Il grandissimo privilegio
La caparbietà di Chiara, la “pianticella di Francesco”, a pretendere per sé il privilegio della povertà assoluta, per vivere nell’incertezza quotidiana del povero. Lo scontro durissimo con il papato che per le donne prevedeva solo una clausura strettissima e quindi una vita “di rendita”. Chiara più democratica e fiduciosa di Francesco, che, invece il grande successo ottenuto rese disperato.
Intervista a Chiara Frugoni.
Chiara Frugoni, medievista, ha recentemente pubblicato Una solitudine abitata. Chiara d’Assisi, Editori Laterza 2006.
Fra Francesco e Chiara quali sono le differenze? Quella sociale delle rispettive famiglie, per esempio, ha rilevanza?
Intanto va detto che Chiara era più giovane di Francesco di circa una decina d’anni. Francesco muore nel 1226, Chiara gli sopravvive molti anni, perché muore nel 1253. La diversità fra la loro origine sociale ha una certa rilevanza e credo contribuisca a orientare anche le due proposte in maniera diversa. Francesco è figlio di un mercante, anche se molto ricco, mentre Chiara è figlia di una famiglia nobile, una delle più importanti di Assisi. Chiara quindi è più colta, conosce bene il latino, e ha una mentalità diversa da Francesco perché, per esempio, non ha, come lui, orrore del denaro. Per Francesco il fatto di essere figlio di un mercante è sentito come un marchio. Dice ai frati che non devono mai toccare il denaro. Per lui anche chiedere la carità era rubare ai poveri.
Noi siamo abituati a parlare di ordini mendicanti, ma al tempo di Francesco era assolutamente proibito chiedere l’elemosina. Tutti dovevano vivere con il lavoro delle proprie mani e Francesco puniva anche in modo molto crudele i frati che avevano toccato del denaro, sia pure per usarlo poi per i malati. Non andava bene lo stesso. Invece Chiara, anche nella regola che scriverà, dice che, se qualche parente dà dei soldi a una monaca, la Superiora glieli deve lasciare, sarà la monaca stessa a decidere cosa farne, se tenerli per sé o darli a un’altra consorella oppure ai poveri. In un certo senso quella di Chiara è una regola assai più difficile da mettere in pratica, perché lascia più libertà alla propria coscienza.
Niente è stabilito prima. Una regola che definisce anche i più minimi dettagli della vita quotidiana può essere più consolante, più rassicurante. Per Chiara l’essenziale è che ogni giorno si ripensi alla propria promessa di rimettere in pratica il Vangelo. Si è affidati alla propria coscienza. E’ una visione molto più elastica, meno normativa, in un certo senso più moderna.
Devo dire che, pur con tutto l’amore che ho per Francesco, ho scoperto che Chiara, con questa sua visione che lasciava molta più libertà all’individuo di decidere giorno per giorno la propria vita, era andata ancora più in là.
Tu scrivi che era anche più democratica...
Infatti. Chiara pensa che ci debba essere una Superiora, però intanto stabilisce che altre otto monache debbano starle attorno per consigliarla, e poi che tutte le varie decisioni siano prese in comune. Francesco, invece, aveva pensato a una visione molto più piramidale, con ministri generali, ministri provinciali, poi con custodi, guardiani, insomma, una struttura molto più formalizzata. Chiara è talmente sicura che le sue compagne metteranno in pratica il Vangelo che non c’è bisogno praticamente di niente. Lei non prevede punizioni, anzi, dice che bisogna sempre cercare di ascoltare chi è disperato e cercare di capire.
Quindi era più ottimista di Francesco?
Sì. Bisogna però dire che l’esperienza religiosa di Chiara resta confinata a un numero strettissimo di persone che l’hanno seguita, tutte di grandissima virtù. Francesco, invece, ha un successo talmente enorme da esserne travolto. All’inizio anche i suoi primi compagni erano persone assolutamente rette, ma poi, attratti dal grande successo, ne arrivano talmente tanti che non tutti possono essere a quel livello. Quindi, sorgono delle difficoltà, anche oggettive.
Quando i frati sono tremila come si fa a non avere case in muratura, come lui voleva, a non tenere niente da parte, neanche del cibo per il giorno dopo, a vivere, cioè, nello stato di provvisorietà fisica e psicologica del povero?
Quella di Chiara è un’esperienza diversa anche perché destinata a rimanere confinata in un monastero. Poi nel piccolissimo san Damiano vivevano circa cinquanta persone, erano comunque molto fitte... La grande difficoltà che ha incontrato Chiara le proveniva anche dal fatto di essere donna. La Chiesa aveva un’idea molto precisa sulle donne, sideralmente diversa da quella di Chiara.
Ecco, parliamo di questa cosa del “privilegio della povertà” che fa impressione...
Sì, lei chiede al Pontefice il privilegio dell’altissima povertà, di non essere costretta, cioè, a possedere niente...
Si intende, neanche come monastero...
Neanche come monastero, assolutamente. La Chiesa, invece, fino a quel tempo, e anche molto dopo, pensava che le donne dovessero essere custodite e tenute al riparo da ogni pericolo del mondo, quindi il monastero doveva avere delle rendite, possedere molti poderi, in cui molta gente lavorasse per le monache. Solo così, non avendo alcuna preoccupazione al mondo, queste avrebbero potuto occuparsi soltanto di pregare, di condurre una vita molto ascetica, di digiunare, a volte fino al punto di rischiare di morire di fame.
Ciò voleva dire, appunto, una vita completamente lontana, separata dal mondo; una vita in cui gli altri cristiani si raggiungevano solo attraverso le preghiere. Queste erano le regole che prevedevano i pontefici. La Chiesa, insomma, non concepiva assolutamente alcun ruolo per la donna.
Bisogna arrivare fin quasi al 1500 per incontrare donne religiose che lavorano negli ospedali o che insegnano. Prima per le donne c’era solo la clausura. Chiara, invece, voleva portare avanti la proposta di Francesco, naturalmente con alcune limitazioni e cautele perché anche lei, donna di quel tempo, non è che pensasse di andare in piazza. Però, come si desume da tante cose che lei dice, prevedeva non solo un continuo rapporto con Assisi, ma anche delle sue monache con la gente.
Il suo è un monastero aperto, vanno e vengono una quantità di persone: mamme con bambini che si sono fatti male, donne che soffrono, ma anche uomini che hanno problemi con la moglie... E Chiara predica, fa proprio delle prediche. Uno dei miracoli di Chiara ci racconta che un giorno l’uscio del monastero si sgancia e cade su Chiara ma lei rimane illesa. Si può desumere che un monastero il cui uscio era così traballante fosse assai poco custodito e quindi molto aperto. Poi Chiara non definisce mai in maniera molto precisa il rapporto con le monache che servono fuori del monastero, lei le tratta esattamente allo stesso modo delle monache che rimangono dentro il monastero. Dagli indizi che si possono ricavare sono monache che vanno a curare dei malati, soprattutto le lebbrose. E lei dice loro: “Quando siete per la strada e incontrate la gente, dite quanto è bello il creato, quanto sono belli i fiori, cercate di dire, appunto, la gratitudine che bisogna avere per questo mondo così bello”. Quindi lei prevede delle monache che parlino, che non tacciano e, anzi, facciano anche delle piccole esortazioni. E’ una concezione estremamente aperta.
In che senso non definisce il rapporto fra i due tipi di monache?
Nella regola lei prevede la duplicità tra monache che stanno in monastero e monache che escono, ma tutte sono trattate allo stesso modo, non c’è nessuna diversità di servizi e di funzioni. Si potrebbe dedurre, anche se questo lei non lo specifica, che pensasse a una specie di respiro alterno tra monache che ogni tanto escono e altre che invece passano un tempo in meditazione. Così come, del resto, pensava lo stesso Francesco.
Non c’era nessuna gerarchia di status?
Non c’era alcuna gerarchia. Invece nelle regole che verranno dopo, o in quelle che c’erano prima per altri tipi di monache, c’è una diversità molto forte fra le monache “da coro”, quelle che cioè entrano nel monastero anche con una dote, e quelle “serviziali”, cioè, diciamolo pure, serve, che devono solo spazzare. Sono anche vestite in un’altra maniera e sono separate dalle altre.
Anche Chiara entra senza dote...
Entra senza dote ed è questa la cosa che fa infuriare il suo parentado, perché lei, fuggendo da casa in quella maniera entra in un monastero dove non sarebbe mai stata monaca da coro, sarebbe stata una serviziale, una serva. Questo era disonorevolissimo; per questo a un certo punto tutti i parenti si mobilitano. Del padre non si sa mai niente quindi, forse, possiamo pensare che fosse già morto, però compare molto lo zio che, addirittura, quando anche la sorella di Chiara, Agnese, entra in monastero, la raggiunge con tutti i suoi parenti e un altro po’ l’ammazza di botte. Occorre un altro miracolo perché il braccio dello zio si immobilizzi e la povera Agnese possa essere portata via...
Ma quella di entrare senza dote fu proprio una scelta premeditata?
La scelta di Chiara certamente fu precisa. Quello che fa impressione è che lei, pur avendo solo diciotto anni, aveva le idee chiarissime. E al suo progetto lei si mantiene fedelissima sia quando c’è Francesco, sia quando Francesco non c’è più. D’altra parte la Chiesa di Assisi era d’accordo, perché anche nell’iconografia si vede il vescovo che dà la palma a Chiara (secondo la leggenda, infatti, Chiara, presa dai suoi pensieri, non sarebbe andata a prendere la palma e allora è il vescovo che scende a dargliela). E però dietro al vescovo c’è già san Francesco con le forbici pronte per tagliarle i capelli. Con questo si vuol dire che il vescovo è d’accordo con la scelta di Chiara, che, comunque, era molto audace, perché a quel tempo Francesco e compagni non avevano ancora una regola. Chiara sceglie di unirsi a una compagnia di giovani, certamente religiosi e dabbene, però che non erano ancora inquadrati in una regola.
Che questa sia stata l’origine lo si vede bene da una lettera di un vescovo, Giacomo da Vitry, contemporaneo, il quale, arrivato a Perugia, si dice sconvolto dalle condizioni della Curia, poi, però, grandemente consolato vedendo questi fratres et sorores minores, che secondo lui, quindi, sono la stessa cosa, anche se fanno due cose diverse. Insomma, c’è un unico progetto.
Che però, poi, viene lasciato cadere...
Con l’andar del tempo Francesco deve ridimensionare il progetto. Era già molto difficile portare avanti il suo -la sua regola verrà approvata solo tre anni prima della morte- sarebbe stato impossibile portare avanti anche un progetto di donne. Quindi continua a occuparsi molto attentamente di Chiara e delle sue compagne, però non pensa più a un progetto da espandere ad altri monasteri. Lo si stringe in San Damiano.
Quindi Chiara è costretta ad andare avanti per conto proprio, anche perché poi ci sono gli anni in cui Francesco non c’è, è in Oriente, e lei si ritrova sola.
E’ allora che Chiara dimostra una grande intelligenza politica perché di volta in volta cerca delle persone importanti, alle quali senz’altro era sinceramente affezionata, ma che potevano aiutarla. Si lega a Fra’ Elia, diventato il capo di tutto l’ordine francescano, che poi, però, viene scomunicato perché si schiera dalla parte di Federico II. Poi Chiara cerca l’appoggio di Agnese di Boemia, che, figlia di re, era entrata in monastero per seguire la proposta di vita di Chiara. Ci sono lettere molto belle di Chiara che sostiene Agnese nella sua scelta. Se Agnese avesse avuto l’approvazione del papato, Chiara avrebbe avuto un punto di appoggio prestigioso. Invece, purtroppo, il Papa non dà mai ad Agnese il permesso. Quindi Chiara si ritrova sola. Alla fine il Pontefice scrive una regola, però, per fortuna di Chiara, lo fa in modo così pasticciato che a un certo punto la deve ritirare. Lì Chiara è bravissima a cogliere al volo l’occasione della difficoltà del Papa, e decide di scriverne una sua cercando disperatamente di farla approvare. Ma è arrivata alla fine della sua vita, la regola viene approvata esattamente due giorni prima che Chiara muoia. Per di più il Papa stringe la portata di questa regola soltanto a San Damiano.
Morta Chiara, la sua regola viene copiata e ci sono dei monasteri che la applicano. Poi Urbano IV riscriverà un’altra regola, e allora avremo finalmente l’ordine di Santa Chiara, dove però del progetto di Chiara rimane molto poco. Ecco perché ancora oggi ci sono diversi tipi di clarisse: alcune seguono la regola di Chiara, altre quella di Urbano IV; abbiamo le clarisse urbaniste e le clarisse non urbaniste. Ci sono monasteri chiusissimi dove è impossibile anche solo vedere le monache e altri, invece, molto aperti dove le monache non hanno più neanche l’abito lungo fino alle caviglie, ma uno marroncino chiaro con un velo molto leggero, simili a crocerossine.
Al monastero di Santa Chiara a Napoli neanche i francescani che vanno a dire la messa possono vedere le monache. L’unico francescano che può entrare, perché le deve pur confessare, deve essere vecchissimo, scelto con tutti i crismi. Io avevo avuto il permesso di andare a fare delle fotografie, sono entrata e non c’era nessuno, non ho visto nessuno. Ho sentito una voce che mi diceva: “Attenda”, poi ho sentito girare la chiave, ho dovuto aspettare un momento, quando la monaca era ormai fuori portata, si è sentita la voce che diceva: “Può aprire”. Ed era tutto concordato, ero accompagnata da un francescano. Invece, per esempio, alla Comunità di Galatina sono molto aperti, anche a Firenze...
Chiara come pensava il rapporto con i frati?
Lei non aveva nessun problema. Francesco veniva spesso. Fra l’altro, quando sta male, a un certo punto pianta in asso i suoi frati, si fa fare una capannuccia nel giardino del monastero e sta lì, perché preferiva essere curato dalle monache. Certamente c’è un rapporto così intenso che subito dopo la morte di Francesco, il Papa prescrive una serie di restrizioni molto forti proprio per San Damiano. Non vuole più l’andirivieni dei frati.
E allora Chiara fa una specie di sciopero della fame dicendo che se non possono andare più quelli che danno loro il pane spirituale, loro non vogliono neanche più il pane materiale. A quel punto il Papa fa marcia indietro. C’è un miracolo molto bello, documentato nella tavola che c’è ancora nella Basilica di Santa Chiara ad Assisi, dove Chiara, essendo rimasto un unico pane, riesce a moltiplicarlo in modo tale da poter sfamare tutte le monache. Però prima ne manda metà ai frati. Lei vuole sempre sottolineare che sono due rami di una stessa pianta, che lei è la diretta emanazione di Francesco.
C’entra anche con la visione della scala che Chiara sale per raggiungere Francesco? Una visione la cui interpretazione è controversa, tu proponi di spostare una virgola...
Sì, l’interpretazione, di tipo psicoanalitico, un po’ anche imbarazzante, vede Francesco che si apre il saio e dice a Chiara di succhiare il latte e poi nella bocca di Chiara rimane addirittura il capezzolo di Francesco, che lei si mette tra le mani e ci si specchia. Ecco, io credo che vada spostata una virgola. In questo modo, molto più semplicemente, le rimane in bocca del latte in cui lei, dopo esserselo messo nelle mani, si riflette. Tutto diventa più logico ed è una visione molto bella dove ogni dettaglio diventa simbolico. Il simbolo del latte, in realtà, non ha niente di pruriginoso perché ci sono una serie di testi, che Chiara poteva ben conoscere, in cui si dice che Cristo, allargando le braccia in croce, allatta i fedeli con il latte del Vangelo che è molto più dolce del vino dell’Antico Testamento. Qui Chiara succhia tutto l’insegnamento da Francesco, che è il Vangelo, però quando lei si guarda in questo latte lo vede diventare d’oro.
Con questo, in un certo senso, è come se dicesse che, con l’apporto di Chiara e delle compagne, l’insegnamento di Francesco è ulteriormente migliorato e sono loro quelle che continuano il suo insegnamento, anche rispetto ai francescani che al tempo stavano già cambiando. E, dice, questo deve essere uno specchio per voi, per le monache che verranno ma anche per gli uomini e le donne che stanno nel mondo, i “devoti e alle devote”.
Era cosciente della sua forza...
Sì, ma sua insieme alle compagne. Lei ha veramente una visione comunitaria. Quando, per esempio, fa il miracolo per cercare di allontanare i nemici da Assisi, in realtà non è lei a farlo, ma lei chiede alle compagne la preghiera comune. Questi miracoli, che poi, devo dire, sono molto semplici, per niente spettacolari, sono sempre legati a una preghiera comune. Lei si sente sempre legata alle sue compagne.
Ma tornando alla povertà, Chiara come pensava di mantenere il monastero da un punto di vista materiale? Prima di tutto col lavoro delle proprie mani. Tutte le monache lavoravano e lei stessa filava, tessevano soprattutto arredi liturgici, quindi tovaglie, corporali e in cambio ricevevano un po’ di cibo. Poi, c’era la pochissima carità che potevano raccattare, un po’ di pane, un po’ d’olio che qualcuno portava al monastero.
Certo tutto era molto aleatorio tant’è vero che, come ci dice il miracolo di quell’unico pane, poteva capitare che nel monastero non ci fosse veramente nulla da mangiare. Chiara ha fiducia di poter sopravvivere pur mantenendo ferma quell’incertezza propria del povero, incertezza fisica che diventa poi psicologica. E però, questo va detto, Chiara sottolinea che la povertà non è un fine ma un mezzo, lei dice che non si deve essere poveri per essere poveri, ma per non avere il cuore legato alle cose. La stessa idea la si può leggere nel bel episodio attribuito ai francescani: quando questi incontrano Madonna Povertà, prima di tutto, la fanno rifocillare, poi quando lei, pensando sempre di avere davanti dei frati domenicani, chiede: “Fatemi vedere il chiostro, l’oratorio, la chiesa”, allora loro la portano su un colle, le fanno vedere tutto quello che si vedeva e dicono: “Questo è il nostro chiostro”. Anche Chiara pensava in questo modo.
Tu dici che c’era anche un’attenzione molto forte ai bisogni del corpo...
Direi che questo aspetto è proprio francescano. Credo che la loro idea, anche se loro non la esprimono così, è che se non si mantiene una dignità umana poi anche la parola di Dio non riesce ad arrivare. Chiara di fronte a una monaca disperata, disperata interiormente, per prima cosa le dà da bere un uovo. A un’altra che sta male fa mangiare una focaccia. Chiara non ha nessuna paura del contatto fisico. Una monaca sta male, ha dei dolori alle gambe, Chiara si leva addirittura il velo dal capo e le si butta addosso per scaldarla. C’è fisicità, ci sono abbracci, c’è questo senso molto affettuoso. Sia nella regola francescana che in quella di Chiara c’è la lavanda dei piedi. A tutti quelli che sono usciti dal monastero si devono lavare i piedi e quindi anche lei lavava i piedi alle monache che rientravano dal servizio fuori dal monastero. Nella visione in cui Chiara vede la scala che la porta a San Francesco ormai morto (l’allieva che sale tutti i vari gradi e arriva alla pari col suo maestro) lei comincia a salire portando l’asciugamani con dell’acqua. C’è un piccolo particolare che è proprio di Chiara: l’acqua è calda. Un piccolo conforto in più che sembra dire, pur all’interno di una vita estremamente austera e povera, di non esagerare nelle privazioni.
Ma è uguale per Francesco: quando quel frate che voleva fare penitenza e non mangiava, e a un certo punto comincia a dire che moriva di fame, Francesco fa accendere tutte le lucerne, chiama i frati e li fa mangiare tutti insieme perché lui non si vergogni, e poi gli dice di non farlo più.
Quindi nessun dolorismo...
Assolutamente. C’è l’episodio molto bello attribuito a Francesco del lebbroso talmente furibondo per la sua malattia da risultare insopportabile anche ai frati, che a un certo punto non ne vogliono più sapere e dicono a Francesco di pensarci lui. Francesco va lì e per prima cosa lo guarisce, e solo dopo comincia a parlare di Dio. Il fatto che anteponga la guarigione alla parola vuol dire che prima di tutto bisogna cessare di essere in preda al dolore che annichilisce, che impedisce la comprensione e l’apertura verso gli altri. Francesco non gli dice: “Pensa a Dio, soffri che così starai meglio”... Questo mi è sempre sembrato molto bello.
Perché questo ideale della povertà si diffonde con tanta forza nel tempo di Francesco e Chiara?
Beh, siamo in una società in grande evoluzione e ci sono classi sociali che diventano molto ricche, le classi dei mercanti, di chi presta denaro, fra l’altro tantissimo anche alla Chiesa, peraltro molto ricca. E’ una società che conosce un improvviso benessere, pare anche proprio per condizioni climatiche. La rinascita dell’anno Mille sembra legata anche all’aumento di un grado della temperatura, che permette raccolti migliori, quindi gente che mangia di più e si ammala di meno, che è più forte e può lavorare di più. E però è anche una società sottoposta a terribili squilibri dove basta pochissimo per cadere in povertà. Una tempesta, la nave fa naufragio, e un’attività fallisce, qualcuno cade da un’impalcatura e non può più lavorare... Come niente uno diventa storpio, cieco, non c’è alcuna forma di mutua. Poi tanta gente viene uccisa, ferita... E’ una vita caratterizzata da toni molto crudi e da una grande instabilità. La Chiesa, al tempo di Francesco e di Chiara, continua a dare aiuto ai poveri, e però mantiene tutti i suoi privilegi. Chiara e Francesco fanno un salto, si mettono tra i poveri.
All’inizio anche Francesco non è riconoscibile come francescano, porta un abito regalato da qualcuno. I frati sono vestiti in modo diverso, poi hanno tutti quel cordone... Quindi l’idea è quella di proporre veramente un ritorno al Vangelo com’era espresso da Cristo e dagli Apostoli, che erano poveri.
Ma la Chiesa mal sopportava questo ritorno al Vangelo...
Ci sarà uno scontro terribile all’inizio del Trecento. A un certo punto il papato contesterà apertamente ai francescani l’idea di questa estrema povertà. Si nega che Cristo fosse povero tant’è che avevano Giuda che teneva i beni degli Apostoli, era il tesoriere. Dire che Cristo e la Madonna fossero poveri diventa quasi eretico. E’ un attacco che viene portato anche dagli Ordini concorrenti, dal clero secolare. C’è da dire, però, che i francescani avevano cominciato a vantarsi, soprattutto rispetto ai domenicani e anche al clero secolare, di essere più perfetti perché così poveri. Ma questa loro povertà era diventata ormai una finzione giuridica. I francescani non possedevano niente, tutto era della Chiesa e loro avevano soltanto un uso povero delle cose, non possedevano il convento, ma lo abitavano... Così a un certo punto il Papa, Giovanni XXII, disse: “Se voi mangiate un buonissimo formaggio sarà pure della Chiesa, ma se voi ve lo mangiate...”.
C’è un imborghesimento dell’ordine...
Certo, col tempo il cambiamento è enorme. L’ordine diventerà tutto di preti... poi tutti avranno grandi conventi, tutti studiano, tutti hanno codici, tutti predicano, hanno ormai lasciti di devoti che morendo chiedono preghiere...
Francesco non era prete...
No, non lo volle mai diventare, né prete né monaco. Infatti, a un certo punto, lui si ribella e dice “Basta!”.
Ma essendo così rigidi su questo problema della povertà come potevano sperare che la regola durasse anche dopo di loro?
Per Chiara io continuo a credere che lei non abbia mai pensato a grandi numeri. Oltretutto è un tipo di vita che richiede veramente delle doti notevoli, e non tanto per la clausura, quanto per l’incertezza che si vuole alla base di quella scelta di vita. Per Francesco è diverso.
Alla fine era talmente disperato da dare le dimissioni dall’ordine, perché vedeva che il suo progetto era stato snaturato dal successo e non riusciva a immaginare una soluzione. Francesco muore disperato. E infatti Bonaventura cambia l’ordine, ma inevitabilmente, perché, come dice il titolo di un libro di Lambertini e Tabarroni, L’eredità difficile, Francesco lascia veramente un’eredità difficile: era praticamente impossibile adattare a grandissimi numeri quello che era stato previsto per pochissimi. Francesco all’inizio non fa proseliti, sono i compagni che vanno da lui. Lui all’inizio non pensa assolutamente a un ordine. Questo si struttura nel tempo perché la proposta incontra un grande successo. D’altra parte direi che questo è sempre il problema delle piccole comunità che hanno successo.
Quindi dà le dimissioni dall’ordine?
Francesco dà le dimissioni formalmente per motivi di salute. Effettivamente lui non aveva una gran salute, poi andando in Egitto si era ammalato gravemente. Però lui si dimette nel momento in cui all’interno dell’ordine è molto contestato. Infatti si dice che lui continuasse a fare delle regole che i frati o perdevano o non approvano. Ci sono scritti di compagni di Francesco che raccontano quanto lui fosse triste: “Chi sono questi frati che rubano l’ordine?”, diceva. Per Tommaso da Celano, il primo biografo, lui va sulla Verna perché è proprio disperato, e forse è sul punto di perdere la fede, perché è tutto cambiato. E senza voler ritornare al problema delle stimmate, però, quando lui apre tre volte il Vangelo per sapere come sarebbe finito, il Vangelo si apre sul monte degli Ulivi e allora lui capisce che deve fare come Cristo e abbandonarsi alla volontà del Padre. Poi Bonaventura cambierà la pagina che diventerà quella della Crocefissione, però il primo racconto ci dice di un Francesco disperato esattamente come Cristo nel momento in cui prevedendo la sua passione dice: “Padre, se è possibile, allontana da me questo calice”, e poi si abbandona alla volontà del Padre. E anche Francesco dice: “Io mi abbandono e Dio deciderà per noi”. Comunque lui nel 1221 dà le dimissioni, rimanendo però la coscienza scomoda dell’ordine e quindi, certamente, con problemi a non finire.
Ma anche Chiara si scontra con la Chiesa?
I pontefici sono tutti contro Chiara. A un certo punto Gregorio IX dice a Chiara che se era per il privilegio della povertà, per il voto che aveva fatto, lui l’avrebbe dispensata e lei risponde che per nessuna ragione mai avrebbe voluto essere dispensata dalla sequela di Cristo. Quindi Chiara dà una risposta violentissima, infatti poi la paga, perché Gregorio IX si raffredda molto e questo, poi, si ripercuote anche su Agnese di Boemia. Quello che fa più impressione è che lei a 18 anni come a 53 ha sempre la stessa idea, non cambia mai.
Va a questionare proprio col Papa?
Il problema è che Gregorio IX, che prima era il Cardinale Ugolino, aveva un progetto ambiziosissimo, cioè di riordinare tutto il monachesimo femminile prendendo come punto di riferimento Chiara. A quel tempo c’era un vasto movimento di donne religiose che non sapevano cosa fare perché molti monasteri non le accettavano. Quindi il Papa voleva fare una specie di ordine femminile che facesse capo alla Santa Sede, però nel nome di Chiara. Ma doveva essere un ordine monastico assolutamente chiuso. Questo Chiara per tutta la vita lo rifiuterà. Quindi quando si parla dell’Ordo Sancti Damiani, Chiara non c’è perché non l’ha mai voluto. Alla fine, in procinto di morire, lo accetterà barattandolo con l’approvazione della regola. Quindi è sì un ordine di clausura, però molto sui generis.
Quindi Chiara era forte e cosciente della sua forza...
Chiara, oltre ad aver ormai una fama propria, era la grande amica di Francesco, e quando Francesco diventa santo, cresce anche il prestigio della sua diretta discepola. Chiara del resto aveva sempre continuato a sottolineare di essere “la pianticella di Francesco”. Quindi era difficile contestare Chiara senza contestare Francesco. Con Chiara si deve sempre venire a patti.
La regola viene sconfessata quasi subito dopo?
Questo lo si vede anche nell’iconografia che propone una serie di immagini che vogliono dar l’idea della monaca di clausura, senza rapporti con il mondo. Però, guardando bene, si notano piccoli indizi da cui si vede che l’idea che le monache portano avanti è diversa. Per esempio i vestiti di Chiara. Spesso indossa questo mantello a righe che è il tipico mantello delle donne penitenti, cioè di quelle donne che, pur senza andare in monastero, si davano alla vita religiosa di preghiere e di lavoroevivevanoinsieme, e che erano trattate molto male dalla Chiesa proprio perché facevano una vita di povertà. Naturalmente la Chiesa cercava di farle entrare in monastero. Ma l’idea della Chiesa era che la donna dovesse dipendere sempre da un uomo, da un marito o da un sacerdote. Una donna da sola non andava bene... Tant’è vero che le comunità delle beghine vennero perseguitate. Ecco, queste “penitenti” usavano il “rigatino” che è una stoffa molto povera fatta di lane disfatte di vari colori. In molte tavole si vede che Chiara e le compagne sono vestite di rigatino. Tutto questo vuol dire che dall’inizio alla fine Chiara non ha voluto essere una monaca di clausura. Sono particolari che noi dobbiamo riscoprire, ma che la gente del tempo era assolutamente in grado di leggere. In una tavola, in cui alla fine la Madonna arriva e mette sopra a Chiara un velo bellissimo del Paradiso, questo velo è ancora a righe!
UNA CITTÀ n. 148 - quinto/2007
Sul tema. nel sito, si cfr.:
MEMORIA DI FRANCESCO D’ASSISI."Va’, ripara la mia casa"!!! Benedetto XVI ha ricordato la conversione di Francesco d’Assisi: «l’ex play boy convertito dalla voce di Dio»... ma ha "dimenticato" la denuncia sul "ritardo dei lavori", fatta da Pirandello già a Benedetto XV.
Chi aveva paura di fratello Francesco?
Chiara Frugoni indaga il messaggio nascosto negli affreschi della Basilica superiore di Assisi: realizzati a mezzo secolo dalla morte del santo, dopo aspre divisioni interne al suo Ordine
di Alessandro Barbero (La Stampa, 15.12.2015)
Nel 1220, sei anni prima di morire, Francesco d’Assisi abbandonò la direzione dell’Ordine francescano, in durissima polemica con un’organizzazione che gli sfuggiva di mano e che non assomigliava più, se non come una caricatura, al movimento che aveva sognato di fondare. Il piccolo gruppo di compagni era cresciuto al di là di ogni previsione; la povertà era diventata un simbolo e non una pratica di vita, i frati vivevano in spaziosi conventi anziché dormire in strada, di guadagnarsi da vivere lavorando nessuno parlava più, comodi sandali avevano sostituito i piedi scalzi degli Apostoli.
Peggio: il successo del movimento aveva riempito le comunità francescane di persone influenti e ambiziose, confinando ai margini i poveri e gli ignoranti. Francesco diffidava di chi ha studiato, convinto che la dottrina rende presuntuosi e non è compatibile con la povertà - tanto meno in un mondo in cui un libro costava l’equivalente di migliaia di euro. Era un laico e sognava un movimento di laici; e quando una vecchia donna, madre di uno dei frati, venne a chiedergli un soccorso, ordinò di vendere l’unico Vangelo che possedevano: Dio, garantì ai frati sbigottiti, sarà molto più contento di vedere che aiutiamo «la nostra mamma», che non di vederci leggere il Vangelo.
Ma ormai gran parte dei frati sfoggiava la lucida tonsura che indicava l’appartenenza al clero e la separazione dalla plebe analfabeta. Perciò Francesco si dimise, e nei sei anni che gli rimanevano combatté una faticosa battaglia, accettando i compromessi della Regula bullata - l’unica versione del suo programma che ottenne un’approvazione scritta dal Papa - e poi stilando un testamento che riproponeva regole più severe, e obbligava i frati a osservarle senza introdurvi alcun cambiamento. Appena quattro anni dopo la morte, la salma del santo era traslata in gran pompa nella nuova basilica di Assisi, e il Papa provvedeva ad annullare il suo testamento, dichiarando che i frati non erano tenuti a osservarlo.
La biografia riscritta
Chiara Frugoni, che da molti anni vive nell’intimità di Francesco e ha scrutato ogni centimetro degli affreschi di Assisi, ha appena pubblicato con Einaudi un libro straordinario (Quale Francesco? Il messaggio nascosto negli affreschi della Basilica superiore ad Assisi, pp. 608, 222 tavole a colori, € 80), in cui parte da una domanda semplicissima: perché le pareti della Basilica superiore, destinata alle riunioni dei frati, vennero affrescate solo mezzo secolo dopo, da Cimabue e poi da Giotto? Perché, in un mondo dove ogni superficie muraria, se appena c’erano i mezzi, era coperta di affreschi, quelle pareti rimasero nude così a lungo?
La risposta è che i frati erano aspramente divisi su chi fosse stato davvero il fondatore, e di conseguenza, su quale Francesco si dovesse rappresentare. Com’era possibile raffigurare quell’uomo tormentato, e il suo progetto di assoluta povertà, senza mettere in imbarazzo ciò che l’Ordine era ormai diventato? Ma non era possibile neppure censurarlo, perché c’erano ancora troppi frati che ricordavano il movimento delle origini, e lo rimpiangevano in cuor loro. Chi in quegli anni ricevette l’incarico di scrivere la Vita del santo sperimentò in pieno la contraddizione: come Tommaso da Celano, continuamente sollecitato a modificare e riscrivere e aggiungere, tanto che alla fine sbottò: «Non possiamo ogni giorno produrre cose nuove, né mutare ciò che è quadrato in rotondo». Perciò, le pareti della Basilica superiore rimasero spoglie.
Alter ego di Cristo
La svolta decisiva, come ha dimostrato in passato Chiara Frugoni, si ebbe con il generalato di Bonaventura da Bagnoregio, che nella Legenda maior dettò la versione definitiva della vita di Francesco, trasformando il fondatore in un alter ego di Cristo: più divino che umano, come dimostravano le stimmate, e dunque, per definizione, inimitabile. Per buona misura, il Capitolo generale ordinò la distruzione delle Vite precedenti; solo pochissimi manoscritti sopravvissero a quella misura staliniana, per essere riscoperti fra Otto e Novecento.
Ora la studiosa si è spinta più avanti: Bonaventura non propose soltanto una nuova immagine di Francesco, ma una nuova interpretazione dell’Ordine francescano e del suo destino provvidenziale. Utilizzando gli scritti profetici di Gioacchino da Fiore, il ministro generale spiegò che Francesco era stato un precursore: lui, sì, aveva realizzato una vita ispirata al Vangelo, ma i tempi non erano maturi perché il mondo lo seguisse. Quei tempi sarebbero giunti, ma solo Dio sapeva quando; nel frattempo, i frati dovevano prepararsi, studiare e predicare, senza pretendere di attuare subito, prematuramente, il disegno divino prefigurato da Francesco.
Senza tradirlo del tutto
Solo quando questa interpretazione s’impose divenne possibile commissionare gli affreschi per la Basilica superiore; e inserirvi un’infinità di dettagli eloquenti, di cui tutti i dignitari dell’Ordine, all’epoca, avrebbero colto il significato, e che a noi oggi sfuggirebbero completamente, se non ci fosse Chiara Frugoni a segnalarli. Divenne possibile rappresentare Francesco senza tradirlo del tutto, a piedi scalzi e con la barba dei laici, e attorno a lui i frati calzati e rasati, in ampi e comodi sai, e talvolta perfino con un libro in mano: senza scandalo, perché Francesco, come l’Angelo dell’Apocalisse, aveva profetizzato un futuro che non si era ancora adempiuto.
Bonaventura aveva scoperto una verità che molti secoli dopo sarà riscoperta dai dirigenti dell’Unione Sovietica: è più facile annunciare alla gente che il paradiso è previsto per un futuro non lontano, piuttosto che dichiararlo già realizzato qui e ora. Con questo libro, Chiara Frugoni non ha soltanto scritto una pagina nuova nella storia dell’Ordine francescano, ma ha allargato la nostra comprensione del pensiero e della mentalità medievale.
In un saggio di Chiara Frugoni la vicenda del Poverello d’Assisi. E come la sua figura fu poi manipolata dalla Curia
Così Giotto tradì la missione di San Francesco
Negli affreschi della Basilica superiore viene celebrato fra cavalieri, cardinali e pontefici
di Tomaso Montanari (la Repubblica, 11.12.2015)
Quale Francesco? Quello del meraviglioso testamento, che «con un soprassalto di disperata energia» vuole ancora i suoi frati «illetterati e sottomessi a tutti», o quello clericale e conformista degli affreschi in cui Giotto impagina una storia riscritta da san Bonaventura (capo dell’ordine, ma anche cardinale), e bollata dalla Curia romana? Quello davvero minore, che si firma «frate Francesco piccolino, vostro servo» e passa la vita tra i lebbrosi e gli ultimi di ogni specie, o quello che è celebrato per sempre sulle pareti della Basilica superiore di Assisi (circondato da cavalieri vestiti di vaio, cardinali e pontefici coperti d’oro e di porpora), cioè il Francesco reso letteralmente inimitabile dal miracolo delle stimmate, e dunque in qualche modo sterilizzato, depotenziato, disinnescato? E i suoi veri seguaci sono quelli rasati e calzati che studiano, posseggono e scalano la gerarchia fino al soglio pontificio, o sono i frati scalzi, barbuti, disposti a seguire il grido modernissimo di Francesco: «Ed io lavoravo con le mie mani e voglio lavorare; e voglio fermamente che tutti gli altri frati lavorino di un lavoro quale si conviene all’onestà»?
Fin dal titolo, è questa la domanda che percorre le oltre quattrocento pagine dell’ultimo, bellissimo libro di Chiara Frugoni. È l’eterna domanda che investiga e interroga il rapporto tra il carisma profetico e la sordità del potere istituzionale. Non è difficile sentirla attuale oggi, quando ci chiediamo se un altro Francesco vada riconosciuto nel candore evangelico di affermazioni e atti che appaiono rivoluzionari, o invece nella vischiosità ineludibile di un potere mondano che processa giornalisti e non accredita ambasciatori perché omosessuali. O quando ci chiediamo se Assisi sia - a fine Duecento come oggi - un epicentro di vita spirituale, o invece una grande macchina da soldi, e se gli affreschi stessi della Basilica, oggi messi a dura prova dal respiro delle masse, siano ancora un testo vivo, o solo un’attrazione moralmente afona.
Chiara Frugoni cerca il suo Francesco, posando uno sguardo nuovo - uno sguardo felicemente infantile: cioè limpido, aperto, incredibilmente concreto - sul ciclo di Giotto. Lo fa da storica, ma conoscendo minuziosamente il lavoro degli storici dell’arte, e interloquendo con i migliori: per esempio con Luciano Bellosi per la cronologia e le attribuzioni, con Bruno Zanardi per la genesi materiale, con Donal Cooper e Janet Robson per la lettura iconografica. E il risultato è straordinariamente importante: perché ci restituisce assai aumentata la conoscenza di uno dei testi figurativi più alti, e controversi, della nostra storia culturale.
Come tutti i libri davvero riusciti, Quale Francesco? parla a tutti. Saranno gli specialisti a vagliare la proposta di leggere i sei candelabri visibili nella Preghiera di San Damiano come un’allusione a santa Chiara e alle sue cinque prime sorelle; a discutere sulle implicazioni del profilo diabolico che la Frugoni ha per prima, e indiscutibilmente, individuato nelle nuvole che portano in cielo l’anima di Francesco appena morto; a soppesare il nesso tra le profezie dell’abate calabrese Gioacchino da Fiore sull’avvento di un ordine «colombino» e la presenza ricorrente delle colombe nei grandi riquadri giotteschi; o, ancora, a valutare il ruolo di menabò iconografico che può aver avuto il perduto aurifrisium (cioè il paliotto tessuto di fili d’oro) donato all’altare della Basilica da Nicola IV, primo papa francescano e grande promotore della decorazione pittorica assisiate.
Ma - anche grazie ad una prosa felicissima, ad una eccezionale capacità di sedurre il lettore - la domanda centrale del libro parla invece a tutti: ed è difficile staccarsi dal filo della narrazione, dalla malìa di strepitose fotografie di dettaglio che permettono di vedere il ciclo di Giotto come forse non lo si è mai visto prima. E quella domanda è: se Francesco (morto nel 1226) avesse potuto guardarsi nello specchio di Giotto (1288-92 circa), si sarebbe riconosciuto? La risposta della Frugoni è no: ed è un no profondamente convincente.
Emblematico è il caso del presepe di Greccio: un grande evento popolare, in cui Francesco fece celebrare la messa natalizia della notte alla presenza di un bue e di un asino in carne ed ossa, viene invece raffigurato come una specie di rappresentazione simbolica, con gli animali ridotti a piccole statue di terracotta, con i poveri fuori della porta, con lo stesso Francesco rivestito da una improbabile dalmatica diaconale dorata.
Un Francesco prigioniero del suo stesso ordine, insomma: e Francesco prigioniero sarebbe un perfetto sottotitolo per il libro. Specie pensando ancora al Testamento, dove il santo si fa povero fino a spogliarsi della sua stessa volontà, e con essa del radicalismo del suo progetto: «E fermamente voglio obbedire al ministro generale di questa fraternità e a quel guardiano che gli piacerà di assegnarmi. E così voglio essere prigioniero nelle sue mani».
Uno dei tradimenti contro il vero Francesco riguarda da vicino i nostri giorni. Nella quarta campata della parete nord, i committenti chiedono a Giotto di dipingere un Francesco pronto a gettarsi nel fuoco per sbugiardare e umiliare il Sultano, e i musulmani in genere. Ma la Frugoni ricorda che il fondatore aveva ordinato ai suoi frati di vivere anche tra i non cristiani «senza liti, senza dispute », «non con l’abituale criterio della contesa dottrinale contro Ebrei od eretici, ritenendosi soggetti a ogni creatura umana per amore di Dio, dunque anche ai musulmani ... Solo se si fosse creato un clima di reciproco rispetto, se fosse piaciuto a Dio, i frati avrebbero potuto parlare di Cristo e della loro fede». Ma - continua la Frugoni - «quando la ritroviamo negli affreschi di Assisi, da una predica per convertire siamo passati a una sfida per vincere ».
Mai come oggi, capire quale Francesco significa decidere quale futuro.
Chiara Frugoni, ma quello di Giotto non è Francesco
Da Einaudi un ponderso volume sul «messaggio nascosto negli affreschi della Basilica Superiore di Assisi». Sulla base della biografia di Bonaventura la Chiesa mitigò la lezione francescana e orientò l’iconografia del ciclo assisiate: questa la chiave di lettura di Chiara Frugoni
di Marco Mascolo (il manifesto - Alias, 27.12.2015)
La Basilica di San Francesco di Assisi, grandioso complesso cultuale che custodisce alcune delle testimonianze più alte di tutta l’arte occidentale, suscita da molto tempo attenzioni mirate da parte di studiosi di vario tipo, dagli storici dell’arte agli storici tout court.
Le tracce del conflitto che, sin da quando san Francesco era ancora in vita, cominciò a dilaniare il nuovo Ordine si possono ancora ritrovare nella divisione fra le due chiese: la Superiore, destinata a ospitare i Capitoli generali dell’Ordine e i fedeli, votata quindi a un ruolo più ufficiale e più pubblico rispetto a quella Inferiore, con la sua atmosfera raccolta e adatta alla preghiera dei pellegrini. Il problema dell’appropriazione e dell’ufficializzazione di un messaggio tanto dirompente come quello del Poverello di Assisi avrebbe trovato una delle sue espressioni più alte proprio nei metri di superfici affrescate della Basilica Superiore.
Molto più delle circolari papali, dei trattati vòlti a interpretare la vicenda di Francesco o delle biografie del santo, le immagini ebbero un ruolo straordinario nell’affermare e stabilire una sola, univoca immagine del santo.
Ora, in questa sua recente fatica, Chiara Frugoni affronta e dipana proprio questi problemi. Sin dal titolo, Quale Francesco? Il messaggio nascosto negli affreschi della Basilica superiore ad Assisi (Einaudi, pp. 612, 222 illustrazioni, euro 80,00), appare chiaro lo scopo del ponderoso volume: quale fu il Francesco che si volle promuovere dalle pareti della Basilica assisiate? Il pauperista, ascetico frate che predicava la rinuncia ai beni terreni e tentava di reimpostare i rapporti tra la Chiesa di Roma e i fedeli? O un Francesco il cui messaggio era mitigato e in certo senso ‘addolcito’ rispetto al rigorismo iniziale, capace allora di essere assorbito all’interno di quella stessa Chiesa?
La studiosa si era già concentrata, nel suo Francesco e l’invenzione delle stimmate (Einaudi, 1993), sulle vicende che portarono la Chiesa ad appropriarsi del messaggio, invero carico di elementi sovversivi tanto per l’autorità pontificia quanto per le sue gerarchie, dei frati dell’Ordine francescano. Un Ordine nuovo, la cui obbedienza era dovuta solo al sommo Pontefice e che usciva, quindi, dalla giurisdizione dei vescovi. Un dettaglio, questo, sul quale si scatenò una vera e propria battaglia a suon di testi e, come è facile aspettarsi, di immagini.
Questo processo, lungo e accidentato, vide una prima sostanziale vittoria da parte di Roma nell’affermare, anno 1266, la Legenda Maior di san Bonaventura come l’unica biografia ufficiale del santo, con la conseguente distruzione delle altre biografie di Francesco, in primis quella di Tommaso da Celano. Proprio sulla base di Bonaventura, infatti, si sarebbe elaborato il programma iconografico delle storie del santo nella Basilica superiore, adornando in affresco le pareti della navata nel registro più basso, e quindi più vicino allo sguardo dei fedeli.
Ma Chiara Frugoni, questa volta, non si limita alle storie di san Francesco, e sottopone a un’analisi serrata e scrupolosa tutta la decorazione della chiesa, a cominciare dalla zona dove ebbero inizio i lavori, nel transetto destro, sino alle opere del giovanissimo Giotto. La studiosa rintraccia i rimandi contenuti nell’impaginato degli affreschi, indaga le ragioni delle rispondenze delle scene dipinte fra le diverse pareti della navata.
La narrazione biblica procede dall’alto verso il basso: si inizia con la Creazione, si attraversano le storie dell’Antico e del Nuovo Testamento, infine si racconta la vicenda, trascorsa solamente cinquant’anni addietro, di san Francesco. Una storia, però, a quel punto bonificata e mitigata, perfettamente in linea con gli orientamenti e l’esegesi proposti da San Bonaventura nella sua Legenda Maior.
La struttura del libro della Frugoni, sostanzialmente bipartita, permette di avvicinare le pitture assisiati con una strumentazione non usuale. E moltissime sono le personalità che si avvicendano nelle pagine del libro - da dotti teologi come Gerardo da Borgo San Donnino o Guglielmo di Sant’Amore sino all’eretico Gioacchino da Fiore, senza trascurare papi e cardinali -, ma certo tra questi un ruolo specialissimo, opportunamente valorizzato, spetta a Girolamo d’Ascoli, già Ministro Generale dell’Ordine negli anni settanta del Duecento, poi divenuto papa come Niccolò IV, primo papa francescano ad ascendere al soglio di Pietro nel 1288.
Dopo cinque capitoli, che seguono l’evolvere delle profonde controversie scatenatesi dentro e fuori l’Ordine francescano - e basti citare il bel capitolo, il terzo del volume, sulle lotte per accaparrarsi le cattedre all’Università di Parigi tra regolari, ossia quei frati che seguivano una regola, come i francescani e i domenicani, e secolari, che al contrario dei primi non afferivano a un ordine -, l’autrice conduce il lettore dentro la Basilica, e con pazienza si dedica all’analisi delle singole scene, dei loro significati, del loro senso, alla luce proprio degli strumenti di cui ha dotato il lettore nei capitoli precedenti.
La necessità di ‘ammansire’ il messaggio del Poverello comportò l’attuazione da parte della Curia pontificia di una serie di contromisure che disinnescassero la forza, davvero incendiaria, del suo insegnamento. Il libro permette di calarsi all’interno di quei processi per cui le opere d’arte vengono investite di un potente messaggio ideologico e diventano foriere di valori ben precisi. Il corso del tempo e il passare dei secoli hanno edulcorato, come sempre accade, gli aspetti più scottanti di queste operazioni, ma le pagine della Frugoni, con i loro zoom storico-iconografici, permettono di recuperarle al vivo.
La studiosa avvalora poi la datazione ‘alta’ delle pitture murali, facendo rientrare l’impresa della decorazione della Basilica superiore negli ultimi anni del Duecento. Quest’idea, è bene sottolinearlo, era stata per primo sostenuta da Luciano Bellosi. Spetta a lui, infatti, rifacendosi a uno studio di Hans Belting del 1977 (che sarebbe davvero il caso di tradurre in italiano), l’aver ricondotto a questa datazione tutta la decorazione della Basilica, comprese le Storie di San Francesco, opera di Giotto. Bellosi aveva argomentato la sua intuizione con dovizia di particolari nel 1985 (tra l’altro, proprio quest’anno è stato ripubblicato il suo libro, La pecora di Giotto) e nel 1998.
Ma proprio su un problema di datazione, forse, ci sarebbe da discutere con le posizioni della Frugoni, quando, un po’ troppo nettamente, afferma che gli affreschi di Cimabue nella zona dell’abside e del transetto sarebbero opera degli anni settanta del Duecento, e non, come invece sostenuto da Bellosi, la cui posizione non è certo isolata, in anni non distanti dal papato di Niccolò IV, che regnò come pontefice dal 1288 al 1292.
Al di là di certi aspetti, però, sui quali sarà necessario tornare con la dovuta ampiezza, la Frugoni riconosce - e questo è un elemento-cardine - la forte unitarietà del programma iconografico, la spinta a dotare la chiesa madre dell’Ordine di una decorazione all’altezza del prestigio del luogo, in linea con le intuizioni e le ricerche di Bellosi.
Al netto di una lettura non facile ma di certo appassionante, il lettore accede a quel passato così lontano e può cogliere una serie di nuances che caratterizzavano il dibattito teologico di quegli anni attorno al problema, ad esempio, delle stigmate e di come trattare quel miracolo sbalorditivo concesso al solo san Francesco nella storia millenaria della Chiesa. Ma il dibattito assumeva anche connotati strettamente politici, in cui uno dei regnanti più potenti del mondo, il papa, vedeva fortemente minacciata la sua autorità da parte di Francesco e dei suoi seguaci.
Moltissime sono le illustrazioni che accompagnano il testo e che permettono di seguire, soprattutto per la seconda parte del volume, i ragionamenti di Chiara Frugoni. Un libro che dovrebbe far riflettere, anche, su temi assai attuali eppure così malamente trattati, come il potere che le immagini rivestono nel loro uso ideologicamente orientato.
Chiara e Francesco soldati della povertà
Un nuovo studio della storica Frugoni dedicato ai santi di Assisi.
di Mariapia Veladiano (la Repubblica, 14 novembre 2011)
Per amore si torna ancora e poi ancora e poi di nuovo a frequentare la stessa persona, a ripercorrere luoghi di cui sappiamo colori e ombre, a riascoltare parole che potremmo ripetere a memoria più di una preghiera cara dell’infanzia, alla ricerca di quel nucleo di luce che promette ogni volta uno stupore diverso. Qualcosa di molto simile all’amore sembra portare Chiara Frugoni a regalarci ora un nuovo libro, tessuto con passione intorno a quella storia straordinaria che ha visto insieme San Francesco e Santa Chiara in un’avventura spirituale che non finisce di parlare alla nostra vita di uomini e donne. Storia di Chiara e Francesco, uscito in questi giorni da Einaudi, viene dopo una quantità di saggi, interventi, studi che Chiara Frugoni ha già dedicato sia a San Francesco e Santa Chiara, sia al "tempo del pressappoco" come ama chiamare nel testo il Medioevo, in cui un anno può anche essere quello prima o quello dopo, quasi un anticipo dell’unico tempo eterno che San Francesco sapeva essere la promessa di Dio al mondo.
E così con la spigliatezza che le arriva da una conoscenza meravigliosa di documenti, fatti, luoghi e persone, l’autrice segue le strade di Chiara e Francesco non ancora santi (ma per poco, saranno santi subito, entrambi due anni dopo la morte). Lui in spontanea e precocissima lotta contro i "chiusi pensieri di profitto e guadagni" del suo ambiente familiare, dentro un clima cittadino di pesante lotta fra la sua classe, quella degli homines populi, e la classe dei boni homines, nobili, potenti e inaccessibili, "da odiare ma anche da ammirare". E ancora segue Francesco dopo la battaglia di Collestrada, rinchiuso nell’atroce prigione di Perugia, circondato da feriti per i quali "la morte non riesce a venire". E poi nei molti scontri tremendi e necessari: con il padre, con i concittadini, con se stesso, in una tormenta di umanissimi slanci e abbandoni e ritorni, fino alla solitudine nella quale incontra insieme Dio e l’uomo. Dio per l’uomo.
E una nuova storia nasce, e nulla è più come prima, e Francesco, ora in buona compagnia del suo Signore, mostra con la sua bizzarra e mai vista comunità di laici e chierici e nobili e colti e illetterati, che il Vangelo può essere messo in pratica davvero. Intanto Chiara bambina cresce e le fonti dicono che prestissimo si interessò a quel che capitava intorno a Francesco, fino agli incontri con lui, alla vocazione, alla fuga e alla nascita della sua comunità a San Damiano. In tutto simile a quella di Francesco: povera, a servizio degli uomini, con la straordinaria novità delle sorores extra monasterium servientes, sorelle attive fra gli uomini e le donne del mondo, testimoni del Vangelo come i frati di Francesco, con la stessa libertà.
È libertà la parola che Chiara Frugoni ci consegna come sigla di questa storia. In una società costretta nella lotta per il potere e per il denaro i fratelli di Francesco e le sorelle di Chiara rifiutavano ogni onore, avevano in odio il potere, supplicavano il pontefice per conservare il "privilegio della povertà". Una purezza implacabile arrivava loro dal Vangelo e diventava volontà fermissima di costruire "un modello di comportamento che pacificamente si contrapponesse a quello in auge e che pacificamente lo scardinasse". Pacificamente, rinunciando anche alla violenza implicita in ogni giudizio, liberi anche dalle sante attese: "E nel Signore amali. E non pretendere che siano cristiani migliori", scrive Francesco a un ministro suo confratello turbato da chi lo accusava ingiustamente. Fu la stagione degli inizi, alleanza inimmaginabile fra terra e cielo. Prestissimo venne il tempo degli accomodamenti a cui la storia sempre obbliga.
Certo la lettura insieme rigorosa e combattente di Chiara Frugoni può fare nascere qualche critica, come accade sempre quando l’amore per una persona o una storia è condiviso con molti. Perché l’amore è spesso geloso.
È forse vero che l’esito della vicenda di Chiara, la clausura stretta decretata nel 1263 da Urbano IV, somiglia molto a un umano fallimento. Ma non sempre gli esiti diversi da quelli attesi sonfallimenti. Chi crede può ben riconoscere nella vita nascosta delle clarisse la potenza carsica di una beatitudine ugualmente profetica.
È invece difficile negare che la battaglia per la povertà sia stata un vero fallimento, visto lo scandalo che ancora oggi la ricchezza della chiesa rappresenta agli occhi del mondo. Eppure anche qui la fede salva dall’amarezza pur nella determinazione della verità da affermare. Ecco quel che scrive Santa Chiara ad Agnese di Boemia, a capo del monastero di Praga, a proposito della loro comune lotta con le autorità religiose per la difesa del privilegio di essere povere: "Con corsa spedita, passo leggero, piede sicuro, in modo che i tuoi passi non sollevino polvere, avanza sicura, gioiosa e vivace, sul sentiero di una pensosa felicità".
Europa. Letteratura medioevale ... L’AMORE E LA PAROLA. Che cos’è l’amore, chi può amare, chi è massimamente degno di amore, come amare? Del "Gualtieri" di Andrea Cappellano (XII sec.), una recensione ________________________________________________________________ Da «Tristano e Isotta» ai romanzi cavallereschi: una ricerca indaga il rapporto fra il Santo di Assisi e le fonti
Francesco & i Trovatori
Dai valori cortesi dei poemi, probabilmente conosciuti per averli letti o sentiti recitare, alla carità che supera anche l’ostilità
di Franco Cardini (Avvenire, 6 maggio 2010)
«Vedi, ho là cento compagni. Dacci Isotta e che appartenga a tutti noi! Il male accende i nostri desideri. Dalla ai tuoi lebbrosi...». Non è detto che il giovane Francesco, che sognava di diventar cavaliere, abbia mai letto parola per parola e rigo per rigo quella terribile pagina del troviere normanno Béroul, che nella seconda metà del XII secolo aveva scritto un Tristan in versi del quale ci resta solo un lungo frammento, più o meno di 4500 versi. Non è neppure sicuro che l’abbia mai finito, quel poema.
Del resto, a parte le due note versioni di Thomas e poi di Goffredo di Strasburgo, la storia di Tristano e d’Isotta era stata più volte raccontata, dal Galles alla Germania, e molti di quei racconti sono andati perduti. Ma si trattava di rifacimenti e di variazioni di una leggenda antica e celebre, alla quale certo nuovi e più forti e drammatici colori dovevano essere stati aggiunti proprio da quando, in seguito all’intensificarsi dei traffici e dei pellegrinaggi (e non solo, come oggi si ama ripetere, «alle crociate»!...), lebbra e lebbrosari erano divenuti sempre più frequenti.
Chissà che in quel famoso cum essem in peccatis, nimis mini videbatur amarum videre leprosos del Testamentum non vibri ancora in qualche modo la memoria d’un sentimento che a noi moderni sfugge, d’un tempo nel quale il giovane Francesco aveva aborrito la vista di quei miserabili ammalati non solo per un ovvio e comprensibile misto di paura e di repulsione, ma anche per qualcosa di forse più simile all’odio e al disprezzo nei confronti del «re dei lebbrosi» Yvain e dei suoi sventurati compari, coloro che nel racconto di Béroul osano sperare di avventarsi con i loro ripugnanti moncherini coperti di stracci luridi sul corpo candido e profumato della Bionda Signora e possederla a turno, ancora e ancora.
Quale giovane aspirante cavaliere non avrebbe sognato di trovarsi là, di sgominare quei ripugnanti infelici, d’affrontare lo stesso sovrano che l’umiliazione per l’adulterio aveva reso spietato rimproverandogli il suo disonore, di liberare la bella? Ma allora il bacio di Francesco al lebbroso acquista un valore ancor più intenso e profondo: vincendo se stesso, la paura, la repulsione, Francesco vince anche l’ombra di un’ostilità inespressa, la scia dei suoi sogni di ragazzo.
Questa «via cavalleresca alla santità», in Francesco, costituisce un tema che alcuni anni fa mi aveva molto attratto e sul quale, di quando in quando, mi capita di desiderar di tornare; o di rammaricarmi per non aver il tempo di farlo. È appunto la «via» che sembra dominare l’episodio della Vita beati Francisci di Tommaso da Celano nel quale Francesco, praeter morem suum, quia curialissimus erat, cuidam pauperi postulanti ab eo eleemosynam exprobrasset, ma subito se n’era pentito rendendosi conto che magni vituperii fore magnique dedecoris petenti pro nomine tanti Regis subtrahere postulata.
Egli aveva negato l’elemosina a un povero che gliel’aveva domandata nel nome di Dio: un atto che contrastava con la sua abituale curialitas, e ch’era anzi degno di vituperium e di dedecus. Parte necessaria della curialitas era la largitas, la liberalitas, la generosità che si trova nei poemi epici del tempo, come largesse , inseparabile compagna di prouesse, cioè di probitas, del coraggio.
Sono i valori cortesi-cavallereschi, che a proposito di questo passo di Tommaso da Celano hanno consentito a Chiara Frugoni di riflettere molto giustamente che «in questa fase della vita Francesco non è mosso dalla compassione per i più deboli ma dal codice morale dei suoi nobili amici, puntigliosamente preso a modello»: un’osservazione che Marco Bartoli riprende e approfondisce ritenendo probabile che Francesco conoscesse - per averli letti o più probabilmente ascoltati recitare - quei precetti che si trovano in poemi come il Garin le Lorrain, che cioè ad esempio «è col donare che un uomo di valore viene in alto pregio». Anche il dono della veste al povero cavaliere, altro episodio-chiave della conversio del santo, rientra quanto meno formalmente in questa tipologia dell’elemosina cortese».
D’altronde, c’è almeno un altro testo francescano nel quale il truce «re dei lebbrosi» di Béroul sembra tornar a insidiare direttamente Francesco, a metterlo alla prova. È il capitolo XXV dei Fioretti, quello del lebbroso «sì impaziente e sì incomportabile e protervo» che «isvillaneggiava di parole e di battiture sì sconciamente chiunque lo serviva» e «vituperosamente bestemmiava Cristo benedetto e la sua santissima madre Vergine Maria»: Francesco conquista questo povero tanto perfido con la bontà e la dolcezza ancor prima che con il miracolo, giacché il tocco delle sue mani ne monda le piaghe.
Si tratta di una pagina tanto intensa quanto complessa, dal momento che la malvagità del lebbroso è, in effetti, un segno di possessione demoniaca: per cui la scena della cura e della lavanda del corpo del perfido infermo è, al tempo stesso, un esorcismo. E il vero miracolo divino, ancor più di quello manifestatosi attraverso le mani del santo, sta nel pentimento e nella salvezza di un’anima che sembrava irrimediabilmente perduta. Al di là dell’aspetto propriamente materiale del servizio, cioè della cura fisica e della lavanda del corpo, sono la carità e la dolcezza profuse durante il suo corso a ottenere un miracolo duplice, la guarigione dalle piaghe e quella, più difficile e preziosa, dal peccato.
Che l’esperienza della povertà sia centrale nella vocazione di Francesco, è cosa tanto certa quanto nota. Quello delle sue nozze con Madonna Povertà è un tema di straordinaria pregnanza nella mistica e nella tradizione francescana, legittimato dallo splendido trattatello De sacro commercio beati Francisci cum domina Paupertate e dall’XI canto del Paradiso dantesco e celebrato da opere pittoriche di grande significato.