigantesca, lo riarresta in gennaio, imbastisce il processo in febbraio-marzo e te lo condanna con tutte le cerimonie, praticamente in maniera definitiva, il 29 giugno. Nessuna scarcerazione in attesa di gradi ulteriori di giudizio, dei quali, d’altra parte, ci sono pochissime possibilità; nessuna ricusazione di giudici, nessuna lotta per arrivare all’archiviazione per decorrenza dei termini. Nessun affidamento ai servizi sociali, nessun occhio di riguardo perché l’imputato ha più di settant’anni. Prevedibili dichiarazioni di politici. Di giudici. Di esperti. Forse accordo sulla necessità di riforma per i crimini economici. Chissà, magari qualche progetto di legge; è persino possibile l’istituzione di una commissione parlamentare. Fine della scena. Ebbene, né l’una né l’altra scena sono soddisfacenti.
I 150 anni di condanna non possono sostituire 150 o più processi o indagini non ancora partiti su come è stato possibile tutto ciò; su come venivano fatti i controlli; sul perché nessuno abbia dato retta a Harry Markopolos, un esperto che dieci anni fa si era rivolto alle autorità di controllo perché persuaso che fosse matematicamente impossibile che le società di Madoff realizzassero i profitti che dichiaravano di realizzare; sul perché per questi dieci anni uomini finanziariamente astutissimi (Madoff si è rifiutato di fare qualsiasi nome) sulle due rive dell’Atlantico continuassero a consegnargli un fiume di denaro. Spente le luci sul processo, molti interrogativi restano.
La distanza tra Stati Uniti e Italia rimane altissima, ma non è che oltre Atlantico tutto sia chiarissimo. La scena si deve spostare in avanti. Magari all’Aquila, al G8, visto che tutto ormai sembra rotolare verso questo vertice al di fuori del normale in un anno economicamente al di fuori del normale. Potrebbe essere questa la sede buona per affrontare una volta per tutte il problema dei mercati finanziari; che è poi il problema di quanti Madoff siano in attività nel mondo e di quanti possano sorgere in futuro.
Se c’è una cosa che il caso Madoff mette in luce, è l’inutilità di controlli nazionali - e anche di sistemi giudiziari nazionali per crimini economici legati ai circuiti finanziari globali - e la necessità di un loro rapido superamento in favore di un’autorità internazionale di controllo. Che possa ficcare il naso nei libri contabili e fare domande di ogni tipo, in ogni Paese del mondo. Che gli americani hanno sempre avversato e che forse oggi avverserebbero un po’ meno. Madoff, insomma, deve essere un punto di partenza, non un punto d’arrivo. Non dimenticato fino a quando defungerà come il prigioniero matricola 61727-054 del Metropolitan Correction Center di New York in cui è detenuto, ma sempre presente nelle prossime mosse dei procuratori di giustizia.
Si potrebbe anche suggerire che chi si occupa di crimini economici si tenga sempre una foto di Madoff sulla scrivania o appesa sul muro dell’ufficio. Per ricordargli che deve capire davvero come ha fatto; per convincere collaboratori e vittime a raccontare tutto. Per evitare che si faccia un processo, per quanto sacrosanto, a una persona anziché un’indagine a tappeto, sicuramente necessaria, sul funzionamento di un sistema.
L’evoluzione dei mutui NINJA (non garantiti) nel mercato statunitense
la loro diffusione, le cartolarizzazioni a catena, la bolla immobiliare e il collasso
I subprime, dal sogno americano
al crollo della finanza internazionale
Le considerazioni di un’economista piacentina che insegna negli Stati Uniti
"In un mondo sempre più complesso, è indispensabile l’alfabetizzazione finanziaria"
dal nostro inviato ROSARIA AMATO *
TRENTO - E’ tutta colpa del sogno americano. Che, a sentire Annamaria Lusardi, piacentina, docente di economia negli Stati Uniti, al Dartmuth College, non è così diverso da quello italiano: gli americani vogliono una casa di proprietà. E per averla sono disposti a indebitarsi fino al collo, senza calcolarne le conseguenze perché non hanno le conoscenze finanziarie per farlo e perché, e questo sì, li differenzia invece dagli italiani, non hanno alcuna propensione al risparmio. Ma questo non basta per spiegare la disastrosa crisi dei mutui subprime, che ha innescato una recessione dalla quale il mondo stenta ancora a venir fuori.
Per capire come si è arrivati al disastro occorre anche capire come negli Stati Uniti si sono comportati le banche e gli altri istituti finanziari, e anche i governi. In poco meno di un’ora, al Festival dell’Economia di Trento, Anna Maria Lusardi ha ricostruito una sequenza di fatti che resta ancora un po’ oscura. E’ estremamente difficile, ha detto Lusardi, calcolare il prezzo di un mutuo subprime e valutarne il rischio. Su questi titoli strani, estremamente rischiosi, è stato costruito un gigantesco castello di carta che alla fine ha trascinato con sé i sogni e le speranze degli americani, e non solo le loro.
Ma è da lì che bisogna partire, ha sottolineato l’economista. "Solo nel 2004 Alan Greenspan sottolineava come ’l’innovazione ha portato ad una molteplicità di prodotti nuovi, come i mutui subprime’, lodati come uno strumento che permetteva anche ai "soggetti richiedenti più marginali di ottenere un prestito". Nell’ottobre del 2008 lo stesso Greenspan ammetteva: ’Questa crisi si è rivelata molto più grande di quanto avessi mai potuto immaginare. Si è trasformata da una crisi costretta da vincoli di liquidità in una crisi in cui ormai prevalgono i timori di insolvenza’.".
Cosa aveva permesso ai subprime di stravolgere il mercato? "Negli Stati Uniti un mutuo tipico ha la durata a 30 anni, prevalentemente a tasso fisso e finanzia l’80% dell’immobile, pur potendo arrivare al 95%. Per concederlo si valuta il punteggio di credito del mutuatario, il rapporto tra mutuo e valore dell’immobile e tra rata e reddito disponibile, la documentazione sul patrimonio del richiedente", ha spiegato Lusardi.
Al contrario, i mutui subprime si sono evoluti come prodotti ’Ninja’: No income, no job, no asset (il richiedente non era tenuto a presentare alcuna documentazione sul reddito, sul lavoro e sul patrimonio). Prestiti facili, insomma, per favorire chi non avrebbe avuto i requisiti ad ottenere un mutuo con tutte le garanzie del caso. D’altro canto, il subprime è un contratto capestro: "Quello più comune - spiega Anna Maria Lusardi - è il 2-28. E’ un ibrido perché ha un tasso fisso, inizialmente molto basso, che a partire dal secondo anno si trasforma in tasso variabile, di valore ben superiore rispetto a quello di mercato".
I subprime nel ’94 ammontavano a 35 miliardi di dollari, corrispondenti al 5% dei mutui accesi. Ma dal 2000 le cose cambiano, e nel 2005 si arriva a 600 miliardi di dollari, corrispondenti al 20% del mercato. Con percentuali maggiori di anno in anno, dal momento che, man mano che i prezzi delle case salivano, fino a raddoppiare, anche chi avrebbe avuto tutte le credenziali per avere un mutuo ’normale’ preferiva un subprime, per non sottostare alle forche caudine dei controlli.
I subprime venivano poi acquistati e cartolarizzati dalle due agenzie sponsorizzate dal governo federale, Fannie Mae e Freddie Mac: "Lo scopo era quello di incoraggiare l’estensione del credito alle comunità a reddito basso e modesto e sostenere l’acquisto di case di proprietà". Ma dal 2006 i prezzi delle case invertono il segno, con molta più rapidità rispetto all’aumento. Se in cinque anni i prezzi erano raddoppiati, ha ricordato la professoressa Lusardi, in circa due anni si dimezzano, e così gli americani si ritrovano con un mutuo dal valore più alto di quello della casa. Tanto che, a quel punto, "conviene la bancarotta": non ha senso continuare a pagare una casa che vale molto meno delle somme esorbitanti che si è costretti a pagare. Ed è la rovina.
Il resto è storia nota. Le banche in drammatica crisi di liquidità, i discussi salvataggi del governo americano e gli ancora più discussi salvataggi mancati, come quello di Lehman Brothers. Operazioni che non convincono i cittadini americani: la professoressa Lusardi ha mostrato al pubblico di Trento una vignetta nella quale si vede un bagnino con una canotta con su scritto The Fed (Federal Reserve, la banca centrale Usa) che tutto felice porta via dall’acqua un pescecane, ’lenders’ (prestatori, cioè le banche, gli istituti della galassia finanziaria), mentre i mutuatari insolventi affondano disperati nel mare in tempesta.
Cosa si sarebbe potuto fare per evitare tutto questo? Anna Maria Lusardi ha una sua personale ricetta, condivisa peraltro anche da molti economisti italiani: l’alfabetizzazione finanziaria rende i cittadini consapevoli delle proprie scelte, evita che facciano scelte dannose per se stessi e per il mercato. Ma basta per spiegare la crisi dire, statistiche in mano, che i cittadini americani erano e sono (del resto come quelli italiani, anche la Banca d’Italia e l’Abi possono esibire statistiche altrettanto scoraggianti) più che ignoranti in materia finanziaria? Oppure, come ha obiettato uno studente, "è al medico che tocca dire al paziente che cos’ha e quali medicine deve prendere, e non al malato capire i sintomi e farsi una prescrizione?".
"Bisogna iniziare seriamente a porsi il problema di avviare un programma di educazione finanziaria. - ha ribadito con forza Anna Maria Lusardi - Le banche hanno probabilmente dato il via alla crisi e ne sono state coinvolte, dando capitali a prestito a persone che non offrivano sufficienti garanzie. E i broker si sono sicuramente arricchiti alle spalle dei consumatori. Tuttavia la responsabilità è diffusa. In un mondo in cui i meccanismi sono sempre più complessi e cresce il rischio di speculazioni, la conoscenza finanziaria è indispensabile".
* la Repubblica, 30 maggio 2009)
Al Festival dell’Economia di Trento un "tribunale" giudicherà gli studiosi
accusati di non aver seguito gli sviluppi della finanza. Chiesta la condanna a 7 anni
Gli economisti alla sbarra
"Non hanno compreso la crisi"
Applicavano regole vecchie a un sistema che in pochi anni era stato rivoluzionato?
Oppure sono stati Cassandre inascoltate, e le colpe del collasso sono altrove?
dal nostro inviato ROSARIA AMATO
TRENTO - Gli economisti sono colpevoli di non aver previsto la crisi economica innestata dai mutui subprime? Perché non hanno denunciato le anomalie e le distorsioni del mercato che hanno portato alla recessione l’intero pianeta? Perché non avevano le conoscenze necessarie per rendersene conto, è la tesi dell’economista Roberto Perotti, professore alla Bocconi, ex consulente della Banca Mondiale e della Banca Centrale Europea.
A Perotti è toccato l’ingrato compito di sostenere la pubblica accusa nel processo che stamane a Trento, al Festival dell’Economia, si è tenuto contro gli studiosi. La difesa è stata sostenuta da un altro economista, Luigi Guiso, professore all’European University Institute di Firenze, che ha chiamato a testimoniare due colleghi, Nicola Persico e Nouriel Roubini, celebrato proprio perché invece lui la crisi l’aveva prevista eccome, però lanciare l’allarme per tempo non è servito a nulla.
Questo perché, ha sostenuto Guiso davanti alla giuria, costituita da studenti della Facoltà di Economia di Trento, prevedere le crisi non è come prevedere i terremoti: "I collassi finanziari, a differenza delle città, non sono evacuabili". E quindi, paradossalmente, "Se anche gli economisti avessero potuto prevedere la crisi...forse sarebbe stato meglio non dirlo: l’unico risultato che avrebbero ottenuto sarebbe stato di anticipare il collasso".
Accusa e difesa, nel tribunale allestito nella Sala Depero del Palazzo della Provincia, si sono comunque trovati d’accordo su una tesi: la crisi in senso stretto non era prevedibile, nel senso che conoscere il giorno, o il periodo preciso nel quale l’economia subisce un tracollo, uno shock violento, è impossibile, così come lo è conoscere in anticipo il giorno e l’ora di un terremoto. E quindi in questo senso ha torto chi, come hanno fatto anche diversi esponenti politici, punta il dito contro gli economisti.
Ma qui finiscono le analogie tra accusa e difesa. Secondo Perotti gli economisti sono senz’altro da condannare (anche se la condanna chiesta non è troppo pesante, "sette anni di reclusione, perché con meno di cinque anni in Italia non si va neanche in galera, e almeno un anno al fresco gli economisti se lo meritano"), perché, quando la crisi è esplosa, hanno continuato ad annaspare: non ne hanno compreso appieno le ragioni, non hanno saputo indicare le vie per affrontarla al meglio. E la ragione è semplice: non conoscevano a sufficienza, o forse non conoscevano affatto, il mondo della finanza. I subprime e le loro evoluzioni, i problemi legati alla senior tranche, le mille vie delle cartolarizzazioni per cui i titoli diventavano irriconoscibili persino agli stessi emittenti.
Una finanza di carta, misteriosa persino per chi avrebbe avuto tutta la convenienza oltre che il dovere di conoscerla a fondo, dal momento che su essa poggiavano le proprie personali fortune, oltre che le sorti del sistema finanziario e in definitiva dei paesi: i manager delle banche, delle società finanziarie, i broker. Doppia colpa per gli economisti: non aver capito che il bandolo della matassa era stato perso da quegli stessi che avevano iniziato a dipanarla. "Negli ultimi anni c’era stata un’enorme evoluzione del mercato del credito - ha dichiarato Perotti, in un sofferto e interminabile J’accuse, rivolto anche a se stesso ("neanch’io avevo capito niente") - che aveva dato luogo a un vero e proprio sistema bancario ombra, che si finanziava con strumenti nuovi ad alto rischio, a scadenza giornaliera. Al tempo stesso, le banche erano arrivate a detenere una sempre maggiore quantità di titoli cartolarizzati".
Mentre gli economisti dormivano sonni tranquilli, ha ricostruito Perotti, ritenendo che i manager sapessero quello che stavano facendo, e che le istituzioni finanziarie fossero nelle mani di illustri studiosi, a cominciare da Ben Bernanke, a capo della Federal Reserve Usa, il sistema finanziario accumulava tossine che a un certo punto hanno provocato il collasso, unite alla bolla immobiliare. "Non ci eravamo resi conto che questi titoli erano molto più rischiosi di quello che pensassimo". Peggio, neanche le banche se n’erano rese conto: "Credevamo di essersi assicurate, e lo erano, per il rischio singolo, non certo contro un problema sistemico".
Insomma, il mondo era cambiato in pochissimo tempo, e gli economisti applicavano regole pensate per situazioni ormai morte e sepolte, come la Taylor rule, uno dei principi cardine della politica monetaria. "Oltre a non comprendere cosa stava succedendo nel mercato del credito - ha concluso Perotti - siamo stati incapaci di comprendere le conseguenze del tracollo per il mondo dell’economia". E infine, non hanno neanche fatto autocritica. Condanna, senza appello.
Una tesi condivisa dal giornalista Roberto Petrini, che stamane ha presentato al Festival dell’Economia il suo ultimo libro, che s’intitola proprio "Processo agli economisti": "Ci si ostina a considerare la finanza come un mero insieme di dati, di modelli, di equazioni matematiche. Un atteggiamento miope che impedisce di vedere più lontano". E da Nouriel Roubini, che ha sottolineato come è difficile che un economista abbia una visione così ampia che vada dalla macroeconomia alla finanza, l’unica però che avrebbe potuto permettere di prevedere in qualche modo le conseguenze di un mercato drogato.
Ovviamente opposta la tesi della difesa, secondo la quale molti economisti hanno invece previsto la crisi. Soprattutto, l’hanno prevista gli studiosi ai quali le istituzioni finanziarie internazionali avevano dato il compito di monitorare il mercato, a cominciare da Raghuram Rajan, capoeconomista del Fondo Monetario Internazionale. O la meno famosa Jane Eberly, macroecononista statunitense che diversi anni prima dell’esplosione della crisi aveva pubblicato uno studio dal titolo eloquente: "Il credito al consumo sarà il tallone d’Achille dell’economia americana?". E, tra gli italiani, il governatore della Banca d’Italia Mario Draghi. Il torto, secondo il testimone Nicola Persico, è di non avere ascoltato queste autorevoli voci, e di essersi affidati invece a soggetti molto meno adatti a dare consigli in materia.
Guiso ha citato economisti che ammonivano i banchieri: "Come si chiede a un padre se sa dove siano i suoi figli, si chiedeva ai senior manager se sapessero chi e dove deteneva i loro rischi". Accusare gli economisti, ha osservato Guiso, fa gioco ai politici: meglio zittire una categoria che non fa altro che pontificare sulla spesa pubblica e sulla politica economica, spesso criticando le scelte di chi governa. Al massimo, ha concluso nella sua arringa, gli economisti si meritano uno scappellotto, non certo una condanna alla detenzione...
La sentenza verrà resa pubblica domani a mezzogiorno. E subito dopo in tribunale la corte giudicherà altre due categorie fortemente sotto accusa per non aver saputo governare la crisi: i controllori e i politici.
* la Repubblica, 30 maggio 2009
Il libro scritto da Claudio Rendina fa sembrare Dan Brown un principiante
Un’istituzione bimillenaria raccontata nel suo lato peggiore
La "santa Casta" non va in paradiso
I peccati della Chiesa
Ma sulla questione dell’Olocausto l’autore sostiene che Pio XII fece salvare 600 ebrei
In una storia così lunga, per ogni infamia c’è però sempre una virtù
Il caleidoscopio di nequizie ecclesiastiche è ricco di esempi
di Filippo Ceccarelli (la Repubblica, 17.03.2009)
A proposito di odio, morsi, divoramenti in Vaticano e dentro la Chiesa: eh, figurarsi, non è mica la prima volta, da quelle parti la storia offre molto di peggio. E dunque, tenendosi larghi e vaghi, per non dire indulgenti: stragi, avvelenamenti, saccheggi, roghi, torture, idolatrie, simonie, traffici, nepotismi, incesti, pedofilia, riesumazione e vilipendio di cadaveri, con tanto sacri paramenti indosso, e a lungo si potrebbe continuare, secolo dopo secolo, con il soccorso di una imponente documentazione.
A chi invoca a tutto spiano il premiato binomio Radici & Tradizione contro le magagne del presente relativismo; a chi vede la speranza o addirittura intravede la salvezza nel passato trionfale dell’autorità pontificia, forte di valori antichi e inflessibile nella vera fede, si raccomanda vivamente di buttare un occhio su quest’ultimo volume di Claudio Rendina, instancabile erudito che con la consueta asciuttezza si misura questa volta su La Santa Casta della Chiesa (Newton Compton, pagg. 383, euro 12,90). Inevitabilmente suggestivo il sottotitolo: "Duemila anni di intrighi, delitti, lussurie, inganni e mercimonio tra papi, vescovi, sacerdoti e cardinali". Così è, d’altra parte: e continua pure.
Sarebbe ingiusto adesso sminuire il dramma anche personale di Benedetto XVI sulla conduzione della Chiesa. E tuttavia, "nella consapevolezza del lungo respiro che essa possiede", come si legge nella lettera da lui pubblicata l’altro giorno sull’Osservatore romano, occorrerà riconoscere che ad alcuni predecessori di Joseph Ratzinger è andata decisamente peggio; così come altri papi assai più di lui certamente fallirono, o nel modo più spaventoso vennero consigliati, altro che mancata consultazione "mediante l’internet". Il campionario di Rendina, le cui diverse cronologie e gli approfondimenti di storia pontificia si trovano pur sempre nelle librerie intorno alla Santa Sede, offre in questo senso una rimarchevole varietà di esempi: papi eletti tre volte, papi saliti sul sacro trono a suon di quattrini, papi mezzi atei o interamente pagani, papi davvero molto attaccati alle loro famiglie, tanto da battezzare il "nepotismo", papi assassini, bruti, spergiuri, ladroni, perversi, dementi e biscazzieri. Ce n’è uno, Giovanni XII, probabile record-man dei secoli bui, che nominò vescovo il suo amante, un ragazzino di 10 anni, e che scoperto a letto con l’amica, venne poi buttato giù dalla finestra. Ce n’è un altro ben più famoso, Alessandro VI, della famiglia Borgia, che ne fece a tal punto di cotte e di crude, pure la corrida sotto il Cupolone, che nei santini distribuiti "in solemnitate pascali" lo scorso anno nella basilica di San Pietro, e recanti l’immagine de La Resurrezione di Cristo del Pinturicchio, ecco, quel papa lì, che per giunta era il committente dell’opera, ecco, risulta cancellato dal quadro, come nelle foto della nomenklatura sovietica dopo le purghe.
E saranno anche vicende che si perdono nella notte dei tempi, cosa ovvia per un’istituzione bimillenaria. Ma insomma, prima di Rendina, il peccato che sin dall’inizio grava sulla Chiesa ha del resto ispirato la più alta poesia e letteratura, da Iacopone a Dante, da Petrarca fino al Belli, e oltre.
Tutto però sembra oggi rimosso dal discorso pubblico e in particolare dall’armamentario teo-con - secondo l’antica pratica, peraltro evangelica, della pagliuzza e della trave. Dai primissimi commerci di loculi e reliquie nelle catacombe alla controversa carriera dell’odierno comandante delle Guardie Svizzere; dalle torture dell’Inquisizione alle turpi pratiche del fondatore dei Legionari di Cristo, Marcial Maciel, su degli innocenti; dalle cortigiane che nella Curia cinquecentesca si comportavano come autentiche "papesse" fino alle speculazioni edilizie post-risorgimentali, il libro di Rendina certamente si presenta come un caleidoscopio di nequizie ecclesiastiche, un prontuario di immoralità vaticana da far sembrare Dan Brown uno sprovveduto principiante.
Ma al dunque si può e forse addirittura si dovrebbero leggere, queste pagine, come un saggio storico sulla genealogia e gli sviluppi imprevisti di un potere che più di ogni altro sulla faccia della terra costringe degli uomini con la mantella bianca a fare i conti con l’essenza del sacro e al tempo stesso con le inesorabili necessità del profano; e quanto più tale sovranità si concentra sulla materia, sui corpi, sul denaro, sulle apparenze, tanto più automaticamente ne risente lo spirito o lo Spirito, se si preferisce. E sebbene anche per Santa Romana Chiesa i tempi sono quelli che sono, tempi di paure, di ritorni, di sbarramenti, sarebbe sbagliato liquidare questa torbida rievocazione come parte del solito complotto laicista. E non solo perché l’autore è fuori dai giri e anzi, per dire, sulla questione delle responsabilità di Pio XII nell’Olocausto sposa la tesi opposta, sostenendo che la Santa Sede mise in salvo 600 mila ebrei "con un impegno finanziario non indifferente". Ma soprattutto perché da una lettura distaccata e senza pregiudizi appare chiarissimo come in una storia così lunga e così umana per ogni infamia c’è sempre un’eroica virtù; e quindi a ogni mascalzone della Santa Casta corrisponde un santo, a ogni sacro carnefice o barattiere un Francesco d’Assisi, a ogni Borgia un Filippo Neri, a ogni Marcinkus una Madre Teresa di Calcutta.
Questa necessitata ambivalenza si meriterebbe forse una maggiore umiltà. Adesso, per dire, c’è la crisi. Quando se ne videro i primi effetti, nell’autunno scorso, un intelligente uomo di banca, nonché autorevole editorialista dell’Osservatore romano, Ettore Gotti Tedeschi, già segnalatosi per aver consigliato ai manager di fare gli esercizi spirituali, ha spiegato grosso modo in un’intervista che alle origini del disastro finanziario c’è l’etica dei banchieri protestanti, mentre i nostri uomini di finanza, cioè cattolici, "sono in grandissima parte seri, trasparenti e dotati di visione etica".
E meno male che c’è da stare tranquilli! Però poi subito viene da pensare ai bacetti di Fiorani al pio governatore Fazio, o al crack Parmalat e al mega-cattolico Tanzi che scarrozzava cardinali con il suo aeroplano; ed è un peccato che non si possa sentire al riguardo Nino Andreatta, che fu ministro del Tesoro ed ebbe il suo da fare ai tempi dello scandalo Ior; per non dire Sindona e Calvi, poveri morti ammazzati, entrambi a suo tempo "banchieri di Dio".
Che invece Iddio non ne avrebbe tanto bisogno, di banchieri personali o nazionali, a differenza del Vaticano, che invece sono duemila anni che si accanisce e si avvilisce appresso a Mammona in forma di tariffe penitenziali, vendita d’indulgenze, proficue crociate, fabbricazione di giubilei, peripezie valutarie, funambolismi azionari e finanziari. E che magari adesso, in qualche missione "sui iuris" alle Cayman, qualche titoletto tossico nel portafoglio se lo potrebbe anche ritrovare, come del resto è già capitato nelle migliori famiglie della finanza.
Dell’economia e perciò anche della crisi e delle sue vittime il Papa, che ha già detto tante buone parole, pubblicherà presto un’enciclica sociale, "Caritas in veritate". Il titolo suona piuttosto impegnativo, ma certo un gesto simbolico non guasterebbe. Nel frattempo, rispetto a odio, morsi, divoramenti e umane debolezze, vale comunque il salmo 129: "Si iniquitates observaveris, Domine, quis sustinebit?". Se consideri solo le colpe, o Signore, chi mai potrà esistere?
Se torna l’etica nel capitalismo
di Jean Paul Fitoussi (la Repubblica, 23 febbraio 2009)
Sembra che nel periodo in cui viviamo l’etica abbia invaso tutti gli spazi: commercio etico, finanza etica, imprese che adottano una Carta etica, preoccupazione per le generazioni future espresse in tutti i discorsi.
Eppure il capitalismo è ormai come fuori di sé. Mai prima d’ora «l’amore per il denaro», per usare l’espressione di Keynes, l’aveva condotto a simili eccessi: remunerazioni astronomiche ai più facoltosi, speranze realizzate di rendimenti chimerici, oscenità della miseria nel mondo, esplosione delle disuguaglianze, degrado ambientale ecc.
Per spiegare questo paradosso si possono formulare, in sostanza, due sole ipotesi: la prima è che l’etica sia emersa come reazione allo spettacolo sconfortante delle conseguenze morali e sociali di un mondo economico per l’appunto alieno dall’etica. L’altra è che il tema morale costituisca l’elemento chiave di una nuova strategia di marketing, finalizzata a soddisfare più che mai la voglia di accumulare capitale. Del resto, queste due ipotesi non si escludono affatto a vicenda.
Non c’è dunque da stupirsi di quanto avviene nel momento attuale, caratterizzato da una grande distanza tra etica e capitalismo. Ma come spiegarla? È stata l’assenza di etica a spingere il capitalismo sull’orlo dell’abisso? In questo caso viene da pensare a un apologo: l’avidità e la cupidigia sarebbero gli "attivi" più "tossici" della finanza mondiale. Di fatto, non si può scartare l’ipotesi che oggi come ieri, l’abbandono dell’etica abbia portato il sistema alla crisi. «Due sono i vizi più caratteristici del mondo economico in cui viviamo», scriveva Keynes. «Esso non assicura né la piena occupazione, né l’equità della ripartizione della ricchezza e del reddito, che è arbitraria». Da dove procede questo giudizio morale sullo stato del mondo? Oppure, in altri termini: l’economia non è stata definita come scienza per eccellenza, avulsa da ogni considerazione etica?
Il suo irresistibile slittamento dallo status di disciplina morale e politica verso quello di economia-scienza, concepita come un ramo della matematica applicata, si è cristallizzato in un concetto di economia di mercato, apparentemente scevro da ogni connotazione storica o istituzionale. Eppure il capitalismo è senza dubbio una forma di organizzazione storica, con una sua precisa collocazione (un modo di produzione, direbbe Marx), nata dalle macerie e dalle convulsioni politiche dell’Ancien régime. Perciò il suo destino non è inciso nel marmo. In due parole, non è dissociabile dal politico. È l’interdipendenza tra lo Stato di diritto e l’attività economica a conferire al capitalismo la sua unità. L’autonomia dell’economia è dunque un’illusione, come lo è la sua presunta capacità di autoregolarsi. Ed è proprio perché il bilanciere si è inclinato un po’ troppo verso quest’illusione che siamo giunti all’attuale rottura.
Dal punto di vista dell’etica, questo movimento del bilanciere corrisponde a un’inversione dei valori. Il rispetto dell’etica, si pensava, può essere meglio garantito imponendo più regole al funzionamento degli Stati (soprattutto in Europa, ma la teoria ci viene dall’America) e meno regole ai mercati. E a fare il resto ha provveduto dapprima l’ingegnosità dei mercati finanziari, poi il loro accecamento. Non è neppure il caso di sottolineare qui quanto fosse lontana dall’etica la grossa bugia delle istituzioni finanziarie, quando promettevano a tutti i loro clienti - contro ogni logica aritmetica - rendimenti superiori alla media. Era solo incompetenza? O forse, come recentemente ha osservato Paul Krugman, in fin dei conti l’attività finanziaria lecita non si è rivelata moralmente superiore a quella di un Bernard Madoff?
In ogni caso, alla radice del deficit etico del capitalismo contemporaneo c’è l’inversione della gerarchia tra politica ed economia, o spesso la pura e semplice subordinazione della prima alla seconda. Lo scandalo etico del nostro tempo sta nella globalizzazione della povertà, diffusa ormai anche nei Paesi più ricchi; e ancor più nell’accettazione di un grado insostenibile di sperequazione nei regimi democratici. Di fatto, il nostro sistema procede da una tensione tra due principi: quello del mercato e della disuguaglianza da un lato (un euro, un voto) e dall’altro quello della democrazia e dell’uguaglianza (una persona, un voto). E ciò comporta di necessità la ricerca permanente di una via di mezzo, di un compromesso.
La tensione tra questi due principi è dinamica, in quanto consente al sistema di adattarsi senza incorrere nella rottura che invece generalmente si produce nei sistemi retti da un solo principio organizzativo (il sistema sovietico). In altri termini, la tesi in base alla quale il capitalismo è sopravvissuto come forma dominante di organizzazione economica solo grazie alla democrazia, piuttosto che suo malgrado, appare intuitivamente assai più convincente. Ne abbiamo oggi una nuova dimostrazione.
Una normale gerarchia di valori esigerebbe allora che il principio economico sia subordinato alla democrazia, e non viceversa. Ora, i criteri generalmente adottati per giudicare se una politica o una riforma siano ben fondate o meno sono criteri di efficienza economica. Dan Usher ha proposto un altro criterio, che consiste nel chiedersi se una riforma sia suscettibile di rafforzare la democrazia, o al contrario di indebolirla; di promuovere l’adesione dei cittadini al regime politico, o di ridurla. Come appare evidente oggi, è questo il criterio giusto. In nome di quale pretesa efficienza si costringerebbero le persone a essere meno solidali di quanto vorrebbero?
Di fatto, i rapporti tra democrazia e mercato sono più complementari che conflittuali. Impedendo al mercato di generare esclusione, la democrazia rafforza la legittimità del sistema economico; e il mercato a sua volta favorisce l’adesione alla democrazia limitando l’incidenza del politico sulla vita dei cittadini.
Quando il valore primario è l’accumulazione del capitale, lo spettacolo del denaro facile offusca gli orizzonti temporali. L’anomalia di rendimenti finanziari eccessivi contribuisce al deprezzamento del futuro, all’impazienza verso il presente, alla disaffezione per il lavoro. Non c’è bisogno di ricorrere all’Antico Testamento, ad Aristotele o a Tomaso D’Aquino per illustrare la problematicità dei rapporti tra l’etica e il rendimento del denaro. Basta fare riferimento ad Adam Smith - non alla sua Teoria dei sentimenti morali, bensì alla Ricchezza delle nazioni. Smith postulava un controllo rigoroso dei tassi d’interesse, per un motivo apparentato a quello che ho appena sottolineato: il rischio di un deprezzamento del futuro. Scrive Adam Smith: «Se il tasso d’interesse legale in Gran Bretagna fosse fissato a un livello molto elevato quale ad esempio l’8 o il 10% ... gran parte del capitale del Paese sarebbe sottratto ai soggetti in grado di farne probabilmente l’uso più proficuo, per cadere nelle mani di chi finirebbe per dilapidarlo o distruggerlo».
Il deprezzamento del futuro, in conseguenza di insostenibili pretese di rendimenti finanziari (ieri), o di tassi d’interesse anormalmente alti (oggi) si pone in contrasto con l’orizzonte temporale della democrazia, necessariamente di lungo periodo. E questa contrapposizione pregiudica la possibilità degli Stati di fornire beni pubblici essenziali, e in particolare quei beni che dovrebbero rispondere alle preoccupazioni per le generazioni future.
Il benessere dell’attuale generazione può essere analiticamente dissociato da quello delle generazioni future, o accresciuto a spese di queste ultime; in altri termini, tra le generazioni di oggi e di domani esiste in teoria un arbitraggio politico. Una delle chiavi di quest’arbitraggio è il tasso sociale di preferenza temporale, che ad esempio Nicholas Stern ha scelto di considerare pari a 0. Evidentemente, a determinarlo dovrebbe essere il dibattito politico, cioè la democrazia.
I rapporti tra le generazioni non sono tanto semplici da consentire l’ipotesi di un altruismo generalizzato. Esiste tuttavia un ambito in cui il benessere delle generazioni presenti e di quelle future si può considerare più complementare che alternativo: quello della giustizia sociale. Quando le disuguaglianze sono stridenti, una parte importante della società non ha più alcuna possibilità di proiettarsi nel futuro, neppure se lo desidera, imprigionata com’è nelle necessità impellenti del presente e del quotidiano. La questione ecologica si può allora riassumere nei seguenti termini: di quale politica abbiamo bisogno per consentire a ciascuno di proiettarsi nel futuro? Nell’ipotesi ottimistica che l’altruismo intergenerazionale sia "un sentimento morale" spontaneo, come sembra peraltro indicare l’attenzione di tutti noi per la sorte dei nostri figli, appare evidente che una riduzione delle disuguaglianze potrebbe riconciliare il capitalismo con il lungo termine.
In sintesi, per restituire più etica al capitalismo conviene approfittare dell’attuale momento di rottura negativa per rompere anche concettualmente con un passato dottrinale che ci ha condotto alle gravi turbolenze di oggi.
Allo stesso modo, per restituire prospettive al futuro servirebbe una "deregulation delle democrazie", riservando cioè più spazio alla volontà politica, e imponendo al tempo stesso più regole ai mercati. Ma non è proprio questo che oggi si sta verificando spontaneamente?
Sarebbe inoltre il caso di prendere più sul serio l’attività deliberativa sulle norme di giustizia che caratterizzano la democrazia. Il grado di disuguaglianza accettabile dovrebbe essere oggetto di una deliberazione pubblica annuale in sede parlamentare. Questo dibattito, basato sulle informazioni fornite degli istituti di statistica e dal lavoro dei ricercatori, avrebbe l’insigne vantaggio di evitare la deriva delle società democratiche verso livelli di disuguaglianza insostenibili, in assenza di controlli e di campanelli d’allarme e senza che l’opinione pubblica ne sia informata. La pubblicità che dovrebbe essere data ai dibattiti e la loro solennità permetterebbe di interrompere, una volta tanto, la concorrenza sociale e fiscale verso il basso, con la conseguente distruzione di beni pubblici. La speranza è che possa instaurarsi al suo posto una concorrenza verso l’alto.
Traduzione di Elisabetta Horvat
"Denaro e paradiso"
(Il Sole-24ore, 30 dicembre 2004) *
Facili ai nodi e agli intrichi i fili di quella trama complessa che è l’economia di mercato, il capitalismo e la globalizzazione. Tesi da un capo all’altro del mondo, a creare sia pur acrobatici percorsi di solidarietà; o mossi dall’alto, a governare culture e destini secondo la famigerata legge del più ricco. Fili d’oro che possono, tuttavia, “entrare, a buon diritto, nella famosa cruna dell’ago”. Parola di Rino Cammilleri ed Ettore Gotti Tedeschi che, nel saggio a due mani “Denaro e paradiso. L’economia globale e il mondo cattolico”, sostengono la tesi secondo cui la morale cattolica, lungi dal demonizzare la ricchezza tout court, rappresenta, in realtà, “un potenziale vantaggio competitivo” laddove il lavoro e la coscienza individuale si pongano realmente al servizio della collettività.
Un saggio divulgativo, orientato dalle domande incalzanti di Cammilleri, autore di numerosi libri a tema religioso e della rubrica ”Il santo del giorno” tenuta su “Il Giornale”, cui risponde la sensibilità e il pragmatismo di Gotti Tedeschi, banchiere di professione, economista, docente universitario ed editorialista, nonché consigliere di amministrazione della Cassa Depositi e Prestiti. Un percorso agevole, curioso, che non manca di citare voci autorevoli dell’economia - da Robert Sirico a Frederic Hayek - e del pensiero religioso - dalle numerose Encicliche papali a San Josemaria Escrivà de Balaguer, fondatore dell’Opus Dei-. Nonché articoli, lettere, significative date storiche ed eventi di cronaca (il caso Parmalat liquidato come caustico esempio di “bari che pagano dazio”).
Dedicato ai credenti e, più ottimisticamente, ai non credenti, il libro si getta con disinvoltura in un oceano di Carta e Moneta. Tentando di dribblare l’inevitabile ripetitività di alcune risposte, di fronte a una tesi di cui gli stessi autori ammettono le difficoltà di applicazione nell’attuale contesto globale. Ricchezza, economia e capitalismo non sono, infatti, che strumenti neutri i cui effetti dipendono dalla coscienza di chi è chiamato a destreggiarsi tra leggi di mercato, competizione e profitto. Semplici quanto la Verità, del resto, sono le premesse del testo: l’uomo non deve mai essere un mezzo, ma un fine. E se la finalità della creatura umana consiste nel collaborare all’opera del suo Creatore, in santità, libertà e creatività, il capitalismo, correttamente applicato in forza delle sue origini cristiane, risulta essere la forma migliore di economia. Sia lo Stato assistenziale, che soccorre senza stimolare ingegno e iniziativa, sia le uguaglianze forzatamente imposte sotto l’egida di ideologie risultano, in ultima istanza, un “sintomo di ingiustizia”. E la stessa povertà subita, del resto, non rappresenta di per sé alcun merito. Prova ne sia il fatto che proprio in ambiente francescano alcuni pensatori del XIII-XIV secolo, quali San Bernardino da Siena o il beato Giovanni Duns Scoto, elaborarono raffinati concetti economici come giusto prezzo, interesse, produttività del denaro o sconto. E i monasteri benedettini medievali rappresentarono, in una sapiente miscela di distacco e operosità, una sorta di “Silicon Valley” dove si svilupparono tecniche nel campo della siderurgia, energia, idraulica, tessitura e costruzioni. Non è dunque un motto di spirito l’affermazione di Gotti Tedeschi secondo cui Papa Giovanni Paolo II, sostenitore del libero mercato e della globalizzazione come occasione per “globalizzare anche il bene”, sarebbe un ottimo candidato per il Nobel in economia.
Globalizzare il bene, dunque: non è uno slogan, è il Futuro. Che passa attraverso le accuse di americanizzazione, gli inviti alla responsabilizzazione dei paesi sottosviluppati, le superbe prospettive di biologia e eugenetica e, soprattutto, il rischio di ridurre la morale ad etica sociale, “utile ma non vissuta”. Dimenticando che non la tecnologia ma lo spirito umano sono chiamati a costruire la storia. E che la morale cattolica, già stigmatizzata dall’illuminismo come scomodo vincolo per una natura umana intrinsecamente buona, già dichiarata senza appello dal marxismo oppio dei popoli, rischia oggi di essere messa da parte proprio a causa della sua visione globale dell’uomo come essere terreno e soprannaturale. Non a caso, dunque, il saggio si chiude con un’insolita preghiera dell’economista “etico”. Parole concrete -manager, pensioni, inflazione- con tanto di Amen conclusivo. Nella consapevolezza che “la concreta applicazione della morale cattolica all’economia implicherebbe la sua accettazione da parte di tutti: una condizione da santi nel Paradiso terrestre”.
*
Scusi, ma quello non è il capitalismo?
di AlbertoBurgio, Vladimiro Giacché (Il manifesto, 12 novembre 2008)
In questi giorni è di gran moda tributare onori al vecchio Marx. La crisi del capitalismo incoraggia le palinodie. Ancora ieri era un reperto fossile, oggi è la mascotte di banchieri e economisti di radicata (e in realtà incrollabile) fede liberista. Lasciamo andare ogni considerazione sulla scarsa decenza di tanti improvvisi ripensamenti. Proviamo piuttosto a divertirci un po’ immaginando lo spasso che procurerebbero a Marx tutti questi discorsi e quanto sta accadendo in queste turbolente settimane. A Marx e non soltanto a lui. C’è un altro grande vecchio, di cui nessuno parla, che si sta godendo una tardiva ma non imprevista rivincita. Un vecchio molto caro all’autore del Capitale. Insomma, questa crisi è un momento di riscatto anche per Hegel, il grande maestro di Marx. Attenti a quei due. La rappresentazione prevalente descrive un movimento che va dalla crisi finanziaria («originata - recita la vulgata - dalla caduta dei mutui subprime») all’economia reale.
Le implicazioni di questa narrazione ideologica sono principalmente due. La prima è che l’«economia reale» (in sostanza, il capitalismo) sarebbe di per sé sana; la seconda, che ne consegue, è che si tratta in definitiva di un problema di «assenza di regole e controlli» in grado di prevenire (e adeguatamente reprimere) i comportamenti «devianti» degli speculatori troppo ingordi. Tale descrizione omette il dato essenziale. Prima del movimento descritto, ne opera uno opposto (dall’economia reale alla finanza) che si fa di tutto per occultare. Si capisce perché.
In realtà è il modo in cui funzionano la produzione e la riproduzione (cioè il rapporto capitale-lavoro) a decidere il ruolo della finanza e le forme concrete del suo funzionamento. Nella fattispecie, è l’ipersfruttamento del lavoro (a mezzo di precarizzazioni, delocalizzazioni, bassi salari e tagli del welfare) a far sì che all’indebitamento di massa sia affidato il ruolo di fondamentale volano della crescita. Non stupisce allora che su questo si cerchi di instaurare un tabù. Non si può dire chiaramente - pena l’esplicita delegittimazione del sistema - che all’origine della crisi è la crescente povertà imposta alle classi lavoratrici da trent’anni a questa parte.
Ma che c’entra Marx con questo e cosa c’entra soprattutto Hegel? Proviamo a vederla così. Se è vero che l’economia reale è sia il luogo originario del processo di crisi, sia il terreno del suo compiuto dispiegarsi, allora si può dire che la produzione si serve della finanza per sopravvivere. Nel concreto, la speculazione finanziaria fondata sull’indebitamento è il mezzo che il capitale usa per svilupparsi in costanza del vincolo-base del neoliberismo: la deflazione salariale a tutela del saggio di profitto.
Ora, questo schema è identico a quello su cui riposa la critica marxiana della valorizzazione capitalistica. In base a tale schema, com’è noto, la quantità di valore aumenta passando attraverso la produzione di merce. La quale - dal punto di vista del capitale - non è che lo strumento necessario per riprodursi e svilupparsi.
Non si tratta di un’analogia formale né, tanto meno, accidentale. La finanza oggi svolge, in rapporto alla produzione capitalistica, una funzione identica a quella che, nel processo di riproduzione del capitale, è assolta dalla merce. La finanziarizzazione dell’economia, cuore del neoliberismo, affianca alla sequenza D-M-D1 (beninteso, l’unica nel contesto della quale si realizza un effettivo aumento di valore) la sequenza produzione-speculazione-produzione, funzionale a drenare cospicue masse di ricchezza dal lavoro al capitale: una sequenza nella quale si rispecchiano a un tempo il ruolo-chiave svolto dal denaro e la funzione decisiva assolta dalla povertà del lavoro.
A sua volta, questo schema è identico a quello che struttura l’analisi dialettica del reale nelle pagine di Hegel, in particolare nella Scienza della logica. Non tanto per la sua struttura triadica (a-b-a1: tesi-antitesi-sintesi), che ne costituisce la veste esteriore. Quanto per il nòcciolo teoretico che contiene, cioè l’idea che il passaggio da un ente a un altro (il negarsi a vantaggio dell’«altro da sé») sia in realtà (al di là di ciò che appare sul piano fenomenologico) un transito necessario al primo ente per conservarsi. In questo senso il primo ente è il protagonista dell’intero movimento, nella misura in cui trasforma se stesso e, trasformandosi, sopravvive.
Ce n’è già abbastanza, forse, per dire che la filosofia ogni tanto si prende delle grandi soddisfazioni. Sembra a prima vista un catalogo di criptiche astrazioni, si rivela invece una potente chiave per penetrare la realtà e decifrarne le dinamiche. L’astrazione coincide così col massimo di semplicità e di concretezza. Ma c’è dell’altro. Anzi, il bello viene proprio adesso.
La dialettica mostra che l’ente da cui il movimento prende avvio (la produzione capitalistica) è il protagonista della storia (della crisi). Ma mostra anche che la trasformazione dell’ente (necessaria alla sua sopravvivenza) implica quel passaggio (la finanziarizzazione), quel suo negarsi nell’altro. Mostra cioè che non vi è persistenza senza conflitto, senza duro contrasto, senza negazione di sé. Solo venendo meno, passando attraverso la propria morte, la cosa persiste e si sviluppa.
Questo è il punto, evidentemente gravido di conseguenze. La produzione capitalistica si rivolge alla finanza speculativa per una sua inderogabile esigenza (per realizzare la riproduzione allargata del capitale). Alla base opera la necessità di impoverire il lavoro, pena l’estinguersi dei margini di profitto, cioè del capitale stesso. Dopodiché la speculazione finanziaria torna sulla produzione in forma distruttiva. È indispensabile al capitale, ma è altresì incompatibile con la sua sopravvivenza. In altre parole, la produzione capitalistica si serve della speculazione per conservarsi ma, nel far ciò, è costretta anche - paradossalmente - a negare se stessa, a autodistruggersi a mezzo dell’onda d’urto della crisi finanziaria, che agisce come formidabile moltiplicatore economico degli effetti socialmente distruttivi dell’ipersfruttamento del lavoro vivo.
In cauda venenum. La filosofia è come un fascio di raggi X puntato sui processi reali e sulle loro rappresentazioni ideologiche. La dialettica è una potenza dinamitarda. Hegel e Marx, quei due «cani morti» che già in passato turbarono i sonni delle borghesie europee, ancora se la ridono.
Regolamentazione della finanza o superamento del capitalismo?
Marx contrattacca
di Lucien Sève *
Le Monde Diplomatique, Paris - dicembre 2008, 55° anno, n° 657
(traduzione dal francese di José F. Padova)
* filosofo, ha appena pubblicato il secondo volume di Penser avec Marx aujourd’hui (Pensare con Marx, oggi) intitolato L’Homme? (L’Uomo?), La Dispute, Paris.
Trascurati dai partiti socialisti europei come “lunatico vecchiume semplicistico” con il quale sarebbe urgente troncare, screditati all’università dove per lungo tempo furono insegnati come una base dell’analisi economica, i lavori di Karl Marx suscitano nuovamente interesse. Il filosofo tedesco non ha forse analizzato minuziosamente la meccanica del capitalismo i cui sussulti fanno perdere la bussola agli esperti? Mentre gli illusionisti pretendono di «moralizzare» la finanza, Marx si è dedicato a mettere a nudo i rapporti sociali.
Si era quasi riusciti a persuadercene: la storia era terminata, il capitalismo, con generale soddisfazione, costituiva la forma definitiva dell’organizzazione sociale, la «vittoria ideologica della destra», parola di primo ministro, era ormai attuata, soltanto alcuni incurabili rimuginatori agitavano ancora il trastullo di non si sa quale futuro.
Il formidabile terremoto finanziario dell’ottobre 2008 ha spazzato via d’un colpo solo questa costruzione mentale. A Londra il Daily Telegraph scrive: «Il 13 ottobre 2008 rimarrà nella storia come il giorno in cui il sistema capitalista britannico ha riconosciuto di aver fallito (1)». A New York i manifestanti brandiscono davanti a Wall Street cartelli con «Marx aveva ragione!». A Francoforte un editore annuncia che le vendite di Il Capitale sono triplicate. A Parigi una nota rivista esamina, in un fascicolo di trenta pagine, a proposito di colui che si diceva definitivamente morto, «le ragioni di una rinascita (2)». La storia si riapre...
Immergendosi in Marx più d’uno fa scoperte. Parole scritte un secolo e mezzo addietro vi sembrano parlare di noi con un’acutezza sorprendente. Esempio: «Dato che l’aristocrazia finanziaria dettava le leggi, dirigeva la gestione dello Stato, disponeva di tutti i poteri pubblici costituiti, dominava l’opinione pubblica di fatto e mediante la stampa, si riproducevano a tutti i livelli, dalla Corte fino al bar malfamato, la medesima prostituzione, lo stesso imbroglio spudorato, la medesima sete di arricchirsi non già mediante la produzione, ma con la sottrazione della ricchezza altrui (3)». Marx con questo descriveva lo stato delle cose in Francia alla vigilia della rivoluzione del 1848... Di che fare sognare.
Tuttavia, al di là di rassomiglianze avvincenti, le differenze epocali rendono ingannevole ogni trasposizione diretta. L’attualità, nuovamente evidente, di questa magistrale Critica dell’economia politica, in cui consiste Il Capitale di Marx, si pone molto più in profondità.
Da dove viene in realtà l’ampiezza della crisi presente? Leggendo ciò che se ne scrive in prevalenza, si dovrebbe porre in discussione la volatilità di prodotti finanziari sofisticati, l’incapacità del mercato dei capitali di regolarsi da sé, il livello infimo della moralità di chi tratta denaro... In breve, lacune del solo sistema che regge ciò che, in contrasto con l’ «economia reale», si definisce «economia virtuale» - come se non si fosse appena misurato quanto essa pure reale lo sia.
Eppure la crisi iniziale dei subprime è proprio nata dalla crescente mancanza di denaro di milioni di nuclei famigliari americani a fronte del loro indebitamento di candidati alla proprietà. Cosa questa che obbliga ad ammettere che in fin dei conti il dramma del «virtuale» ha le sue radici proprio nel «reale». E il «reale», nel caso specifico, è l’insieme su piano mondiale dei poteri d’acquisto popolari. Sotto l’esplosione della bolla speculativa formata dal rigonfiarsi della finanza vi è l’incetta universale da parte del capitale della ricchezza creata dal lavoro e, sotto questa distorsione in cui la parte spettante ai salari è diminuita di più di dieci punti percentuali, colossale diminuzione, in nome del dogma neoliberista vi è per i lavoratori un quarto di secolo di austerità.
I trombettieri della moralizzazione
Mancanza di regolamentazione finanziaria, di responsabilità nella gestione, di moralità della Borsa? Certamente. Ma la riflessione senza tabù spinge ad andare molto più lontano: a mettere in discussione il dogma gelosamente protetto di un sistema di per sé al disopra di ogni sospetto, a meditare su quella spiegazione ultima delle cose che Marx chiama «legge generale dell’accumulazione capitalista». Egli dimostra che là dove le condizioni sociali della produzione sono proprietà privata della classe capitalista, «tutti i mezzi che mirano a sviluppare la produzione si invertono in mezzi di dominio e di sfruttamento di chi produce», sacrificato all’accaparramento di ricchezza da parte dei possidenti, accumulazione che si nutre di sé stessa e tende quindi a diventare folle. «L’accumulo di ricchezza a un polo» ha come necessario rovescio un’ «accumulazione proporzionale di miseria» all’altro polo, dal che rinascono inesorabilmente gli inizi di crisi commerciali e bancarie violente (4). È proprio di noi che si tratta.
La crisi è esplosa nel settore del credito, ma la sua potenza devastante si è formata in quello della produzione, con la ripartizione senza sosta sempre più disuguale dei valori aggiunti fra lavoro e capitale, sconvolgimento questo che un sindacalismo navigante in acque basse non ha potuto impedire e che è stato accompagnato da una sinistra socialdemocratica nella quale si tratta Marx come un cane ormai crepato. Si concepiscono allora quelle che possono valere come soluzioni della crisi - «moralizzazione» del capitale, «meccanismo di regolazione» della finanza - strombazzate da politici, amministratori, ideologi che ancora ieri fustigavano il benché minimo dubbio sulla giustezza del «tutto liberista».
«Moralizzazione» del capitale? Parola d’ordine che merita il premio per l’umorismo macabro. Se effettivamente vi è un ordine di considerazioni che volatilizza qualsiasi regime di sacrosanta libera concorrenza è proprio la considerazione morale: l’efficacia del suo cinismo vince ogni volta in modo tanto sicuro quanto è vero che la moneta cattiva scaccia quella buona. La preoccupazione «etica» è pubblicità.
Marx risolveva la questione in poche righe della prefazione al Capitale: «Non dipingo in alcun modo di rosa il personaggio del capitalista o del proprietario terriero», ma «meno di ogni altra la mia prospettiva, nella quale lo sviluppo della società in quanto formazione economica è inteso come un processo di storia naturale, potrebbe rendere l’individuo responsabile di rapporti dei quali egli rimane socialmente un prodotto (5)»... Ecco perché non basterà certamente distribuire qualche sberla per «rifondare» un sistema nel quale il profitto resta l’unico criterio.
Non si tratta di essere indifferenti all’aspetto morale delle cose. Anzi, al contrario. Ma, preso sul serio, il problema è di tutt’altro ordine che non la delinquenza di dirigenti farabutti, l’incoscienza di trader impazziti o perfino l’indecenza dei paracadute dorati. Ciò che il capitalismo ha d’indifendibile sotto questo aspetto, al di là di ogni comportamento individuale, è il suo stesso principio: l’attività umana che crea le ricchezze vi ha lo status di merce e vi è quindi trattata non come fine in sé stessa, ma come semplice mezzo. Non vi è bisogno di aver letto Kant per vedervi la sorgente permanente dell’amoralità del sistema.
Se si vuole moralizzare sul serio la vita economica occorre prendersela veramente con ciò che la rende immorale. Questo passa di certo - divertente riscoperta, questa, da parte di più di un liberista - attraverso la ricostruzione delle regolamentazioni statali. Tuttavia a questo scopo fare fondamento sul puntello sarkozysta dello scudo fiscale per i ricchi e della privatizzazione della Posta passa i confini dell’ingenuità. Dal momento che si pretende di affrontare la questione della regolamentazione è imperativo ritornare ai rapporti sociali fondamentali - e qui, di nuovo, Marx ci offre un’analisi di imprescindibile attualità: quella dell’alienazione.
Nel suo senso primario, elaborato in testi celebri della [sua] giovinezza (6), il concetto definisce quella maledizione che costringe chi riceve salario dal capitale a non produrre la ricchezza per altri se non producendo la sua propria indigenza materiale e morale: deve perdere la sua vita per guadagnarsela. La multiforme disumanità, della quale sono vittime in massa i salariati d’oggi (7), dall’esplosione delle patologie dei lavori a quella dei licenziamenti borsistici passando per quella dei bassi salari, illustra molto crudelmente la precisione che una tale analisi conserva.
Ma nei suoi lavori della maturità Marx attribuisce all’alienazione un significato ancora più vasto: poiché il capitale riproduce senza sosta la radicale separazione fra mezzi di produzione e produttori - fabbriche, uffici, laboratori non appartengono a coloro che vi lavorano -, le loro attività produttive e cognitive, non controllate collettivamente alla base, sono abbandonate all’anarchia del sistema della concorrenza, nel quale si trasformano in processi tecnologici, economici, politici, ideologici incontrollabili, gigantesche forze cieche che li soggiogano e li schiacciano.
Gli uomini non fanno la loro storia, è la loro storia che li fa. La crisi finanziaria dimostra in modo terrificante quell’alienazione, proprio come lo fanno la crisi ecologica e ciò che si deve definire la crisi antropologica, quella delle vite umane: nessuno ha voluto questa crisi, ma tutti la subiscono.
Da questo «spossessamento generale» portato alle estreme conseguenze dal capitalismo risorgono in modo irrefrenabile le rovinose assenze di regole concertate. Anche colui che si vanta di «regolare il capitalismo» è a colpo sicuro un ciarlatano politico. Regolare sul serio esigerà molto più dell’intervento statale, per quanto possa essere necessario, perché poi chi regolerà lo Stato? Occorre che riprendano possesso dei mezzi di produzione coloro che producono, materialmente e intellettualmente, riconosciuti infine per ciò che essi sono, e che non sono gli azionisti: i creatori della ricchezza sociale, che in quanto tali hanno un diritto irrecusabile di prendere parte alle decisioni della gestione, là dove si decide della loro stessa vita.
Di fronte a un sistema la cui flagrante incapacità di regolare sé stesso ci costa un prezzo esorbitante è necessario, seguendo Marx, avviare senza ritardi il superamento del capitalismo, lunga marcia verso un’altra organizzazione sociale nella quale gli umani, in nuove forme associative, controlleranno insieme le loro potenze sociali diventate folli. Tutto il resto è polvere negli occhi, quindi tragica disillusione promessa.
Si va ripetendo che Marx, forte nella critica, sarebbe privo di credibilità per quanto riguarda le soluzioni, perché il suo comunismo, «messo alla prova» all’Est, sarebbe radicalmente fallito. Questo come se il defunto socialismo di Stalin-Breznev avesse avuto qualcosa di veramente comune con l’intento comunista di Marx, del quale d’altra parte nessuno cerca di cogliere nuovamente il senso reale, agli antipodi di ciò che l’opinione corrente mette sotto il temine «comunismo». Di fatto, è in modo del tutto diverso che si abbozza sotto i nostri occhi ciò che potrà essere, in senso autenticamente marxista, il «superamento» del capitalismo nel XXI secolo (8).
Ma qui ci fermano: volere un’altra società sarebbe un’utopia micidiale, perché non si cambia l’uomo. E l’ «uomo», il pensiero liberista sa chi è: un animale che ha essenzialmente quello che è non dal mondo umano ma dai suoi geni, un calcolatore mosso dal suo solo interesse d’individuo _ Homo œconomicus (9) -, con il quale non è quindi possibile se non una società di proprietari privati in concorrenza «libera e non falsata».
Ora anche questo pensiero ha fatto bancarotta. Sotto la spettacolare disfatta del liberalismo pratico si consuma con minor rumore il fallimento del liberalismo teorico e del suo Homo œconomicus. Fallimento doppio. Scientifico innanzitutto. Nel tempo in cui la biologia si distacca da un «tutto genetico» semplicistico, le ingenuità dell’idea di «natura umana» saltano all’occhio. Dove sono i geni, annunciati a suon di trombe, dell’intelligenza, della fedeltà o dell’omosessualità? Quale spirito colto può credere che la pedofilia, per esempio, sarebbe congenita?
E fallimento etico. Perché ciò che da lustri l’ideologia dell’individuo concorrenziale sponsorizza è una pedagogia disumanizzante del «diventa un killer», una liquidazione programmata delle solidarietà sociali non meno drammatica dello scioglimento dei ghiacci polari, una decivilizzazione a 360° da parte della follia del denaro facile. Che dovrebbe fare arrossire chi osi annunciare una «moralizzazione del capitalismo». Sotto il naufragio storico dove affonda e ci affonda la dittatura della finanza vi è quello del discorso liberista sull’ «uomo».
E qui vi è la più inaspettata attualità di Marx. Perché questo formidabile critico dell’economia è anche, allo stesso tempo, l’iniziatore di una vera rivoluzione nell’antropologia; dimensione incredibilmente misconosciuta del suo pensiero, che non è possibile esporre in venti righe.
Ma la sua sesta tesi su Feuerbach ce ne dice lo spirito in due frasi: «L’essenza umana non è un’astrazione inerente all’individuo preso a sé. Nella sua realtà, è l’insieme dei rapporti sociali». All’opposto di quanto immagina l’individualismo liberista, l’ «uomo» storicamente sviluppato è il mondo dell’uomo. Per esempio, lì e non nel genoma esiste il linguaggio. Lì prendono origine le nostre funzioni psichiche superiori, come ha superbamente dimostrato quel marxista a lungo sconosciuto che fu uno dei più grandi psicologi del XX secolo: Lev Vygotski, che ha così aperto la strada a una visione completamente diversa dell’individualità umana.
Marx è attuale e perfino più di quanto si pensi? Sì, se si vuole attualizzare l’immagine tradizionale che di lui troppo spesso ci si fa. The Daily Telegraph, Londra, 14 ottobre 2008
(1) Le Magazine littéraire, n° 479, Paris, ottobre 2008.
(2) Karl Marx, Les Luttes de classes en France, Editions sociales, Paris, 1984, p. 84-85; citato in Manière de voir, n° 99, «L’Internationale des riches», juin-juillet 2008.
(3) Karl Marx, Le Capital, tomo I, Editions sociales, 1983, ou Presses universitaires de France, Paris, 1993, p. 724.
(4) Le Capital, tomo 1, p. 6.
(5) «Le travail aliéné», Manuscrits de 1844, Flammarion, Paris, 1999.
(6) Lire Christophe Dejours, Travail, usure mentale, Bayard Paris, 2000; «Aliénation et clinique du travail», Actuel Marx, n°39, «Nouvelles aliénations», Paris, 2006.
(7) Dans Un futur présent, l’après-capitalisme, La Dispute, Paris, 2006, Jean Sève abbozza un quadro impressionante di questi inizi di superamento che si possono osservare in settori molto differenti.
(8) Leggere fra gli altri Tony Andréani, Un étre de raison. Critique de l’Homo œconomicus, Syllepse, Paris, 2000.
Murdoch contro l’élite globale? *
Su Market Watch (Wall Street Journal) un articolo sorprendente: ’’Dietro Davos c’è una cospirazione di super-ricchi quarantennale che finora ha provocato solo disastri. Una rivoluzione violenta li rovescerà’’
Dietro il Wold Economic Forum di Davos opera una società segreta, una cospirazione dei super-ricchi che, come nei malvagi piani di Blofeld, il capo della Spectre, mira apertamente a dominare il mondo concentrando sempre più potere e ricchezza nelle proprie mani. Il forum di Davos è un disastro che nel corso degli ultimi quarant’anni ha creato un mondo sempre più diseguale, povero di risorse e afflitto da sempre maggiori povertà, malattie e guerre. Ma i super-ricchi di Davos non si accorgono che il capitalismo reaganiano è per sua natura autodistruttivo e, nonostante la repressione del dissenso, è fatalmente destinato a essere rovesciato da una rivoluzione violenta.
Questo non è un post anonimo pubblicato su Indymedia da qualche giovane militante anarchico no-global, ma il fedele sunto di un lungo e sorprendente articolo scritto pochi giorni fa dal principale editorialista del sito di analisi finanziaria Market Watch, collegato al Wall Street Journal e quindi di proprietà del magnate Robert Murdoch - che, tra l’altro, ha disertato il forum svizzero.
Il titolo del pezzo, a firma di Paul Farrel, è ’I super-ricchi a Davos: 40 anni di disastri’.
http://www.marketwatch.com/story/the-super-rich-at-davos-40-years-of-disaster-2011-01-25
Merita leggerlo, almeno nelle parti salienti.
Davos, Alpi svizzere. Meeting annuale del noto World Economic Forum, club di soli invitati che dal 1971 riunisce super-ricchi e loro amici all’insegna del mantra positivo: ’’Impegnati a migliorare lo stato del mondo’’. Ma stanno fallendo. Negli ultimi 40 anni i ricchi sono diventati più ricchi e i poveri sono stati spazzati via. C’è qualcosa si terribilmente sbagliato. Quando si parla di economia globale, Davos è un disastro. Perché? Dentro Davos c’è una società segreta, una cospirazione di super-ricchi che coinvolge oltre metà dei 2.500 partecipanti all’evento. Hanno migliaia di miliardi. Arrivano a Davos viaggiando a 50 mila piedi sui loro jet privati Gulfstream 5 esentasse, mangiando caviale, fois gras, filetto e bevendo Dom Perignon (...).
Ora passiamo in una realtà parallela: (...) Nel film ’Al servizio segreto di Sua Maestà’, James Bond vola all’Istituto di Blofeld sulle Alpi, noto per le sue avanzate attività di ricerca scientifica, ma che nasconde dietro le quinte un piano diabolico. Dopo una cena formale, Bond scopre che Blofeld fa il lavaggio del cervello a dieci splendide signore, gli Angeli della Morte, per spargere uan tossina mortale in giro per il mondo, un arma biologica di distruzione di massa, allo scopo di prendere in ostaggio il pianeta per ottenere fama, ricchezza e potere assoluto. Si gente: in sostanza la cospirazione dei super-ricchi di Davos ricorda il tentativo di Blofeld di conquistare il mondo. Ma purtroppo, nella realtà non esiste nessun eroe alla James Bond, e la flotta di jet privati può ben essere pilotata da personale dei servizi segreti e sorvegliata da agenti Cia, tutti pagati dal Congresso per proteggere i loro finanziatori nella cospirazione.
(...) Domandatevi perché la cospirazione dei super-ricchi di Davos, con la sua altisonante missione di "collaborare in modo proattivo, integrato e sistematico per affrontare le sfide globali", ha in realtà creato un’economia globale che deteriora ad alta velocità, in cui guerra, malattia, sovrappopolazione e povertà stanno accelerando a ritmi allarmanti mentre le risorse del pianeta stanno rapidamente scomparendo? Perché? Perché Davos è veramente un disastro. La loro economia è un disastro, il capitalismo è un disastro. La visione del mondo di Davos è un disastro. Ma i super-ricchi non riescono a vedere la realtà mentre viaggiano a 50 mila piedi di quota.
(...) I super-ricchi di Davos perseguono la ricchezza personale, il potere poiltico, la gloria. A loro non interessano le masse. Sono miopi narcisisti, come gli Angeli della Morte di Blofeld, addestrati solo a concentrarsi sulle opportunità di profitto e la marginalizzazione dei rischi. (...)
La realtà sui progressi economici da quando Davos è stato lanciato nel 1971 è discutibile. Francis Fukuyama, autore di ’La fine della storia’ e tra le principali menti della politica estera del presidente Ronald Reagan ha recentemente scritto sull’American Interest Journal: ’’E’ dimostrato che la disuguaglianza retributiva negli Stati Uniti è fortemente aumentata negli ultimi trent’anni e che i frutti della prolungata crescita economica durata fino al 2007-2008 sono sproporzionatamente finiti ai vertici degli strati più ricchi della società’’.
Sì, da quando Davos è stato lanciato, i super-ricchi miliardari si sono accaparrati il grosso della prosperità economica. Fukuyama scrive: "Uno studio condotto da Thomas Piketty e Emmanuel Saez mostra che tra il 1978 e il 2007, la quota di reddito Usa percepita dall’uno per cento delle famiglie americane più ricche è saltato dal 9 al 23,5 per cento del totale, con i salari dei lavoratori fermi al 1970’’. L’ultima volta che la divario retributivo era così grande era alla vigilia della Grande Crisi del 1929 e della Grande Depressione.
(...) I super-ricchi vengono a Davos per trovare furbi trucchetti politici, legali, fiscali e finanziari per proteggere e accrescere le loro ricchezze personali e il loro potere, ignorando le masse. (...) Fukuyama scrive ancora: "I sostenitori dell’economia di mercato hanno ripetuto per anni che la crescita col tempo filtra giù verso tutte le classi, ma con il passare degli anni gli smisurati guadagni del vertice della piramide dei redditi non sono filtrati in alcun modo’’. Insomma, le ricette del capitalismo reaganiano hanno fallito miseramente, ma ironicamente stanno tornando alla ribalta. Perché? Perché la cospirazione dei super-ricchi di Davos è ossessionata dalla ricchezza, dal potere e dal globalismo.
(...) Non ci sono organizzazioni segrete comandate da un diabolico clone di Blofeld che complotta di distruggere il mondo. Sicuro, i super-ricchi complottano, ma lo fanno alla luce del sole. Controllano tutto. Hanno tutti i soldi e i lobbisti necessari per comprare abbastanza politici da far apparire legale e costituzionale il loro comportamento corrotto e immorale.
(...) Alla fine del brillante saggio di Chrystia Freeland, ’L’ascesa della nuova élite globale’, pubblicato sulla rivista Atlantic, l’autrice cita il best-seller ’Quando i mercati collidono’ dell’amministratore delegato di Pimco, Mohamed El-Erian : ’’La vera minaccia per la super-élite è la possibilità che la rabbia popolare, ancora non organizzata, provochi pressioni politiche protezioniste’’. O magari una rivoluzione. (...) La Freeland conclude che ’’la storia ha dimostrato che le super-élite hanno solo due modi di sopravvivere: reprimere il dissenso o distribuire la propria ricchezza’’. Purtroppo c’è una terza, più violenta, possibilità. (...)
Il capitalismo è in una spirale di morte, resa evidente dalla recente recrudescenza delle ricette reaganiane in America. Non sopravviverà. La storia ci dice che alla fine la repressione del dissenso fallisce sempre, e che la distribuzione della ricchezza non avviene in modo pacifico e diplomatico, ma solo dopo violente rivoluzioni che rovesciano i ’sistemi’ esistenti, come quello della cospirazione dei super-ricchi di Davos.
Traduzione di Enrico Piovesan
* Fonte: http://it.peacereporter.net/
Link: http://it.peacereporter.net/articolo/26561/Murdoch+contro+l%27%E9lite+globale%3F
27.01.2011
27/01/2011