Dario Antiseri contro il «cristianesimo senza Chiesa» di Gianni Vattimo come Kierkegaard contro Hegel: «Sono giochi da canaglie»
Quel che la «fede debole» non capisce
«Per soddisfare il proprio tempo si diventa falsari: del Vangelo si pesca solo quel che torna comodo per rendersi la vita più semplice. È così se ne perde l’essenza ’scandalosa’»
di DARIO ANTISERI (Avvenire, 10.05.2008)
Una delle ragioni per cui Kierkegaard si scaglia contro Hegel è che Hegel piegava il cristianesimo alla cultura del suo tempo, alla sua cultura, alla sua filosofia - un po’ come fanno oggi, stabilite le debite proporzioni, i cosiddetti «atei devoti», i quali piegano la fede degli altri ai loro interessi di potere politico: «Rifiuto la fede per quello che è, la uso per quello che mi serve»: questa, in sintesi, la posizione dell’ateo devoto.
Ma torniamo ad Hegel. Hegel - scrive Kierkegaard - è un falsario «che gioca al cristianesimo». Il compito era soddisfare l’eternità, ma Hegel e i suoi seguaci intendono soddisfare il tempo e trovano più comodo «adulare i contemporanei». Il cristianesimo è « una verità che salva ». Non è cultura. Ma - sbotta Kierkegaard - «ecco alla fine, con tanta bravura, queste canaglie, come Goethe, Hegel e da noi Mynster, predicare o comunque portare ad affetto il principio che la vera serietà è soddisfare il tempo».
Il pensiero debole è ben distante dalle presunzioni del pensiero hegeliano. E, tuttavia, anche Gianni Vattimo è tutto sbilanciato dalla parte della filosofia e della cultura del proprio tempo; di conseguenza, egli ritrova il cristianesimo ripensandone i contenuti in termini secolarizzati, in modo che essi non ripugnino alla cultura di uomo del suo tempo.
Più volte, allora, mi sono chiesto: se tornasse Kierkegaard, risparmierebbe a Vattimo l’epiteto di «canaglia»? Vattimo pensa ad un «Dio amichevole»: possiamo costruire un Dio tanto accomodante? Vattimo torna nella tradizione della Chiesa senza voler niente sacrificare dei suoi standard intellettuali e morali. E gli domando: credi davvero che il cristianesimo sia una cosa tanto facile, così accomodante da non richiedere da chi lo abbraccia rinunce e sacrifici, anche grandi?
Vattimo, nel libro Credere di credere, se la prende più volte con la Chiesa, con il Papa. E scrive: «Molto semplicemente [...] rivendico il diritto di ascoltare di nuovo la parola evangelica senza dover per questo condividere le vere e proprie superstizioni, in materia di filosofia e di morale, che ancora la oscurano nella dottrina ufficiale della Chiesa. Voglio interpretare la parola evangelica come Gesù stesso ha insegnato a fare, traducendo la lettera piuttosto violenta dei precetti e delle profezie in termini più conformi al comandamento supremo della carità».
Vattimo rientra nella Chiesa come uno che ha già trovato, e non come uno che cerca. Ma chissà mai se non avesse ragione ancora una volta Kierkegaard a definire il cristianesimo come «verità sofferente»? E poi chi dice a Vattimo che le sue interpretazioni del comandamento supremo della carità siano quelle (più) giuste?
Una cosa mi preme chiedere a Vattimo: è possibile un cristianesimo senza Chiesa? Senza Chiesa, chi riproporrebbe e di continuo il Discorso della Montagna? E se non ci fosse la Chiesa, a chi confesseremmo più volte al giorno i nostri peccati? (Questa fu la risposta di don Lorenzo Milani a chi gli suggeriva di uscire dalla Chiesa).
E a proposito di peccato mi pare non solo esagerato, ma proprio fuorviante quello che Vattimo ne scrive: «Per me l’unico senso cristiano della parola peccato è quello esclamativo, come quando si dice ’che peccato’ per rimpiangere un’occasione perduta, un’amicizia che è finita, e in genere (per estensione) la finitezza di tutto ciò che vale e a cui ci sentiamo attaccati. Ma non dovremmo riconoscere che Gesù ci riscatta dal peccato anche e soprattutto perché lo svela nella sua nullità?».
Francamente, siffatte considerazioni a me - che ho «la fede del carbonaio» - risultano incomprensibili. Cosa vuol dire che Gesù ci riscatta dal peccato, anche e soprattutto perché lo svela nella sua nullità? Il comandamento supremo viene infranto di continuo, a ogni istante, sulla faccia della terra; c’è allora da dire che di peccati - dall’atteggiamento irrispettoso allo stillicidio psicologico, per finire ai massacri e all’Olocausto - è intessuta la storia dell’umanità - la quale, ovviamente, non è solo fatta di peccati. Ma l’umano peccato è una realtà così impressionantemente persistente e gigantesca che occorre il sangue di un Dio per espiarlo. Il peccato genera «rimorsi» e non l’esclamazione «che peccato!».
Ed ecco quanto in Verità o fede debole? Dialogo su cristianesimo e relativismo su questo argomento René Girard obietta a Vattimo: «Vattimo ci sta dicendo che il cristianesimo è la più semplice e la più facile delle religioni, e se ci lasciamo andare, abbandonando tutti gli scrupoli, c’è la possibilità che ognuno finisca per poter fare ciò che vuole, vivendo insieme felicemente. Non sono sicuro che sia così vero e così facile, i dieci comandamenti lo dimostrano con chiarezza. Mi sembra che Vattimo, presentando una sorta di cristianesimo edonistico, stia rendendo a noi tutti la vita un po’ troppo semplice».
* IL J’ACCUSE
Fede e ragione, faccia a faccia tra filosofi
Lo scritto che pubblichiamo in queste colonne è tratto dal volumetto «Ragione filosofica e fede religiosa nell’era postmoderna» (pagine 64, euro 7,00), nel quale l’editore Rubbettino ha raccolto i due interventi tenuti da Dario Antiseri, docente di Metodologia delle scienze sociali alla Luiss, e Gianni Vattimo, ordinario di Filosofia teoretica presso l’Università di Torino, nell’ambito degli incontri «Atlante Luiss» promossi dalla Luiss «Guido Carli».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
I cattolici del terzo tipo
Davanti agli interventi della Cei non si dividono solo in «obbedienti» e «adulti». Molti altri, pur conservando fede e carità, non ascoltano la voce della Chiesa in lotta *
Le reazioni dei cattolici alle recenti prese di posizione della Conferenza Episcopale italiana appaiono a prima vista classificabili in due categorie: una è quella dei cattolici obbedienti, a cui bisogna aggiungere i «laici rispettosi», che hanno cominciato a moltiplicarsi da quando è diventato chiaro che la difesa della famiglia, dei «valori» della tradizione giudaico-cristiana, della civiltà europea può agevolmente esser fatta coincidere con lo spirito della lotta al «terrorismo internazionale» capeggiata dall’amministrazione Bush.
L’altra categoria è quella dei cattolici «adulti», così li ha chiamati lo stesso Prodi, i quali accettano in linea di principio la disciplina richiesta dalla Chiesa, ma rivendicano il diritto di leggere molte prescrizioni - e specialmente l’ultima là dove si impone loro, quando siano parlamentari, di non votare cosiddetti Dico - limitandone la perentorietà attraverso il richiamo di altri e più «aperti» documenti del magistero ecclesiastico. È ciò che fa per esempio uno dei più autorevoli intellettuali cattolici italiani, Giuseppe Alberigo (la Repubblica, 30 marzo) in un denso e appassionato articolo, del quale è difficile non condividere molti passaggi. Alberigo resta e vuole restare un fedele figlio della Chiesa, intesa come gerarchia ecclesiastica, «il Papa e i vescovi uniti con lui». Per questo segnala persino le «pieghe» che, nel documento della Conferenza episcopale, manifesterebbero le riserve di certi vescovi che non vogliono usare questo documento come una clava e che lo intendono solo, o quasi, come un invito ai politici cattolici «affinché si interroghino sulle scelte coerenti da compiere». Ricorda poi momenti e personalità della storia recente d’Italia (De Gasperi, Andreatta...) che forniscono significativi esempi di un cattolicesimo liberale mai completamente tacitato.
Tuttavia: non sarà il caso di tener conto anche di un terzo possibile tipo di reazioni? Alludiamo a quelle di molti altri credenti, che si chiamano cattolici perché battezzati e che non hanno ancora aderito ai movimenti per lo «sbattezzo», del resto vani perché il battesimo «imprime il carattere», dice(va) il catechismo, non si può cancellare; ma che da tempo hanno rinunciato ad ascoltare la voce della Chiesa cosiddetta docente, pur partecipando alla vita della Chiesa militante, sforzandosi di praticare la carità e di non perdere la fede per lo scandalo che subiscono proprio dai loro pastori. La loro fede è spesso molto più sincera di quella dei tanti atei devoti che piacciono all’episcopato, e al potere. Rispetto ad Alberigo si distinguono perché prendono più chiaramente atto di una situazione in cui la Chiesa (la gerarchia), dimenticando il Concilio e Giovanni XXIII, ha scelto di essere una parte in lotta, «terribilis ut castrorum acies ordinata» secondo un’espressione della liturgia. Anche la recente ripresa del dogma dell’Inferno esprime i fondo questo spirito guerriero, echeggia Bush: chi non è con noi è contro di noi, niente più «pieghe» nascoste dei documenti papali, niente più enciclica contrapposta ad enciclica. Non sarebbe ora che i credenti rivendicassero finalmente la loro libertà di ascoltare la parola di Dio senza la mediazione di una nomenklatura che amministra i sacramenti come se fossero «cosa loro» (essere cattolici ha un prezzo, ha detto di recente un «ateo devoto»)? Non si può sbattezzarsi, certo; ma almeno convertirsi finalmente al cristianesimo.
Gianni Vattimo
Note sul tema:
DI DARIO ANTISERI (Avvenire, 27.01.2011)
Che il passato, cioè la tradizione, consista in un cumulo di pregiudizi, di errori da cui prendere sistematicamente le distanze, è - come ribadito, tra altri, da Hans-Georg Gadamer - un oscuro pregiudizio illuminista. La tradizione, infatti, può essere anche fonte di verità. Un solo esempio dalla storia della scienza: Copernico portò a nuova vita, traendola fuori dall’«immondezzaio della storia» in cui era stata sepolta, la teoria eliocentrica difesa nel V secolo a.C. da Iceta di Siracusa e Filolao e, un secolo dopo, da Eraclide Pontico ed Ecfanto il Pitagorico. E, con maggior frequenza che nella scienza, la stessa cosa capita in filosofia, come - tra molteplici altri - è il caso delle risposte che il pensiero francescano è in grado di offrire ad urgenti domande dei nostri giorni.
La difesa dei diritti e del primato della fede nei confronti delle presunzioni di una ragione che, ergendosi a dea-Ragione, calpesta la «creaturalità» dell’essere umano e la conseguente apertura all’esperienza religiosa; l’insistenza, all’interno del volontarismo di Scoto, sull’onnipotenza e libertà di Dio e insieme sull’autonomia e libertà dell’individuo; la difesa della libertà e responsabilità della persona umana da parte di Ockham contro quell’onnipresente tentazione liberticida che è diretta conseguenza della reificazione dei concetti collettivi; la consapevolezza, soprattutto da parte di Pier di Giovanni Olivi, relativa ai benefici effetti di un’economia di mercato - sono, questi, quattro filoni di pensiero che rendono fortemente attuale la tradizione del pensiero francescano.
Attualità su cui, con grande impegno e competenza, torna uno dei più noti esperti di filosofia medioevale, e cioè Orlando Todisco, con La libertà creativa. La modernità del pensiero francescano (Edizioni Messaggero Padova, pp. 590, euro 40). «’In principio la libertà’. È nella libertà la grandezza di Dio come la nobiltà dell’uomo». Questa, che è la tesi di fondo del libro, è un’idea centrale del volontarismo francescano, dove «sia il mondo che la storia sono l’uno frutto della libertà di Dio, l’altra dell’uomo». In tal modo, «muovendo dalla libertà, divina e umana, la vita acquista un altro colore e un’altra rilevanza. Siamo fuori del ’motore immobile’ che muove senza ’commuoversi’ ». Ma se tutto ciò che è - il mondo, noi, qualunque creatura - poteva non essere, se le cose sono in un certo modo perché qualcuno le ha volute, allora «la percezione dell’essere come dono» esige uno sguardo di gratitudine, di ammirazione e di rispetto.
È questo, fa presente Todisco, lo sguardo del Cantico delle creature - uno sguardo distante, anzi incommensurabile con la prospettiva di chi si pone di fronte alla realtà con l’intento di appropriarsene e di utilizzarla senza alcun freno, secondo le sue voglie. Significativo, a tal proposito, è un passo del Discorso del metodo di Cartesio: «Conoscendo la forza e le azioni del fuoco, dell’acqua, dell’aria, delle stelle, del cielo e di tutti gli altri corpi che ci circondano, con la stessa chiarezza con cui conosciamo i diversi mestieri dei nostri artigiani, potremmo, allo stesso modo, impiegare quei corpi in tutti i loro usi particolari e diventare così padroni e possessori della natura». Qui - commenta Todisco - c’è tutto, meno quel tipo di «illuminazione’ della realtà insito nei termini ’sorella’ e ’fratello’ con cui Francesco chiama tutte le creature.
Una visione, questa, di estrema attualità politica - ma, prima che politica, morale -, una decisa inversione di tendenza in un mondo dove, in nome della potenza della tecnica per cui, da più parti, si arriva a sostenere che è lecito fare tutto quello che è tecnicamente possibile fare. Ed esattamente puntando l’attenzione sulle disastrose e disumane conseguenze di siffatta concezione si è levato più volte il monito di Benedetto XVI: «L’uomo sa fare tanto e sa fare sempre di più; e se questo saper fare non trova la sua misura in una norma morale, diventa, come possiamo già vedere, potere di distruzione».
La modernità del pensiero francescano si conferma nella visione della natura come dono, concezione che si oppone a un consumo senza rispetto delle cose