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Indice
"DEUS CARITAS EST": LA VERITA’ RECINTATA!!!
"Dopo la "Deus caritas est", la seconda enciclica: "Spe salvi".
"CARITAS IN VERITATE": FINE DEL CRISTIANESIMO.
CRISI DEI MUTUI?! IN "GOLD" WE TRUST!!!
LA CASA DEL VATICANO E’ COSTRUITA SU UNA "ROCCIA D’ORO"!!!
L’"UOMO SUPREMO" DELLA CHIESA CATTOLICA: "Dominus Iesus": RATZINGER, LO "STERMINATORE DI ECUMENISMO". Un ’vecchio’ commento del teologo francescano Leonard Boff.
AI CERCATORI DEL MESSAGGIO EVANGELICO. Una nota sulla "lettera" perduta.
Federico La Sala (25.07.2012)
Vaticano.
Il Papa a Moneyval: impedire ai mercanti di speculare nel tempio dell’umanità
L’incontro con gli esperti del Comitato del Consiglio d’Europa, giunti in Vaticano per la valutazione periodica delle misure contro il riciclaggio e il finanziamento del terrorismo
di Redazione Internet (Avvenire, giovedì 8 ottobre 2020)
Il Papa ha incontrato il Comitato Moneyval e li ha ringraziati per il loro servizio "a tutela di una finanza pulita, nell’ambito della quale ai ’mercanti’ è impedito di speculare in quel sacro tempio che è l’umanità, secondo il disegno d’amore del Creatore".
"Il lavoro che voi svolgete in relazione a questo duplice obiettivo mi sta particolarmente a cuore", ha detto il Papa sottolineando la necessità di "una finanza che non opprima i più deboli e i bisognosi". "Ritengo necessario ripensare al nostro rapporto col denaro", ha ribadito il Papa.
“Gesù ha scacciato dal tempio i mercanti e ha insegnato che non si può servire Dio e la ricchezza”, ha ricordato Francesco, secondo il quale “quando l’economia perde il suo volto umano, non ci si serve del denaro, ma si serve il denaro. È questa una forma di idolatria contro cui siamo chiamati a reagire, riproponendo l’ordine razionale delle cose che riconduce al bene comune,il denaro deve servire e non governare!”. E proprio per attuare tali principi, ha sottolineato il Papa, “l’Ordinamento vaticano ha intrapreso, anche recentemente, alcune misure sulla trasparenza nella gestione del denaro e per contrastare il riciclaggio e il finanziamento del terrorismo”. Il 1° giugno scorso, infatti, è stato promulgato un Motu Proprio per una più efficace gestione delle risorse e per favorire la trasparenza, il controllo e la concorrenza nelle procedure di aggiudicazione dei contratti pubblici, mentre i 19 agosto scorso, una ordinanza del presidente del Governatorato ha sottoposto le organizzazioni di volontariato e le persone giuridiche dello Stato della Città del Vaticano all’obbligo di segnalazione di attività sospette all’Autorità di Informazione Finanziaria.
Le politiche di antiriciclaggio e di contrasto al terrorismo costituiscono "uno strumento per monitorare i flussi finanziari, consentendo di intervenire laddove emergano tali attività irregolari o, addirittura, criminali. Gesù ha scacciato dal tempio i mercanti - ha detto Papa Francesco nell’udienza a Moneyval - e ha insegnato che non si può servire Dio e la ricchezza. Quando, infatti, l’economia perde il suo volto umano, non ci si serve del denaro, ma si serve il denaro. È questa una forma di idolatria contro cui siamo chiamati a reagire, riproponendo l’ordine razionale delle cose che riconduce al bene comune, secondo il quale il denaro deve servire e non governare".
Operare per una “finanza pulita”, nell’ambito della quale “ai mercanti è impedito di speculare in quel sacro tempio che è l’umanità, secondo il disegno d’amore del Creatore”, l’appello finale.
Il nuovo feudalesimo e la sovranità perduta
di Guido Rossi (Il Sole-24 Ore, 05 agosto 2012)
È ora evidente che, dopo la presa di posizione della Bce in difesa dell’euro e per il sostegno dei titoli del debito pubblico dei Paesi che ne richiedano un intervento, la storia d’Europa sta precipitosamente cambiando.
Una vera ambigua battaglia si è scatenata fra la troika (composta dalla Bce, l’Fmi e le istituzioni europee dominate dall’ideologia cultural-politica tedesca, che impone punizioni e austerità agli Stati peccatori) e l’amica/nemica della troika, la grande speculazione finanziaria la quale, come s’è visto nei giorni scorsi, toglie ogni credibilità al dio mercato, in un’altalena di perdite e guadagni razionalmente ingiustificata.
Che una decisa politica anti-spread rivendicata dalla Bce possa in qualche misura osteggiare la speculazione è conseguenza indiscutibile, ancorché in difetto di un’Europa politicamente unita e democratica il prezzo che si fa pagare ad alcuni Stati membri è altissimo. Oltre alle misure di politica economica e sociale, rovinose e depressive, e già imposte, dal fiscal compact alla spending review, altre ne saranno intimate agli Stati che chiederanno l’aiuto contro lo spread per mantenere il pareggio di bilancio. Tra quelli che, per molti versi non parevano ancora, fino a non molto tempo fa, destinati al fallimento, v’è ora la Spagna e poi probabilmente, nonostante le sovente contraddittorie, ma sempre ostentate dichiarazioni, l’Italia.
Si sta così ripetendo un fenomeno che Montesquieu, commentando le leggi feudali dell’Europa medievale, le considerava un avvenimento accaduto una volta sola nel mondo e «che forse non accadrà mai più». Ebbene, Montesquieu si sbagliava. Infatti, allora come oggi, insieme alla brutalità del comando, è determinante il dominio dell’economia sulla vita pubblica e sui diritti e soprattutto la confusione fra la ricchezza e l’autorità. Allora si trattava della ricchezza terriera, oggi della ricchezza finanziaria.
Come allora, il presupposto si giustifica con lo "Stato di eccezione", teorizzato da Karl Schmitt, che comporta la rigida soggezione economica della moltitudine ad alcuni potenti, siano essi finanzieri, tecnici o burocrati, poco importa. Quella attuale è la nuova forma di feudalesimo, che sottrae la sovranità agli Stati e alle sue istituzioni: si potrà forse dire non schiave, ma ridotte spesso, con ingiustificata presunzione, a semplici esecutori di politiche economiche, monetarie e sociali, imposte non certo democraticamente dal di fuori.
Il trasferimento della sovranità dello Stato democratico al Leviatano tecnocratico della troika, passaggio invero che sembra obbligato per arrivare all’unica possibile soluzione di un’Europa politicamente unita e democratica, comporta quindi una revisione totale dei diritti dei cittadini e delle istituzioni democratiche, assopite nelle loro funzioni e dedite ormai solo all’esecuzione delle decisioni di gerarchie esterne e fuorvianti.
È così che i problemi del rispetto dei diritti umani e della giustizia sociale, insieme con i mali peggiori delle disuguaglianze, tra le quali domina la disoccupazione, diventano trascurabili e importano solo un vago richiamo a parole che han perso il loro significato, sicché secondo il pensiero del grande poeta W. Auden: «When words lose their meaning, physical force takes over». E qui la forza è quella del feudalesimo della troika, poiché ciò che conta è solo l’imposizione dell’austerità, sempre più regina della depressione economica.
Pare allora persino inutile, come già ricordai altra volta avevano fatto Benedetto Croce e Luigi Einaudi, scagliarsi ai tempi delle crisi contro i governi tecnici, poiché, come appare evidente, l’insieme dei partiti politici, per quel che riguarda non solo noi, ma anche altri Paesi, sono in devastante disgregazione programmatica e sempre più portati a vaniloquio politico, alimentato da conflitti interni di modesta levatura. Tecnici e politici di professione son del tutto eguali.
Questa inquietante crisi della democrazia politica, alla quale il degrado culturale della nostra classe dirigente non ha opposto alcuna resistenza, mette sempre più in pericolo sia la democrazia, sia la giustizia sociale. Il fenomeno non pare affatto destinato a processi di inversione, che solo una politica di unificazione europea potrebbe modificare, o un radicale rinnovamento di fronte alle prossime scadenze elettorali del personale politico.
Per il momento, tuttavia, ancora una volta, la descrizione più appropriata della nostra stagione politica ci viene dai noti versi di Giuseppe Ungaretti: «Si sta come / d’autunno / sugli alberi / le foglie», al quale può fare oggi giusta eco Vincenzo Cardarelli: «Autunno. Già lo sentimmo venire / nel vento d’agosto».
Mosè, i debiti e i peccati da punire
Storia del «cemento» che ha fatto gli
Stati
di Gianni Toniolo (Corriere della Sera, 31 luglio 2012)
«Allo straniero potrai prestare a interesse, ma non a tuo fratello» (Deut 13:20). Così ordina Mosè agli ebrei nel momento in cui la loro società si trasforma da nomadica in stanziale. Mosè è consapevole che il debito è al tempo stesso indispensabile cemento e potenziale disgregatore della vita sociale. Così, il codice di Hammurabi (circa 1772 a.C.), nella ben più evoluta Babilonia, regola minutamente gli obblighi non solo dei debitori ma anche dei creditori. Questi devono attendere il raccolto prima di esigere il «frutto» (l’interesse del 25-35%) di una terra data a prestito; se poi tempesta o la siccità distruggono le messi, il pagamento dell’interesse per quell’anno va sospeso. Per evitare che i debiti raggiungano proporzioni tali da minacciare la pace sociale, Mosè prescrive la periodica proclamazione di anni giubilari nei quali ogni debito sia azzerato.
Regolare saggiamente il debito è arte difficile, alcuni dicono impossibile. La sua abbondanza alimenta quell’«esuberanza irrazionale» che si trasforma in un altrettanto irrazionale eccesso di prudenza che produce la rarefazione del credito e lo stallo del commercio e dell’industria. E’ una sequenza che non cessa di prenderci alla sprovvista benché ne avesse già parlato Cicerone nell’orazione Pro Lege Manilia del 66 a.C. e si sia poi ripetuta in varie mutazioni per i successivi duemila anni.
Il primo grande debito pubblico è forse quello di Dionigi, tiranno di Siracusa tra il 405 e il 367 a.C. Non riuscendo a rendere ai propri cittadini quanto gli avevano prestato in buona moneta, Dionigi provvide a una nuovo conio a basso contenuto d’argento con il quale rimborsare il debito. Fu il primo di una lunga serie di sovrani che ricorsero all’inflazione per «monetizzare», come oggi si dice, il rimborso del debito pubblico. Altri re andarono ancora più per le spicce, semplicemente rifiutandosi di restituire quanto era stato loro prestato. Così face Edoardo III d’Inghilterra nel 1345 mandando a gambe all’aria i banchieri fiorentini Bardi e Peruzzi e con loro un gran numero di toscani che si erano fidati della prudenza di quei banchieri, noti come «colonne della cristianità».
Una quarantina d’anni prima, l’enorme debito di Filippo IV di Francia era stato risolto in modo ben più crudele. Non bastandogli i frutti delle espropriazioni fatte agli ebrei espulsi dalla Francia, ai banchieri lombardi e a numerose abbazie, il re distrusse l’ordine dei Templari, al quale doveva enormi somme, mandandone al rogo il Gran Maestro. Il rischio del prestito sovrano non sfuggiva, ovviamente, ai banchieri i quali chiedevano a principi e re interessi adeguati: attorno al 40 per cento l’anno.
Senza il debito, non avrebbe potuto fiorire il capitalismo delle città italiane a partire dal dodicesimo secolo. Bisognava tuttavia superare la diffidenza della Chiesa verso il prestito a interesse. Il progressivo sviluppo della dottrina del Purgatorio rese il peccato di usura meno gravoso per chi lo commetteva fidando che gli eredi avrebbero poi acquistato per lui adeguate indulgenze. D’altra parte, furono gli stessi francescani, fondatori dei Monti di Pietà, a capire che un prestito a tasso regolato è preferibile all’usura. E poi, il pagamento dell’interesse può essere camuffato in vario modo: cambio di valuta, commissioni per servizi resi.
Non ci sarebbero state né la rivoluzione commerciale né quella industriale in assenza di obbligazioni di debito negoziabili in mercati regolati. Sia i privati sia i governi compresero quanto fosse vantaggioso potersi finanziare a tassi modesti. Il re non poté più cavarsela confiscando i beni dei cittadini, anche perché questi avevano stabilito il principio che non fosse possibile tassare senza il consenso del Parlamento. La reputazione divenne requisito essenziale del debitore, privato o pubblico.
Il debito pubblico americano nacque perché Hamilton, per instillare fiducia nei creditori della nuova repubblica, convinse il congresso federale ad assumere i debiti accesi per la guerra d’indipendenza dai singoli stati e che questi erano incapaci o poco desiderosi di rimborsare. Negli ultimi due secoli, la guerra è restata la principale causa del debito sovrano. Per sconfiggere Napoleone, la corona d’Inghilterra accumulò un debito pari al 250 per cento del prodotto interno lordo.
Il Regno d’Italia nacque con un debito elevato che aumentò ulteriormente con la guerra del 1866. Le riparazioni pagate dai vinti ai vincitori diedero luogo a grandi debiti internazionali.
Dal 1945 a oggi il debito pubblico, in Europa, non nasce più dalla guerra. E’ maggiore nei paesi che per ragioni politiche e, soprattutto sociali, non sono stati in grado ottenere che i cittadini finanziassero interamente con le imposte lo stato sociale. In questi paesi è proprio l’alto indebitamento a costituire, oggi, la principale minaccia a quella che la grande maggioranza dei cittadini stessi considera come una grande conquista di civiltà del ventesimo secolo
Sulla crisi pesano i debiti delle banche
di Luciano Gallino (la Repubblica, 30.07.2012)
Il 20 luglio la Camera ha approvato il “Patto fiscale”, trattato Ue che impone di ridurre il debito pubblico al 60% del Pil in vent’anni. Comporterà per l’Italia una riduzione del debito di una cinquantina di miliardi l’anno, dal 2013 al 2032.Una cifra mostruosa che lascia aperte due sole possibilità: o il patto non viene rispettato, o condanna il Paese a una generazione di povertà.
Approvando senza un minimo di discussione il testo la maggioranza parlamentare ha però fatto anche di peggio. Ha impresso il sigillo della massima istituzione della democrazia a una interpretazione del tutto errata della crisi iniziata nel 2007. Quella della vulgata che vede le sue cause nell’eccesso di spesa dello Stato, soprattutto della spesa sociale. In realtà le cause della crisi sono da ricercarsi nel sistema finanziario, cosa di cui nessuno dubitava sino agli inizi del 2010. Da quel momento in poi ha avuto inizio l’operazione che un analista tedesco ha definito il più grande successo di relazioni pubbliche di tutti i tempi: la crisi nata dalle banche è stata mascherata da crisi del debito pubblico.
In sintesi la crisi è nata dal fatto che le banche Ue (come si continuano a chiamare, benché molte siano conglomerati finanziari formati da centinaia di società, tra le quali vi sono anche delle banche) sono gravate da una montagna di debiti e di crediti, di cui nessuno riesce a stabilire l’esatto ammontare né il rischio di insolvenza. Ciò avviene perché al pari delle consorelle Usa esse hanno creato, con l’aiuto dei governi e della legislazione, una gigantesca “finanza ombra”, un sistema finanziario parallelo i cui attivi e passivi non sono registrati in bilancio, per cui nessuno riesce a capire dove esattamente siano collocati né a misurarne il valore.
La finanza ombra è formata da varie entità che operano come banche senza esserlo. Molti sono fondi: monetari, speculativi, di investimento, immobiliari. Il maggior pilastro di essa sono però le società di scopo create dalle banche stesse, chiamate Veicoli di investimento strutturato (acronimo Siv) o Veicoli per scopi speciali (Spv) e simili. Il nome di veicoli è quanto mai appropriato, perché essi servono anzitutto a trasportare fuori bilancio i crediti concessi da una banca, in modo che essa possa immediatamente concederne altri per ricavarne un utile. Infatti, quando una banca concede un prestito, deve versare una quota a titolo di riserva alla banca centrale (la Bce per i paesi Ue). Accade però che se continua a concedere prestiti, ad un certo punto le mancano i capitali da versare come riserva. Ecco allora la grande trovata: i crediti vengono trasformati in un titolo commerciale, venduti in tale forma a un Siv creato dalla stessa banca, e tolti dal bilancio. Con ciò la banca può ricominciare a concedere prestiti, oltre a incassare subito l’ammontare dei prestiti concessi, invece di aspettare anni come avviene ad esempio con un mutuo. Mediante tale dispositivo, riprodotto in centinaia di esemplari dalle maggiori banche Usa e Ue, spesso collocati in paradisi fiscali, esse hanno concesso a famiglie, imprese ed enti finanziari trilioni di dollari e di euro che le loro riserve, o il loro capitale proprio, non avrebbero mai permesso loro di concedere. Creando così rischi gravi per l’intero sistema finanziario.
I Siv o Spv presentano infatti vari inconvenienti. Anzitutto, mentre gestiscono decine di miliardi, comprando crediti dalle banche e rivendendoli in forma strutturata a investitori istituzionali, hanno una consistenza economica ed organizzativa irrisoria.
Come notavano già nel 2006 due economisti americani, G. B. Gorton e N. S. Souleles, «i Spv sono essenzialmente società robot che non hanno dipendenti, non prendono decisioni economiche di rilievo, né hanno una collocazione fisica». Uno dei casi esemplari citati nella letteratura sulla finanza ombra è il Rhineland Funding, un Spv creato dalla banca tedesca IKB, che nel 2007 aveva un capitale proprio di 500 (cinquecento) dollari e gestiva un portafoglio di crediti cartolarizzati di 13 miliardi di euro. L’esilità strutturale dei Siv o Spv comporta che la separazione categorica tra responsabilità della banca sponsor, che dovrebbe essere totale, sia in realtà insostenibile. A ciò si aggiunge il problema della disparità dei periodi di scadenza dei titoli comprati dalla banca sponsor e di quelli emessi dal veicolo per finanziare l’acquisto. Se i primi, per dire, hanno una scadenza media di 5 anni, ed i secondi una di 60 giorni, il veicolo interessato deve infallibilmente rinnovare i prestiti contratti, cioè i titoli emessi, per trenta volte di seguito. In gran numero di casi, dal 2007 in poi, tale acrobazia non è riuscita, ed i debiti di miliardi dei Siv sono risaliti con estrema rapidità alle banche sponsor.
La finanza ombra è stata una delle cause determinanti della crisi finanziaria esplosa nel 2007. In Usa essa è discussa e studiata fin dall’estate di quell’anno. Nella Ue sembrano essersi svegliati pochi mesi fa. Un rapporto del Financial Stability Board dell’ottobre 2011 stimava la sua consistenza nel 2010 in 60 trilioni di dollari, di cui circa 25 in Usa e altrettanti in cinque paesi europei: Francia, Germania, Italia, Olanda e Spagna. La cifra si suppone corrisponda alla metà di tutti gli attivi dell’eurozona. Il rapporto, arditamente, raccomandava di mappare i differenti tipi di intermediari finanziari che non sono banche. Un green paper della Commissione europea del marzo 2012 precisa che si stanno esaminando regole di consolidamento delle entità della finanza ombra in modo da assoggettarle alle regole dell’accordo interbancario Basilea 3 (portare in bilancio i capitali delle banche che ora non vi figurano). A metà giugno il ministro italiano dell’Economia - cioè Mario Monti - commentava il green paper: «È importante condurre una riflessione sugli effetti generali dei vari tipi di regolazione attraverso settori e mercati e delle loro potenziali conseguenze inattese».
Sono passati cinque anni dallo scoppio della crisi. Nella sua genesi le banche europee hanno avuto un ruolo di primissimo piano a causa delle acrobazie finanziarie in cui si sono impegnate, emulando e in certi casi superando quelle americane. Ogni tanto qualche acrobata cade rovinosamente a terra; tra gli ultimi, come noto, vi sono state grandi banche spagnole. Frattanto in pochi mesi i governi europei hanno tagliato pensioni, salari, fondi per l’istruzione e la sanità, personale della PA, adducendo a motivo l’inaridimento dei bilanci pubblici. Che è reale, ma è dovuto principalmente ai 4 trilioni di euro spesi o impegnati nella Ue al fine di salvare gli enti finanziari: parola di José Manuel Barroso. Per contro, in tema di riforma del sistema finanziario essi si limitano a raccomandare, esaminare e riflettere. Tra l’errore della diagnosi, i rimedi peggiori del male e l’inanità della politica, l’uscita dalla crisi rimane lontana.
SUL “PRO MULTIS” IL PAPA SBAGLIA». IL TEOLOGO SCRIVE, L’EDITORE CATTOLICO PUBBLICA, I VESCOVI LEGGONO
di Adista Notizie n. 29 del 28/07/2012
36800. BOLOGNA-ADISTA. Un libro pubblicato da una casa editrice cattolica che critica apertamente una decisione del papa è di per sé già una notizia. Lo è ancora di più se quel libro ha la prefazione di un noto teologo. Ma se, come in questo caso, il libro è stato addirittura inviato in copia saggio a tutti i vescovi italiani, la notizia allora è davvero sorprendente. Ma assolutamente vera.
Il caso è quello di un saggio già apparso in una versione più breve su Il Regno Attualità (10/2012), per essere poi pubblicato in volume, dopo essere stato riveduto ed ampliato. Si tratta di Per una moltitudine. Sulla traduzione delle parole eucaristiche, un libro scritto da Francesco Pieri, docente di Greco biblico e Patrologia alla Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna, presentato da Severino Dianich, già presidente dell’Associazione Teologica Italiana, e pubblicato dalla casa editrice Dehoniana Libri (che appartiene alla galassia editoriale dei religiosi dehoniani ma non va confusa con Edb, le Edizioni Dehoniane di Bologna).
Nel libro (Dehoniana Libri, 2012, pp. 48, 4,50), Pieri sostiene l’inopportunità della traduzione «il calice del mio sangue versato per molti» (invece che «per tutti»), voluta da Benedetto XVI attraverso la Pontificia Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti (la quale a sua volta ne ha informato i presidenti delle diverse Conferenze episcopali nazionali in una lettera datata 17 ottobre 2006). La formula in latino, presente nel Missale Romanum, unico per tutte le nazioni e su cui si basano le traduzioni autorizzate nelle lingue nazionali, è: «Accipite et bibite ex eo omnes: / hic est enim calix sanguinis mei / novi et aeterni testamenti: / qui pro vobis et pro multis effundetur / in remissionem peccatorum. / Hoc facite in meam commemorationem».
L’espressione pro multis dopo il Concilio fu tradotta in italiano con la formula “per tutti” e nella maggior parte delle altre lingue in modo analogo: in tedesco für alle, in inglese for all, in spagnolo por todos los hombres, in francese pour la multitude. Dietro le questioni linguistiche, quella, di enorme rilevanza teologica e pastorale, dell’universalità del messaggio e della testimonianza di Gesù. Per questa ragione, nel corso degli anni più recenti, molte sono state le resistenze delle Conferenze episcopali nazionali a recepire la decisione del Vaticano. E diversi vescovi e consigli presbiterali hanno contestato apertamente l’ordine di Roma. Evitando di conformarvisi.
Anche in Italia, nonostante un episcopato molto moderato ed allineato ai vertici ecclesiastici, la Cei stenta ad adeguarsi e, come ha recentemente raccontato Sandro Magister sull’Espresso, nel novembre del 2010, nel corso della loro Assemblea Generale, soltanto 11 dei 187 vescovi presenti votarono in favore della formula «per molti».
Inoltre, come spiega Pieri nel suo libro, la decisione di Ratzinger lascia perplessi anche nel metodo, oltre che nel merito. Il Concilio ha riconosciuto alle «autorità ecclesiastiche territoriali» la competenza circa la traduzione e l’adattamento dei testi liturgici, che la Santa Sede ha poi il compito di approvare e promuovere, dopo aver fatto eventuali osservazioni e correzioni. Questo papa ha invece scelto il percorso inverso, come del resto ha fatto su molte altre questioni (e Wojtyla prima di lui), quello che va dal centro alla periferia, minando così quella «reciprocità tra primato della sede romana e collegialità dei vescovi posti a capo delle Chiese» che pure era un assunto del Vaticano II.
Nel merito, l’autore rileva inoltre come non esista un testo biblico nel quale sia presente la formula «pro vobis et pro multis»: per questo, scrive, «le due espressioni sono da considerarsi come sostanzialmente equivalenti, nei rispettivi contesti, e non è esegeticamente corretto contrapporle».
Del resto, rileva ancora Pieri, è evidente che l’espressione «per molti» suona diversamente alle nostre orecchie rispetto all’intenzione di Marco e Matteo: «“Molti” si oppone in italiano sia a “pochi” che a “tutti”»; quindi in diverse frasi la parola “molti” può di fatto equivalere sia a “non pochi”, sia a “non tutti”. L’autore cita a supporto della sua tesi il biblista Albert Vanhoye, il quale spiega che «la parola ebraica rabbim significa soltanto che c’è di fatto “un grande numero”, senza specificare se esso corrisponda o meno alla totalità».
E allora, come tradurre efficacemente? Una soluzione secondo Pieri c’è, ed avrebbe il pregio di salvare “capra” (cioè una maggiore fedeltà nella traduzione), e “cavoli” (ossia cercare di non tradire il senso profondo delle parole di Gesù): «Essa è rappresentata dalla felicissima traduzione del Messale francese “pour la multitude”, che potrebbe senza molte difficoltà essere tradotta in italiano e probabilmente anche nelle altre lingue romanze con la formula “per la moltitudine” o “per una moltitudine”. Con il vantaggio evidente che, proprio come rabbim, “moltitudine” si oppone a “pochi”, ma non si oppone a “tutti”, e lascia aperta l’interpretazione in tal senso. Accogliere tale traduzione nella liturgia della Chiesa italiana offrirebbe un reale aiuto a una corretta comprensione del testo e insieme un esempio d’intelligente ricezione delle disposizioni vaticane, in grado di fungere da modello anche ad altre Chiese particolari». (valerio gigante)
di Ermes Ronchi (Avvenire, 26 luglio 2012)
La moltiplicazione dei pani è un evento che si è impresso in modo indelebile nei discepoli, l’unico miracolo raccontato in tutti i vangeli. Più ancora che un miracolo, un segno: fessura di mistero, evento decisivo per comprendere Gesù. Lui ha pane per tutti, è come se dicesse: io faccio vivere, io moltiplico la vita! Lui fa vivere: con le sue mani che risanano i malati, con le parole che guariscono il cuore, con il pane che significa tutto ciò che alimenta la vita dell’uomo Cinquemila uomini, e attorno è primavera; sul monte, nel luogo dove Dio è più vicino, hanno fame, fame di Dio. Qualcuno ha pani d’orzo, l’orzo è il primo dei cereali che matura, simbolo di freschezza e novità; piccola ricchezza di un ragazzo, anche lui una primizia d’uomo.
A Gesù nessuno chiede nulla, è lui che per primo si accorge e si preoccupa: « Dove potremo comprare il pane per loro?». Alla sua generosità corrisponde quella del ragazzo: nessuno gli chiede nulla, ma lui mette tutto a disposizione. Primo miracolo. Invece di pensare: che cosa sono cinque pani per cinquemila persone? Sono meno di niente, inutile sprecarli. E la mia fame? Dà tutto quello che ha, senza pensare se sia molto o se sia poco. È tutto!
Per una misteriosa regola divina, quando il mio pane diventa il nostro pane accade il miracolo. La fame finisce non quando mangi a sazietà, ma quando condividi fosse pure il poco che hai. C’è tanto di quel pane sulla terra che a condividerlo basterebbe per tutti. Il Vangelo neppure parla di moltiplicazione ma di distribuzione, di un pane che non finisce. E mentre lo distribuivano il pane non veniva a mancare, e mentre passava di mano in mano restava in ogni mano. Come avvengono certi miracoli non lo sapremo mai. Neanche per questo di oggi riusciamo a vedere il «come». Ci sono e basta. Quando a vincere è la generosità.
Giovanni riassume l’agire di Gesù in tre verbi «Prese il pane, rese grazie e distribuì», che richiamano subito l’Eucaristia, ma che possono fare dell’intera mia vita un sacramento: prendere, rendere grazie, donare. Noi non siamo i padroni delle cose. Se ci consideriamo tali, profaniamo le cose: l’aria, l’acqua, la terra, il pane, tutto quello che incontriamo, non è nostro, è vita da che viene in dono da altrove e va oltre noi. Chiede cura, come per il pane del miracolo (i dodici canestri di pezzi), le cose hanno una sacralità, c’è una santità perfino nella materia, perfino nelle briciole: niente deve andare perduto.
Impariamo ad accogliere e a benedire: gli uomini, il pane, Dio, la bellezza, la vita, e poi a condividere: accoglienza, benedizione, condivisione saranno dentro di noi sorgenti di Vangelo. E di felicità.
SCHEDA
DEL LIBRO *
Che cosa è il peccato nella tradizione giudaico-cristiana? In che modo i suoi effetti perdurano e possono estinguersi attraverso il tempo? Come è possibile espiare le azioni peccaminose?
In questa acutissima e brillante analisi storico-filologica dei testi biblici l’Autore documenta il processo attraverso cui il peccato, concepito negli strati più antichi della Bibbia come un fardello caricato sulle spalle di chi ha commesso una colpa, o una macchia sulle sue mani, si modifica significativamente a partire dal periodo del Secondo Tempio e via via fino al II secolo a.C.
Il peccato assumerà nel Nuovo Testamento, in tutta la letteratura rabbinica e nella cristianità aramaica, la metafora commerciale-finanziaria del debito che deve essere ripagato.
L’idea della macchia resterà, ma a quella del fardello si sostituirà l’idea che nel gran libro contabile di Dio, nella banca celeste, verrà registrato un debito: il peccatore diviene il debitore che potrà estinguere il suo debito con la pratica costante dell’elemosina. L’uomo virtuoso e caritatevole diventa invece un creditore il quale accumula un tesoro in cielo che frutterà interessi.
Una nuova concezione che subì un tormentato ripensamento all’insorgere della Riforma protestante.
Gary A. Anderson (St.Paul, MN, 1955)
Insegna Teologia cattolica alla University of Notre Dame, Indiana. I suoi studi si incentrano su religione e letteratura dell’Antico Testamento e Bibbia ebraica, con un’attenzione particolare sulla ricezione della Bibbia ai primordi del giudaismo e del cristianesimo. Più di recente il suo interesse si è focalizzato sul Libro della Genesi e sulla letteratura sacerdotale. -Numerosi i riconoscimenti ottenuti: da quello dell’American Philosophical Society fondata da Benjamin Franklin a quello dell’Institute for Advanced Studies dell’Hebrew University di Gerusalemme.
Fra le sue opere ricordiamo The Genesis of Perfection: Adam and Eve in Jewish and Christian Imagination (2001).
* Fonte: liberilibri
Le fedi come le aziende aspirano al monopolio
di Paolo Mieli (Corriere della Sera, 12 gennaio 2010)
In principio fu Adam Smith con il suo celeberrimo trattato di economia politica La ricchezza delle nazioni (1776). Il filosofo economista scozzese per primo analizzò la Chiesa come un’entità economica e applicò ad essa le categorie che traeva dalla propria disciplina, in particolare quella di monopolio, cioè quel regime che inevitabilmente produce un aumento del prezzo e un abbassamento della qualità per il solo fatto che il mercato non è stimolato dalla concorrenza.
Discorso che vale anche per la Chiesa. Una religione «ben costituita», secondo il padre fondatore dell’economia politica, non sfugge alla regola: il prezzo del «prodotto» è più elevato e la sua qualità minore di quel che sarebbero se ci fosse libera competizione. Di più. In genere il clero «non ha altra risorsa che rivolgersi al magistrato civile perché persegua, distrugga o scacci i suoi avversari come disturbatori della pace pubblica». Fu così, osserva Adam Smith, «che il clero cattolico romano si rivolse al magistrato civile per perseguitare i protestanti; la Chiesa d’Inghilterra per incalzare i dissidenti; e che in generale ogni setta religiosa, una volta goduta per uno o due secoli la sicurezza di una istituzione legale, si è trovata incapace di difendersi efficacemente contro qualsiasi nuova setta decisa ad attaccare la sua dottrina o disciplina».
È da questo passo che prende le mosse un libro assai interessante di Philippe Simonnot, Il mercato di Dio. La matrice economica di ebraismo, cristianesimo, islam che, nella buona traduzione di Giuliano Gasparri, l’editore Fazi si accinge a mandare in libreria di qui a qualche giorno.
Nella prefazione al volume, Marco Aime avverte che l’approccio «per nulla scontato» di Simonnot può comportare accuse di vilipendio o addirittura di blasfemia che però l’autore - pur procedendo sul terreno scivoloso di un’analisi solo e soltanto economica della genesi e del consolidamento delle tre grandi religioni monoteiste del mondo mediterraneo- ha saputo evitare stando bene attento a non cedere mai al gusto della provocazione.
«A scanso di equivoci», scrive Simonnot, «qui non si tratta affatto di pretendere di spiegare la religione attraverso l’economia, né di riciclare le teorie dell’oppio dei popoli, ma più modestamente di mettere a disposizione della scienza religiosa gli strumenti dell’analisi economica». Un po’ quel che, in campo sociologico, fece August Comte nell’Ottocento. Senza aver la pretesa, ovviamente, di paragonare Comte a Simonnot.
E se L’etica protestante e lo spirito del capitalismo di Max Weber ha esaminato l’incidenza della religione sull’economia o la dottrina economica implicitamente o esplicitamente sottesa a una credenza, «almeno altrettanto istruttivo», afferma l’autore, «è studiare l’economia propriamente detta della religione, ossia prendere la religione come un qualcosa suscettibile di analisi economica». Così la religione viene presentata come un’«azienda» che offre «beni di credenza», la cui qualità si basa sulla fiducia riposta in chi li produce dal momento che il risultato della pratica religiosa- cioè la salvezza eterna - non è, per sua natura, né verificabile né falsificabile. E poiché il «valore» di un bene di credenza riposa interamente sulla credibilità del suo fornitore, se ne può dedurre «che difficilmente quest’ultimo tollererà la presenza di un concorrente rivale, il quale vorrà per forza mettere in dubbio la sua credibilità per affermare la propria». Ad un tempo, per entrare nel «mercato», una religione «deve apparire come molto nuova, naturalmente, per attrarre nuovi "clienti", ma anche molto antica, per rassicurarli, dato che la longevità sembra essere una garanzia di qualità di questo ramo... Così il cristianesimo del I secolo, pur essendo nuovo, ha sostenuto la propria anteriorità rispetto all’ebraismo, ricollegandosi direttamente ad Abramo; e l’islam ha fatto esattamente la stessa cosa sei secoli più tardi».
Ma perché Simonnot si concentra in questo libro sui tre monoteismi venuti da Abramo? «Quel che colpisce subito uno sguardo privo di pregiudizi», risponde lui stesso, «è che un Dio unico funziona più facilmente da mediatore finanziario per coloro che lo servono rispetto a una moltitudine di Dei che si fanno concorrenza. In primo luogo perché il Dio unico permette di risolvere più facilmente il problema centrale di ogni religione, cioè quello della sua credibilità. Certo il Dio che appare nella Bibbia si mostra spesso crudele, terribile, parziale e geloso, ma è meno imprevedibile, più affidabile degli Dei capricciosi e immorali che si trovano nello stesso momento sul "mercato". Forse era ragionevole offrire di tanto in tanto agli altari pagani dei sacrifici di cui i sacerdoti prendevano una parte, ma si poteva scegliere tra molte divinità e, se non si otteneva ciò che si desiderava, si poteva cambiare culto.
Nel monoteismo, invece, si ha a che fare sempre con lo stesso Dio. Un Dio, per giunta, universale, il cui sguardo vi può seguire dappertutto sulla terra... Per di più gli Dei non sembrano preoccuparsi degli affari umani se non in funzione dei propri interessi, mentre il Dio della Bibbia si occupa del suo popolo in modo costante».
Ma veniamo all’analisi specifica di Simonnot. A suo dire si applica bene alla religione la legge di Metcalf (da Robert Metcalf, un imprenditore statunitense, inventore di Ethernet, secondo il quale il valore di una rete di computer cresce in proporzione all’aumento dei computer connessi): il valore che un consumatore attribuisce a un bene - nel nostro caso un credo religioso - dipende anche dal numero di utenti di questo bene: una religione ha tanto più «valore» per il credente, è cioè tanto più credibile, quanto più grande è il numero dei suoi fedeli.
Per quel che riguarda, poi, il reperimento delle risorse «vi sarebbe, soggiacente a ogni società, un giacimento finanziario costituito da somme, piccole o grandi, che brave persone sono pronte a donare per la salvezza della propria anima, per la propria sanità mentale o per qualsiasi altro obiettivo; dato che la divisione del lavoro aiuta, si costituiscono "compagnie" per esplorare, trivellare e sfruttare questo giacimento. Ciò presuppone che l’economia interessata sia in grado di sviluppare un surplus. Il giacimento non è estensibile all’infinito, anche se, a condizione di non toccare il capitale, è indefinitamente rinnovabile. Ogni luogo di culto, anche la più umile parrocchia, può dunque essere considerato come una torre di trivellazione... Ogni religione cerca di allacciarsi a questo giacimento favoloso e, se ci riesce, di assicurarsene il monopolio su un dato territorio».
Ma il flusso delle donazioni non è regolabile e spesso nella storia delle religioni si nota che esso genera un’eccedenza. Mosè, secondo la Bibbia, dovette mettere fine alla colletta promossa per costruire il santuario di Yahweh dal momento che il popolo portava «molto di più» di quel che era necessario per eseguire l’opera voluta dal Signore; sulla parete sud del tempio funerario di Ramsete II a Medinat Habu (in Egitto) compare un elenco di offerte che dovevano essere portate nei diversi momenti dell’anno in quantità tale che è impossibile pensare venissero ammucchiate sull’altare.
Ed è ancora Adam Smith a osservare che «il clero non poteva trarre vantaggio da questa immensa eccedenza se non impiegandola nella più prodiga ospitalità e nella più grande carità». Stando a Smith, dunque, le due più importanti istituzioni della Chiesa nel Medioevo erano dovute non tanto a virtù evangeliche quanto alla necessità di smaltire un surplus di donazioni.
Ma torniamo al tema di partenza, che è quello del monopolio. Il monopolio, scrive Simonnot, non può esistere senza l’intervento diretto o indiretto dello Stato, il quale dispone della forza per mettere barriere all’ingresso di un mercato, «e di fatto, nella storia, ogni monopolio religioso si è appoggiato all’autorità pubblica, oppure se ne è appropriato». Ma quando, ciò che è inevitabile, il monopolio che poggia sullo Stato abuserà della propria posizione, sorgeranno dei concorrenti sia all’interno della Chiesa - chiamati riformatori, scismatici o eretici (i protestanti nel cristianesimo del XVI secolo) - sia all’esterno con la comparsa di nuove religioni: ad esempio l’islam nel VII secolo.
Di qui si potrebbe anche immaginare una sorta di «ciclo» religioso che si riproduce all’infinito: «In un mercato aperto alla concorrenza, una religione tende al monopolio; questo monopolio non può che poggiare sullo Stato; una volta che poggia sullo Stato, abusa della propria posizione; il prodotto scade; compaiono altre religioni con il che si torna alla situazione di concorrenza». E di qui riparte il ciclo. Il papato, puntellato dall’impero, in alcuni momenti della storia è stato di fatto una delle più grandi potenze finanziarie del mondo, che attirava i banchieri più influenti, scrive Simonnot: i Medici, i Fugger, i Rothschild. Per la legge di cui sopra questo gigantesco monopolio è stato, però, contestato e messo in crisi; con il che il «mercato» religioso è tornato successivamente ad essere pienamente aperto alla concorrenza.
C’è un momento, inoltre, in cui l’influenza economica dell’istituzione religiosa entra in concorrenza con quella dello Stato. Anche di questo aveva parlato Adam Smith: «L’entrata di ogni chiesa costituita», scrisse, «è una parte dell’entrata generale dello Stato che viene così distratta per uno scopo molto diverso da quello della sua difesa. La decima ad esempio è una vera imposta fondiaria che impedisce ai proprietari terrieri di contribuire alla difesa dello Stato nel modo generoso che sarebbe loro altrimenti consentito. Tuttavia secondo alcuni la rendita della terra è l’unico fondo e secondo altri il fondo principale con il quale in tutte le grandi monarchie si deve fare fronte alle esigenze dello Stato. Evidentemente quanto più di questo fondo viene dato alla Chiesa, tanto meno può essere riservato allo Stato. Si può benissimo affermare come massima certa che, a parità delle altre condizioni, quanto più ricca è la Chiesa, tanto più poveri devono essere necessariamente il sovrano da un lato e il popolo dall’altro; e, in tutti i casi, tanto meno lo Stato sarà in grado di difendersi».
Simonnot colloca il momento in cui inizia la concorrenza tra Stato e Chiesa nel XII secolo, cioè quando si stabilisce una relazione diretta tra tasse pagate al fisco e decime per la Chiesa: tanto più alte sono le prime, tanto minori saranno le seconde e viceversa. A suo avviso, «una sorta di legge fisica faceva dunque prevedere con otto secoli di anticipo quel che sarebbe avvenuto al fisco dello Stato quando le rendite del papato si sarebbero ridotte al minimo».
Se è vero che nel XX secolo il fisco ha lasciato alla Chiesa solo una porzione «congrua», si può in qualche modo asserire che lo Stato-provvidenza ha preso il posto della carità cristiana. A questo punto il potere pubblico comincia a vedere nelle Chiese e nelle sette dei rivali in materia di direzione delle anime ma anche (e, forse, soprattutto) dei concorrenti fiscali. Lo Stato, in questa nuova situazione, preferisce di gran lunga avere a che fare con «cartelli» religiosi o con un monopolio con cui può stabilire un modus vivendi piuttosto che con una moltitudine di sette incontrollabili. Ed è di qui che nascono le politiche concordatarie.
Per parte sua un monopolio religioso, se vuole durare, ha un disperato bisogno di appoggiarsi allo Stato «in quanto difficilmente può soddisfare la "domanda" di religione in tutte le sue sfaccettature». Se, proviamo a supporre, «il grosso della "clientela" è soddisfatto di una qualità media a un prezzo medio, alle estremità della scala delle preferenze religiose si trovano in "alto" dei "consumatori" molto devoti che sarebbero disposti a pagare molto più caro un prodotto di migliore qualità e in basso, al contrario, dei "clienti" che si accontenterebbero di un prodotto mediocre a un prezzo più contenuto. Questa diversità di gusti e di esigenze obbliga il monopolio, se vuole durare, ad ampliare la gamma dell’offerta per soddisfare tutti».
Così fu per la Chiesa cattolica quando si trovò in condizioni di monopolio: severi e rigorosi ordini monastici permettevano di rispondere ai clienti più esigenti, mentre i «parrocchiani della domenica» potevano limitarsi a fare la comunione a Pasqua. Ma quando l’appoggio dello Stato venne meno e il «mercato» religioso si aprì alla concorrenza, «allora questa vasta gamma fu più difficile da coprire e il vecchio monopolio venne attaccato alle due estremità». E da allora il fenomeno si è riprodotto più volte: in basso «vaghe credenze cercano di recuperare i "parrocchiani della domenica" con religioni o filosofie da ciarlatani»; in alto, «alcune sette giungono a offrire nuovi "prodotti" più rigorosi che riescono a vendere ad alto prezzo e questo prezzo, ovvero i sacrifici richiesti in tempo e denaro, diventano persino una sorta di garanzia di qualità».
In seguito le sette, «una volta piazzate nella propria nicchia cercheranno di ampliare la "clientela" abbassando insieme il prezzo e le proprie esigenze; non tutte ci riescono, naturalmente; ma quelle che arrivano ad estendersi diventano a loro volta Chiese, cercando di approfittare delle tendenze monopolistiche dell’economia locale».
Le espressioni di Simonnot sono volutamente quelle che si usano nel linguaggio economico e l’autore tiene a ripetere che in esse non c’è - o quantomeno non vuole esserci - niente di offensivo o riduttivo. Neanche quando scrive che «la nascita del cristianesimo è avvenuta, se così possiamo dire, conformemente a questo business model; la setta è diventata una Chiesa». Per poi aggiungere: «Possiamo anche immaginare che delle Chiese tornino ad essere sette, abbandonando le frange più lassiste della propria "clientela" e concentrandosi sui propri membri integralisti». Un discorso che ha molte implicazioni. Per la storia ma anche per l’oggi.
Il boomerang è tornato su di noi
di Vittorio Cristelli (vita trentina, 29 luglio 2012)
Si sta verificando quanto Susan George scriveva già negli anni Novanta del secolo scorso nel suo libro intitolato “Il boomerang del debito”. Il suo ragionamento e la sua previsione erano che quanto succedeva ai Paesi in via di sviluppo a causa dei prestiti che ricevevano dai Paesi ricchi, si sarebbe verificato anche nel primo mondo, cioè da noi. Per questo poteva scrivere che quel meccanismo era un boomerang e cioè avrebbe colpito quegli stessi Paesi che l’avevano adottato.
Il meccanismo, semplificando i termini, è subito spiegato. Il Fondo Monetario Internazionale (in sigla: FMI) ai Paesi che chiedono un prestito perché si trovano in difficoltà economiche impone due scelte fondamentali, che a prima vista appaiono ovvie. La prima è quella di non investire il denaro in attività che non sono direttamente produttive. E quali sono queste attività? Sono principalmente due: la sanità e l’istruzione. E’ arcinoto e direi anche ovvio che la cura delle malattie e le scuole non producono ricchezza materiale e nemmeno finanziaria. Da questo punto di vista sono solo costi. L’applicazione però di questo impegno “per onorare i prestiti” che effetto ha avuto in quei Paesi? Il blocco della costruzione di ospedali, ambulatori e delle scuole. Con il conseguente imperversare delle malattie e l’aumento pauroso dell’analfabetismo.
La seconda condizione per ottenere i prestiti è quella di investire il denaro nella produzione di beni per l’esportazione. Anche questa è una proposta ovvia, se si pon mente che fa entrare moneta forte. L’effetto però è anche quello del disimpegno nella produzione di beni di prima necessità per la popolazione autoctona e quindi incremento pauroso della fame. Il risultato, a distanza di pochi anni, è che quei Paesi sono sempre più poveri, anzi, sono impoveriti. E lo si dice specie dei Paesi africani, che non sono o non sarebbero poveri, ma risultano fortemente impoveriti. C’è di peggio, perché i prestiti non sono a fondo perduto, ma devono essere restituiti. E’ così documentato che la massa di denaro che torna nei Paesi ricchi a titolo di restituzione da quei Paesi supera quella dei nuovi prestiti. Un meccanismo infernale.
Ma adesso tocca a noi. Per questo si parla di boomerang, che è quell’arma da getto consistente in un bastone ricurvo che se non colpisce il bersaglio torna pericolosamente su chi l’ha gettato. Anche da noi i debiti dello Stato stanno provocando tagli alla sanità e all’istruzione. Anche da noi si teorizza che per riprendersi dalla crisi bisogna produrre per l’esportazione. Ma per esportare bisogna sfornare prodotti ambiti all’estero e quindi specializzarsi in nuove tecnologie. Le nuove tecnologie però si scoprono con la scuola e la ricerca specializzate. Ora, però, se alla scuola si tagliano i fondi, come pretendere che sia innovativa e all’avanguardia? Anche qui, c’è di peggio, perché da anni i cervelli eccellenti che pur la nostra scuola riesce a sfornare devono sfuggire all’estero, non trovando qui serio impiego. Tutto questo fa dire che a non funzionare in senso umanistico promozionale è il sistema mirante solo alla produzione materiale ed estremamente competitivo. Che se la competizione non si può fare qui, si va a farla altrove e dove più conviene.
Come non pensare allora al correttivo della solidarietà e della promozione umana! Jeremy Rifkin, il grande studioso americano dei fenomeni sociali, auspica la nascita della “civiltà dell’empatia”, che consiste nell’immedesimarsi con le condizioni degli altri specie dei più poveri condividendone passioni ed emozioni. Rifkin aveva già segnalato come preferibile il “sogno europeo” per il fatto che comporta solidarietà ed empatia con i più deboli, note evidentemente di ispirazione cristiana. L’Europa deve riscoprire non tanto nei nomi e nelle solenni dichiarazioni, ma effettivamente e fattivamente le sue radici cristiane.