Come santa Chiara mangiò con santo Francesco e co’ suoi compagni frati in Santa Maria degli Agnoli. *
Santo Francesco, quando stava a Sciesi [Assisi], ispesse volte visitava Santa Chiara dandole santi ammaestramenti. Ed avendo ella grandissimi desideri di mangiare una volta con lui, e di ciò pregandolo molte volte, egli non le volle mai fare questa consolazione.
Onde vedendo li suoi compagni il desiderio di santa Chiara, dissono a santo Francesco: «Padre, a noi non pare che questa rigidità sia secondo la carità divina, che suora Chiara, vergine così santa, a Dio diletta tu non esaudisca in così piccola cosa, come è mangiare teco e spezialmente considerando ch’ella per le tue predicazioni abbandonò le ricchezze e le pompe del mondo. E di vero, s’ella ti domandasse maggiore grazia che questa non è, sì la doveresti fare alla tua pianta spirituale».
Allora santo Francesco rispuose: «Pare a voi ch’io la debba esaudire?».
Rispondono li compagni: «Padre, si degna cosa è che tu le faccia questa grazia e consolazione».
Disse allora santo Francesco: «Da poi che pare a voi, pare anche a me. Ma acciò ch’ella sia più consolata, io voglio che questo mangiare si faccia in Santa Maria degli Agnoli, imperò ch’ella è stata lungo tempo rinchiusa in santo Damiano, sicché le gioverà di vedere il luogo di santa Maria, dov’ella fu tonduta e fatta isposa di Gesù Cristo; ed ivi mangeremo insieme al nome di Dio».
Venendo adunque il dì ordinato a ciò, santa Chiara escì del monistero con una compagna, accompagnata di compagni di santo Francesco, e venne a Santa Maria degli Agnoli. E salutata divotamente la Vergine Maria dinanzi al suo altare, dov’ella era stata tonduta e velata, sì la menorono vedendo il luogo, infino a tanto che fu ora da desinare.
E in questo mezzo santo Francesco fece apparecchiare la mensa in sulla piana terra, siccome era usato di fare. E fatta l’ora di desinare si pongono a sedere insieme santo Francesco e santa Chiara, e uno delli compagni di santo Francesco e la compagna di santa Chiara, e poi tutti gli altri compagni s’acconciarono alla mensa umilmente.
E per la prima vivanda santo Francesco cominciò a parlare di Dio sì soavemente, sì altamente, maravigliosamente, che discendendo sopra di loro l’abbondanza della divina grazia, tutti furono in Dio ratti.
E stando così ratti con gli occhi e con le mani levate in cielo, gli uomini da Sciesi e da Bettona e que’ della contrada dintorno, vedeano che Santa Maria degli Agnoli e tutto il luogo e la selva ch’era allora allato al luogo, ardeano fortemente, e parea che fosse un fuoco grande che occupava la chiesa e ’l luogo e la selva insieme.
Per la qual cosa gli Ascesani con gran fretta corsono laggiù per ispegnere il fuoco, credendo veramente ch’ogni cosa ardesse. Ma giugnendo al luogo e non trovando ardere nulla, entrarono dentro e trovarono santo Francesco con santa Chiara con tutta la loro compagnia ratti in Dio per contemplazione e sedere intorno a quella mensa umile. Di che essi certamente compresono che, quello era stato fuoco divino e non materiale, il quale Iddio avea fatto apparire miracolosamente, a dimostrare e significare il fuoco de divino amore, del quale ardeano le anime di questi santi frati e sante monache; onde si partirono con grande consolazione nel cuore loro e con santa edificazione.
Poi, dopo grande spazio tornando in sé santo Francesco e santa Chiara insieme con li altri, e sentendosi bene confortati del cibo spirituale, poco si curarono del cibo corporale.
E così compiuto quel benedetto disinare, santa Chiara bene accompagnata si ritornò a Santo Damiano.
Di che le suore veggendola ebbono grande allegrezza; però ch’elle temeano che santo Francesco non l’avesse mandata a reggere qualche altro monisterio, siccome egli avea già mandata suora Agnese, santa sua sirocchia, abbadessa a reggere il monisterio di Monticelli di Firenze; e santo Francesco alcuna volta avea detto a santa Chiara: «Apparecchiati, se bisognasse ch’io ti mandassi in alcuno luogo»; ed ella come figliuola di santa obbidienza avea risposto: «Padre, io sono sempre apparecchiata ad andare dovunque voi mi manderete». E però le suore sì si rallegrarono fortemente, quando la riebbono; e santa Chiara rimase d’allora innanzi molto consolata.
A laude di Gesù Cristo e del poverello Francesco. Amen.
* Fonte: I fioretti di San Francesco (Capitolo quindicesimo). Anonimo XIV secolo (Wikisource)
Sul tema, nel sito, si cfr.:
DONNE E TEOLOGIA: MARIA MADDALENA.
FLS
Caro Papa Francesco.
Finché è ancora in tempo, per favore cambi il titolo della nuova encliclica. *
Quel ’Fratelli’ (senza sorelle) non si può usare nel 2020.
Lei ci ha insegnato il peso delle parole.
Il titolo si mangerà il contenuto.
L’altro nome di Francesco è Chiara.
(Luigino Bruni - Twitter, 23 settembre 2020).
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IL PRIMOGENITO TRA MOLTI FRATELLI E LA COSTITUZIONE DOGMATICA DELL’IMPERO SU CUI NON TRAMONTA MAI IL SOLE...*
1. La gioia della verità (Veritatis gaudium) esprime il desiderio struggente che rende inquieto il cuore di ogni uomo fin quando non incontra, non abita e non condivide con tutti la Luce di Dio[1]. La verità, infatti, non è un’idea astratta, ma è Gesù, il Verbo di Dio in cui è la Vita che è la Luce degli uomini (cfr. Gv 1,4), il Figlio di Dio che è insieme il Figlio dell’uomo. Egli soltanto, «rivelando il mistero del Padre e del suo amore, rivela l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione»[2].
Nell’incontro con Lui, il Vivente (cfr Ap 1,18) e il Primogenito tra molti fratelli (cfr Rm 8,29), il cuore dell’uomo sperimenta già sin d’ora, nel chiaroscuro della storia, la luce e la festa senza più tramonto dell’unione con Dio e dell’unità coi fratelli e le sorelle nella casa comune del creato di cui godrà senza fine nella piena comunione con Dio. Nella preghiera di Gesù al Padre: «perché tutti siano uno, come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi» (Gv 17,21) è racchiuso il segreto della gioia che Gesù ci vuole comunicare in pienezza (cfr 15,11) da parte del Padre col dono dello Spirito Santo: Spirito di verità e di amore, di libertà, di giustizia e di unità. [:::] "(Costituzione Apostolica «Veritatis gaudium» di Papa Francesco circa le Università e le Facoltà ecclesiastiche, 29.01.2018. Proemio)
*
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
L’EREDE: IL PESO DEI PADRI (ATEI E DEVOTI). UN’EREDITA’ ANCORA PENSATA ALL’OMBRA DELL’"UOMO SUPREMO" E DEL "MAGGIORASCATO".
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Mediterraneo contesto del pensiero di pace.
Il Papa a Napoli, per la teologia che serve
di Stefania Falasca (Avvenire, giovedì 20 giugno 2019)
«La teologia dopo “Veritatis gaudium” nel contesto del Mediterraneo» è il titolo del convegno internazionale promosso dalla Pontificia Facoltà teologica dell’Italia meridionale-Sezione San Luigi di Napoli. L’incontro che si è aperto giovedì verrà concluso venerdì mattina alle 12 da un intervento di papa Francesco. Al suo arrivo ad attenderlo, il Papa troverà, tra gli altri, il cardinale Crescenzio Sepe, arcivescovo di Napoli e Gran cancelliere della Facoltà; il decano della Facoltà padre Pino Di Luccio e gli altri responsabili, il vescovo di Nola, Francesco Marino in rappresentanza dei presuli della Campania, e il gesuita Joaquin Barrero Diaz, assistente regionale per l’Europa del Sud. A Napoli sarà presente anche il presidente della Cei, cardinale Gualtiero Bassetti.
A Napoli, per la teologia che serve: quella del contesto. Che è quella che parte "dal basso" e non si stacca dalla vita concreta con tutte le sue contraddizioni, le sue tensioni e indaga i segni dei tempi per cogliere l’attualità della Parola di Dio, appunto, nel contesto in cui viviamo. Per capire e studiare i problemi che investono l’umanità e insieme proporre risoluzioni. E in questo caso, a Napoli, il contesto è il Mediterraneo, culla di dialogo e scambi e battaglie e oggi soprattutto teatro di conflitti. È per questa teologia che venerdì, nella partenopea collina di Posillipo, papa Francesco busserà alla porta della Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale - che ha dato corpo a un convegno di due giorni sulla nuova frontiera del Mare Nostrum a partire dalla Veritatis gaudium - per una riflessione conclusiva.
Il tema della sua relazione, "La teologia dopo Veritatis gaudium nel contesto del Mediterraneo" sarà così una messa a punto di una prospettiva e una spinta d’eccezione a un percorso indicato.
Il Papa ha voluto scegliere il luogo di questo contesto proprio per rilanciare e dare forma e contenuto pratici alla riforma teologica che quasi un anno e mezzo fa ha promulgato con la pubblicazione della costituzione apostolica destinata alle università e facoltà teologiche ecclesiastiche.
Nel proemio della Veritats gaudium, queste, infatti, non sono solo chiamate a offrire percorsi di formazione qualificata dei presbiteri, delle persone di vita consacrata e dei laici impegnati, ma «costituiscono una sorta di provvidenziale laboratorio culturale in cui la Chiesa fa esercizio dell’interpretazione performativa della realtà che scaturisce dall’evento di Gesù Cristo e che si nutre dei doni della sapienza e della scienza di cui lo Spirito Santo arricchisce in varie forme tutto il Popolo di Dio: dal sensus fidei fidelium al magistero dei pastori, dal carisma dei profeti a quello dei dottori e dei teologi».
Un «provvidenziale laboratorio culturale», insomma, nella visione del Papa, che porta a concepire anche le facoltà teologiche come le definiva Ivan Illich, academic inn, nel senso di una convergenza di studium e convivium. Un luogo privilegiato di servizio dove, l’intreccio fruttuoso delle conversazioni, può diventare l’autentico tessuto vitale e scientifico se anche il centro visibile e spaziale dell’università viene aperto nella consapevolezza che il modo migliore per dialogare non è solo quello di parlare e discutere, «ma quello di fare qualcosa insieme».
«È giunto ora il momento - ha scritto ancora Francesco nel proemio - in cui questo ricco patrimonio di approfondimenti e di indirizzi, verificato e arricchito per così dire "sul campo" dal perseverante impegno di mediazione culturale e sociale del Vangelo messo in atto dal popolo di Dio nei diversi ambiti continentali e in dialogo con le diverse culture, confluisca nell’imprimere agli studi ecclesiastici quel rinnovamento sapiente e coraggioso che è richiesto dalla trasformazione missionaria di una Chiesa "in uscita"».
Per il Papa il rinnovamento della teologia non può che passare dall’ascolto e dall’osservazione attenta di tutte quelle esperienze che il popolo di Dio già sta facendo e in cui sta avvenendo una sintesi tra le diverse culture delle persone e proprio nell’ascolto di queste esperienze, in cui il Vangelo tocca davvero il vissuto umano, si troveranno i criteri, le prospettive, gli impulsi che ci aiuteranno a rinnovare la teologia.
«Far precedere la partecipazione al convegno con una visita tra i terremotati di Camerino forse indica proprio questo», sintetizza il decano gesuita Pino Di Luccio, docente di teologia biblica. Quella della sua Facoltà, è una teologia "in contesto" nella direzione della riforma delineata da papa Bergoglio nella Veritatis gaudium che si distingue per l’attitudine al dialogo con le culture, per l’orientamento inter e trans-disciplinare, per le competenze nelle varie discipline del sapere, e per l’apertura e la conoscenza delle altre religioni.
La sezione San Luigi della Facoltà dal 2016 promuove iniziative all’insegna della convivenza, dell’interculturalità e del dialogo con i musulmani e gli ebrei, anch’essi tra i relatori del convegno cominciato giovedì.
A tema c’è anche il documento di Abu Dhabi. L’insieme di Paesi, attraversati dal Mediterraneo e uniti dal dialogo di due uomini che si incontrano, è simbolo e inizio di un nuovo periodo interreligioso per una via di fratellanza nel Mediterraneo. -Del resto nel documento che febbraio il grande imam di al-Azhar Ahmad al-Tayyeb ha firmato assieme a papa Francesco si chiede che questo diventi oggetto di ricerca e di riflessione in tutte le scuole, nelle università e negli istituti di educazione e di formazione, «al fine di contribuire a creare nuove generazioni che portino il bene e la pace e difendano ovunque il diritto degli oppressi e degli ultimi». E certamente non mancherà, in questo contesto, di essere menzionato dal Papa.
Catechesi sugli Atti degli Apostoli: 3. «Lingue come di fuoco» (At 2,3). La Pentecoste e la dynamis dello Spirito che infiamma la parola umana e la rende Vangelo *
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Cinquanta giorni dopo la Pasqua, in quel cenacolo che è ormai la loro casa e dove la presenza di Maria, madre del Signore, è l’elemento di coesione, gli Apostoli vivono un evento che supera le loro aspettative. Riuniti in preghiera - la preghiera è il “polmone” che dà respiro ai discepoli di tutti i tempi; senza preghiera non si può essere discepolo di Gesù; senza preghiera noi non possiamo essere cristiani! È l’aria, è il polmone della vita cristiana -, vengono sorpresi dall’irruzione di Dio. Si tratta di un’irruzione che non tollera il chiuso: spalanca le porte attraverso la forza di un vento che ricorda la ruah, il soffio primordiale, e compie la promessa della “forza” fatta dal Risorto prima del suo congedo (cfr At 1,8). Giunge all’improvviso, dall’alto, «un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano» (At 2,2).
Al vento poi si aggiunge il fuoco che richiama il roveto ardente e il Sinai col dono delle dieci parole (cfr Es 19,16-19). Nella tradizione biblica il fuoco accompagna la manifestazione di Dio. Nel fuoco Dio consegna la sua parola viva ed energica (cfr Eb 4,12) che apre al futuro; il fuoco esprime simbolicamente la sua opera di scaldare, illuminare e saggiare i cuori, la sua cura nel provare la resistenza delle opere umane, nel purificarle e rivitalizzarle. Mentre al Sinai si ode la voce di Dio, a Gerusalemme, nella festa di Pentecoste, a parlare è Pietro, la roccia su cui Cristo ha scelto di edificare la sua Chiesa. La sua parola, debole e capace persino di rinnegare il Signore, attraversata dal fuoco dello Spirito acquista forza, diventa capace di trafiggere i cuori e di muovere alla conversione. Dio infatti sceglie ciò che nel mondo è debole per confondere i forti (cfr 1Cor 1,27).
La Chiesa nasce quindi dal fuoco dell’amore e da un “incendio” che divampa a Pentecoste e che manifesta la forza della Parola del Risorto intrisa di Spirito Santo. L’Alleanza nuova e definitiva è fondata non più su una legge scritta su tavole di pietra, ma sull’azione dello Spirito di Dio che fa nuove tutte le cose e si incide in cuori di carne.
La parola degli Apostoli si impregna dello Spirito del Risorto e diventa una parola nuova, diversa, che però si può comprendere, quasi fosse tradotta simultaneamente in tutte le lingue: infatti «ciascuno li udiva parlare nella propria lingua» (At 2,6). Si tratta del linguaggio della verità e dell’amore, che è la lingua universale: anche gli analfabeti possono capirla. Il linguaggio della verità e dell’amore lo capiscono tutti. Se tu vai con la verità del tuo cuore, con la sincerità, e vai con amore, tutti ti capiranno. Anche se non puoi parlare, ma con una carezza, che sia veritiera e amorevole.
Lo Spirito Santo non solo si manifesta mediante una sinfonia di suoni che unisce e compone armonicamente le diversità ma si presenta come il direttore d’orchestra che fa suonare le partiture delle lodi per le «grandi opere» di Dio. Lo Spirito santo è l’artefice della comunione, è l’artista della riconciliazione che sa rimuovere le barriere tra giudei e greci, tra schiavi e liberi, per farne un solo corpo. Egli edifica la comunità dei credenti armonizzando l’unità del corpo e la molteplicità delle membra. Fa crescere la Chiesa aiutandola ad andare al di là dei limiti umani, dei peccati e di qualsiasi scandalo.
La meraviglia è tanta, e qualcuno si chiede se quegli uomini siano ubriachi. Allora Pietro interviene a nome di tutti gli Apostoli e rilegge quell’evento alla luce di Gioele 3, dove si annuncia una nuova effusione dello Spirito Santo. I seguaci di Gesù non sono ubriachi, ma vivono quella che Sant’Ambrogio definisce «la sobria ebbrezza dello Spirito», che accende in mezzo al popolo di Dio la profezia attraverso sogni e visioni. Questo dono profetico non è riservato solo ad alcuni, ma a tutti coloro che invocano il nome del Signore.
D’ora innanzi, da quel momento, lo Spirito di Dio muove i cuori ad accogliere la salvezza che passa attraverso una Persona, Gesù Cristo, Colui che gli uomini hanno inchiodato al legno della croce e che Dio ha risuscitato dai morti «liberandolo dai dolori della morte (At 2,24). È Lui che ha effuso quello Spirito che orchestra la polifonia di lodi e che tutti possono ascoltare. Come diceva Benedetto XVI, «la Pentecoste è questo: Gesù, e mediante Lui Dio stesso, viene a noi e ci attira dentro di sé» (Omelia, 3 giugno 2006). Lo Spirito opera l’attrazione divina: Dio ci seduce con il suo Amore e così ci coinvolge, per muovere la storia e avviare processi attraverso i quali filtra la vita nuova. Solo lo Spirito di Dio infatti ha il potere di umanizzare e fraternizzare ogni contesto, a partire da coloro che lo accolgono.
Chiediamo al Signore di farci sperimentare una nuova Pentecoste, che dilati i nostri cuori e sintonizzi i nostri sentimenti con quelli di Cristo, così che annunciamo senza vergogna la sua parola trasformante e testimoniamo la potenza dell’amore che richiama alla vita tutto ciò che incontra.
* PAPA FRANCESCO
UDIENZA GENERALE
Piazza San Pietro
Mercoledì, 19 giugno 2019 (ripresa parziale).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI").
I "DUE CRISTIANESIMI" E LA PROPRIA FACOLTA’ DI GIUDIZIO. "Perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?" (Luca 12:54-59). Una nota di Antonio Thellung, da"mosaico di pace"
Federico La Sala
FRANCESCO E CHIARA A SANTA MARIA DEGLI ANGELI, UN FUOCO GRANDE.... *
Il filosofo Todisco.
La strada di san Bonaventura per la felicità
A colloquio col filosofo Todisco autore di un saggio sul santo francescano: «Riconoscere come lui che tutto è dono spinge a condividere la vita, a sperimentare la nostra gioia in quella dell’altro»
di Antonio Giuliano (Avvenire, mercoledì 16 maggio 2018)
È inutile nasconderlo. Dentro di noi c’è un desiderio mai sazio di felicità. L’uomo di ogni tempo ha fatto i conti con questo bisogno incalzante che puntualmente riemerge. Nessuna gioia materiale riesce ad appagarlo. Non a caso anche un animo profondo come Giacomo Leopardi si interrogava spesso: «Che cos’è dunque, la felicità? E se la felicità non esiste che cos’è dunque la vita?». Una questione essenziale oggi spesso banalizzata o fraintesa nell’era dei social. Occorre uno sguardo più elevato, anche perché riguarda il destino stesso della nostra esistenza: sentirsi nelle mani di un Padre è diverso dalla prospettiva di essere frutto del caso e finire nel nulla. È questo il percorso tracciato anche da Orlando Todisco, frate minore conventuale, in un ponderato volume filosofico: Stare bene al mondo. L’arte di essere felici secondo san Bonaventura (Porziuncola, pagine 230, euro 18). Docente e autore di numerosi saggi sulla metafisica medievale, Todisco propone un cammino controcorrente, ispirato alle lezioni di un grande mistico e dottore della Chiesa, tra i primi seguaci di Francesco d’Assisi. Quel Giovanni Fidanza, nato a Bagnoregio (Viterbo) nel 1217, a cui da bambino il Poverello guarendolo avrebbe predetto «buona ventura» (da cui fra Bonaventura).
In che cosa si distingue la felicità secondo san Bonaventura da quella intesa oggi?
«Se per Bonaventura è un modo più o meno stabile di stare al mondo, la felicità oggi è l’incrocio di eventi favorevoli, che accadono e scompaiono con grande velocità; più che un saper vivere è l’improvvisa insorgenza di emozioni colte nella loro immediatezza. Questo perché la pupilla dell’occhio moderno è di carattere possessivo, quasi si venga al mondo per prendere e farsi valere».
Come si è arrivati a questo sguardo distorto?
«Abbiamo perso la concezione secondo cui il mondo è un dono e noi siamo chiamati ad abbellirlo, non a depredarlo. Bonaventura ci pone davanti all’alternativa: o il fascino dell’essere come dono, da accogliere e vivere donandolo a propria volta, o la rivendicazione dell’essere come diritto. Eppure nessuno viene al mondo da sé. Il che implica, anzitutto, il riconoscimento che l’altro viene prima di me, colui cioè (Dio, il singolo, la comunità) che mi ha chiamato gratuitamente all’essere. L’egoismo, come misconoscimento del primato dell’altro, è l’idolatria della menzogna».
La consapevolezza di sentirsi amati genera la felicità che però non è tale se non è condivisa.
«Non solo non si viene da sé, ma neppure si può vivere senza il supporto dell’altro. La coscienza della propria auto-insufficienza accompagna l’intera avventura. Ma non è motivo di umiliazione, perché l’altro che mi ama, mi vuole creativo, non suddito. La potenza del dono sta nel suscitare in colui che lo riceve il desiderio di donare a propria volta secondo la logica del dono, che è logica circolare».
Tutti i filosofi hanno cercato la felicità. Ma quale il loro limite secondo Bonaventura?
«Ciò che conta per i filosofi è il sapere, non l’essere Bonaventura, rilevando che Dio non è, ma si dona, espressione suprema della logica oblativa, fa emergere quella dimensione espansiva che evita l’idolatria del sapere e spinge a condividere la vita e dunque a cercare la propria felicità nella felicità dell’altro, perché altrimenti è solo una maschera, più o meno dissimulata, del proprio egoismo».
Chi sono nel concreto gli uomini “oblativi”?
«La logica oblativa matura là dove è in atto il passaggio dall’ “essere-come-diritto” all’ “essere-come-dono”. E non è forse questa l’ispirazione dei missionari, delle famiglie, dove ognuno è padrone e servo, come dell’immenso panorama del volontariato?».
In che cosa è più evidente il francescanesimo di Bonaventura?
«Intuendo la pericolosità del primato della ragione e dunque della filosofia - questo il senso della diffidenza di Francesco per il sapere - che avrebbe fatto crescere il nostro potere ma impoverito l’orizzonte, Bonaventura ha aperto un’altra strada, affermando che le cose sono opera della benevolenza di Dio. Ben diverso è lo scenario della filosofia occidentale, secondo cui il mondo è come una sfinge da interrogare, una minaccia da scon- giurare o una miniera di risorse da sfruttare. È questo il cuore della proposta di Bonaventura: l’amore oblativo, anima dell’alleanza tra Dio e l’uomo oggettivata nel mondo come dono, da accogliere e custodire».
Bonaventura, generale dell’Ordine francescano per diciassette anni, è anche l’autore della prima biografia ufficiale su san Francesco. Ma oggi viene accusato di aver tradito l’immagine storica del Poverello.
«È vero che nel Capitolo generale di Parigi del 1266 ordinò di eliminare tutti gli scritti relativi a Francesco. Ma con l’esplicito obiettivo di impedire il consolidamento dell’immagine del santo teorizzata da Gioacchino da Fiore come se fosse un rivoluzionario politico, un contestatore e un sovversivo dell’ordine ecclesiale, sociale o istituzionale. Bonaventura, ha riscritto la biografia di Francesco, ma senza tradirne i tratti essenziali. La Leggenda Maggiore è un’opera politica, propria di un teologo che ama sopra ogni cosa la comunione della famiglia francescana con la gerarchia, con il clero e l’autorità accademica».
«Per san Bonaventura il destino ultimo dell’uomo è amare Dio, l’incontrarsi ed unirsi del suo e del nostro amore. Questa è per lui la definizione più adeguata della nostra felicità». È quanto ha scritto papa Benedetto XVI, un grande ammiratore del santo francescano.
«Uno dei motivi di questo fascino è costituito dalla “razionalità allargata” di Bonaventura, grazie a cui viene superata la separazione tra ciò che è divino e ciò che è umano, ciò che è eterno e ciò che è temporale, propria di una certa epistemologia occidentale. Per il santo non si possono isolare tra i di loro i rami del sapere. Le grandi interrogazioni e i conseguenti orizzonti di luce sorgono solo quando si associano le conoscenze delle singole discipline. Nel caso del loro isolamento si cade inevitabilmente in errore, come è capitato ai sommi filosofi, Aristotele e Platone, autori di grandi filosofie ma prive della coscienza dell’essere via per forme ulteriori di sapere. Vale anche per la teologia se non oltrepassa se stessa in direzione della santità. Il problema della scienza non è solo teoretico. Non è sufficiente sapere quanto è buono il Signore, occorre gustare tale bontà, vivendola».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
GIOACCHINO DA FIORE, DANTE, E LA "GRANDE RUOTA DEL CARRO" DI EZECHIELE - LA "CHARITAS". Alcune pagine dalla «Concordia Novi ac Veteris Testamenti» e dalla "Monarchia", con note.
MEMORIA, STORIA, E FILOLOGIA. L’AMORE NON E’ LO ZIMBELLO DEL TEMPO. Il ’cattolicesimo’ è finito...
GIOACCHINO DA FIORE, LA SORPRENDENTE “CARITÀ”, E IL DRAMMA DEL CATTOLICESIMO ATEO E DEVOTO.
GIOACCHINO DA FIORE INVITA BENEDETTO XVI AD APRIRE PORTE E FINESTRE IN VATICANO. La Chiesa, il bunker di Papa Ratzinger, e lo Spirito di Gioacchino.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Il sogno di una Terra Santa «serafica» in Umbria
di Franco Cardini (Avvenire, 4 agosto 2016)
La celebre indulgenza plenaria di Santa Maria degli Angeli in Assisi, o della Porziuncola - il piccolo oratorio caro a Francesco che oggi è inglobato nell’immensa basilica barocca sotto quella che Giosué Carducci chiamò «la cupola bella del Vignola» -, è molto cara alla devozione popolare ma vanta una tradizione storico- filologica tra le più tormentate: e la recente mostra Il Perdono d’Assisi. Storia, agiografia ed erudizione destinata a celebrarne l’ottavo centenario ne dà conto - come testimonia il catalogo curato da Stefano Brufani (Spoleto, Medioevo Francescano, 2016) - con pacata, spietata acribìa storica e filologica.
In effetti, la tradizione secondo la quale nel 1216 papa Onorio III avrebbe concesso a Francesco un’allora inusitata indulgenza plenaria - l’unico esempio di questo tipo ad essa precedente è la celebre indulgenza per l’Iter hierosolymitanum, la Crociata che risalirebbe al 1095 ma che i Pontefici successivi hanno regolarmente confermato - non risulta attestata da alcun documento coevo. Tra 1279 e 1285 il teologo provenzale Pietro di Giovanni Olivi dedicava al tema un’attenta quaestio nella quale ammetteva che, al riguardo, sussisteva una straordinaria incertezza all’interno dell’Ordine e che molti Frati Minori non esitavano ad affermare che non esisteva alcun privilegio confortato da bulla pontificia che ne assicurasse l’autenticità.
Ma Pietro di Giovanni era una presenza assai “chiacchierata” nell’Ordine a causa delle sue posizioni teologiche. Alcuni decenni più tardi il cronista francescano Francesco Venimbeni da Fabriano, che sarebbe scomparso nel 1322, non esitava nelle sue memorie a parlare del 1216 come data sicura della concessione. La que- stione si trascinò comunque per i successivi sei secoli: e in occasione del VII centenario, nel 1916, padre Egidio Maria Giusto non poteva tacere - proprio nella prima nota dell’articolo che apriva la rivista L’Oriente serafico - che annalisti ed eruditi, francescani e no, erano straordinariamente discordi quanto alla data d’avvio della tradizione.
Comunque fosse, la memoria minoritica del documento è affidata alla summa di Francesco di Bartolo d’Assisi: da lì. Attraverso compendi, versioni anche in idioma volgare e manifesti vari si giunse al Liber e all’edizione a stampa, uscita nel 1470 a Trevi e prima opera minoritica mai uscita dai torchi messi a punto dal grande Gutenberg. Sul Perdono si continuò peraltro a discutere, alimentando l’ampio contenzioso esistente tra i Minori di Santa Maria degli Angeli e i Conventuali del Sacro Convento.
Certo, un problema di fondo sul piano storico si pone subito. Onorio III era succeduto a Innocenzo III, che nel 1215 con il Concilio Lateranense IV si era fatto araldo e garante di una Crociata che ormai - problematicamente riuscita nel 1099 e quindi sempre fallita, ben tre volte di seguito nell’arco di poco più di un secolo, sotto la guida dei principi secolari - si configurava come una delle principali causae della Chiesa, insieme con quella (eterna?) della sua reformatio. Per Innocenzo, l’Iter hierosolymitanum aveva un vero e proprio valore “pasquale” - e se n’era ricordato appunto nel suo sermone di apertura del Concilio -, il senso di un nuovo Esodo: la riconquista della Terra Santa, ormai da quasi trent’anni ricaduta nelle mani degli infedeli, avrebbe aperto nella storia della cristianità un’era nuova alla quale il Pontefice assegnava un autentico valore escatologico.
Vero è che Innocenzo era sceso nel sepolcro pochi mesi dopo aver pronunziato quel sermone: ma la memoria della Chiesa intera era satura del suo magistero, che Onorio III s’impegnava a proseguire. E difatti una nuova Crociata, agli ordini del legato apostolico cardinal Pelagio Galvani, si sarebbe mossa non troppi mesi più tardi per raggiungere il delta del Nilo, secondo una scelta tattico- strategica ch’era parsa geniale (si pensava che il sultano ayyubide al-Malik al-Kamil, che governava l’Egitto e custodiva Gerusalemme, avrebbe volentieri ceduto la Città Santa ai cristiani pur di non compromettere i ricchi affari dei porti nilotici). Com’è noto, a quella Crociata prese parte anche Francesco, i cui fratelli si trovavano già in Terra Santa.
Ma, proprio per questo motivo, è verosimile e credibile che Onorio concedesse appunto alla vigilia della partenza di un nuovo esercito crociato un’indulgenza simile a quella che, dal punto di vista religioso, costituiva la principale ragione di partecipazione all’impresa, ma diversa e alternativa nello scopo? Si può concepire che, mentre la Chiesa chiamava alle armi, essa accordasse un simile vantaggio spirituale a chi avesse compiuto un pellegrinaggio a non troppe decine di miglia da Roma, nella bella valle spoletina?
Tuttavia, post eventum, collegare l’indulgenza della Porziuncola a quegli anni, e proprio a Francesco alla vigilia di partire per l’Oriente, poteva sembrare un’occasione troppo affascinante. E spiritualmente troppo significativa. Era in gioco l’affermazione di Assisi come Terra Sancta seraphica, la translatio della sacralità da Gerusalemme ai luoghi nei quali l’alter Christus aveva vissuto la sua Passione. Il Liber di Francesco di Bartolo, l’inventio dell’Indulgenza rientrano in questa strategia legittimatrice. Forse la storia parla un linguaggio un po’ diverso rispetto alla tradizione. Forse non è né giusto né opportuno né possibile mettere a tacere l’autorevole ancorché scomoda voce di Pietro di Giovanni Olivi.
Fin qui la storia documentaria. Che ha le sue ragioni e che nessuno può permettersi di ignorare. D’altronde la tradizione, come è stato spesso dimostrato, conosce a sua volta strade difficili e pur esse stesse praticabili verso la verità. Teniamoci stretti all’una e all’altra: confidiamo nella ragione e nella scienza, rispettiamo e approfondiamo la tradizione.
Dio e marketing
Francesco prima di Jobs
Furono i francescani del Medioevo a inventare la politica aziendale adottata oggi dai giganti globali
diALESSANDRO BARBERO (La Stampa, 06.09.2016)
Immaginiamo una grande organizzazione multinazionale, conosciuta in tutto il mondo, fondata grazie allo slancio visionario di un giovane fondatore carismatico, che è diventato un mito già da vivo e ancor più dopo la morte; un’organizzazione riconoscibile anche visivamente per le sue scelte di comunicazione e per il look inconfondibile che la caratterizza.
Sto parlando della Apple e di Steve Jobs? No, sto parlando di san Francesco e dell’ordine francescano. Le analogie tra gli ordini religiosi del Medioevo e le grandi aziende odierne sono così vistose che viene da chiedersi se le strategie e il linguaggio delle multinazionali non si siano ispirati consapevolmente a quell’esperienza.
Oggi non c’è documento di marketing o manuale di comunicazione aziendale che non impieghi a ogni riga le parole vision e mission, che rivelano immediatamente la loro appartenenza al linguaggio dei frati e dei monaci. E d’altra parte, perché le aziende non dovrebbero ispirarsi a un modello di tale successo?
Dieci anni dopo che Francesco ebbe l’intuizione di fondare il suo ordine, i francescani erano già alcune migliaia, il che vuol dire che erano quasi raddoppiati ogni anno; per l’esattezza, si è calcolato un tasso di crescita dell’80% annuo. La conquista di nuovi mercati era gestita con campagne mirate: nati in Italia Centrale, dopo un po’ i francescani decidono di espandersi a Nord, e mandano apposite task force in Lombardia e in Germania, affidate a frati che sanno predicare nelle lingue straniere, «in lombardico et in theutonico».
Nel 1219 Francesco decide di mandare un gruppo di frati in Francia, per diffondere l’Ordine anche in quel regno; ven t’anni dopo sono già fondati qualcosa come 72 conventi.
Non stupisce che Francesco, a un certo punto, abbia aperto gli occhi e si sia accorto di aver creato un mostro: era a capo di una multinazionale, lui che voleva andare in giro scalzo con un gruppetto di amici, parlando di Gesù alla gente e scaricando casse al mercato per mantenersi. Negli ultimi anni di vita Francesco si dimise dalla guida dell’ordine, creando grossissimi problemi ai suoi successori, perché per l’immagine dell’organizzazione e la motivazione dei membri il mito del fondatore è essenziale.
Fra il Novecento e il Duemila i grandi fondatori di aziende, gli Henry Ford, i Bill Gates, gli Steve Jobs sono stati mitizzati in vita, e sono diventati delle leggende dopo la morte, grazie anche all’invenzione di quel peculiare genere letterario, la biografia autorizzata, erede diretto dell’agiografia medievale.
Il caso di Steve Jobs conferma che i visionari del Medioevo avevano ragione quando insistevano sull’importanza del look. La biografia autorizzata di Walter Isaacson ci svela che non era certo un caso se Jobs vestiva sempre uguale, jeans blu senza cintura e maglioncino nero a collo alto. Più volte il fondatore di Apple propose che tutti i dipendenti dell’azienda si vestissero allo stesso modo, ma i lavoratori non apprezzavano l’idea, e Jobs dovette accontentarsi di vestirsi lui così: nell’armadio aveva un centinaio di dolcevita neri, tutti uguali, e previde correttamente che gli sarebbero bastati per tutta la vita.
Francesco, invece, riuscì a imporre ai frati di vestirsi tutti allo stesso modo, con un saio bigio e un cappuccio a punta, da contadino; ma dopo la sua morte i francescani ebbero dei sai larghi e comodi, di ottima stoffa, e il cappuccio diventò ampio e arrotondato, come voleva la moda.
Grazie alle tecnologie moderne gli storici dell’arte hanno scoperto che diverse tavole col ritratto di San Francesco sono state modificate dopo la sua morte, cancellando l’odiato cappuccio a punta e sostituendolo con un cappuccio da giovanotto elegante.
Tutti sapevano che l’immediata riconoscibilità era un ingrediente del successo. Quando il monastero di Cîteaux cominciò a fare concorrenza a quello di Cluny, i cistercensi scoprirono che nella regola benedettina non stava scritto da nessuna parte di che colore doveva essere l’abito; per tradizione era nero, ma loro si vestirono di bianco, perché la gente doveva vedere la differenza.
Il mantello bianco era anche la prerogativa dei Templari, e quando un ordine concorrente, i Teutonici, volle adottarlo, i templari protestarono col papa, perché impedisse quella concorrenza sleale: il copyright era loro! Poi gli ordini militari ebbero il problema, comune a tante aziende, di una crisi di mercato che ridusse la domanda.
Dopo la perdita della Terrasanta e la fine delle crociate non c’era più un gran bisogno di monaci guerrieri. C’erano ben tre ordini militari, i Templari, gli Ospedalieri e i Teutonici, e sempre più voci si levavano contro questi enti inutili, che per la cristianità rappresentavano un passivo netto. Gli ordini reagirono presentando un progetto di fusione: così, argomentò il Gran Maestro del Tempio, si realizzeranno dei grossi risparmi, dove prima c’erano tre poltrone ne rimarrà una sola.
Ma l’antitrust intervenne: i sovrani europei fecero sapere al papa che non avevano nessuna voglia di trovarsi fra i piedi una multinazionale monopolistica e strapotente .
Alla fine, com’è noto, Filippo il Bello risolse a modo suo il problema della ridondanza dei templari; ma i loro rivali , gli Ospedalieri , esistono ancora, col nome di Ordine di Malta. E a questo proposito, ci sono due organizzazioni che recentemente hanno lanciato un progetto chiamato Vision 2050.
Sono progetti che non hanno niente in comune, ma sono stati chiamati nello stesso modo per caso da manager che condividono lo stesso tipo di linguaggio.
Una è il Wbcsd, organizzazione che riunisce circa 200 multinazionali , e che col progetto Vision 2000 si propone di guidare la « global business community» verso un futuro sostenibile. L’altra è appunto l’Ordine di Malta, che col progetto Vision 2000 si propone di reclutare giovani e finanziare iniziative fino alla metà del secolo. Così una potentissima associazione di multinazionali, fondata nel 1992, con sede a Ginevra, e l’Ordine di Malta, il vecchio concorrente dei Templari, che nel suo sito ufficiale dichiara di essere in attività dal 1048, usano lo stesso linguaggio ; ed è molto difficile decidere chi è che sta imitando l’altro.
Ermes Ronchi: VORREI UNA CHIESA CON GLI STESSI SOGNI DI DIO
C’è chi ormai lo chiama “il predicatore del Papa”. A tu per tu con il religioso che ha tenuto gli esercizi di Quaresima alla Curia romana. Ora un libro ne raccoglie le dieci meditazioni.
«Quando l’ho incontrato, la prima cosa che gli ho detto è stata: “Papa Francesco, posso abbracciarla?”. Mi ha risposto con un sorriso». I friulani dovrebbero essere schivi e riservati per natura, almeno così si dice. Eppure, a padre Ermes Ronchi, di Francesco è rimasto impresso l’abbraccio. «Appena potevo lo abbracciavo, ne ho proprio approfittato», dice ridendo, e aggiunge: «Papa Francesco è un uomo amico della vita, un uomo sereno e pacificato che emana benessere, è un vero piacere stargli vicino».
Sacerdote dell’ordine dei Servi di Maria, 69 anni, padre Ermes è un volto e una penna noti al grande pubblico. Per molti anni ha condotto il commento al Vangelo della domenica nella trasmissione A Sua immagine su Raiuno. Su Avvenire cura una rubrica di commento al Vangelo ogni giovedì. Lo scorso marzo, dopo una telefonata inaspettata di papa Francesco, ha guidato gli esercizi spirituali di Quaresima per la Curia romana. Le dieci meditazioni proposte in quell’occasione ora escono raccolte in un libro della San Paolo, intitolato Le nude domande del Vangelo.
LE DOMANDE DELLA VITA
«Ho scelto come filo conduttore degli incontri con il Papa dieci domande del Vangelo, che ne contiene ben 220, una messe sterminata!», spiega padre Ermes. «Era la tecnica di comunicazione preferita di Gesù, insieme alle parabole. Le sue erano le domande semplici: “Cosa cerchi?” o “Perché piangi?”. Domande della vita, che ti lasciano disarmato, perché ti costringono a tirar fuori qualcosa di nuovo dentro di te».
Da molto tempo padre Ermes è uno che ama le domande più delle risposte. Lo ha imparato innanzitutto da padre Giovanni Vannucci, anch’egli frate dei Servi di Maria, che incontrò a 18 anni mentre studiava al liceo con l’intenzione di diventare frate. «Non si nutriva di teologia cattedratica, ma ci invitava a cercare Dio nel mondo, negli altri». A padre Ermes cambiò la vita.
«Con gli anni ho capito che le risposte non vengono subito», dice a distanza di tanto tempo. «Le domande lavorano in un altro modo: bisogna lasciarle scendere dentro di sé, farle agire, hanno una gestazione dentro di noi, crescono fino a che trovano una risposta. Bisogna amarle, le domande, come dice il grande poeta Rainer Maria Rilke, custodirle, coltivarle, più tardi daranno il frutto della risposta». Oggi il luogo in cui padre Ermes scrive, vive e prega è la comunità dei Servi di Maria della basilica di San Carlo al Corso a Milano, di cui è parroco. La stessa dove visse e operò un altro famoso confratello, padre David Maria Turoldo, «poeta, profeta, disturbatore delle coscienze, uomo di fede, uomo di Dio, amico di tutti gli uomini», lo definì il cardinale Carlo Maria Martini. «Anche lui era un profeta degli ultimi, di chi è vittima dell’ingiustizia, di coloro che sono dimenticati da tutti. Con Francesco si sarebbero subito trovati, e abbracciati».
COME UN DONNA INCINTA
Per il ritiro del Papa, padre Ermes ha scelto un altro filo conduttore: la figura di Maria, partendo proprio da un’invocazione di padre Turoldo: “Vergine, se tu non riappari anche Dio sarà triste”. «Il riferimento non era alle apparizioni mariane ma alla necessità che Maria entri nell’anima, nella fede, dentro il nostro modo di vivere», spiega. «Ho parlato anche delle virtù “umane” di Maria, donna innamorata di normalità che ha sperimentato tutto lo spessore della sua femminilità, che prima di essere Regina del cielo ha mangiato la polvere di questa nostra povera terra. Siamo abituati a vedere la Madonna posta in alto, inarrivabile, irraggiungibile. Io ho voluto immaginarla in cucina, in questo luogo un po’ nascosto che è il luogo della prossimità. Santa Teresa d’Avila in una lettera alle consorelle ha lasciato scritto che “Dio va fra le pentole, in cucina”».
Alla Curia romana padre Ermes ha parlato di «un Dio domestico, famigliare, che viene a casa e a tavola». E citando Origene, grande teologo del III secolo, ha detto che l’immagine più bella del cristiano è una donna incinta che passa nel mondo gravida di una vita nuova: «Dovremmo passare nel mondo gravidi di Dio, incinti di luce».
A CONTATTO CON LA REALTÀ
Il lavoro, il contatto con la realtà è stato importante nella vita di padre Ermes Ronchi. Appena ordinato sacerdote, nel 1973, decise di lasciare il convento classico per dar vita, insieme ad altri frati, a una comunità sperimentale nella provincia di Vicenza, dove ognuno si manteneva con il proprio lavoro. «Poi sentii il bisogno di studiare», racconta, «andai a Parigi e qui mi mantenni agli studi facendo i lavori più disparati, dal bracciante agricolo, allo spazzino comunale, all’insegnante di italiano». Un percorso che potrebbe essere utile a molti sacerdoti: «Di sicuro rivedere la formazione del clero è una priorità che la Chiesa deve affrontare, insieme al ruolo delle donne», dice.
«Alla Curia ho anche lanciato qualche provocazione, citando l’episodio del Vangelo in cui Gesù è a cena a casa di Simone e arriva la donna con il profumo di nardo. Gesù chiede: “Simone, la vedi questa donna?”. Alla Curia ho detto: “Se Gesù facesse questa domanda, qui e ora, se chiedesse: La vedi questa donna?”, io dovrei dire: No Signore, io qui non vedo nessuna donna”. E ho aggiunto: “Questo vi sembra normale?”. Ho fatto una pausa, perché volevo suscitare una domanda. Non ho risposte da dare, ma di certo il “governo” della Chiesa non è rappresentativo del mondo cristiano».
La più grande novità di papa Francesco? Per Ermes Ronchi è la conversione dello sguardo: «Da una Chiesa che si mette al centro, che gira i riflettori su se stessa, dove noi pastori vogliamo tirare la gente dentro, a una Chiesa che si mette a servizio dell’avvenire del mondo, della vita, della cultura, del domani, delle nuove generazioni. È questo il grande cambiamento che ci sta facendo fare papa Francesco. Ed è bello come trasmette il Vangelo. Non avvicina le persone come vasi vuoti da riempire, ma come fuochi da accendere. La fede non si genera, si propaga attraverso questo calore. Se il caffè bolle, il profumo si sente nella stanza. Ma se non bolle, non si sente niente!».
IL LIBRO
IL PROFUMO DELLA VITA IN DIECI MEDITAZIONI
«Alle volte pensiamo che il sogno sia una fantasia, come dipingere il cielo di blu. Eh no, il sogno è un’altra cosa. Ci vuole coraggio per sognare, il coraggio che hanno avuto i santi». A dirlo è stato Francesco, alla fine degli esercizi di Quaresima predicati da padre Ronchi. Il commento e ringraziamento del Papa è in appendice a Le domande del Vangelo (San Paolo), che raccoglie le riflessioni proposte dal frate servita. Al termine degli incontri il Papa ha “azzardato” un invito: «Ma io mi domando: cosa accadrebbe in Curia se tutti noi ci permettessimo di sognare un po’ di più? Credo che dovremmo chiamare i vigili del fuoco...!».
Il libro uscirà la prossima settimana con Credere a 9,90 euro. Ordinazioni contattando il n. 02.48027575, vpc@stpauls.it, o sul sito www.edicolasanpaolo.it.
(Fonte: Credere - Testo di Emanuela Citterio )
Chiara Frugoni, ma quello di Giotto non è Francesco
Da Einaudi un ponderso volume sul «messaggio nascosto negli affreschi della Basilica Superiore di Assisi». Sulla base della biografia di Bonaventura la Chiesa mitigò la lezione francescana e orientò l’iconografia del ciclo assisiate: questa la chiave di lettura di Chiara Frugoni
di Marco Mascolo (il manifesto - Alias, 27.12.2015)
La Basilica di San Francesco di Assisi, grandioso complesso cultuale che custodisce alcune delle testimonianze più alte di tutta l’arte occidentale, suscita da molto tempo attenzioni mirate da parte di studiosi di vario tipo, dagli storici dell’arte agli storici tout court.
Le tracce del conflitto che, sin da quando san Francesco era ancora in vita, cominciò a dilaniare il nuovo Ordine si possono ancora ritrovare nella divisione fra le due chiese: la Superiore, destinata a ospitare i Capitoli generali dell’Ordine e i fedeli, votata quindi a un ruolo più ufficiale e più pubblico rispetto a quella Inferiore, con la sua atmosfera raccolta e adatta alla preghiera dei pellegrini. Il problema dell’appropriazione e dell’ufficializzazione di un messaggio tanto dirompente come quello del Poverello di Assisi avrebbe trovato una delle sue espressioni più alte proprio nei metri di superfici affrescate della Basilica Superiore.
Molto più delle circolari papali, dei trattati vòlti a interpretare la vicenda di Francesco o delle biografie del santo, le immagini ebbero un ruolo straordinario nell’affermare e stabilire una sola, univoca immagine del santo.
Ora, in questa sua recente fatica, Chiara Frugoni affronta e dipana proprio questi problemi. Sin dal titolo, Quale Francesco? Il messaggio nascosto negli affreschi della Basilica superiore ad Assisi (Einaudi, pp. 612, 222 illustrazioni, euro 80,00), appare chiaro lo scopo del ponderoso volume: quale fu il Francesco che si volle promuovere dalle pareti della Basilica assisiate? Il pauperista, ascetico frate che predicava la rinuncia ai beni terreni e tentava di reimpostare i rapporti tra la Chiesa di Roma e i fedeli? O un Francesco il cui messaggio era mitigato e in certo senso ‘addolcito’ rispetto al rigorismo iniziale, capace allora di essere assorbito all’interno di quella stessa Chiesa?
La studiosa si era già concentrata, nel suo Francesco e l’invenzione delle stimmate (Einaudi, 1993), sulle vicende che portarono la Chiesa ad appropriarsi del messaggio, invero carico di elementi sovversivi tanto per l’autorità pontificia quanto per le sue gerarchie, dei frati dell’Ordine francescano. Un Ordine nuovo, la cui obbedienza era dovuta solo al sommo Pontefice e che usciva, quindi, dalla giurisdizione dei vescovi. Un dettaglio, questo, sul quale si scatenò una vera e propria battaglia a suon di testi e, come è facile aspettarsi, di immagini.
Questo processo, lungo e accidentato, vide una prima sostanziale vittoria da parte di Roma nell’affermare, anno 1266, la Legenda Maior di san Bonaventura come l’unica biografia ufficiale del santo, con la conseguente distruzione delle altre biografie di Francesco, in primis quella di Tommaso da Celano. Proprio sulla base di Bonaventura, infatti, si sarebbe elaborato il programma iconografico delle storie del santo nella Basilica superiore, adornando in affresco le pareti della navata nel registro più basso, e quindi più vicino allo sguardo dei fedeli.
Ma Chiara Frugoni, questa volta, non si limita alle storie di san Francesco, e sottopone a un’analisi serrata e scrupolosa tutta la decorazione della chiesa, a cominciare dalla zona dove ebbero inizio i lavori, nel transetto destro, sino alle opere del giovanissimo Giotto. La studiosa rintraccia i rimandi contenuti nell’impaginato degli affreschi, indaga le ragioni delle rispondenze delle scene dipinte fra le diverse pareti della navata.
La narrazione biblica procede dall’alto verso il basso: si inizia con la Creazione, si attraversano le storie dell’Antico e del Nuovo Testamento, infine si racconta la vicenda, trascorsa solamente cinquant’anni addietro, di san Francesco. Una storia, però, a quel punto bonificata e mitigata, perfettamente in linea con gli orientamenti e l’esegesi proposti da San Bonaventura nella sua Legenda Maior.
La struttura del libro della Frugoni, sostanzialmente bipartita, permette di avvicinare le pitture assisiati con una strumentazione non usuale. E moltissime sono le personalità che si avvicendano nelle pagine del libro - da dotti teologi come Gerardo da Borgo San Donnino o Guglielmo di Sant’Amore sino all’eretico Gioacchino da Fiore, senza trascurare papi e cardinali -, ma certo tra questi un ruolo specialissimo, opportunamente valorizzato, spetta a Girolamo d’Ascoli, già Ministro Generale dell’Ordine negli anni settanta del Duecento, poi divenuto papa come Niccolò IV, primo papa francescano ad ascendere al soglio di Pietro nel 1288.
Dopo cinque capitoli, che seguono l’evolvere delle profonde controversie scatenatesi dentro e fuori l’Ordine francescano - e basti citare il bel capitolo, il terzo del volume, sulle lotte per accaparrarsi le cattedre all’Università di Parigi tra regolari, ossia quei frati che seguivano una regola, come i francescani e i domenicani, e secolari, che al contrario dei primi non afferivano a un ordine -, l’autrice conduce il lettore dentro la Basilica, e con pazienza si dedica all’analisi delle singole scene, dei loro significati, del loro senso, alla luce proprio degli strumenti di cui ha dotato il lettore nei capitoli precedenti.
La necessità di ‘ammansire’ il messaggio del Poverello comportò l’attuazione da parte della Curia pontificia di una serie di contromisure che disinnescassero la forza, davvero incendiaria, del suo insegnamento. Il libro permette di calarsi all’interno di quei processi per cui le opere d’arte vengono investite di un potente messaggio ideologico e diventano foriere di valori ben precisi. Il corso del tempo e il passare dei secoli hanno edulcorato, come sempre accade, gli aspetti più scottanti di queste operazioni, ma le pagine della Frugoni, con i loro zoom storico-iconografici, permettono di recuperarle al vivo.
La studiosa avvalora poi la datazione ‘alta’ delle pitture murali, facendo rientrare l’impresa della decorazione della Basilica superiore negli ultimi anni del Duecento. Quest’idea, è bene sottolinearlo, era stata per primo sostenuta da Luciano Bellosi. Spetta a lui, infatti, rifacendosi a uno studio di Hans Belting del 1977 (che sarebbe davvero il caso di tradurre in italiano), l’aver ricondotto a questa datazione tutta la decorazione della Basilica, comprese le Storie di San Francesco, opera di Giotto. Bellosi aveva argomentato la sua intuizione con dovizia di particolari nel 1985 (tra l’altro, proprio quest’anno è stato ripubblicato il suo libro, La pecora di Giotto) e nel 1998.
Ma proprio su un problema di datazione, forse, ci sarebbe da discutere con le posizioni della Frugoni, quando, un po’ troppo nettamente, afferma che gli affreschi di Cimabue nella zona dell’abside e del transetto sarebbero opera degli anni settanta del Duecento, e non, come invece sostenuto da Bellosi, la cui posizione non è certo isolata, in anni non distanti dal papato di Niccolò IV, che regnò come pontefice dal 1288 al 1292.
Al di là di certi aspetti, però, sui quali sarà necessario tornare con la dovuta ampiezza, la Frugoni riconosce - e questo è un elemento-cardine - la forte unitarietà del programma iconografico, la spinta a dotare la chiesa madre dell’Ordine di una decorazione all’altezza del prestigio del luogo, in linea con le intuizioni e le ricerche di Bellosi.
Al netto di una lettura non facile ma di certo appassionante, il lettore accede a quel passato così lontano e può cogliere una serie di nuances che caratterizzavano il dibattito teologico di quegli anni attorno al problema, ad esempio, delle stigmate e di come trattare quel miracolo sbalorditivo concesso al solo san Francesco nella storia millenaria della Chiesa. Ma il dibattito assumeva anche connotati strettamente politici, in cui uno dei regnanti più potenti del mondo, il papa, vedeva fortemente minacciata la sua autorità da parte di Francesco e dei suoi seguaci.
Moltissime sono le illustrazioni che accompagnano il testo e che permettono di seguire, soprattutto per la seconda parte del volume, i ragionamenti di Chiara Frugoni. Un libro che dovrebbe far riflettere, anche, su temi assai attuali eppure così malamente trattati, come il potere che le immagini rivestono nel loro uso ideologicamente orientato.
Chiara Frugoni, medievista e massima esperta di s. Francesco, ha appena pubblicato "Quale Francesco"
Intervista a Chiara Frugoni
realizzata da Gianni Saporetti (*)
LA REGOLA CHE NON PASSO’
Perché le pareti della Basilica superiore rimasero bianche per quasi cinquant’anni? La sofferta vicenda della Regola francescana e la scoperta che i dipinti non si rifanno solo alla “Legenda Maior” di Bonaventura, ma anche alle conferenze parigine, dalle quali si può capire, ad esempio, perché nelle scene Francesco è scalzo e con la barba, mentre i suoi frati sono rasati, hanno i sandali e apparentemente non stanno affatto seguendo la Regola. Intervista a Chiara Frugoni.
Chiara Frugoni, medievista e massima esperta di san Francesco, ha appena pubblicato Quale Francesco, Il messaggio nascosto negli affreschi della Basilica di san Francesco d’Assisi, Einaudi, 2015. Possiamo partire dal titolo: perché "Quale Francesco”?
Sono partita da una constatazione. La Basilica di Assisi è una basilica doppia. In quella inferiore Francesco è stato trasportato nel 1230. Era la basilica per i pellegrini; su una parete c’è la storia della passione di Cristo, sull’altra una storia di Francesco molto semplice, solo cinque scene; i pellegrini andavano avanti vedendo questa specie di rispecchiamento tra la storia di Francesco e quella di Cristo, e arrivavano all’altare dove sapevano, anche se è invisibile, che sotto c’era la tomba di Francesco. Questi due programmi esistono ancora nella basilica inferiore, ma sono stati sventrati: siccome c’erano troppi pellegrini, hanno aperto le cappelle laterali per far circolare la gente. Quindi in genere adesso i pellegrini non vanno in quella inferiore, ma in quella superiore.
Quella superiore però non è mai stata concepita per i pellegrini, per i forestieri, era la grande aula per le riunioni ufficiali dove si celebravano i cosiddetti Capitoli, cioè dove le rappresentanze delle autorità francescane si riunivano, discutevano della regola, degli adattamenti, ecc. Addirittura nell’abside c’è ancora la cattedra papale, perché spesso queste riunioni erano presiedute dal Papa. Oggi chi entra è talmente assuefatto alla fama, alla bellezza, che praticamente non vede quello che vede, cioè non si accorge della complessità e della stranezza delle scelte delle storie francescane.
Ebbene, mi sono chiesta: se Francesco riposava nella basilica inferiore dal 1230, come mai fino almeno al 1277-’78, le pareti della basilica superiore sono rimaste bianche? E la mia risposta è che era molto difficile decidere "quale Francesco” raccontare. Il tema è un po’ questo.
Da un lato, infatti, c’erano Francesco e i suoi intendimenti, per cui i frati dovevano andare scalzi, mangiare solo per il giorno senza poter mettere da parte per il giorno dopo, lavorare con le loro mani, non potevano chiedere l’elemosina, dovevano essere sempre in viaggio, e se stavano fermi dovevano andare nei lebbrosari, niente cultura, per non insuperbire. Ecco, questo era Francesco: una scelta aperta ai laici e alle donne perché il progetto era partito su due binari paralleli.
Dall’altro lato bisogna però sapere che già alla fine della vita di Francesco i frati cominciano a protestare. Addirittura fanno pressioni affinché si dimetta perché non lo vogliono più.
Nel 1221, si raduna in Assisi il capitolo detto "delle stuoie”. È presente anche il cardinale Ugolino, futuro Papa Gregorio IX, che si fa appunto tramite dell’esortazione di alcuni compagni a scegliere una regola più tradizionale.
A quel punto Francesco si arrabbia moltissimo, e dice: "Io non voglio seguire né la regola di san Benedetto, né di san Francesco, né di sant’Agostino, io voglio seguire la regola che mi ha dato Dio. È il Vangelo la regola da seguire”.
Da quell’incontro esce così una regola molto bella, molto articolata, in cui per esempio si dice come i frati devono vivere fra i saraceni, mentre la Chiesa vuole la crociata; ma questa regola non passa. Non la vuole il Papa, ma non la vuole neanche la maggioranza dei frati. C’è proprio questa tragedia delle regole che Francesco continua a scrivere e che i frati dicono di aver perduto o che bocciano.
Si arriva così al 1223, tre anni prima della sua morte, in cui Francesco infine accetta una Regola molto più censurata, dove sono state eliminate praticamente quasi tutte le cose più nuove. Finalmente questa Regola viene approvata.
Per lui però è veramente uno smacco terribile. Tant’è vero che poco prima di morire scrive il suo testamento in cui recupera tutto quello che era stato cassato e dice: ... (continua)
Chiara d’Assisi. Povera ma libera
di Emanuele Trevi (Corriere della Sera, 20 novembre 2013)
È un «elogio della disobbedienza», più che una biografia vera e propria, il bel libro che Dacia Maraini ha dedicato a Chiara di Assisi. Ciò che preme alla scrittrice è la possibilità di meditare su una forza di volontà così tenace da sovvertire regole che possono apparire indiscutibili. Fino a un certo punto, la ribellione di Chiara è la diretta conseguenza di quella di san Francesco, il suo grande modello. Ma il «piccolo cuore illuminista» della Maraini, ammesso il fatto, segue un’altra pista, relegando il legame con Francesco sullo sfondo e considerando Chiara alla stregua di un’artista che imprime alla materia della sua vita una forma originale e inimitabile.
È un cammino verso la più totale libertà che si fonda su uno sconcertante paradosso: con la durezza della sua vita, Chiara costruisce una prigione ancora più dura di quella condivisa da ogni donna del tredicesimo secolo. Ma nella clausura di San Damiano, assieme alle sue sorelle, la sua esistenza è effettivamente inviolabile. Si allentano contemporaneamente i lacci oppressivi del maschile, e della proprietà. La povertà volontaria è definita da Chiara, con uno di quegli aggettivi talmente illuminanti da sostituire interi trattati, «altissima»: come il tappeto magico delle fiabe, consente di librarsi al di sopra della miseria di ciò che è stabilito, che subiamo senza sapere perché. Come per Francesco, per Chiara il significato profondo della povertà è la libertà di inventare il proprio destino.
Con questo libro, che per metà è un epistolario con una misteriosa interlocutrice, e per metà un diario, Dacia Maraini ha aggiunto un prezioso tassello al suo femminismo, tanto più convincente quanto più estraneo alle sirene dell’astrazione, filosofica o ancora peggio politica. Ragionando da scrittrice, è convinta che le idee, anche le più giuste, devono passare per la cruna dell’ago dell’individuo, e lì, in quel dato corpo e in quella mente, prendere quella particolare fisionomia individuale, quell’inconfondibile deformazione che le rende credibili.
È proprio questo, in fin dei conti, il contributo originale che la letteratura aggiunge agli altri saperi umani. E del resto, che senso avrebbe per la Maraini fare a gara con testi storici come quelli insuperabili di una Chiara Frugoni, o con le interpretazioni di filologi come Giovanni Pozzi ? Non c’è cosa più insopportabile del dilettantismo dello scrittore che, ammassato un certo numero di notizie dai libri «seri», si lancia in discutibili e inutili variazioni sul tema. Anche la Maraini, ovviamente, ha letto molti libri su Chiara e sui suoi tempi. Leggere, confessa a un certo punto, è la gioia suprema della sua vita. Ma se si azzarda ad affrontare un argomento come questo, non dimentica mai che il suo tipo di conoscenza del mondo si fonda sull’aleatorio, sull’imprevedibile, sull’intuizione momentanea.
Sarebbe sciocco pensare che la letteratura sia «superiore» ad altri tipi di discorso sul mondo. Più semplicemente, la letteratura è quel tipo di discorso all’interno del quale, parlando di Chiara d’Assisi, il fatto di sognarla ha lo stesso valore dei libri letti su di lei. E a proposito di questi ultimi, si sa che per uno scrittore anche la scelta delle sue fonti, quando si avventura nel buio del passato, deve essere condotta con un certo spirito di finezza.
Ebbene, nell’oceano bibliografico che si è trovata di fronte, la Maraini, ha scelto quello che più si addiceva al suo racconto. Si tratta degli atti del processo di canonizzazione iniziato all’indomani della morte di Chiara, avvenuta nel 1253. È un documento umanamente, oltre che storicamente, preziosissimo, perché contiene la testimonianza diretta delle monache che hanno vissuto giorno dopo giorno insieme alla santa, condividendone gli stenti e la felicità. Ma c’è di meglio: di queste testimonianze non si conosce l’originale latino, ma una bellissima traduzione del Cinquecento fatta da un’altra monaca di clausura. È una lingua bellissima, che più che italiana andrebbe semplicemente definita umbra.
La Maraini non si limita a citare estesamente questo sconosciuto capolavoro, ma lo intarsia nel suo proprio modo di scrivere con grandissima sapienza artistica, facendosi contaminare da quella lingua antica, aspra e infallibile nel nominare le cose, che siano i «sarmenti di vigna» che riempiono il pagliericcio di Chiara o l’anima «sensa macula» della santa, che si inoltra «nella clarità de la eterna luce».
Non c’è Francesco senza Chiara
di Sara Ventroni (l’Unità, 16 marzo 2013)
Finalmente è arrivato lo scandalo. si chiama Francesco. Non possiamo nascondere questo nome. Ci scappa di bocca come il respiro trattenuto dei bambini, con in mano un soffione in mezzo a un campo. Atei, vaticanisti, teologi, passanti: tutti sono in diritto di pronunciarlo ad alta voce. Francesco è una parola che si squaderna come una buona novella.
Lascia a bocca aperta dalla meraviglia. Come analfabeti sillabiamo, increduli, questo nome, pensando al patrono poverello di questo povero Paese. I commentatori si sono preparati. Hanno riassunto le notizie sul nuovo pontefice e ce le offrono come un bignami di conversazione: il primo papa gesuita, il primo papa non europeo, il primo papa dopo le dimissioni di Ratzinger, il primo a dire «buonasera», il primo a chiedere la preghiera dei fedeli, chinando umilmente il capo dalla loggia di San Pietro. Il primo papa a non chiamarsi papa. «Vescovo di Roma», così si è definito. Come un tra-le-righe rivolto alla missione della Chiesa Romana Cattolica Apostolica: conciliare, e collegiale.
Ma noi profani dobbiamo fermarci qui. Non possiamo andare oltre. Sappiamo solo che si parla per parole e per gesti.
Lasciamo da parte le dietrologie dei giornalisti argentini sul vescovo Bergoglio e la dittatura. Non ci lasciamo turbare da un uomo che si muove in metropolitana. Che per mantenersi agli studi, a vent’anni, faceva il buttafuori. Che amava il tango. Che è stato fidanzato. Che è del sagittario. Che tifa il San Lorenzo. Ci saranno le analisi degli esperti. Dei semiologi. Dei millantatori. Dei gossippari. Tutto sarà detto.
L’unica cosa da annunciare, adesso, è che abbiamo un papa Francesco. La novella è che tutti ne stiamo già partecipando, anche senza saperlo.
Abbiamo in testa, trasmessa da generazioni, la «Laus Creaturarum». È appesa in cucina. Oppure l’abbiamo imparata a memoria, come una ballata popolare, noi anime prese e noi anime perse. Fedeli o infedeli, non importa. Quel Cantico ci appartiene. Possiamo prenderlo. È dell’umanità, come la poesia di Dante.
Ora siamo spettatori e partecipi della Storia, ma non possiamo prevedere nulla, se non che la ventura di Francesco da Assisi verrà rinnovata. Con spirito gesuita. E con la complicità imparaticcia dei media, sempre un passo dietro la visione delle cose.
Siamo dentro un cortocircuito imprevisto: l’allegria dello «ioculator Domini», del giullare di Dio, poggia sul rigore. Questa è la novità. La comunicazione è semplice e ha carisma, ma si spoglia dell’ego. Parla a tutti, ma non per sé. Il momento è solenne, ma non austero. Il pensiero va alle creature: il fuoco, l’acqua, le stelle e noi. Non si tratta di un panteismo sgangherato.
Nessun melange spiritualistico postmoderno ci dirà più di quanto ancora dobbiamo imparare. Francesco, come nuovo Cristo, è stato integrale. E questo, agli occhi dei fedeli, lo rende inimitabile.
Agli occhi degli altri, Francesco è un esempio. Dopo essersi spogliato, materialmente e spiritualmente, di ogni dote, il giovane di Assisi ha messo il proprio talento al servizio degli ultimi. Intorno alla piccola chiesa della Porziuncola ha radunato apostoli.
La fama lo precedeva, come testimonia, di là dalla «Vita» Prima e Seconda di Tommaso da Celano, la «Leggenda dei Tre Compagni», scritta come un vangelo dai sodales frate Leone, frate Angelo e frate Rufino.
Ma Francesco non si è fatto guastare dalla fama. Ha lottato forsennatamente contro se stesso per non cedere alla tentazione di sentirsi qualcosa di più degli altri.
Andava tutto bene fino a che un altro scandalo non stava per annunciarsi: una ragazza di Assisi, cugina di Rufino, chiede di unirsi alla compagnia. Vuole vivere della stessa umiltà, della stessa povertà. Chiara di Favarone di Offreduccio scappa di casa la domenica delle palme, il 18 marzo 1212. Francesco decide di incontrarla. I due si parlano, si scrivono, si capiscono.
Dopo varie peregrinazioni, si trova un posto per le sorelle: la chiesa di San Damiano - la prima restaurata da Francesco, quando era ancora un giovane uomo confuso - quella dove il crocifisso rotto gli avrebbe per la prima volta parlato in modo chiaro: va’, e ripara la Chiesa. Francesco non ha aspettato. Ha capito il crocifisso e ha capito Chiara, la fuggitiva. Le ha tagliato i capelli.
Francesco non ha avuto paura. Ha intuito la potenza di un nuovo pensiero, di un nuovo mondo, di una nuova umanità. In povertà. In gioia. In umiltà. E in fratellanza. Per questo oggi non possiamo dire Francesco senza dire Chiara. E non possiamo dire Chiara senza dire Francesco. Fratello sole, sorella Luna.
Francesco, sì, ma con Chiara
di Anne Soupa
in “quebec.huffingtonpost.ca” del 14 marzo 2013 (traduzione: www.finesettimana.org)
La veloce elezione del papa porta con sé la sua dose di sorpresa e di domande a cui si muore dalla voglia di poter rispondere. Si ha un bel dire che il cardinal Bergoglio era il numero due dell’elezione del 2005, non era comunque tra i favoriti del 2013. Senza dubbio le caratteristiche abbastanza evidenti della sua personalità, grande rigore morale, ascesi, livello intellettuale elevato (gesuita) e forte orientamento a favore dei poveri, mostrano, a specchio, i bisogni urgenti a cui rispondere: ricentramento sull’essenziale, risanamento morale, capacità di discernimento.
Questa maniera di far adottare dai cardinali, questa convinzione che i disordini collettivi devono essere curati innanzitutto con l’esempio di uno solo la cui personalità, la cui esperienza, il cui ardore sono considerati determinanti, mi sembra assolutamente conforme alla grande tradizione della Chiesa e, andando oltre, alla corrente profetica della Bibbia. Il profeta è quella figura unica nella quale si gioca la conversione di tutti. Ora, oggi, è di una conversione gigantesca di cui ha bisogno la Chiesa. Il collegio dei cardinali ha voluto mostrare che l’esempio viene dall’alto.
La lezione mi pare chiara e potrebbe ispirare le politiche di ciascuno di noi, elettore, quando mette la sua scheda nell’urna: non sarebbe fruttuoso, in questi tempi di crisi, che l’esempio venga dai politici stessi? Perché il successo di una politica non viene solo dalla soluzione di un problema tecnico, per la quale basterebbero le competenze, ma anche della capacità di accogliere l’uomo nella sua interezza: non solo colui che guida, ma anche coloro che, solo se lui mostra l’esempio, lo seguiranno. La vera politica è l’arte di creare dei rapporti, non dimentichiamolo.
Spero quindi che questo papa sappia trascinare con sé molti fedeli nella conversione che intraprenderà. Allora, il problema sarà di non fare di questa figura emblematica il padre, il capo, l’idolo, bensì il fratello. Anche in questo, i pochi indizi che abbiamo già, sono chiari.
Questo papa si chiama Francesco, in riferimento al poverello di Assisi, il campione della fraternità, l’uomo che non ha mai voluto essere prete per non rischiare di creare la minima distanza coi suoi fratelli!
Se il nuovo papa riesce a restare l’uomo che incarna la conversione della Chiesa senza cadere nella trappola della “papolatria”, cosa che il suo primo messaggio fa pensare (non ha pronunciato la parola papa, ma quella di vescovo di Roma), avremo guadagnato qualcosa. Che cosa?
Forse l’inizio per la Chiesa cattolica di un migliore rapporto con il mondo, il rapporto della fraternità, di cui il vangelo è una inesauribile miniera, nel mondo aperto che è diventato quello in cui viviamo. Nessun dubbio anche che la scelta di un nome che non era ancora mai stato portato sia presagio di questa volontà di fare cose nuove, inedite.
In ogni caso, il riferimento francescano mi sembra di estrema ricchezza e si adatta al meglio alle realtà attuali. Francesco è un grande innovatore, un essere in ascolto dei bisogni nuovi del mondo del suo tempo. È anche il santo che non ha mai represso il suo essere profondo, ma lo ha unificato, accettando il male, la finitudine, il fallimento. Leonardo Boff, il teologo della Liberazione, opponeva il santo “perfetto” che combatteva le sue tendenze “cattive” per raggiungere la perfezione, il cui modello era Carlo Borromeo, a Francesco, modello del santo “unificato”, che accoglie tutti gli aspetti del suo essere e li mette al loro giusto posto.
Nella sensibilità francescana c’è un grande ascolto di se stesso. Sicuramente è ciò che ha fatto dire al cardinal Bergoglio, quando gli avevano proposto un incarico romano, nel 2001: “Per carità, in curia muoio!”
Bella prova di salute! Certamente un tale sussulto fa presagire l’estrema vigilanza che questo papa manifesterà nei confronti della curia. Ma non basterà che sia vigilante, occorrerà che non abbassi la guardia, perché la forza della curia è di durare, mentre i papi passano. La curia è una fenice che rinasce dalle proprie ceneri quando la si credeva morta. Basta un solo esempio: i titolari dei dicasteri non danno mai le dimissioni: muoiono con la loro carica.
Sicuramente le donne hanno qualcosa da guadagnare dal fatto che la curia venga governata, perché questo luogo è con tutta evidenza quello della massima paura nei loro confronti. Ma un altro indizio, ancor più simpatico, è a favore di una revisione profonda della concezione inaccettabile che prevale ancora a Roma sulle donne. Ancora una volta, si tratta del riferimento francescano.
L’amicizia di Francesco e di Chiara, nobile ragazza di Assisi che Francesco ha trascinato al suo seguito, è uno dei tesori del cristianesimo. Francesco ha manifestato verso Chiara una estrema delicatezza di sentimenti, una capacità di presenza straordinaria. Non c’è cristiano che non sia nutrito da questa amicizia, tanto essa va al limite dei sentimenti umani, tanto li lascia esprimere senza reprimerli.
Quindi, posso solo rallegrarmi dell’elezione di un papa non compromesso con la curia, armato per il discernimento, che si mette sui passi del Poverello d’Assisi, fratello prima di tutto; “neanche prete”. E, come donna, poiché lo sono, non posso che ripetere: Francesco sì, ma non senza Chiara!
La bomba americana
di Jérôme Anciberro
in “www.temoignagechretien.fr” del 6 luglio 2012 (traduzione: www.finesettimana.org)
Il Vaticano e la principale organizzazione di religiose cattoliche americana hanno iniziato un braccio di ferro, il cui esito potrebbe avere gravi conseguenze sulla vita religiosa. Tra i temi che Mons. Müller, il nuovo prefetto della Congregazione per la dottrina della fede (CGF) si troverà a trattare prioritariamente, quello della Leadership Conference of Women Religious (Conferenza delle religiose americane, LCWR), non è stata oggetto di grande attenzione da parte della stampa europea.
È l’esatto contrario di quanto avvenuto oltre Atlantico, dove i principali media, da CBS al New York Times, hanno ampiamente informato su un avvenimento che minaccia di far esplodere una gran parte della vita religiosa cattolica americana.
accuse infondate e un processo non trasparente
La LCWR, che conta circa 1500 membri che rappresentano circa l’80% delle 55 000 religiose cattoliche americane, si trova oggi in una situazione pericolosa derivante da un doppio controllo romano, condotto, da un lato, da parte della Congregazione per gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica (CIVCSVA) su tutti gli istituti religiosi femminili americani non di clausura e, dall’altro lato, dalla CDF, che ha fatto una “valutazione” dottrinale specifica della LCWR.
Dire che questa valutazione è stata accolta male, è poco: in un comunicato del 1° giugno, l’ufficio esecutivo della LCWR dichiarava che era stata avviata sulla base “di accuse infondate e di un processo imperfetto, non trasparente”. Il rapporto della CDF, precisa la LCWR, sarebbe stato inoltre “causa di sandalo e di dolore in tutte la comunità ecclesiale” e avrebbe accentuato “la polarizzazione” tra cattolici di sensibilità diverse.
Effettivamente, e contrariamente a molte azioni condotte dalla CDF, il grande pubblico americano - cattolico e non solo - ha reagito in maniera forte alla messa in discussione della LCWR. Il 12 giugno, le responsabili della LCWR hanno incontrato a Roma il cardinal Levada, prefetto della CDF a cui ora è succeduto Mons. Müller. In base ai comunicati dell’una e dell’altra parte, i dialoghi sono stati completi e diretti, ma difficili.
In un’intervista concessa al National Catholic Reporter, il cardinal Levada non ha esitato a parlare di un “dialogo tra sordi”, non escludendo una “decertificazione” canonica se le suore non si sottomettessero alle richieste del Vaticano (riscrittura degli statuti della LCWR, controllo prioritario degli interventi pubblici...).
dottrina cattolica
La LCWR è conosciuta per le sue posizioni aperte, sia in ambito sociale che nel suo rapporto con l’evoluzione dei costumi. La CDF le rimprovera di lasciare la parola, durante le sue assemblee annuali, a persone che intervengono esprimendo idee in contrasto con la dottrina cattolica, in particolare sulle questioni di morale sessuale (contraccezione, omosessualità), ma anche sulla questione dei ministeri.
La cosa non è nuova: nel 1979, la presidente della LCWR aveva già chiesto, in occasione della visita di Papa Giovanni Paolo II negli Stati Uniti, che le donne fossero considerate idonee a tutti i ministeri nella Chiesa.
Ogni anno, la LCWR assegna un premio ad una religiosa, il cui impegno riflette quello della LCWR in maniera particolarmente marcata. L’ultima “neo-laureata”, Carol Keehan, Figlia della Carità e presidente della Catholic Health Association (associazione cattolica per la salute), a cui sono associati circa 650 ospedali americani, si è risolutamente impegnata a favore della riforma dell’assicurazione sanitaria sostenuta da Barack Obama, mettendosi così in posizione diversa rispetto a quella dell’episcopato americano.
La LCWR è l’associazione ampiamente maggioritaria delle religiose americane, ma non è l’unica. Certe congregazioni sono affiliate al Council of Mayor Superiors of Women Religious (CMSWR), nata da una scissione della LCWR risalente agli anni ’90. Secondo vari studi, l’età media alla CMSWR, più tradizionale, sarebbe molto più bassa rispetto a quella constatata alla LCWR.
È quindi sulla base di un rinnovamento generazionale ed ideologico a rovescio - in quanto le più giovani sono le più legate ad una visione gerarchica e molto inquadrata della vita religiosa - che si svolge questo braccio di ferro, di cui si conoscerà l’esito solo in agosto, durante la riunione generale annuale della LCWR che dovrebbe allora far conoscere la sua risposta alle richieste del Vaticano
Chiara e Francesco soldati della povertà
Un nuovo studio della storica Frugoni dedicato ai santi di Assisi.
di Mariapia Veladiano (la Repubblica, 14 novembre 2011)
Per amore si torna ancora e poi ancora e poi di nuovo a frequentare la stessa persona, a ripercorrere luoghi di cui sappiamo colori e ombre, a riascoltare parole che potremmo ripetere a memoria più di una preghiera cara dell’infanzia, alla ricerca di quel nucleo di luce che promette ogni volta uno stupore diverso. Qualcosa di molto simile all’amore sembra portare Chiara Frugoni a regalarci ora un nuovo libro, tessuto con passione intorno a quella storia straordinaria che ha visto insieme San Francesco e Santa Chiara in un’avventura spirituale che non finisce di parlare alla nostra vita di uomini e donne. Storia di Chiara e Francesco, uscito in questi giorni da Einaudi, viene dopo una quantità di saggi, interventi, studi che Chiara Frugoni ha già dedicato sia a San Francesco e Santa Chiara, sia al "tempo del pressappoco" come ama chiamare nel testo il Medioevo, in cui un anno può anche essere quello prima o quello dopo, quasi un anticipo dell’unico tempo eterno che San Francesco sapeva essere la promessa di Dio al mondo.
E così con la spigliatezza che le arriva da una conoscenza meravigliosa di documenti, fatti, luoghi e persone, l’autrice segue le strade di Chiara e Francesco non ancora santi (ma per poco, saranno santi subito, entrambi due anni dopo la morte). Lui in spontanea e precocissima lotta contro i "chiusi pensieri di profitto e guadagni" del suo ambiente familiare, dentro un clima cittadino di pesante lotta fra la sua classe, quella degli homines populi, e la classe dei boni homines, nobili, potenti e inaccessibili, "da odiare ma anche da ammirare". E ancora segue Francesco dopo la battaglia di Collestrada, rinchiuso nell’atroce prigione di Perugia, circondato da feriti per i quali "la morte non riesce a venire". E poi nei molti scontri tremendi e necessari: con il padre, con i concittadini, con se stesso, in una tormenta di umanissimi slanci e abbandoni e ritorni, fino alla solitudine nella quale incontra insieme Dio e l’uomo. Dio per l’uomo.
E una nuova storia nasce, e nulla è più come prima, e Francesco, ora in buona compagnia del suo Signore, mostra con la sua bizzarra e mai vista comunità di laici e chierici e nobili e colti e illetterati, che il Vangelo può essere messo in pratica davvero. Intanto Chiara bambina cresce e le fonti dicono che prestissimo si interessò a quel che capitava intorno a Francesco, fino agli incontri con lui, alla vocazione, alla fuga e alla nascita della sua comunità a San Damiano. In tutto simile a quella di Francesco: povera, a servizio degli uomini, con la straordinaria novità delle sorores extra monasterium servientes, sorelle attive fra gli uomini e le donne del mondo, testimoni del Vangelo come i frati di Francesco, con la stessa libertà.
È libertà la parola che Chiara Frugoni ci consegna come sigla di questa storia. In una società costretta nella lotta per il potere e per il denaro i fratelli di Francesco e le sorelle di Chiara rifiutavano ogni onore, avevano in odio il potere, supplicavano il pontefice per conservare il "privilegio della povertà". Una purezza implacabile arrivava loro dal Vangelo e diventava volontà fermissima di costruire "un modello di comportamento che pacificamente si contrapponesse a quello in auge e che pacificamente lo scardinasse". Pacificamente, rinunciando anche alla violenza implicita in ogni giudizio, liberi anche dalle sante attese: "E nel Signore amali. E non pretendere che siano cristiani migliori", scrive Francesco a un ministro suo confratello turbato da chi lo accusava ingiustamente. Fu la stagione degli inizi, alleanza inimmaginabile fra terra e cielo. Prestissimo venne il tempo degli accomodamenti a cui la storia sempre obbliga.
Certo la lettura insieme rigorosa e combattente di Chiara Frugoni può fare nascere qualche critica, come accade sempre quando l’amore per una persona o una storia è condiviso con molti. Perché l’amore è spesso geloso.
È forse vero che l’esito della vicenda di Chiara, la clausura stretta decretata nel 1263 da Urbano IV, somiglia molto a un umano fallimento. Ma non sempre gli esiti diversi da quelli attesi sonfallimenti. Chi crede può ben riconoscere nella vita nascosta delle clarisse la potenza carsica di una beatitudine ugualmente profetica.
È invece difficile negare che la battaglia per la povertà sia stata un vero fallimento, visto lo scandalo che ancora oggi la ricchezza della chiesa rappresenta agli occhi del mondo. Eppure anche qui la fede salva dall’amarezza pur nella determinazione della verità da affermare. Ecco quel che scrive Santa Chiara ad Agnese di Boemia, a capo del monastero di Praga, a proposito della loro comune lotta con le autorità religiose per la difesa del privilegio di essere povere: "Con corsa spedita, passo leggero, piede sicuro, in modo che i tuoi passi non sollevino polvere, avanza sicura, gioiosa e vivace, sul sentiero di una pensosa felicità".
Chiostro con vista sulla foresta
di Paolo Griseri (a Repubblica, 9 settembre 2011)
Ronchamp (Francia) - È soprattutto importante esserci al tramonto. Quando se ne va l’ultimo gruppo di pellegrini e il sole filtra tra le foglie della foresta dei Vosgi, animando la collina di Bourlémont. In quel momento, davanti alla vetrata dell’accoglienza del convento, nasce il silenzio. E il silenzio incontra la luce. Non chiamatela magia: sarebbe irrispettoso per la profonda spiritualità laica che respira in questo luogo da quando Le Corbusier edificò la cappella di Notre Dame de Haut sulle macerie di un’antica devozione medievale.
L’incontro del silenzio e della luce è il contributo di Renzo Piano a quella spiritualità, 56 anni dopo. Nasce così il convento alla rovescia. Le clarisse si spogliano di secoli di vita reclusa, al buio, in monasteri dove la contemplazione andava a braccetto con la fuga dalla società, invisibili al mondo e anche a se stesse, nascoste da un grande burka sociale. Piano squarcia quel velo, edifica le celle sul fianco della collina e le chiude con una parete di vetro. Lascia che le monache contemplino il mondo. Con un colpo di follia stravolge la loro prospettiva, dalla grata alla vetrata. Brigitte de Sangly, la badessa delle clarisse di Ronchamp, sorride quando le si chiede un giudizio sulla polemica che ha preceduto la costruzione del convento: «Piano ha abbattuto idealmente il muro dei nostri chiostri, perché, come diceva santa Chiara, il nostro orizzonte è il mondo». Non è stato facile. Non per le suore, anzi. È stato più semplice intendersi con le clarisse che con l ’Accademia, con tutti quelli che nei decenni hanno trasformato Le Corbusier in un mostro sacro. In fondo le suore si sono mostrate più laiche degli architetti. La Fondazione Le Corbusier ha sollevato dubbi, sono nate raccolte di firme di chi pensa che il convento turberà l’equilibrio del luogo, c’è chi ha tirato fuori dai cassetti un’antica lettera dell’architetto svizzero contro qualsiasi progetto di costruzione vicino alla sua chiesa: "Lasciate Ronchamp così com’è".
Le Corbusier scriveva all’inizio degli anni Sessanta contro altri progetti di ampliamento ma quella frase è diventata il cavallo di battaglia anche per gli oppositori del convento. E poco importa se a proporre a Piano la realizzazione del progetto è stato proprio il figlio di quel ministro della ricostruzione che nel 1950 chiese a Le Corbusier di edificare la cappella. Ormai gli oppositori sembrano aver perso la partita. Ieri mattina, festa della natività di Maria, con il pellegrinaggio guidato dal vescovo di Besancon, la fraternità delle clarisse, 12 suore trasferite qui per occuparsi della chiesa in cima alla collina, ha preso definitivamente possesso delle celle. Non tutto il lavoro è finito. «Ma l’esperienza mi ha insegnato che a un certo punto bisogna segnare un’inizio, una data che faccia da spartiacque», dice Piano mentre passeggia al confine tra il convento e il cantiere. Per l’architetto genovese quella di Ronchamp è stata una sfida rischiosa: «Delle polemiche ho capito solo una parte ma ho imparato anche da quelle. In Francia c’è chi dice che non mi hanno ancora perdonato il Beaubourg». La prima regola per reggere il confronto con il mostro sacro dell ’architettura francese è stata quella di rendersi invisibili. Un esercizio di umiltà? «No, il rispetto dello spirito del luogo», risponde Piano. A lavoro finito di tutto il complesso si vedrà solo la campana. Il resto è costruito nel fianco della collina: vetro, cemento e legno d’ulivi centenari. «Per illustrare il progetto al ministero francese - racconta Piano - sono arrivato in riunione con un coltellino e ho praticato tre tagli su un foglio di carta. Poi ho sollevato i lembi e ho detto: "Signori il convento sarà realizzato sotto questi tagli"». Le suore vivranno in celle quadrate di meno di tre metri di lato: «È la dimostrazione che si può stare bene anche in uno spazio modesto», dice l ’architetto. In poco più di sette metri quadrati c’è anche un piccolo giardino d’inverno. E non ci si sente allo stretto. Soprattutto perché le antiche grate sono state sostituite dai profilati che reggono la vetrata affacciata sulla foresta: «Con il passare del tempo - è la promessa - le acacie torneranno a riprendersi il loro spazio avvicinandosi sempre più al vetro».
Da quelle celle il silenzio è a portata di mano: «Anche per un laico come me il silenzio è molto importante», dice l’architetto. E racconta dei suoi dialoghi con l’amico Claudio Abbado: «Per la musica il silenzio è essenziale. Recentemente Claudio ha concluso una sinfonia di Mahler prolungando una pausa proprio per far capire quanto sia importante ascoltare un’assenza di suono». E per un architetto? «In un certo senso progettare un convento come questo è un modo per fare silenzio, per prendere le distanze dal mondo dei grattacieli, dei campus, delle tante costruzioni vissute da migliaia di persone che mi è capitato di realizzare nella vita». Per suor Brigitte e le sue compagne il silenzio e la luce di Ronchamp saranno la loro nuova casa. Dopo sei secoli hanno lasciato l’antico convento di Besancon per salire sulla collina. Sono tornate a vivere nella luce per seguire santa Chiara.
San Francesco e il rogo falso
di Chiara Frugoni (Corriere della Sera, 21 maggio 2010)
Francesco voleva un’applicazione radicale del Vangelo e perciò predicò la pace e l’amore verso il prossimo, verso tutti, anche verso chi era di un’altra religione, come i musulmani. Durante la Quinta Crociata Francesco passò vari mesi in Egitto; tornato in Italia, dedicò un capitolo della regola del 1221 - cosa incredibile per quei tempi di continue guerre - su come i suoi frati dovessero vivere fra i musulmani: senza liti e senza dispute, in pace.
Ben diversamente invece fu rappresentato l’incontro del sultano in una delle scene della Basilica superiore di Assisi. Il santo ha lanciato una sfida ed è pronto ad entrare nel fuoco: è un dettaglio qui rappresentato per la prima volta, che accredita come già in atto quella che fu una mera proposta verbale di Francesco, così racconta il solo Bonaventura nella Legenda maior. Secondo il biografo le guardie musulmane avevano trattato malissimo Francesco, il quale però, giunto davanti al sultano, Malik-al-Kamil, ricevette un’accoglienza assai favorevole. Malik-al-Kamil ascoltava volentieri e ammirava il santo, gli aveva offerto doni a più riprese; gli chiedeva di rimanere presso di lui.
Di fronte a tante attestazioni di stima un giorno Francesco, «illuminato da un oracolo del cielo, gli disse: "Se tu col tuo popolo vuoi convertirti a Cristo, io resterò molto volentieri con voi. Se invece esiti ad abbandonare la fede di Maometto per la fede di Cristo, dà ordine di accendere un fuoco il più grande possibile: io con i tuoi sacerdoti entrerò nel fuoco e così almeno potrai conoscere quale fede, a ragion veduta, si deve ritenere più certa e più santa"». Il sultano però rispose di ritenere impossibile che gli sfidati accogliessero una simile proposta. Il santo si offrì allora di entrare da solo: se non fosse stato bruciato, ma fosse invece uscito illeso dalle fiamme, il sultano e il suo popolo si sarebbero dovuti convertire alla fede di Cristo.
Anche questa volta Malik-al-Kamil rispose di non potere accettare perché temeva una rivolta di tutti i sudditi. Non cessò però di provare enorme devozione per il santo, scongiurandolo di accettare innumerevoli doni, sempre fermamente respinti. Poi Francesco, preavvertito da una voce divina, vedendo che non poteva realizzare il martirio e che non faceva progressi nella conversione di quella gente, ritornò nei paesi cristiani. Questo il racconto di Bonaventura nella Legenda maior, destinato a diventare il punto di riferimento per le versioni pittoriche successive.
Bonaventura non volle raccontare quello che noi sappiamo da un altro frate, Giordano da Giano, e che cioè Francesco era stato costretto ad interrompere la sua missione e a rientrare precipitosamente in Italia perché la giovane fraternità stava per disgregarsi in mezzo a tensioni di ogni genere. Questi particolari infatti avrebbero gettato un’ombra sulla santità di Francesco e sull’ordine stesso, dato che poteva essere giudicato irresponsabile un simile viaggio da parte di un capo che lasciava senza guida i compagni. Il biografo perciò, avendo taciuto le ragioni del rientro del santo, mascherò quello che sembrava essere un fallimento, la mancata conversione dei musulmani, introducendo la sfida lanciata da Francesco, anche se l’ordalia come prova giudiziaria era stato proibita fin dal 1215 nel Concilio Laterano IV.
Nell’affresco, alle fiamme scoppiettanti che mai si accesero, si unisce l’umiliazione dei pavidi «sacerdoti» islamici in fuga, con una scritta che conferma sia la reale esistenza del grande fuoco sia l’interpretazione dell’incontro come una disputa, una sfida vinta ovviamente da Francesco con lo scorno e la sconfitta dei musulmani.
L’incontro con i musulmani, nell’affresco di Assisi, falsa doppiamente la realtà: quelle fiamme scoppiettanti che noi vediamo non si accesero mai. Francesco non voleva sconfiggere ed umiliare, come la Chiesa faceva in quel tempo con gli eretici o con quelli che professavano una diversa fede, ma convertire e persuadere con la forza di una condotta esemplare, con l’esempio, e in pace.
MEMORIA DI FRANCESCO D’ASSISI. "VA’, RIPARA LA MIA CASA"!!!
RESTITUIRE L’ANELLO DEL PESCATORE A GIUSEPPE (come già Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II).
Annuncio a Giuseppe
di Gianfranco Ravasi (Il Sole-24 Ore, 20 dicembre 2009)
La melodia di White Christmas può essere anche gradevole, ma il Natale nella sua genesi profonda non potrà mai essere "bianco" a livello etnico; eventualmente potrà esserlo solo a livello climatologico (ho anch’io in mente una Betlemme di molti anni fa tutta innevata). Fino a prova contraria, infatti, i protagonisti di quell’evento erano semiti e non certo ariani, la loro pelle era olivastra, i loro profili somatici erano simili a quelli degli arabi o degli israeliani nati nell’attuale Vicino Oriente.
Ebbene, all’interno di quella famiglia semita vorremmo ora mettere in primo piano colui che nella tradizione è rimasto quasi sempre sullo sfondo, sì, proprio il capofamiglia, Giuseppe, un nome chiaramente ebraico che significa «Dio aggiunga!» o «che egli raduni!». È un nome portato da altri sei personaggi biblici, tra i quali il più celebre è quel figlio di Giacobbe che fece fortuna in Egitto divenendo da schiavo viceré, così da trasformarsi secoli dopo nel protagonista del fluviale romanzo Giuseppe e i suoi fratelli di Thomas Mann.
La presenza del nostro Giuseppe, il padre legale e non naturale di Gesù, è nei Vangeli esile: affiora nella genealogia di Cristo; appare come il promesso sposo di Maria (Luca 1, 27), sarà menzionato durante la nascita di Gesù a Betlemme (Luca 2,4-5), farà qualche altra fugace apparizione nei primi giorni del neonato, acquisterà rilievo durante la vicenda di clandestino e migrante in Egitto, riemergerà dal silenzio anni dopo quando occhieggerà nelle parole di sua moglie, Maria, in occasione della "fuga" del figlio dodicenne nel tempio di Gerusalemme tra i dottori della Legge («tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo», Luca 2,48), e sarà ricordato con sarcasmo dai suoi concittadini di Nazaret, quando di fronte ai successi del figlio ironizzeranno: «Ma costui non è il figlio di Giuseppe..., il figlio del falegname?» (Luca 4, 22; Matteo 13, 55). Ci sono, però, due scene nelle quali Giuseppe è protagonista. Sono le uniche e riguardano proprio il Natale.
Rievochiamo la prima: è la cosiddetta «annunciazione a Giuseppe» ed è narrata dall’evangelista Matteo (1, 18-25). Leggiamo insieme: «Così fu generato Gesù Cristo: sua Madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta, per opera dello Spirito Santo. Giuseppe suo sposo, poiché era uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò di ripudiarla in segreto. Mentre però stava considerando queste cose, ecco, gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: "Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati". Tutto questo è avvenuto perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: "Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio: a lui sarà dato il nome di Emmanuele, che significa Dio con noi". Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa; senza che egli la conoscesse, ella diede alla luce un figlio ed egli lo chiamò Gesù».
Per capire il comportamento iniziale di Giuseppe nei confronti di Maria, dobbiamo entrare, almeno sommariamente, nel mondo delle usanze matrimoniali dell’antico Israele. Il matrimonio comprendeva due fasi ben definite. La prima - denominata qiddushin, cioè «consacrazione», perché la donna veniva «consacrata» al suo sposo - consisteva nel fidanzamento ufficiale tra il giovane e la ragazza che solitamente aveva dodici o tredici anni.
La ratifica di questo primo atto comportava una nuova situazione per la donna: pur continuando a vivere a casa sua all’incirca per un altro anno, essa era chiamata e considerata già «moglie» del suo futuro marito e per questo ogni infedeltà era ritenuta un adulterio. La seconda fase era chiamata nissu’in (dal verbo nasa’, ossia «sollevare, portare») in quanto ricordava il trasferimento processionale della sposa che veniva «portata» nella casa dello sposo, un avvenimento che fa da sfondo alla parabola di Gesù che ha per protagoniste le ancelle di un festoso corteo nuziale notturno (si veda Matteo 25, 1-13). Questo atto suggellava la seconda e definitiva tappa del matrimonio ebraico. Il racconto che abbiamo letto sopra si colloca, allora, nella prima fase, quella del fidanzamento-«consacrazione»: «Prima che andassero a vivere insieme [col trasferimento alla casa di Giuseppe], Maria si trovò incinta».
Giuseppe è di fronte a una scelta drammatica. Il libro biblico del Deuteronomio era chiaro e implacabile: «Se la giovane non è stata trovata in stato di verginità, allora la faranno uscire all’ingresso della casa del padre e la gente della sua città la lapiderà a morte, perché ha commesso un’infamia in Israele, disonorandosi in casa del padre» (22, 20-21). Nel giudaismo successivo, però, aveva preso strada un’altra norma più moderata, quella che imponeva il ripudio. Come si è spiegato, trattandosi già di una vera e propria «moglie», si doveva celebrare un divorzio ufficiale con tutte le conseguenze civili e penali per la donna. È curioso ricordare che a Murabba’at, nei pressi del Mar Morto, è venuto alla luce anni fa un atto di ripudio del 111 d.C., scritto in aramaico e riguardante due sposi che si chiamavano Maria e Giuseppe.
Ma ritorniamo a Giuseppe e alla sua decisione. Egli deve «ripudiare» Maria a causa della legge che lo obbliga a questo; essendo uomo «giusto», cioè obbediente alla legge dei padri, egli si mette su questa strada amara, ma, essendo uomo «giusto», che secondo il linguaggio biblico significa anche mite, misericordioso, buono, lo vuole fare nella forma più delicata e più attenta per lo donna. Sceglie la via «segreta», senza denunzia legale, senza processo e clamore, alla presenza dei soli due testimoni necessari per la validità dell’atto di divorzio, cioè la consegna del cosiddetto «libello di ripudio». Certo, la nostra sensibilità ci fa subite dire: che ne sarebbe stato di Maria? La risposta è purtroppo chiara e inequivocabile: sarebbe stata un’emarginata totale, rifiutata da tutti, accolta forse solo dal clan paterno assieme al figlio illegittimo che avrebbe generato. È nota a tutti, infatti, la triste situazione della donna nell’antico Vicine Oriente. Ma lasciamo da parte questa ipotesi irreale e ritorniamo a Giuseppe e al suo dramma interiore, per altro non lontano da quello vissuto da tante coppie di fidanzati.
La sua oscura tensione è, all’improvviso, squarciata da una luce: l’angelo nella Bibbia è per eccellenza il segno di una rivelazione divina come il sogno (se ne contano cinque nel Vangelo dell’infanzia di Gesù secondo Matteo) è il simbolo della comunicazione di un mistero. «Non temere di portare Maria a casa tua», completando così anche la seconda fase del matrimonio (nissu’in), dice l’angelo a Giuseppe.
Ed è qui che scatta la grande rivelazione del mistero che si sta compiendo in Maria: «Il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo». E questa la sorpresa straordinaria che dovrà sconvolgere la vita di Giuseppe, sorpresa molto più forte di quella di avere la propria donna incinta di un altro uomo. Si apre, allora, per Giuseppe una vita nuova e una missione unica. Egli, che è «figlio di Davide» (è l’unica volta nei Vangeli in cui questo titolo non viene applicato a Gesù), dovrà trasmettere la linea ereditaria davidica al figlio di Maria nella qualità di padre legale. Potremmo dire che, come Maria è colei per mezzo della quale Gesù nasce nel mondo come figlio di Dio, Giuseppe è colui per mezzo del quale Gesù nasce nella storia come figlio di Davide.
La paternità legale o «putativa» in Oriente era molto più normale di quanto possiamo immaginare. Esemplare è il caso del «levirato» (dal latino levir, cognato) così formulato nel Deuteronomio: «Quando uno dei fratelli di un clan morirà senza lasciare figli, la moglie del defunto verrà presa in moglie dal cognato; il primogenito che essa metterà al mondo, andrà sotto il nome del fratello morto perché il nome di questi non si estingua in Israele» (25, 5-6). In altre parole, il padre reale di questo figlio è il cognato, ma il padre legale resta il defunto che attribuisce al neonato tutti i diritti ereditari.
Come padre ufficiale di Gesù, Giuseppe esercita il diritto di imporre il nome riconoscendolo giuridicamente.
Nella Bibbia il nome è il compendio simbolico di una persona, è la sua carta d’identità: perciò, anche se si hanno delle eccezioni (è Eva a chiamare «Set» il suo secondo figlio), è il padre a dichiarare il nome del figlio e Giuseppe sa già che per il figlio di Maria c’è un nome preparato da Dio. «Gesù» è l’equivalente di Giosuè, e a livello di etimologia popolare e immediata significa «Il Signore salva», come è spiegato dall’angelo: «Egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati». Anche san Pietro in un suo discorso registrato dagli Atti degli Apostoli afferma: «In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti, sotto il cielo, altro nome dato agli uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati» (4,12). A un’analisi più filologica «Gesù» significa letteralmente «Il Signore aiuta» o «Il Signore dà la vittoria», un senso abbastanza vicino a quello tradizionale.
Nella narrazione di Matteo c’è un ultimo dato da decifrare. È nella frase finale, quella della nascita di Gesù, che letteralmente suona così: «Giuseppe prese con sé la sua sposa e non la conobbe prima che gli partorisse il figlio». Sappiamo che nella Bibbia il verbo «conoscere» è un eufemismo per alludere all’atto matrimoniale. Sulla frase per secoli si è accesa un’aspra discussione teologica riguardante la verginità perpetua di Maria e la presenza nei Vangeli dei cosiddetti «fratelli e sorelle di Gesù». In realtà il testo di Matteo nel suo tenore originale non affronta la questione, dal momento che in italiano, quando si dice che una cosa non succede «fino a» un certo tempo, si suppone di solito che abbia luogo dopo: Giuseppe non ha avuto rapporti con Maria fino alla nascita di Gesù, ma in seguito avrebbe potuto averli. In greco, invece, e nelle lingue semitiche si vuole mettere l’accento solo su ciò che avviene fino alla scadenza del «finché»: Giuseppe non ebbe rapporti con Maria, eppure nacque Gesù. Il tema fondamentale è, perciò, quello della concezione verginale di Maria. Il Cristo non nasce né da seme umano né da volere della carne, ma solo per lo Spirito di Dio che opera in Maria vergine. Corretta è allora la traduzione che ci propone la Bibbia ufficiale italiana da noi sopra adottata e che risuonerà anche nella liturgia natalizia: «Senza che Giuseppe la conoscesse, Maria partorì un figlio».
Parlavamo prima di due scene in cui Giuseppe è protagonista. Alla seconda - che abbiamo già avuto occasione di presentare in passato proprio su queste pagine - dedichiamo solo un cenno. La famiglia di Gesù si iscrive subito nel lungo elenco che giunge fino ai nostri giorni e che comprende i profughi, i clandestini, i migranti. Ecco, infatti, quando il bambino Gesù ha pochi mesi, Giuseppe in marcia con lui e con la sposa Maria attraverso il deserto di Giuda per riparare in Egitto, lontano dall’incubo del potere sanguinario del re Erode. Anche in questo caso siamo proprio agli antipodi di quel «Natale bianco» assurdamente prospettato da certe attuali ignoranze religiose e da isterie xenofobe. Il Natale cristiano ha, in verità, per protagonisti una famiglia di fuggiaschi e migranti con la loro storia di sventure. «Il cristianesimo - scriveva nei suoi quaderni il filosofo Wittgenstein - non è una dottrina, non è una teoria di ciò che è stato e sarà nell’anima umana, ma la descrizione di un evento reale nella vita dell’uomo».
Vorremmo, allora, far risuonare a suggello di questo «Natale di Giuseppe» le parole - forse un po’ oratorie e magniloquenti ma dalla sostanza inequivocabile - di uno scrittore "scandaloso" come Curzio Malaparte che in un articolo del Natale 1954 ammoniva: «Tra pochi giorni è Natale e già gli uomini si preparano alla suprema ipocrisia... Vorrei che il giorno di Natale il panettone diventasse carne dolente sotto il nostro coltello e il vino diventasse sangue e avessimo tutti per un istante l’orrore del mondo in bocca... Vorrei che la notte di Natale in tutte le chiese del mondo un povero prete si levasse gridando: Via da quella culla, ipocriti, bugiardi, andate a casa vostra a piangere sulle culle dei vostri figli. Se il mondo soffre è anche per colpa vostra, che non osate difendere la giustizia e la bontà e avete paura di essere cristiani fino in fondo. Via da questa culla, ipocriti! Questo bambino, che è nato per salvare il mondo, ha orrore di voi!».
l’inedito
Il santo d’Assisi fu rivoluzionario, anzitutto perché cambiò la vita religiosa; creò infatti il primo «istituto secolare», solo di laici.
Ma i tempi non erano maturi e la Chiesa lo trasformò in Ordine
Una lettura di Ezio Franceschini
San Francesco che contestatore
«Il Poverello contesta tutto: il padre, che disconosce; la società, che abbandona; gli istituti religiosi, che rispetta ma in cui non vuole entrare»
DI EZIO FRANCESCHINI (Avvenire, 30.09.2010)
Vediamolo, san Francesco, come contestatore. Badate che questo non faccio per una condiscendenza ai tempi. Negli ultimi anni anche le maggiori riviste francescane, abbandonato il tradizionalismo, si sono accorte che san Francesco era un contestatore, e i maggiori studiosi di san Francesco han cominciato a vederlo da questo punto di vista. Anzitutto fu un rivoluzionario, perché cambiò totalmente la vita religiosa, quale da secoli si intendeva, ed era. In realtà san Francesco voleva fondare, e fondò, un primo «istituto secolare».
All’inizio i suoi compagni primi erano laici; frate Leone, che fu l’unico sacerdote (ed era nello stesso tempo confessore e medico di san Francesco) venne più tardi. Ma l’intenzione di Francesco era veramente quella di fondare - diremmo oggi - un Istituto secolare. Il VII capitolo della Prima regola di san Francesco descrive alla lettera l’intenzione di san Francesco, e la conclusione non è che questa: raccogliere intorno a sé dei laici, laico egli stesso. Che cosa avvenne dopo?
Avvenne che i tempi non erano maturi - ci vorranno altri sette secoli prima che appaiano gli Istituti secolari - e allora la Chiesa, sapientemente, prese questa istituzione e la trasformò in un Ordine religioso; in un periodo di secca come quello in cui si trovava, essa, avendo bisogno di santi religiosi e di santi sacerdoti, come nei tempi antichi aveva trasformato il monachesimo - che era un fenomeno laico - in un fatto religioso, così trasformò questo istituto secolare fondato da san Francesco in un Ordine religioso: naturalmente con idee completamente diverse da quelle correnti, che erano quelle agostiniane e benedettine.
Che cosa contesta Francesco? Contesta tutto. Tutto, nulla escluso. Contesta la famiglia, che abbandona. Contesta il padre, che disconosce (e la storia ci dice che non ci fu più nessun rapporto fra padre naturale e figlio). Contesta la società, che lascia completamente. Contesta gli Ordini religiosi tradizionali, che rispetta, ma nei quali non vuole entrare («Non parlatemi di Agostino, di Benedetto», eccetera: qui sono nominati i due Ordini principali di monaci che esistevano ai suoi tempi fino dall’Alto Medioevo).
Allora cos’è che riconosce quest’uomo? Riconosce solo il sacerdote. Anche quando è cattivo, anche quando è perverso, anche quando è simoniaco, anche quando è macchiato di qualunque macchia... Perché? Perché egli solo distribuisce i sacramenti del Signore e in modo particolare l’Eucaristia. E nella violenta lotta che allora il laicato fedele - fedele! - faceva contro i preti simoniaci, Francesco è dalla parte dei preti. Riconosce i vescovi, che rispetta; il «signor Papa», a cui si inchina. E riconosce soprattutto Dio. Dio.
Si dà tutto a Dio. Tutto! Persona, tempo, azioni, pensiero. E qui è la differenza con gli altri uomini; anche con gli altri santi. Tutto, senza riservare niente a se stesso. Niente piani umani. Niente.
Deus meus et omnia: «Dio mio e mio tutto». Nei rapporti con i fratelli, vede solo Dio. Solo, solo Dio. Ora nessun altro santo ha fatto così. Gli altri santi hanno avuto più o meno pensieri umani, sia pure per far progredire l’azione di Dio fra gli uomini; hanno avuto una professione...
La professione di Francesco è quella di amare Dio e di far amare Dio: nient’altro. Diventa così conforme a Gesù Cristo come nessun altro. In una cosa sola non riuscì a imitare Gesù Cristo: nella morte; Gesù fu ucciso dai sacerdoti fedeli all’antica legge, perché era il primo rivoluzionario e il primo contestatore, mentre san Francesco ebbe sorte più benigna, visse fino a 44 anni e morì - dopo aver ricevuto le stimmate, «l’ultimo sigillo» - consunto dall’amore di Dio. Ora dobbiamo intenderci: leggendo la vita e le opere di lui, occorre tener presente ciò che è legato ai tempi, e quindi caduco, e ciò che è perenne. Bisogna trarre da san Francesco, cioè, tutto ciò ch’è utile a uomini del Duemila, uomini spaziali e dell’era atomica. Ciò che è utile, dobbiamo dirlo, è moltissimo.
Badate che di tanti santi si ricorda solo il nome, oggi. Dico anche santi importanti: san Benedetto Labre, san Vincenzo de’ Paoli, san Francesco da Paola, eccetera. Passiamo pure in rassegna il calendario dei santi: il novanta per cento ci sono ignoti. Perché? Perché hanno detto una parola per il loro tempo; la storia va avanti, continua, come una fiumana, e ogni periodo ha i suoi santi.
Hanno trasmesso agli uomini una parola del Vangelo, hanno trascinato all’amore di Dio gli uomini e le donne del loro tempo: del loro tempo. Passato questo, la loro funzione cessa. Francesco finora no. Finora no. Anche in lui, beninteso, una parte è legata al tempo, e questa cade; ma la parte maggiore resta.
IL PERSONAGGIO
Il rettore del Sessantotto cattolico
Ezio Franceschini (1906-1983) può essere ricordato sotto tanti aspetti: illustre studioso di latino medievale (fu il primo titolare di cattedra in Italia); patriota partecipante alla Resistenza in una rete per l’espatrio dei profughi; rettore della Cattolica dal 1965 al 1968, proprio nel pieno della contestazione; cristiano a tutto tondo che diresse a lungo l’Istituto secolare voluto da padre Gemelli. Ora «Vita e Pensiero» ne rende disponibili in 4 volumi le carte, col titolo «Il dono di povere parole. Orientamenti di vita spirituale» (pp. 1500, euro 60): appunti, conferenze, lettere e documenti che illuminano la biografia del professore, ma anche un po’ di Novecento cattolico italiano. Proponiamo qui la trascrizione di una lezione sul diletto san Francesco.