PAPA: SPERANZA CONTRO DELITTI ATEISMO E SCIENZA AMORALE *
CITTA’ DEL VATICANO - Bisogna tornare a parlare di speranza, in un mondo reso vuoto dalla fine delle ideologie e in cui anche la "crisi della fede" si configura come crisi di speranza. La speranza è ciò che il Papa oppone ai delitti dell’ateismo, alle distruzioni lasciate dalle rivoluzioni comuniste, ai rischi di una scienza che perda la dimensione etica e può distruggere l’umanità fino agli "abissi" del male, a un mondo di gente che vive senza una prospettiva di futuro e senza più aspirare alla vita eterna. Il "cielo non è vuoto", ammonisce Benedetto XVI nella "Spe salvi (nella speranza siamo stati salvati)", seconda enciclica del pontificato, e ci sarà il giudizio di Dio, che non sarà un colpo di spugna: "la giustizia è l’argomento essenziale in favore della vita eterna", perché l’ingiustizia non può essere l’ultima parola.
Settantasei pagine nella versione italiana, firmata e pubblicata il 30 novembre, nella festa di sant’Andrea, l’enciclica è frutto della riflessione personalissima del papa-teologo; è intrisa di sant’Agostino, si fonda sulle più importanti lettere paoline (dai Romani agli Ebrei), si muove nella filosofia da Bacone alla scuola di Francoforte cercando i motivi della crisi della ragione a partire dalla fiducia nel progresso, e denunciando i limiti del marxismo; si confronta con la teologia protestante e chiede al cristianesimo moderno di fare autocritica perché troppo concentrato sulla salvezza individuale e inadeguato nello spiegare il senso della speranza cristiana.
I DELITTI DELL’ATEISMO E DEL MARXISMO
L’ateismo dell’era moderna ha provocato "le più grandi crudeltà e violazioni dela giustizia"; il marxismo, in particolare, ha lasciato dietro di sé "una distruzione desolante". Il Pontefice contesta tutte quelle ideologie che pretendono di portare giustizia tra gli uomini senza Dio. "Un mondo che si fa giustizia da solo è un mondo senza speranza".
LA SPERANZA CONTRO STRAPOTERE IDEOLOGIE E POLITICA
Il Papa rilancia la speranza contro il vuoto di senso del mondo contemporaneo e contro lo strapotere dell’ideologia e della politica. E’ "la speranza", "questa nuova libertà", che permette a tanti cristiani di opporsi "allo strapotere dell’ideologia e di suoi organi politici". E la speranza si oppone a ideologie e poteri sia nel martirio che nelle "grandi rinunce" alla san Francesco.
LA SCIENZA SENZA ETICA PUO’ PERDERE L’UMANITA’
Scienza e progresso possono perdere l’umanità E come ha osservato Theodor Adorno, col progresso si arriva "dalla fionda alla megabomba" aprendo "possibilità abissali di male". Il progresso senza etica è "una minaccia per l’uomo e per il mondo".
CI SARA’ IL GIUDIZIO E NON SARA’ COLPO DI SPUGNA
Esiste il Giudizio Finale di Dio, non sarà quello dell’iconografia "minacciosa e lugubre" dei secoli scorsi, ma nemmeno un colpo di spugna "che cancella tutto"; esso chiamerà "in causa le responsabilità" di ciascun uomo. Papa Ratzinger riafferma l’esistenza del Purgatorio e dell’Inferno e lega il motivo della speranza cristiana proprio alla giustizia divina.
CIELO NON E’ VUOTO, PERCHE’ NESSUNO PENSA PIU’ A VITA ETERNA?
"Forse oggi molte persone rifiutano la fede semplicemente perché la vita eterna non sembra loro una cosa desiderabile. Non vogliono affatto la vita eterna, ma quella presente, e la fede nella vita eterna sembra, per questo scopo, piuttosto un ostacolo". Nessuno vuole la morte, ma allora "che cosa vogliamo veramente?"
Sul tema, nel sito e in rete, si cfr.:
SPE SALVI - TESTO COMPLETO DELL’ENCICLICA
"DEUS CARITAS EST": LA VERITA’ RECINTATA!!!
IL CATTOLICESIMO-ROMANO E I SUOI SCHELETRI NELL’ARMADIO.
LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO ... DEI "DUE SOLI"(DANTE)
Le "divisioni del Papa" contro il relativismo dell’Onu *
Il Papa denuncia: «Il relativismo morale domina l’Onu». Peggio: «Le organizzazioni internazionali mancano di etica». Così si è espresso Benedetto XVI ricevendo, nel Palazzo Apostolico, un centinaio di rappresentanti delle Organizzazioni non governative cattoliche più importanti del mondo e accreditate presso le istituzioni delle Nazioni Unite.
C’è un rifiuto - ha detto - di riconoscere la centralità della «legge morale naturale» e della difesa della «dignità dell’uomo». Le regole internazionali - si è lamentato - si basano solo su una ragione politica e non etica, e ciò porta ad «amari risultati». Dopo le polemiche tra Vaticano e Amnesty international sull’inclusione o meno dell’aborto tra i diritti umani, insomma, le discussioni in seno all’Onu e alle altre organizzazioni internazionali e regionali sono carenti perché sono improntati al «relativismo» etico e cercano un consenso «manipolato dalla pressione ideologica», sostiene il Papa.
Secondo Benedetto XVI, «le discussioni internazionali sembrano caratterizzate da una logica relativistica che vorrebbe considerare come sola garanzia di una pacifica coesistenza tra i popoli un rifiuto di ammettere la verità sull’uomo e la sua dignità, senza dire nulla sulla possibilità di un’etica fondata sul riconoscimento di una legge morale naturale. Ciò ha condotto, in realtà, all’imposizione di una nozione della legge e della politica che alla fine genera consenso tra gli Stati - un consenso condizionato da interessi di breve termine o manipolato dalla pressione ideologica - considerato l’unica vera base delle norme internazionali».
«I frutti amari di questa logica relativistica - secondo il Papa - sono purtroppo evidenti: pensiamo, ad esempio, al tentativo di considerare come diritti umani le conseguenze di certi stili di vita auto-centrati», ha detto Benedetto XVI con trasparente riferimento all’interruzione di gravidanza, «la mancanza di preoccupazione per i bisogni economici e sociali delle nazioni più povere; il disprezzo per la legge umanitaria e la difesa selettiva dei diritti umani». Benedetto XVI ha poi incoraggiato le ong cattoliche a «combattere il relativismo in modo creativo, presentando la grande verità sull’innata dignità dell’uomo e i diritti derivati da questa dignità». Per il Papa bisogna «promuovere come un insieme quei principi etici che, per la loro natura e il loro ruolo di fondamento della vita sociale, rimangono non-negoziabili».
* l’Unità, Pubblicato il: 01.12.07, Modificato il: 01.12.07 alle ore 21.15
L’Onu risponde al Papa La nostra etica? I diritti umani
L’accusa di «relativismo morale»*
Altro che relativismo morale, noi siamo fondati sui diritti umani. Le Nazioni Unite non ci stanno a subire le accuse che arrivano dalla Santa Sede e rivendicano il fondamento dell’Onu, la dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Un botta e risposta che non capita tutti i giorni, certo. Da una parte Papa Benedetto XVI e le sue critiche alle organizzazioni internazionali che «mancano di etica». Dall’altra, le Nazioni Unite che un’etica ce l’hanno eccome, ed è quella della difesa dei diritti umani.
A rispondere al Papa è il portavoce dell’Onu, Farhan Haq: «Le Nazioni Unite - ha detto - nascono da un accordo tra Stati, ma non dimenticano che una delle pietre miliari dell’Onu è la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo». Ovvero, quel documento firmato a Parigi quasi sessant’anni fa, il 10 dicembre 1948, che ha «innestato nel dna» dell’Onu quegli stessi principi etici di cui parla il Papa. Le Nazioni Unite, aggiungono dal Palazzo di Vetro, «ascoltano i popoli, le ong, gli attivisti per i diritti umani e i singoli parlamentari. Dobbiamo fare di più - spiegano - ma l’Onu cerca sempre di includere il maggior numero possibile di interlocutori».
Respinte così al mittente le accuse di rifiutare la «legge morale naturale» e di essere «manipolati dalla pressione ideologica», come aveva detto sabato mattina Benedetto XVI a un centinaio di rappresentanti delle ong cattoliche più importanti del mondo. I diritti umani, rivendicano da New York, «non sono negoziabili per loro natura e per il loro ruolo di fondamento della vita sociale».
Nel pomeriggio, prima che l’Onu esprimesse il suo dissenso, il Vaticano si era probabilmente già reso contro dell’incidente diplomatico scatenato dalle parole del Papa: Benedetto XIV, precisavano dalla Santa Sede, «non ha affermato che il relativismo morale domina le Nazioni unite e le altre organizzazioni internazionali ma che spesso “il dibattito internazionale appare segnato da una logica relativistica”». Il Papa, a dire il vero, aveva parlato dell’«imposizione di una nozione della legge e della politica che alla fine genera consenso tra gli Stati - un consenso condizionato da interessi di breve termine o manipolato dalla pressione ideologica - considerato l’unica vera base delle norme internazionali».
Dopo le polemiche tra Vaticano e Amnesty international sull’inclusione o meno dell’aborto tra i diritti umani, insomma, un’altra brutta giornata in Vaticano. Ma per qualcuno è solo colpa dei media. Sul blog Paparatzinger, un post dice: «Chiaramente i media non possono a lungo sopportare il concerto di lodi sull’Enciclica che sta riempiendo le loro pagine, allora si gettano, che dico, si inventano, una ragione per di nuovo attaccare il Santo Padre, cercare di discreditarlo. Posso dirlo? Mi fanno schifo».
* l’Unità, Pubblicato il: 01.12.07, Modificato il: 01.12.07 alle ore 21.27
Materiale sul tema:
Quel che resta del sacro
Il cristianesimo, l’etica e l’Occidente
Secondo il saggio di Galimberti sarebbe “una religione dal cielo vuoto”
Così Mancuso discute questa tesi, tra punti di vista comuni e idee divergenti
di Vito Mancuso (la Repubblica, 15.11.2012)
A chi prega ogni giorno «Padre nostro che sei nei cieli» non fa probabilmente piacere veder qualificata la propria fede come «la religione dal cielo vuoto», secondo quanto recita il sottotitolo dell’ultimo libro di Umberto Galimberti appena uscito da Feltrinelli. Consapevole dell’affondo, l’autore avverte di non aver voluto essere «provocatorio e nemmeno offensivo», ma non per questo rinuncia a ribadire: «E tuttavia il cielo del cristianesimo è vuoto».
Il libro di Galimberti è ampio, sinuoso, profondo, apre e chiude scenari con magistrale disinvoltura. Il credente che lo legge può affogare, ma può anche imparare a nuotare tra pericolose correnti. Tra le questioni sollevate vi è quella del senso, se cioè questa categoria non sia solo un traballante rifugio della mente, vi è la connessione tra l’Occidente e la sua religione («l’Occidente di cristiano non ha solo le radici, ma il tronco, i rami, le foglie, i frutti, tutto è cristiano in Occidente»), vi è l’immancabile trattazione della tecnica e della psiche, la figura della fede filosofica e molte altre cose. Ma la questione decisiva è il cielo vuoto del cristianesimo. Ovvero il cielo vuoto dell’Occidente.
Per Galimberti ciò dipende dal fatto che il cristianesimo ha eliminato dal concetto di Dio la pienezza della vita. La vita infatti è bene + male, giustizia + ingiustizia, mentre il Dio cristiano è solo bene e solo giustizia, quindi strutturalmente incapace di rispecchiare la straboccante totalità della vita. Liberando Dio dalla responsabilità del male, il cristianesimo l’ha impoverito rendendolo incapace di abbracciare il tutto, così che, a differenza degli Dei greci e dell’Islam, il cristianesimo è rimasto privo della dimensione del sacro. Il sacro infatti non conosce distinzione tra bene e male, ma veicola una dimensione di fascino e insieme di terrore, in un’originaria ambiguità che rispecchia alla perfezione l’ambiguità della vita (il latino sacer significa al contempo “sacro” ed “esecrato”). Privo di sacralità, ridotto a etica, il cristianesimo non è più in grado di riempire il cielo della storia, che quindi, per l’Occidente, risulta vuoto.
Tale analisi di Galimberti riprende e riattualizza la critica teologica di Nietzsche al cristianesimo. A differenza infatti dell’ateismo antropocentrico di Marx o di Freud, l’anticristianesimo di Nietzsche si nutre di vigorosa teologia greca e accusa il cristianesimo di aver prodotto «la castrazione contronatura di Dio in un Dio soltanto del bene». Per Nietzsche però «si ha bisogno tanto del Dio cattivo quanto di quello buono», perché «che importerebbe un Dio che non conoscesse né ira, né vendetta, né invidia, né scherno, né astuzia, né azioni violente... un Dio simile non lo si comprenderebbe, a quale scopo dovremmo averlo?». Le analisi di Galimberti sul sacro sono variazioni di questo motivo fondamentale elaborato da Nietzsche per ristabilire il primato naturale della forza contro il primato innaturale dell’etica, un’operazione per la quale il filosofo tedesco riteneva di dover combattere fino alla morte il cristianesimo.
Ma Galimberti, lui, come giudica l’operazione cristiana che toglie il sacro originario dall’ambiguità etica per porre il primato del bene e della luce? Al lettore non è dato sapere, perché l’ambiguità avvolge anche Galimberti, che da un lato connota negativamente la desacralizzazione cristiana: «Smarrite le tracce del sacro, attenuata con l’incarnazione la trascendenza di Dio, il cristianesimo si è ridotto ad agenzia etica»; dall’altro lato giudica il messaggio cristiano più positivamente attribuendo la responsabilità della crisi non all’idea di Dio come bene ma alla teologia basata sulla metafisica greca: «Il cristianesimo ha costruito la sua teologia non sul messaggio di Cristo, ma sulla logica e la metafisica platonico-aristotelica, che nel suo crollo ha trascinato con sé anche il Dio cristiano».
Io penso che la tesi di Galimberti secondo cui «il cristianesimo ha desacralizzato il sacro, sopprimendo la sua ambivalenza e assegnando tutto il bene a Dio e tutto il male al suo avversario » sia fondata: nel cristianesimo l’ambiguità originaria del sacro viene meno, l’immagine di Dio portata da Gesù rende impossibile un Dio dell’ira e della vendetta. L’incarnazione quale centro del cristianesimo infatti va speculativamente compresa nel senso che il valore assoluto spettante alla divinità si estende all’umanità: il sacro cioè non è più il tempio o la legge, ma si trova nei volti concreti degli esseri umani, e per questo il Nuovo Testamento giunge a dire che non si può amare Dio che non si vede se non si ama il prossimo che si vede.
Nietzsche quindi ha ragione nell’attribuire a Gesù l’identificazione di Dio soltanto col bene, solo che non si tratta di una “castrazione contronatura”, ma di un’acquisizione teologica decisiva, su cui si fonda l’etica dell’Occidente, soprattutto dopo la sconfitta del mostro nazifascista inebriato dalla sacralità della forza e della volontà di potenza proclamata da Nietzsche. Né si tratta, come vuole Galimberti, del “germe dell’ateismo”, ma piuttosto dell’inaugurazione di un nuovo modo di pensare Dio, non più all’insegna del teismo, ma di un altro modello concettuale vicino alla mistica dell’unità, il panenteismo.
Naturalmente si è trattato di un processo lungo, incoerente (tutti sanno che il cristianesimo ha ampiamente conosciuto la violenza) e ancora in corso. Ma a seguito del Vaticano II, che ha accettato la libertà religiosa e quindi il primato della coscienza, l’acquisizione che l’unica cosa sacra è la vita libera degli esseri umani è ormai irreversibile. Oggi quindi esistono le premesse perché si compia la rivoluzione teologica di Gesù (dal teismo al panenteismo) e appaia chiaro che la più alta dimensione del sacro è l’uomo vivente immagine di Dio.
Il cristianesimo è giovane, ha appena duemila anni, e forse solo adesso, sempre più libero dagli interessi del potere grazie alla secolarizzazione, sta iniziando a confrontarsi seriamente con le diversità del mondo.
Forse l’avrebbe avvertito anche Galimberti se, invece di prestare tanta attenzione alle analisi di Baget Bozzo colme di invidia verso la forza politica dell’Islam e tese a suscitare ostilità verso questa grande religione mondiale, si fosse occupato anche delle dinamiche mondiali del cristianesimo, mentre non nomina autori come Bonhoeffer, Florenskij, Teilhard de Chardin, Schweitzer, Rahner, Tillich, Panikkar, Küng e movimenti come la teologia della liberazione, né dice una parola su profeti come Romero, Camara, Bello, Martini. Un po’ strano per un libro che si intitola Cristianesimo.
In realtà assistiamo oggi nel mondo a una profonda trasformazione del concetto di sacro, che non intende avere più nulla a che fare con la concezione primitiva e maschilista del culto della forza e dell’arbitrio, compreso il Dio del teismo e dell’onnipotenza di alcune pagine bibliche.
Oggi a risultare sacra per la coscienza è la lealtà della relazione, l’armonia che va costantemente ricercata e costruita, il volto umano di ogni razza o colore, con la profonda trasformazione del concetto di religione che questo porta con sé. Peccato però che gli uomini di Chiesa in grado di cogliere questa dinamica siano rari, mentre i più, e in questo Galimberti ha ragione, si occupano di argomenti «che ogni società civile può affrontare e risolvere da sé» e lasciano i singoli a «vedersela da soli con l’abisso della propria follia».
Galimberti conclude il suo libro chiedendosi: «È ancora in grado l’Occidente, e il cristianesimo che è la sua anima, di varcare le porte del nulla?». Quanto all’Occidente io non lo so, ma so che il cielo interiore dell’anima umana non sarà mai vuoto fino a quando vi sarà chi, all’ideologia della forza, preferisce il nobile ideale del bene e della giustizia. E so che il cristianesimo può ancora alimentare molte energie in questa direzione.
Al nostro papa, Benedetto
di Jacques Noyer, vescovo emerito di Amiens
in “www.temoignagechretien.fr” del 30 ottobre 2011 (traduzione: www.finesettimana.org)
Dopo aver letto la lettera apostolica Porta Fidei (“La porta della fede”), pubblicata domenica 16 ottobre dalla Santa Sede, Jacques Noyer interroga il papa sulle sue intenzioni e sui mezzi che la Chiesa può mettere in atto per onorare al meglio il prossimo “Anno della fede”. Che andrà dall’11 ottobre 2012 al 24 novembre 2013, periodo del cinquantesimo anniversario dell’apertura della seconda sessione del Vaticano II
Lei ha pubblicato una lettera, qualche giorno fa, per annunciare un Anno della Fede. Celebrare l’anniversario del Concilio Vaticano II con un rinnovamento della nostra fede mi sembra un’ottima idea. Se tutti i cristiani del mondo, insieme, mettessero in opera il Vangelo, la cosa dovrebbe essere visibile. Sarebbe una grande grazia per il nostro mondo, che sta morendo nella paura e nella mancanza di speranza. Di questo, ci tengo a ringraziarla.
Grazie anche per aver rinunciato, come fa dall’inizio del suo pontificato, al Noi solenne che nei testi dei suoi predecessori ci schiacciava con la sua solennità. Lei dice semplicemente io e questo dà alla sua lettera una semplicità che apprezzo. Ma bisognava proprio dare alla sua lettera lo statuto di Motu proprio? che vuol dire “Di mia propria iniziativa”! Quell’idea, quella decisione, le è giunta solo nella ruminazione della sua preghiera personale?
Perché non dire: “Come si aspettano molti di voi, come lo auspicano molti dei vostri sinodi, vi propongo di celebrare il Concilio Vaticano II con un impegno di fede.” Già saremmo stati imbarcati in quest’avventura. Così avrebbe mostrato che lo Spirito Santo non parla solo dall’alto verso il basso, ma in un dialogo in cui tutti abbiamo la parola. Un motu proprio ci tratta troppo come sudditi che devono obbedire alla sua autorità. Senza dubbio ci saranno molti fedeli che le diranno quell’amen di sottomissione e si congratuleranno per l’iniziativa.
Mi permetta di credere che quel popolo docile e obbediente non ha un gran futuro nel nostro mondo moderno. Lei vedrà i migliori allontanarsi, se non li ascolta, se dà l’impressione di ignorarli, se fa come se volesse fare chiesa da solo.
Inoltre, ancora una volta sono a disagio perché lei non dice a chi si rivolge. Questa lettera è stata pubblicata, la si trova sui giornali e su internet, ma a chi rivolge questo invito? Quando ero vescovo titolare, soffrivo nel leggere su un giornale un testo che ci era destinato, che ignorava così la relazione specifica e personale che ci dà la comunione tra le nostre chiese.
Talvolta, la difficoltà della lingua e delle affermazioni mostrava perfettamente che lei si rivolgeva solo ai teologi, lasciando pensare che la fede è fatto solo per i sapienti. Certo lei fa uno sforzo per avere un linguaggio più chiaro, meno erudito. Ma pensa comunque che i semplici cristiani la leggeranno?
Tutto ciò che lei dice sulla fede mi sembra luminoso e lo accolgo con grande interesse. Voglio però sottolineare una difficoltà importante: risvegliare la nostra fede significa semplicemente rileggere le nostre lezioni di teologia? Bisogna sapere che cosa è credere, per credere?
Quella fede, quella fiducia, quel senso degli altri che Gesù chiamava fede, che ammirava e celebrava nei più piccoli, esiste prima della riflessione dei teologi sulla loro fede. Mi sembra che delle conferenze teologiche, certo molto preziose per i credenti, non diano mai la fede. Per fare di quest’anno un anno di fede, bisogna innanzitutto che ritroviamo le parole, certo, ma soprattutto i gesti, gli atti, gli incontri, le rinunce, le conversioni, che diranno agli uomini di quale amore il Padre li ama.
Successore di Pietro, sì, risveglia la nostra fede! Mostraci il cammino di una nuova Chiesa per permettere una nuova evangelizzazione. Più che di parole, la nostra fede ha bisogno di esempi.
Inizierà nell’ottobre 2012
L’Occidente - Italia in testa - sempre più colpito da un processo di secolarizzazione
Il Papa annuncia l’Anno della fede "Troppi la danno per scontata" *
CITTA’ DEL VATICANO - É tempo di "riscoprire" e "rilanciare" la fede cristiana e i primi a farlo devono essere i cristiani. Ecco il "manifesto" di Benedetto XVI per rievangelizzare l’Occidente - Italia in testa - sempre più colpito da un processo di secolarizzazione. Lo ha lanciato ieri lo stesso Ratzinger, annunciando di aver indetto l’Anno della Fede che dall’11 ottobre 2012 al 24 novembre 2013 celebrerà il cinquantesimo anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II. Un appuntamento indetto solennemente con la pubblicazione di un motu proprio dal titolo "La porta delle fede". «Non è raro - scrive il Papa - che i cristiani pensino alla fede come un presupposto ovvio del vivere comune», anche se «questo presupposto non solo non è più tale, ma spesso viene perfino negato». «Bisogna ritrovare il gusto di nutrirci della parola di Dio» è l’esortazione di Benedetto XVI. (o.l.r.)
* la Repubblica, 18.10.2011
La scomunica delle Nazioni unite
di Mariuccia Ciotta (il manifesto, 02.12.2007)
Ecco il «perfetto regno umano» di cui è capace l’uomo: un fallimento, conseguenza dei vani tentativi - scientifici, politici, culturali - di cambiare il mondo. Dopo nemmeno 24 ore dall’enciclica «Spe salvi», Ratzinger traduce il pensiero religioso in un attacco violento contro l’Onu e gli altri organismi internazionali, colpevoli di «relativismo morale». A dimostrazione che questo papa naviga nelle acque alte della teologia con lo sguardo sempre rivolto a quegli «obiettivi materialistici» che tanto rimprovera a marxismo e illuminismo.
L’Onu, secondo il pontefice, rifiuta la centralità della «legge morale naturale» e dimentica la «dignità dell’uomo». Le sue ragioni sarebbero di natura politica e non etica, e ciò porta ad «amari risultati». Le Nazioni Unite, la rappresentanza globale degli stati, devono mettersi da parte, ma anche organismi come Amnesty International devono cedere il passo alla sola «speranza» dettata dalla fede e assicurata agli uomini dagli ambasciatori del Vaticano. Ovvero una rete di coordinamento e di pressione cattolica, una lobby divina, che dovrà promuovere la politica internazionale della Santa Sede a unica difesa dei diritti umani.
È questo lo scopo dichiarato di Benedetto XVI che ieri si è rivolto alle Ong cattoliche più influenti della terra, invitate a contrastare dovunque l’operato di chi «nega cittadinanza alla verità dell’uomo nonché alla possibilità di un agire etico». Siamo oltre la disquisizione filosofica sul «plusvalore» dato dall’Altro, un Dio che pensavamo fosse sceso tra gli uomini per ricongiungere il cielo con la terra. Oltre la critica alla modernità come luogo della mercificazione umana e che non trova antagonismi in nulla, figuriamoci nel comunismo, «avversario» numero uno, tanto che Berlusconi, il miliardario liberista, si specchia in Ratzinger «che fa squadra da solo» e non ha bisogno di nessuno per giocare la sua partita «alla ricerca della verità nella libertà».
Il papa nega ogni «crescita morale dell’umanità» che non sia dentro l’ambito cattolico. Nega la persona come entità inscindibile di corpo e spirito, la divide e introduce quella terribile categoria del «subumano», là dove il corpo prende il sopravvento sullo spirito. Ci sono mezzi uomini, quelli fuori dalla Chiesa cattolica, che indulgono in «certi stili egoistici di vita» spacciati per diritti umani e che l’Onu con il suo relativismo asseconda, dice Ratzinger.
Questa esternazione vaticana non ci sembra in continuità con le altre. La lacerazione aperta con l’Onu è inedita e pesante e detta in serata a Ban Ki-Moon una secca replica: «Le Nazioni Unite nascono da un accordo tra stati e si fondano sui diritti dell’uomo». La delegittimazione dell’Onu, inoltre, cade all’indomani del suo grande successo contro la pena di morte e alla vigilia della ratifica. Il Palazzo di vetro non sarà un alleato della Chiesa nella lotta per i diritti umani ma un nemico contro cui scatenare una crociata mondiale affidata alla task force cattolica. Il papa gioca da solo.
Il Papa, i laici e l’Onu
di GIAN ENRICO RUSCONI (La Stampa, 3/12/2007)
Il discorso del Papa, con l’accusa rivolta all’Onu di «relativismo morale», è chiarissimo. È perfettamente inutile che se ne diano interpretazioni più morbide o più corrette. Non inquiniamo dunque con la diplomazia il confronto con le sue tesi.
Le parole del Papa semplicemente riconfermano che, nelle grandi questioni di scelta etica, il contrasto tra una visione religiosa (di stampo cattolico) e una concezione laica coerente (o comunque diversamente orientata) è insuperabile sul piano dei principi. Sorge allora l’interrogativo di come tali incompatibilità possano incidere sulla convivenza di uomini e di donne, di culture e di organizzazioni che si muovono con assunti morali differenti. È difficile capire infatti come si possa stare amichevolmente fianco a fianco o collaborare concretamente sul campo, nelle organizzazioni internazionali, quando qualcuno si ritiene depositario della verità e considera l’altro un immoralista, spregiatore della vita e via dicendo.
Il paradosso è che soltanto una visione laica, che ora viene sistematicamente diffamata come relativista, si fonda sulla convinzione che «il rispetto dell’uomo» incominci proprio dal rispetto delle diversità delle posizioni. Diversità - si badi - non affermata in modo insindacabile, «auto-centrata» (per dirla con il Papa), cioè basata su opinioni personali che si sottraggono al confronto con le altre. Al contrario, tutte le posizioni devono essere sempre e continuamente argomentabili con tutti, senza pre-giudizio morale. Qui si manifesta l’equivoco legato all’intervento del Papa. Parlando in generale di «dignità dell’uomo», di «legge morale naturale», dichiara di muoversi su un piano di razionalità universale. Questa intenzione è del tutto ineccepibile e legittima (persino nell’uso dell’espressione impegnativa di «verità dell’uomo»), purché sappia farsi valere argomentando in modo convincente. Quelle del Pontefice invece sono affermazioni perentorie, formulate come aut aut, che avanzano il sospetto di incompetenza e di immoralismo su chi ricerca un diverso fondamento etico alle complesse questioni sul tappeto.
Si obietterà che il Papa non può mettersi a fare lezioni di filosofia. È vero. Ma se intende muoversi su un piano di razionalità, deve sapere che la possibilità di rifarsi a «una legge naturale innata» è oggetto di un’appassionata e approfondita controversia che non può essere ignorata. E razionalità è confronto di ragioni.
Ma il vero equivoco è ancora un altro. L’enorme rilievo delle tesi del Papa non deriva dal loro contenuto ma dalla posizione religiosa di chi le pronuncia. Questo vuol dire che ciò che dà loro peso è il sottinteso dogmatico, religioso, teologico. Ovviamente è legittimo che nella questione della «famiglia naturale» o dell’aborto si introducano motivi religiosi, purché lo si faccia esplicitamente. E si riconosca il limite della loro portata. Invece su questo punto il discorso del Papa mantiene margini di ambiguità, perché pretende di argomentare in termini puramente naturali-razionali nel momento stesso in cui contiene forti suggestioni e appelli di carattere religioso. È un punto importante. La Chiesa oggi si autopromuove sempre più come «agenzia etica», «esperta dell’umano» senza volere o potere esplicitare le motivazioni dogmatico-religiose che la guidano. Pubblicamente lascia così indeterminato o semplicemente non detto il nesso stretto tra la sua idea di «vita», di «natura», di «dignità umana» e le dottrine tradizionali del peccato o della redenzione in Cristo che le sottendono.
Esplicitare questo nesso la metterebbe in difficoltà rispetto alle altre religioni mondiali. Ma la costringerebbe anche a un confronto assai più serrato con le minoranze laiche che ancora esistono in culture come la nostra, ad esempio, anche se la maggioranza degli italiani preferisce eludere questi problemi.
IL COMMENTO
Il Papa che rifiuta
il mondo moderno
di EUGENIO SCALFARI *
L’ANNUNCIO che la seconda enciclica del Papa, dopo quella sull’amore e sulla "caritas", sarebbe stata dedicata alla speranza aveva suscitato in me una viva aspettazione. Il cammino di Benedetto XVI verso la pienezza del suo magistero era stato fin qui piuttosto incerto, la sua decantata teologia soggetta a mutamenti a volte repentini, la sua vocazione pastorale crescente anche se non paragonabile a quella, tanto più drammaturgica e spettacolare, del suo predecessore.
Nei mesi più recenti era emersa una tonalità critica nei confronti della grande revisione conciliare e in un certo senso modernista del Vaticano II, dove dottori e pastori della Chiesa in vesti episcopali avevano aperto alla modernità, all’ecumenismo e perfino ai laici non credenti mettendosi in ascolto per trasmettere il messaggio evangelico e per conciliarlo con le risposte del pensiero laico, della morale laica e della razionalità.
Il Papa sembrava revocare in dubbio il messaggio conciliare e scavalcare a ritroso almeno due dei pontificati precedenti, quello di papa Roncalli e quello di papa Montini, tornando piuttosto alla Chiesa pacelliana e anche più indietro.
Sensazioni tuttavia, ancora incerte. Mitigate - debbo dirlo - dall’apprezzamento sincero dell’opera di Pietro Scoppola, manifestato da Ratzinger in persona in occasione della sua morte con parole inusitate di lode verso un cattolico la cui posizione nei confronti del mondo moderno era di tutt’altro segno di quella ormai prevalente nella Chiesa di Roma.
Perciò attendevo con interesse la seconda enciclica sperando che da essa si potessero trarre maggiori lumi sul pensiero di papa Ratzinger. Così infatti è stato. Anticipo qui il mio giudizio sul documento papale: Benedetto XVI ha voltato le spalle al Concilio Vaticano II.
Lo deduco da una lettura attenta del testo che del resto è estremamente chiaro.
Per certi cattolici il pensiero di un laico non credente può forse non avere rilievo alcuno o può esser tacciato di indebita interferenza. Respingo questa seconda obiezione: i non credenti sono stati da sempre "terra di missione" per la Chiesa; sarebbe dunque molto strano che gli si voglia chiuder la bocca quando essi parlano a chi vuol parlare con loro.
Quanto alla prima obiezione, quella dell’irrilevanza, essa ha un carattere soggettivo e non può esser presa in considerazione se non si munisca di argomenti forti ed espliciti in aperto contraddittorio. Anche i non credenti infatti hanno uno spazio pubblico, almeno altrettanto legittimo di quello reclamato e utilizzato amplissimamente dalla gerarchia ecclesiastica. Spazio pubblico significa discussione pubblica, rinvio di argomenti dagli uni agli altri, confronto paritario. Perciò facciamolo questo confronto. La "Spe Salvi" ce ne fornisce una buona occasione.
* * *
Prima osservazione. L’enciclica porta un sottotitolo che indica i destinatari del documento: "Ai vescovi ai presbiteri e ai diaconi e a tutti i fedeli laici sulla speranza cristiana".
E’ strano che un’enciclica elenchi fin dal titolo i suoi destinatari. Tra di essi non sono indicati i seguaci delle altre confessioni cristiane, per non parlare dei fedeli di altre religioni. Solo vescovi, sacerdoti, fedeli cattolici.
Eppure si parla della speranza. Quella parola dovrebbe comunicare la massima apertura verso tutti i punti cardinali dell’orizzonte spirituale. Il vertice della cattolicità si chiude invece in difesa? Parla soltanto a chi è già arruolato e a chi è già convinto? Dov’è lo spirito missionario? Seconda osservazione. Le argomentazioni del documento pontificio sono certamente interessanti e comprensibili dalla cultura europea, ma abbastanza estranee ai cattolici di continenti e culture più lontane, all’Africa, all’Asia, all’America Latina. Che Ratzinger fosse un Papa europeo lo si era capito subito. La "Spe Salvi" ce ne dà conferma.
Ecco un’altra prova del suo voltar le spalle al messaggio ecumenico del Vaticano II.
* * *
Mi spiace dirlo di un Papa celebrato soprattutto per la sua finezza teologica ma la sua teologia, almeno per quanto riguarda il rapporto tra speranza-fede-certezza è in realtà una tautologia. Arbitraria e quindi non utilizzabile come prova di quanto l’autore vuole provare.
La speranza, dice papa Benedetto, contiene già la fede, la sostanza della fede è la certezza di ciò che la verità rivelata ci insegna. Perciò la speranza è già salvezza.
Questo passaggio costituisce il nucleo teologico della "Spe Salvi". Del resto è lo stesso titolo dell’enciclica ad annunciarlo: sarete salvi a causa della speranza, sarete salvi perché sperate. Cento pagine conta l’enciclica, l’identificazione speranza - fede - verità rivelata - certezza - salvezza ne occupa più o meno la metà. Qui sta forse la sapienza teologica di papa Benedetto che ne dedica una cinquantina ad illustrare con citazioni argomentate, chiamando in causa di volta in volta Paolo e Agostino, Ambrogio e Bernardo di Chiaravalle, Massimo il Confessore, e l’edificante esperienza della schiava Bakhita, per suffragare le due parole del titolo: "Spe Salvi", sperate e sarà vostro il regno dei cieli.
Si coglie, in questo modo di ragionare più induttivo che deduttivo, un riflesso dell’ontologia di Anselmo da Aosta. Era gran tempo che il ragionamento ontologico non aveva più molto spazio nella dottrina ecclesiale; la scolastica l’aveva spodestato. E in effetti l’ontologia contiene un rischio per l’architettura dottrinaria della Chiesa; l’ontologia si elabora nell’interno d’un pensiero che riflette su se stesso.
La Chiesa è molto cauta a muoversi su un terreno così rischioso.
* * *
La Chiesa, la sua dottrina elaborata a dir poco dall’800 dopo Cristo, non ha in molta simpatia la privatezza individuale. Leggete ciò che dice questa enciclica quando parla della preghiera, concepita come mezzo di ascesa verso Dio.
Dice che la preghiera è uno strumento prezioso, che pregare Dio, Gesù Cristo, la Madonna, i Santi, i propri estinti, è un modo per elevare l’anima, crescere in amore e in dedizione di sé. Ciascuno, naturalmente, è libero di pregare a proprio modo, ma questa libertà ha un limite: la preghiera privata rischia di diventare sterile estaticità.
Bisogna dunque passare alla preghiera liturgica da praticare anche solitariamente ma meglio assai coralmente, nella propria comunità, nella propria chiesa, guidata dai propri sacerdoti.
Il richiamo comunitario si affaccia più volte nelle pagine del documento papale. E vi irrompe in modo decisivo quando si parla della salvezza e della vita eterna.
Pensare alla salvezza della singola anima, di quella specifica anima individuale, è un modo imperfetto e improprio di configurare la vita eterna.
Contiene in sé tracce di egoismo. La salvezza passa per l’amore verso gli altri e soprattutto verso Dio. Quindi non può riguardare solo se stessi, il mio io si salverà perché io spero che tutti si salvino. La salvezza quindi è un fatto comunitario guidato dalla sposa di Cristo, cioè dalla Chiesa. La salvezza privata non è un pensiero buono. Perché può prescindere dal Magistero?
* * *
Pagine importanti riguardano il Giudizio finale.
E’ chiaro che quello è un appuntamento essenziale nella dottrina e tanto più se la speranza è il principio di tutto. La speranza è sinonimo di buona vita ed anche di buona morte. Sinonimo di fede e di certezza. Di resurrezione dei corpi. Quindi di conservazione dell’individualità e della memoria di sé. Non ci si reincarna nel corpo d’un altro ma nel proprio.
Dice Agostino in una memorabile pagina delle sue "Confessioni" (ma questa citazione non l’ho trovata nella "Spe Salvi"): "Tenterò di raggiungerti dove puoi esser raggiunto e di aderirti dove aderirti è possibile, o mio Dio, mia dolce sicurezza e mio bene. Rinuncerò anche alla mia memoria, alla memoria di me, pur di avere la beatitudine di poter salire al tuo cospetto. Ma se rinuncio alla mia memoria, come potrò avere memoria di te?".
Questa è la contraddizione essenziale tra la condizione umana e la gioia della beatitudine che fonde l’anima giunta al cospetto del creatore. Ma per arrivare a quel momento supremo c’è ancora il momento del Giudizio finale. Tutti saremo salvati, come l’anima amorosa di tutti ardentemente spera? Ma allora dov’è la giustizia?
La Giustizia, dice papa Benedetto, è un canone irrinunciabile. Dio non può rinunciare alla Giustizia visto che essa è uno dei suoi principali attributi.
Dio giudicherà in base alla speranza che ha aperto l’anima alla fede. Chi non ha sperato con ardore si sarà autoescluso. Ma Dio è anche misericordia e amore per le sue creature, sicché ammette una sorta di prova d’appello ed è la sua grazia a renderla possibile. Questo percorso è suggestivo. E’ il racconto di "cose che non si vedono".
Proprio perché non si vedono è la speranza che accadranno a darcene certezza e sostanza. Si chiama religione, sentimento religioso. E certo lo è, l’aura è quella.
Ma attenti ad un racconto così dettagliato perché dalla religiosità si rischia di travalicare facilmente nell’ideologia e da questa alla favola per bambini e al "c’era una volta", nella quale è sempre la voce della mamma a legger quel favoloso racconto che ci promette la vita oltremondana, conservando memoria di noi almeno fino a quando "l’anima esploderà nella gioia suprema" dinanzi al Dio onnipotente, causa e fine di tutto.
* * *
Dovrei forse dire una parola sull’ennesima condanna (stavolta senza appello) che nell’Enciclica il Papa lancia contro l’Illuminismo, il relativismo, il marxismo? Contro la scienza se priva di fede? Contro il moralismo che si affida all’autonomia della coscienza individuale? Insomma contro la modernità, considerata in blocco come un abisso dal quale ritrarsi finché si è in tempo? Non credo che su questi temi valga la pena di ribattere. L’abbiamo già fatto più volte e ripetersi in questo caso non giova.
Osservo, perché risulta evidente dal testo, che gli accenti critici dedicati a Marx e al marxismo sono molto più cauti e starei per dire più riguardosi nelle parole di papa Benedetto di quelli riservati all’Illuminismo.
Dopo tutto Marx creò una sorta di chiesa economicistica, si affidò allo spirito collettivo del proletariato sofferente, anche il suo pensiero ebbe i suoi presbiteri che annunciarono un loro paradiso. Penso che quel riguardo papale nei suoi confronti sia dovuto ad una chiesa e ad un paradiso terreno, in nome del quale si consumarono indicibili orrori. Sorretti però da una fede.
Gli illuministi non avevano fede. Alcuni di loro - Voltaire per esempio - erano teisti. Direi per necessità: non si spiegavano l’esistenza del creato e per non farla troppo lunga con discussioni e ricerche che non portavano da nessuna parte, si rassegnarono all’idea che ci fosse stato un architetto dell’universo e che, una volta creatolo, l’abbia lasciato funzionare da solo con tutti gli errori connessi e si sia ritirato dalla scena.
L’impegno degli illuministi fu un altro: cercarono di far trionfare la ragione, la tolleranza, la cultura. E di sconfiggere l’ignoranza, i privilegi, i pregiudizi, la tirannia. Si trovarono di fronte l’Ancien Régime e la Chiesa. Il trono e l’altare. Insomma il potere nelle sue espressioni meno accettabili.
Questa situazione era durata a dir poco un millennio. Il temporalismo della Chiesa era durato anche di più. La tentazione verso forme temporalistiche sia pure di tipo moderno è perennemente risorgente e va energicamente respinta.
A Benedetto XVI il relativismo non piace ed è comprensibile in chi amministra la verità assoluta (la sua). Non c’è niente da dire su questo punto. Certo, anche la Chiesa cambia spesso di opinione su fatti peccati e peccatori. E’ umano. A rileggere la sua storia ci si accorge che è anch’essa immersa nel relativismo. Anche questo è umano.
Perciò "Unicuique suum".
* la Repubblica, 2 dicembre 2007.
L’enciclica «SPE SALVI» di Benedetto XVI
Una prima lettura
di Rosario Amico Roxas *
L’enciclica “SPE SALVI” di Benedetto XVI (Clicca qui per il testo) si dibatte in un dedalo di involuzioni che nulla aggiunge alle domande che crescono dal mondo cristiano. Emerge, in prima lettura, la grande erudizione del pontefice, la sua documentata conoscenza filosofica, l’attenta analisi teologica.
E’ un itinerario frammentato, discontinuo, mancante di omogeneità che si dibatte tra filosofia e teologia, riferimenti storico-filosofici che spaziano da Sant’Agostino a Bacone, per citare poi Marx, Engels, Horkheimer, in una confusione di idee che non rende giustizia alla chiarezza.
La “Speranza” è l’elemento catalizzante del cristiano, insieme alla “Fede” e alla “Carità”, che dovrebbe contrapporsi al crollo delle ideologie, alle pretese della scienza, al fallimento dell’Illuminismo e alle limitazioni del relativismo. Tutto ciò rientra più nella sfera delle ovvietà che nello slancio di comprensione dei fenomeni che caratterizzano questo pianeta, in questa epoca, in questa storia. Appare piuttosto come un invito al regresso, chiudendo le porte al fascino del nuovo e dell’attuale, sottraedosi alla sfida.
Non basta leggere questa enciclica se la si estranea dall’intera storia culturale di Ratzinger prima e di Benedetto XVI poi. Il panorama, nella sua interezza, mostra i segni inequivocabili della contraddizione che emerge dagli scritti.
La condanna del progresso che ha portato l’uomo “dalla fionda alla megabomba” implicita la condanna della violenza e delle guerre, ma non fa rima con il Nuovo Catechismo del 1994, redatto da Ratzinger come Prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede, che finisce con l’accettare l’ipotesi di “violenze giuste” e di “guerre giuste” .
La speranza che deve animare gli esclusi, che deve indirizzare i poveri del pianeta, gli esclusi, i discriminati, alla ricerca del divino per riceverne conforto, non combacia con il dispositivo di condanna emesso da Ratzinger nei confronti della teologia della Liberazione e del suo massimo rappresentante P. Jon Sobrino. Leggiamo , infatti, in quel dispositivo la motivazione di base che condiziona l’intero processo: “Egli non nega il carattere normativo delle formulazioni dogmatiche ma, complessivamente, non riconosce ad esse un valore al di fuori dell’ambito culturale in cui sorsero”.
E’ il relativismo culturale che ha proposto in quel Salvador martoriato e in tutta l’America Latina un Cristo vero, genuino, aderente alle attese del popolo dei credenti, un Cristo lacero, mendico, affamato, assetato, negro, discriminato, ma colmo d’Amore per i suoi simili; il Cristo di Sobrino non si circonda di armigeri in abiti cinquecenteschi, non sviluppa la sua esistenza tra gli affreschi di Michelangelo, non dispone di tesori più o meno nascosti, ma partecipa alla vita sofferta, portando la Sua Croce, insegnando ai suoi “figli diletti” la vera Speranza, quella che sta “dopo” le sofferenze e che si attualizza nelle Beatitudini della Montagna. Emerge ancora, in questa ultima enciclica, una condanna rivolta alla giustizia terrena, quella che premia il più forte, quella che redige le pagine della storia scritta dai vincitori; affermazione giusta, comprensibile, e vera, ma che si colloca fuori dalla storia della Chiesa se non viene rinnovata nello spirito; quella Chiesa che ha scritto la Sua storia, giustificandola nei contenuti, anche quando è stata fautrice dell’Inquisizione, delle crociate, del potere temporale, dei tribunali che comminavano il rogo; quella storia che ha negato la speranza, privilegiando il rogo.
L’invito al “mea culpa” che dovrebbe recitare il cristianesimo moderno per l’inadeguatezza di fronte al progresso della tecnologia, è piuttosto il “mea culpa” delle gerarchie vaticane che non riescono a seguire le disordinate evoluzioni dei tempi e dare loro un senso compiuto, comprendendone le esigenze mutate; con l’invito ad un radicalismo medievale la Chiesa si allontana dal popolo dei credenti che non trova risposte adeguate alle domande nuove.
L’invito che si può rivolgere è quello di rileggere l’enciclica “Spe Salvi” alla luce di una rilettura del volumetto “Senza radici” di Pera- Ratzinger , dove l’intervento dell’allora cardinale, fece da avallo alle affermazioni razziste del prof. Pera; la richiesta di imporre le “radici cristiane” all’Europa, trasformava il cristianesimo da religione universale a fenomeno antropologico, caratterizzante la cultura occidentale, che pretenderebbe accaparrarsi il primato culturale a fronte delle altre religioni e delle altre cultura, all’insegna della negazione del relativismo culturale che impone il rispetto per tutte le culture e ne promuove l’incontro e il dialogo.
E ancora di rileggere il volume “Spe Salvi” in contemporanea a “Gesù di Nazaret” di Ratzinger-Benedetto XVI, quando, già dalla preemessa dice:
“Se dunque la storia, la fatticità, in questo senso appartiene essenzialmentre alla fede cristiana, quest’ultima deve esporsi al metodo storico. E’ la fede stessa che lo esige”
Quindi la fede diventa “metodo storico”, diventerebbe epistemologia dello spirito, quindi scienza anch’essa. Ma la scienza è un dono dell’intelletto, mentre la fede è un dono di Dio; così affermando Dio stesso non diventa un dono dell’intelletto?
Rosario Amico Roxas
Il Papa contro l’Onu
"Relativismo morale" *
ROMA - Papa Benedetto XVI ha denunciato oggi la logica del "relativismo morale" che domina ormai l’Onu e gli altri organismi internazionali. C’è un rifiuto, ha detto, a riconoscere la centralità della "legge morale naturale" e della difesa della "dignità dell’uomo". Le regole internazionali - si è lamentato - si basano solo su una ragione politica e non etica, e ciò porta ad "amari risultati".
Ricevendo nel Palazzo Apostolico, un centinaio di rappresentanti dell’Ong cattoliche più importanti del mondo e accreditate presso le istituzioni delle Nazioni Unite, Ratzinger ha detto che la cooperazione internazionale non può "imporre stili di vita" che calpestano il valore della vita.
Il forum delle organizzazioni non governative di ispirazione cattolica inaugurato questa mattina a Villa Aurelia, costituisce il primo passo del Vaticano per costituire una sorta di task force per sostenere l’azione della Santa Sede sulla scena internazionale a difesa della dignità umana.
Dopo le polemiche con l’Unicef e Amnesty International sul tema dell’aborto, Benedetto XVI mette in guardia le Organizzazioni non governative dal rischio di perdere di vista nella loro azione assistenzialeil riferimento ai valori etici. "Le discussioni internazionali - denuncia nel discorso alle Ong cattoliche riunite in Vaticano - sembrano caratterizzate da una logica relativistica che vorrebbe considerare come sola garanzia di una pacifica coesistenza tra i popoli un rifiuto di ammettere la verità sull’uomo e la sua dignità".
Papa Ratzinger ricorda invece la necessità di "un’etica fondata sul riconoscimento di una legge morale naturale". Ignorarla, afferma, "ha condotto, in realtà, all’imposizione di una nozione della legge e della politica che alla fine genera sì un consenso tra gli Stati, ma condizionato da interessi di breve termine o manipolato dalla pressione ideologica, l’unica vera base delle norme internazionali".
Secondo il Papa, "i frutti amari di questa logica relativistica sono purtroppo evidenti: pensiamo, ad esempio, al tentativo di considerare come diritti umani le conseguenze di certi stili di vita auto-centrati; la mancanza di preoccupazione per i bisogni economici e sociali delle nazioni più povere; il disprezzo per la legge umanitaria e la difesa selettiva dei diritti umani".
"Vi incoraggio - conclude il Pontefice rivolto alle Ong cattoliche - a combattere il relativismo in modo creativo, presentando la grande verità sull’innata dignità dell’uomo e i diritti derivati da questa dignità come un insieme di principi etici che, per la loro natura e il loro ruolo di fondamento della vita sociale, rimangono non negoziabili".
* la Repubblica, 1 dicembre 2007.
Benedetto XVI riceve i rappresentanti delle ong cattoliche accreditate presso le Nazioni Unite
"Basta con il relativismo morale che domina gli organismi internazionali"
Duro attacco del Papa all’Onu
"Dimentica la dignità dell’uomo"
Stizzita replica del palazzo di Vetro: "Il nostro è un accordo tra Stati. Siamo fondati
sui diritti umani e cerchiamo di parlare con il più alto numero di interlocutori" *
ROMA - Papa Benedetto XVI denuncia la logica del "relativismo morale" che a suo avviso domina l’Onu e gli altri organismi internazionali. C’è un rifiuto, ha detto, a riconoscere la centralità della "legge morale naturale" e la difesa della "dignità dell’uomo". Le regole internazionali - ha proseguito il Pontefice - si basano solo su una ragione politica e non etica e ciò porta ad "amari risultati". E con il palazzo di Vetro si apre una lacerazione che se non è una frattura poco ci manca. Lo staff del segretario generale Ban Ki-Moon ci ha pensato su quasi mezza giornata e in serata è stato mandato avanti il portavoce dell’Onu Farhan Haq per precisare che "le Nazioni Unite nascono da un accordo tra Stati e si fondano sui diritti dell’uomo".
Un botta e risposta inedito, pesante, polemico. Una gaffe, un fraintendimento oppure il Pontefice ha veramente voluto attaccare il Palazzo di Vetro? Certo, se non intervengono precisazioni e correzioni, l’odierno scambio di vedute non è un bel viatico per la visita del Pontefice alle Nazioni Unite prevista per il prossimo 18 aprile.
Ricevendo nel Palazzo Apostolico un centinaio di rappresentanti delle più importanti ong cattoliche accreditate presso le istituzioni delle Nazioni Unite, Ratzinger ha detto che la cooperazione internazionale non può "imporre stili di vita" che calpestano il valore della vita.
Il forum delle organizzazioni non governative di ispirazione cattolica inaugurato stamane a Villa Aurelia, costituisce il primo passo del Vaticano verso la creazione di una sorta di task force per sostenere l’azione della Santa Sede sulla scena internazionale in difesa della dignità umana.
Dopo le polemiche con l’Unicef e Amnesty ha messo in guardia le ong dal rischio di perdere di vista nella loro azione assistenziale il riferimento ai valori etici. "Le discussioni internazionali - denuncia il Papa - sembrano caratterizzate da una logica relativistica che considera come sola garanzia di una pacifica coesistenza tra i popoli un rifiuto di ammettere la verità sull’uomo e la sua dignità".
Papa Ratzinger ha sottolineato invece la necessità di "un’etica fondata sul riconoscimento di una legge morale naturale". Ignorarla, afferma, "ha condotto, in realtà, all’imposizione di una nozione della legge e della politica che alla fine genera sì un consenso tra gli Stati, ma condizionato da interessi di breve termine o manipolato dalla pressione ideologica, l’unica vera base delle norme internazionali".
Secondo il Papa, "i frutti amari di questa logica relativistica sono purtroppo evidenti: pensiamo, ad esempio, al tentativo di considerare come diritti umani le conseguenze di certi stili di vita auto-centrati; la mancanza di preoccupazione per i bisogni economici e sociali delle nazioni più povere; il disprezzo per la legge umanitaria e la difesa selettiva dei diritti umani".
"Vi incoraggio - ha concluso il Pontefice rivolto alle ong cattoliche - a combattere il relativismo in modo creativo, presentando la grande verità sull’innata dignità dell’uomo e i diritti derivati da questa dignità come un insieme di principi etici che, per la loro natura e il loro ruolo di fondamento della vita sociale, rimangono non negoziabili".
Era ancora mattina presto quando queste parole sono rimbalzate oltre oceano per arrivare sulla First avenue e risalire i piani del Palazzo di Vetro. La replica è arrivata dopo averci pensato su tutta la mattina. Significativo che la replica - praticamente un ripasso di storia - sia stata affidata al numero 3 della sala stampa Farhan Haq e non direttamente allo staff di Ban KI-Moon. Il prossimo 18 aprile il Pontefice è atteso proprio all’Onu e questo scambio di opinioni non è un bel precedente.
"Le Nazioni Unite nascono da un accordo tra Stati - ha ribadito Farhan Haq - ma non dimenticano che una delle pietre miliari dell’Onu è la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo". Nel dna dell’Onu, che pure è un’organizzazione dove "i popoli sono protagonisti" ci sono quegli principi etici di cui parla il Papa, e che secondo Benedetto XVI "non sono negoziabili per loro natura e per il loro ruolo di fondamento della vita sociale. Ascoltiamo i popoli, le ong, gli attivisti per i diritti umani e i singoli parlamentari". E’ possibile fare anche di più "ma l’Onu cerca sempre di includere il maggior numero possibile di interlocutori".
Il prossimo 18 aprile il Pontefice visiterà il Palazzo di Vetro. "Il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon vuole parlare con il Papa di una grande varietà di argomenti" ha riferito Haq. L’agenda dell’incontro deve essere ancora discussa in dettaglio. E’ possibile che sia posto anche per il "relativismo morale" delle organizzazioni internazionali.
* la Repubblica, 1 dicembre 2007.
IL COMMENTO
Attacco la scienza autosufficiente
ma la fede non può essere individualista
di MARCO POLITI
Scienza e progresso senza Dio non portano alla costruzione della società perfetta, anzi possono produrre orrori come si è visto con gli esiti della Rivoluzione russa. La seconda enciclica di papa Ratzinger contiene una critica serrata dell’autosufficienza della scienza e del puro dominio della ragione, come si delinea all’inizio dell’età moderna nel filosofo Francesco Bacone, e al tempo stesso una critica radicale della pretesa marxista di realizzare il "regno di Dio" in terra nell’ambito di una visione puramente materialista, che in ultima analisi non tiene conto della libertà dell’uomo.
In realtà l’enciclica riflette ancora una volta l’ansia di Benedetto XVI per un’Occidente diventato religiosamente tiepido e il suo desiderio profondo che i cristiani siano coscienti della loro fede e la sappiano mettere in pratica. L’idea di un cristianesimo individualista e che si rifugia in una dimensione di salvezza unicamente privata viene da lui respinta. A Marx , benché criticato per il suo "errore fondamentale", vengono riservate parole di inusitato apprezzamento per la sua vigoria di pensiero e acutezza di analisi. "Anche io mi sono stupito per il quasi-elogio a Marx", ha confessato il cardinale Gorge Cottier durante la conferenza stampa.
Il fatto è che papa Ratzinger chiede ai cristiani di essere veramente animati nella loro esistenza dalla fede. L’incontro con Cristo, spiega, costituisce la possibilità di una vera speranza, che assicura la vita eterna ma è anche pungolo a cambiare le cose in terra. L’amore redime, implica la giustizia verso gli altri, la com-passione con le sofferenze degli altri, la responsabilità concreta nei confronti dell’umanità. Insomma, "un continuo impegno per il miglioramento del mondo", sottolinea Benedetto XVI.
L’enciclica contiene anche una reinterpretazione suggestiva del Giudizio Finale, dell’Inferno e soprattutto del Purgatorio. "La grazia non esclude la giustizia. Non cambia il torto in diritto. Non è una spugna che cancella tutto". L’incontro con Cristo nel momento supremo "brucia" la sporcizia di un’anima e "la durata di questo bruciare non la possiamo calcolare con le misure cronometriche di questo mondo".
Un testo complesso, da studiare attentamente, che offre il fianco a riflessioni critiche. Affermare che nessuna giustizia autentica è realizzabile senza un’apertura alla trascendenza può essere giocato in chiave integralista nell’arena politica. E colpisce, nel mondo attuale globalizzato, l’assenza totale di un’attenzione alle concezioni di salvezza presenti in altre religioni.
* la Repubblica, 30 novembre 2007.
Contro marxismo e scienza l’enciclica di Ratzinger *
Nuova enciclica di Ratzinger. E stavolta, come fosse una novità, se la prende con il marxismo e la scienza. «Il cielo non è vuoto», rivela Benedetto XVI nella “Spe salvi” (nella speranza salvati), seconda enciclica del suo pontificato, «ma non ne sappiano i particolari». Ma le perle sono molte. Innanzitutto l’autocritica: il cristianesimo moderno, che si è rivelato inadeguato, di fronte ai progressi e alle promesse della scienza e alle ideologie materialistiche. Poi, l’attacco al protestantesimo: Gesù non ha portato «un messaggio sociale-rivoluzionario», perciò è sbagliata l’esegesi protestante che nega la dimensione escatologica nell’azione del Gesù storico. Infine, c’è il Purgatorio e ci sarà il giudizio di Dio, che non sarà un colpo di spugna.
Settantasei pagine nella versione italiana, firmata e pubblicata il 30 novembre, nella festa di sant’Andrea, l’enciclica è frutto della riflessione personalissima del papa-teologo; è intrisa di sant’Agostino, si fonda sulle più importanti lettere paoline (dai Romani agli Ebrei), si muove nella filosofia da Bacone alla scuola di Francoforte cercando i motivi della crisi della ragione a partire dalla fiducia nel progresso, e denunciando i limiti del marxismo; si confronta con la teologia protestante e chiede al cristianesimo moderno di fare autocritica perché troppo concentrato sulla salvezza individuale e inadeguato nello spiegare il senso della speranza cristiana.
Ecco le tesi di Ratzinger:
I delitti dell’ateismo e del marxismo
L’ateismo dell’era moderna ha provocato «le più grandi crudeltà e violazioni della giustizia»; il marxismo, in particolare, ha lasciato dietro di sé «una distruzione desolante». Il Pontefice contesta tutte quelle ideologie che pretendono di portare giustizia tra gli uomini senza Dio. «Un mondo che si fa giustizia da solo è un mondo senza speranza».
La speranza contro strapotere ideologie e politica
Il Papa rilancia la speranza contro il vuoto di senso del mondo contemporaneo e contro lo strapotere dell’ideologia e della politica. È «la speranza», «questa nuova libertà», che permette a tanti cristiani di opporsi «allo strapotere dell’ideologia e di suoi organi politici». E la speranza si oppone a ideologie e poteri sia nel martirio che nelle «grandi rinunce» alla san Francesco.
La scienza senza etica può perdere l’umanità
Scienza e progresso possono perdere l’umanità e, come ha osservato Theodor Adorno, col progresso si arriva «dalla fionda alla megabomba» aprendo «possibilità abissali di male». Il progresso senza etica è «una minaccia per l’uomo e per il mondo».
Ci sarà il Giudizio Universale e non sarà colpo di spugna
Esiste il Giudizio Finale di Dio, non sarà quello dell’iconografia «minacciosa e lugubre» dei secoli scorsi, ma nemmeno un colpo di spugna «che cancella tutto»; esso chiamerà «in causa le responsabilità» di ciascun uomo. Papa Ratzinger riafferma l’esistenza del Purgatorio e dell’Inferno e lega il motivo della speranza cristiana proprio alla giustizia divina.
Cielo non è vuoto, perché nessuno pensa più a vita eterna?
«Forse oggi molte persone rifiutano la fede semplicemente perché la vita eterna non sembra loro una cosa desiderabile. Non vogliono affatto la vita eterna, ma quella presente, e la fede nella vita eterna sembra, per questo scopo, piuttosto un ostacolo». Nessuno vuole la morte, ma allora «che cosa vogliamo veramente?».
* l’Unità, Pubblicato il: 30.11.07, Modificato il: 30.11.07 alle ore 18.12
Invito a sperare
di ENZO BIANCHI (la Stampa,1/12/2007)
Dopo l’enciclica sull’amore, ecco la seconda lettera di Benedetto XVI, sulla speranza, Spe Salvi: un messaggio che oggi appare controcorrente. Viviamo in un tempo che è sotto il segno della crisi, letto addirittura come tempo della «fine» - fine della cultura occidentale, della modernità, della cristianità -, un’epoca caratterizzata da un senso di precarietà del presente e di incertezza del futuro, un tempo in cui l’incognita che ci sta davanti ci spaventa per l’imprevedibilità e per gli orizzonti asfittici che la caratterizzano. Abitiamo un mondo che sembra sfuggire al nostro controllo e impedirci di capire dove stiamo andando. Tutto questo però non ha assopito la domanda che, magari con fatica, si apre un varco nel cuore umano: «Che cosa posso, cosa possiamo sperare?». Ecco, la nuova enciclica di papa Benedetto XVI è una salda conferma della fede cristiana che è speranza, ma è anche un grande invito a sperare: con molta forza il testo torna a parlare delle «realtà invisibili», della «vita eterna», dell’escatologia come di un orizzonte che non può essere dimenticato né sottovalutato dai cristiani. Un’enciclica di non facile lettura, certo, un testo che richiede dei «lettori» che sappiano veicolare il suo messaggio ai cristiani quotidiani e semplici, ma un testo magisteriale che con molta forza e audacia rimette al centro della vita cristiana verità su cui si balbettava appena qualcosa, quando addirittura non erano confinate nel silenzio. C’è anche una rilettura della trasformazione della fede-speranza nel tempo moderno, nell’illuminismo e soprattutto nelle ideologie messianiche, rilettura che precisa meglio lo specifico della speranza cristiana e fa intravedere le derive possibili e l’affacciarsi della barbarie ogni volta che la speranza è riposta in realtà idolatriche e alienanti come il progresso e la rivoluzione, l’idolatria della ragione e della libertà. Ma di altissima importanza restano le pagine finali che indicano luoghi di apprendimento e di esercizio della speranza: la preghiera, certo, la lotta contro il male e la sofferenza, ma soprattutto il «giudizio». Sì, il giudizio finale che Dio compirà nel suo giorno sulla storia e sull’umanità intera. Tema tralasciato anche dalla predicazione ordinaria eppure tema che non da oggi reputo decisivo per la responsabilità cristiana.
I cristiani affermano nella loro professione di fede che in questo giudizio credono e che lo attendono come l’evento che instaurerà la giustizia, rendendola a tutti coloro che nella storia hanno subìto ingiustizie e oppressioni. Sì, se si toglie il giudizio emesso da Cristo sull’umanità, tutta la fede cristiana diventa risibile utopia. Ma la consapevolezza e la fede nel giudizio innesca innanzitutto una responsabilità dell’uomo nella storia, alimenta l’attesa di un atto di Dio che metta fine al male e instauri la vita piena anche per quelli che nella vita si sono visti defraudare del bene, della pace e della felicità. Non a caso Benedetto XVI cita il grande filosofo Adorno che nel suo ragionare ateo afferma che una vera giustizia proveniente da uno sviluppo, da un progresso rivoluzionario, richiederebbe un mondo «in cui non solo la sofferenza presente fosse annullata ... ma anche la sofferenza e l’ingiustizia del passato». E questo richiederebbe ciò che lui non poteva affermare, cioè la «risurrezione dei morti». Sì, più che mai i cristiani devono avere il coraggio di esercitarsi alla speranza, nella consapevolezza del temibile e glorioso giudizio di Dio: non per averne paura o per incuterla agli altri, non per dare a Dio un volto perverso, ma per essere responsabili nella storia del bene e del male che possono operare. L’invito che scaturisce da questa enciclica non è allora un’esortazione a sperare in modo individualistico, ma un appello a «sperare per tutti» e, quindi, a immettere energie di speranza nelle situazioni concrete in cui è dato ai cristiani di vivere: una speranza che ha fiducia, che si nutre di autentica fede. Passione per ciò che è possibile: questa è l’autentica speranza.
*
«Che cosa posso, cosa possiamo sperare?». Dopo Kant, una risposta pre-illuministica e pre-kantiana - ancora cattolico-costantiniana e nient’affatto evangelica e cristiana (fls)
LA SECONDA ENCICLICA
Il teologo: morte, giudizio, inferno e paradiso, i novissimi riletti alla luce dell’enciclica Così agisce la giustizia di Dio
È il futuro a distinguere i cristiani
«Nell’eternità una vita di relazioni autentiche»
DI MATTEO LIUT (Avvenire, 01.12.2007)
L a vita eterna? Una vera e propria «esistenza in relazione ». Il giudizio di Dio? Un riscatto per le vittime e una luce sulla verità di noi stessi. Così, monsignor Pierangelo Sequeri, docente alla Facoltà teologica di Milano, rilegge il tema dei «novissimi» alla luce della seconda enciclica di Benedetto XVI.
Sul rapporto tra fede e speranza, il Papa cita un passaggio della lettera agli Ebrei, «La fede è la sostanza delle cose che si sperano», cosa significa?
Qui il Papa ricorda da un lato la posizione di coloro che vedevano in questo passaggio l’affermazione di una fede che poggia sul sicuro, dall’altro lato la posizione di coloro (e qui cita Lutero) che vi avevano visto un concetto di tipo esistenziale, teso al guadagno di una certezza tutta soggettiva. Alla prima interpretazione, ricorda il Papa, manca l’identificazione del fondamento, che è il Signore: la fede non è concetto astratto ma un’esperienza di comunicazione con il suo fondamento. Della seconda interpretazione il Papa pur mantenendo come valido il richiamo alla dimensione esistenziale, ricorda che la fede non è solo «convinzione umana», ma esperienza che apre al dialogo con Dio. Un dialogo che è già esperienza di vita eterna.
Ma cos’è la «vita eterna»?
Ratzinger propone una bella critica all’idea di «eternità» che si dimentica la «vita». La stabilità «marmorea» di tale concetto va invece conciliata con un’esperienza profonda di «relazione »: è nella relazione con Dio che fondiamo la nostra certezza nella nostra destinazione ultima. Non basta quindi enfatizzare l’eternità, è necessario ricordare la dimensione vitale della relazione con l’assoluto. Il desiderio di vita eterna, quindi, non è quello di una «sopravvivenza infinita», ma di una vera e propria «vita in relazione», che continui oltre la morte.
Morte, giudizio, inferno e paradiso: ai novissimi fa riferimento l’ultima parte dell’enciclica. Come vengono caratterizzati?
Come dicevo, di fondo c’è il concetto di «vita eterna» non intesa quantitativamente come «durata infinita». Essa è una «vita in relazione », una vita felice perché «piena di relazioni», secondo un concetto collettivo di felicità e secondo anche quanto descritto nel Nuovo Testamento. Questa è la chiave per comprendere il resto: in questo discorso si inseriscono i concetti di libertà e responsabilità, che sono le dimensioni destinate poi al vaglio del «Giudizio», che non sarà una resa dei conti ma un riconoscimento del valore «accumulato» in un’ottica di relazione, di accudimento reciproco, di investimento della propria libertà. Questi sono i contenuti che Dio è capace di raccogliere e, attraverso il giudizio, di liberare da tutto il resto delle «scorie».
Perché l’insistenza sul concetto di «collettività»?
Forse perché oggi spesso la trascendenza è ridotta a dimensione individuale, anche nella predicazione. Eppure, ci dice il Papa, nel destino di trascendenza individuale fa parte anche la trama di rapporti nella quale l’individualità è inserita e che non si esaurisce nella «città terrena».
Quale la strada indicata dal Papa?
Quella del rilancio, anche culturale da parte del cristianesimo, della destinazione trascendente dell’essere umano, che non è riducibile al biologico, al politico, al sociale.
Perché il Papa oppone l’idea di progresso al giudizio di Dio?
È uno scarto qualitativo: l’idea di progresso è un’idea che tende all’eccellenza e produce «vittime», il giudizio di Dio, invece, riapre una possibilità di «successo» laddove appaiono i fallimenti. Nel giudizio, introducendo altri criteri di valutazione, Dio recupera le contraddizioni che il progresso tende a escludere. Per questo il cristianesimo «scommette» anche per le vittime della nostra «trionfale avanzata» nella storia. Qui sta la giustizia.
Un «al di là» fatto di relazioni, quindi. Perché, allora il Papa dice che con la morte la scelta di vita diventa definitiva?
Tra creazione e destinazione dell’uomo, origine e finalità, la vita terrena può essere vista come un’iniziazione nella quale esprimiamo il nostro modo di accettare o meno proprio la destinazione dell’esistenza: sulla base di questa scelta fondamentale, poi, verremo giudicati.
Il Papa accosta l’inferno non a un luogo ma a degli individui. Perché?
Perché «inferno» è la condizione di chi, avendo scelto solo se stessi, sono «inchiodati» alla compagnia di se stessi. Una condizione fondata sul rifiuto della relazione.
La brutta politica di Sua Santità
di Umberto De Giovannangeli *
È «relativismo morale» impegnarsi per salvare la vita di migliaia di donne e bambini segnati dal virus dell’Aids nella martoriata Africa? È «negare la possibilità di un agire etico fondato sul riconoscimento della legge morale naturale», impegnarsi perché le Nazioni Unite approvino finalmente una risoluzione per la moratoria universale della pena di morte? Tra i «frutti amari della logica relativistica» vanno annoverati anche gli sforzi per la ricostruzione, non solo materiale, di Paesi disastrati da guerre e pulizie etniche?
Tanto per ricordare una tragedia dimenticata, basterà citare il caso del Ruanda. Ed ancora: lavorare per alleviare le sofferenze della popolazione palestinese nella Striscia di Gaza, praticare una solidarietà concreta per la gente del Kosovo, tutto ciò rientra nel «disprezzo del diritto umanitario» e nella discriminatoria «difesa selettiva dei diritti umani»? C’è molta politica, e poca pietas, nelle considerazioni che Papa Benedetto XVI ha espresso ieri incontrando in Vaticano le Ong cattoliche più importanti e influenti del mondo. C’è molta politica e, spiace rilevarlo, di quella partigiana e dunque, annoverabile nella «brutta politica». Brutta perché faziosa.
Brutta perché ingenerosa. Brutta perché la battaglia della Chiesa cattolica contro l’aborto non dovrebbe spingersi fino al punto di tirare in ballo l’operato dell’Onu, genericamente inteso, e di non meglio precisati organismi internazionali. Le Nazioni Unite non sono solo il Consiglio di Sicurezza e l’Assemblea generale. Le Nazioni Unite sono anche le tante agenzie umanitarie impegnate ogni giorno nelle aree più «calde» e disastrate del pianeta. Benedetto XVI avrebbe fatto bene a ricordarlo: la sua non è stata una dimenticanza di poco conto. Se non suona blasfemo, diremmo che il pontefice stavolta ha peccato di «ingenerosità».
Papa Ratzinger sprona a battersi affinché i principi etici non siano «negoziabili», né a Palazzo di Vetro di New York né altrove. Bene. Giusto. Ma coerenza avrebbe voluto che tra i principi etici non «negoziabili» vi fosse anche il «no» allo Stato che si fa giustiziere attraverso la pratica della pena di morte. Nella Terza commissione delle Nazioni Unite che nelle scorse settimane ha approvato la risoluzione per la moratoria della pena capitale, la Santa Sede (che all’Onu ha il rango di osservatore) ha guardato con favore ad un capzioso tentativo del fronte anti-moratoria di inserire la questione del diritto dell’embrione all’interno di una discussione che riguardava il «no» ai boia di Stato. Le ragioni dell’etica dovrebbero spingere a chiedere più risorse per le agenzie umanitarie delle Nazioni Unite; le ragioni di una «bella politica» imporrebbero il sostegno a quanti, in nome di una visione multilaterale del governo dei conflitti, chiedono una maggiore centralità, e dunque più strumenti e poteri, per l’Onu.
Ha ragione, Papa Ratzinger, a denunciare il «disprezzo per il diritto umanitario» che segna fortemente i nostri tempi. Ma quel disprezzo - ricorderebbero gli operatori Onu che ogni giorno interagiscono con una umanità sofferente - - ha poco a che vedere con «certi stili egoistici di vita» e molto con quelle logiche di potenza, che hanno, ad esempio, segnato negativamente le presidenze del religiosissimo George W.Bush, e fatto prevalere gli interessi del più forte su quelle dei più deboli. Di queste logiche deteriori, l’Onu è stato più vittima che propugnatore.
* l’Unità, Pubblicato il: 02.12.07, Modificato il: 02.12.07 alle ore 14.44
Enciclica Spe Salvi
La liberazione nella sofferenza
di Gianni Vattimo (il manifesto, 01.12.2007)
Non si fa dell’ironia gratuita se si dice che anche questa ultima enciclica di Benedetto XVI dedicata appunto alla speranza, non riesce ad apparirci solo come un ennesimo documento proveniente da una cattedra di conservazione sociale, di banalizzazione delle aspettative etiche, di sostanziale ipocrisia, tratti che troppo spesso siamo legittimati ad attribuire all’insegnamento della Chiesa post e anticonciliare dei nostri giorni. Ogni volta rinasce in noi la speranza che appaia un segno di cambiamento capace di ridarci il gusto di appartenere alla chiesa di Cristo. L’enciclica pubblicata oggi poteva essere una grande occasione di risuscitare questa speranza
Abbiamo subito pensato agli anni trascorsi del prof. Ratzinger a Tubinga quando vi insegnava, se non sbagliamo, anche Ernst Bloch, autore di quel monumentale Principio Speranza che Benedetto XVI non ricorda affatto nelle sue numerose citazioni, del resto prevalentemente riferite ai Padri della chiesa e accuratamente prive di ogni richiamo alla teologia contemporanea. Illusione e delusione, dunque, sono le prime impressioni che ricaviamo dalla lettura che abbiamo potuto fare del testo. Ammiriamo sempre l’aspetto dotto, quasi «scientifico», dei discorsi teologici che possono giovarsi di una tradizione testuale e interpretativa così vasta, che non possiamo mai ridurre alla semplice «astuzia dei preti», come farebbe qualche autore ateo di successo. Quelle pagine e quegli autori sono tracce di esperienze autenticamente vissute e spesso di vere e proprie vite di santità che non riusciamo a banalizzare.
Ma allora perché delusione? Si riassume nella già notata assenza di Bloch - che potremmo anche accettare, visto che non è un teologo cristiano. Ma che dire dell’assenza della teologia della liberazione, o di autori come Moltmann e altri che hanno cercato di dare un contenuto non puramente «spiritualistico» alla dottrina cristiana della speranza?
Qui si tocca il senso stesso della trattazione ratzingeriana. Che mette subito le mani avanti, nel paragrafo 4 del testo, dove dice che «il cristianesimo non aveva portato un messaggio sociale-rivoluzionario come quello con cui Spartaco, in lotte cruente, aveva fallito». Non si esagera se si vede in questa frase, compresa la sua conclusione, la vera e propria cifra del discorso papale. Importa sottolineare la conclusione. Che la speranza portata da Gesù al mondo non possa e debba essere letta in termini di rinnovamento politico-sociale - come verosimilmente fu letta anzitutto da coloro che se ne vollero sbarazzare mettendolo in croce - è come dimostrato dal fallimento storico di rivolte come quella di Spartaco.
Più avanti (per esempio, paragrafo 21), sarà questa la ragione per rifiutare il messaggio rivoluzionario di Marx, al quale viene rivolta l’obiezione, invero ormai piuttosto frusta, per la quale il comunismo sarebbe una pretesa di realizzare il regno di dio sulla terra, impresa evidentemente (?) impossibile e quindi destinata fatalmente a degenerare in violenza. Nelle stesse righe in cui si obietta a Marx di aver dimenticato l’uomo, «che rimane sempre uomo» (e cioè imperfetto e incapace di uscire dallo stato di imperfezione: la ballata del vescovo di Ulm di Bertolt Brecht!), si dice anche che Marx ha ispirato bensì il rovesciamento del vecchio ordine, ma non ha indicato come procedere oltre, sicché il povero Lenin dovette rassegnarsi a sperare che lo stato si dissolvesse da sé.
Già, sia detto di passata: ma quali indicazioni pratiche ci sarebbero nella «vera» speranza cristiana? La preghiera, lo sguardo al giudizio finale dove dio ristabilirà la giustizia, e «agire e soffrire come luoghi di apprendimento della speranza». Anche in queste pagine conclusive - dove forse una grande novità ci sarebbe, nel senso che il papa dà buone ragioni per non credere più alle fiamme dell’inferno e nemmeno all’eternità della pena per i dannati (un inferno «pugatorizzato», diremmo, paragrafo 47) - si risente il limite di puro spiritualismo che conferisce un senso del tutto astratto e forse retorico alla dottrina ratzingeriana della speranza. Agire e soffrire sono esercizi di speranza, e di speranza condivisa, in quanto il cristiano soffre con il prossimo e non si sente mai solo.
Ma non sarebbe giusto accentuare un po’ di più l’agire, oltre al soffrire? E’ invece su quest’ultimo che si pone sempre l’accento, secondo una linea che del resto domina la tradizione cristiana nella quale - ma ormai non pochi teologi cominciano a dubitarne - Gesù soffre in croce perché è la vittima capace di soddisfare l’ira del Padre a causa del peccato originale..
Di qui l’esaltazione della sofferenza come merito. E agire con gli altri e soffrire con loro non ha mai - come dovrebbe - il senso di una lotta comune contro ciò che produce sofferenza. Anche se il solo esempio evangelico di giustizia divina che il papa cita è quello del ricco Epulone che dovrebbe espiare la sua tracotanza e il suo attaccamento ai bei terreni, non è nemmeno sfiorato dal sospetto che bene e male abbiano da fare con l’ineguale distribuzione delle ricchezze e del potere. Dimenticare Bloch non è stata effettivamente una buona idea.