L’importanza di essere nessuno
Al neutro si sono dedicati studiosi come Weil e Kojève
La categoria di persona nella cultura occidentale
"Tutti coloro che si sono richiamati all’impersonale lo hanno fatto in nome della vita"
"Essere impersonali significa mostrarsi al di sopra di interessi privati"
di ANTONIO GNOLI *
Siamo tutti persone. Perbene e "permale". Distinte e opache. Intelligenti e ottuse. Siamo persone e perciò indossiamo una maschera. L’etimo di persona è appunto maschera. La persona vanta diritti, esprime identità. Siamo persone, oltre che corpi, individui, o soggetti. Se vogliamo distinguerci da una cosa o da un animale, diciamo persona. Usiamo una categoria che da lungo tempo è entrata nel lessico della politica, in quello della teologia, e soprattutto del diritto. Sia la sfera laica che quella religiosa (si pensi al cristianesimo) hanno fornito all’idea di persona un rilievo e un’importanza notevoli. Il problema per i laici e i cattolici - limitando la questione all’Italia - non è la persona, ma quando un’entità la diviene. Sembra insomma una nozione acquisita, tanto più certa in quanto alla persona sono riconducibili la ragionevolezza, la libertà, il buon senso. Che cosa è uno schiavo se non un individuo deprivato della sua persona? E un folle, non è stato spesso lasciato fuori dalla sfera della persona?
«Vede», mi dice Roberto Esposito, «se ci limitassimo all’aspetto edificante del concetto di persona, non capiremmo come mai, nonostante tutti gli sforzi argomentativi per difenderlo, non si sia venuti a capo della violazione dei diritti umani, delle guerre, delle illibertà e le insensatezze che avvolgono la vita umana». È anche su questa insoddisfazione che ha costruito un libretto denso e acuto dal titolo eloquente: Terza persona (Einaudi, pagg. 184, Euro 17).
Tra i filosofi che si dedicano alla riflessione sulla politica, Esposito si è scelto un osservatorio che a prima vista può apparire marginale, ma proprio per questo in grado di cogliere le novità che il discorso di idee può oggi offrire a chi non si accontenti della tradizionale nomenclatura concettuale. Si tratta di un percorso più che decennale che partiva dall’esigenza di un ripensamento radicale delle categorie politiche moderne in una fase in cui esse avevano perso ogni presa analitica sulla realtà. Parole come "democrazia", "rappresentanza", "destra e sinistra", "totalitarismo" - per indicare solo alcuni esempi del lessico politico - che avevano orientato il dibattito sulla politica hanno finito col mostrare inadeguatezza interpretativa e stanchezza concettuale. Di qui l’allargamento del discorso al concetto di impolitico e di communitas e infine l’approdo ai temi della biopolitica e della immunitas.
Si tratta di un percorso intellettuale non semplice e non del tutto evidente nelle conseguenze, ma che trova in questo nuovo lavoro sull’impersonale un significativo approdo. «L’uso che ho fatto della parola "impersonale" non è in opposizione a persona, non ne è la negazione frontale, come sarebbe in una filosofia dell’antipersona».
Impersonale di norma rimanda ad asettico, oggettivo, al controllo delle passioni o al di sopra dei singoli punti di vista. L’impersonale è imparziale. Un tifoso che si pronuncia sulla propria squadra, un genitore che dà un giudizio sul proprio figlio, o un politico che spiega l’operato del proprio partito, difficilmente saranno impersonali. Essere impersonali significa mostrare quell’imperturbabilità che spoglia il soggetto dell’interesse privato; significa innalzare l’individuo a una posizione in cui non è più parte in un conflitto di interessi. La figura che viene in mente è quella del giudice e con essa la possibilità di tradurre il diritto in giustizia, ossia in qualcosa che implica il concetto di "terza persona".
«Terza persona allude all’impersonale, come nell’espressione "piove". Il grande linguista Emile Benveniste ha spiegato che la terza persona, in quanto "non persona", è irriducibile alle prime due, le quali sono logicamente e grammaticalmente legate tra loro nell’interlocuzione». Insomma c’è un "io" e c’è un "tu" e poi c’è un "egli". L’io ha bisogno del tu e viceversa. Mi devo pur rivolgermi a un tu se voglio dialogare. E l’egli fintantoché resterà un lui distante, non coinvolto da questa dialettica, conserverà la sua forza impersonale.
«La terza persona - precisa Esposito - è l’unica a poter essere singolare e insieme plurale. Non ha vincoli come può averli l’io che si rivolge sempre, implicitamente o esplicitamente, a un tu, così come il tu presuppone sempre un io che lo designi. Il due è per forza di cose inscritto nella logica dell’uno, così come l’uno tende sempre a sdoppiarsi in due per potersi specchiare e riconoscere nel proprio interlocutore umano o divino».
Quando si dice che tre è il numero perfetto è in riferimento al suo carattere di indipendenza, di non compromissione, di neutralità che la "perfezione" va riferita. Ma l’impersonale, cui allude Esposito, non è soltanto la soglia da cui intravediamo l’imperturbabile, è qualcosa che riconosciamo in alcuni tratti del Novecento, a cominciare da certe esperienze dell’arte contemporanea tesa a "sfigurare" l’autore, il soggetto, la figura in tutte le sue declinazioni, per finire con alcuni esiti della politica.
«Impersonale non significa l’annientamento della persona. Quest’ultimo fu l’esito di quella linea biopolitica cui pervenne il nazismo che in nome della razza schiacciò l’essere umano sul suo nudo supporto corporeo. E poteva farlo perché, nella sua aberrazione, il nazismo presupponeva un’idea di persona da negare. Lo stesso meccanismo - anche se di segno opposto - lo hanno innescato quelle filosofie che salvano la persona e negano il corpo. Non si sfugge a questa alternativa: o si sottomette la razionalità all’animalità, come fecero i nazisti, oppure la "parte animale" a quella razionale o spirituale, come fanno i personalisti. In che modo uscirne? Il mio ricorso all’impersonale è in funzione della rottura di questa macchina dualistica che ha caratterizzato l’intera cultura occidentale, interrompendo così la distinzione presupposta tra persona, animale e cosa».
Quando Esposito indica l’intero Occidente non lo fa in nome di una esagerazione retorica, ma ricostruendo il lungo cammino che nella cultura giuridico-politica ha coperto la categoria di persona: «Essa, fin dalla sua origine romana e cristiana, e in forma sempre diversa, riarticola continuamente la separazione all’interno dell’uomo tra una dimensione propriamente umana, razionale, spirituale, ed una falda preumana assimilata all’animale o alla cosa su cui la prima deve esercitare un diritto sovrano di vita e di morte».
Si può dire che questo schema concettuale è anche il punto di contatto tra i laici e i cattolici? «Pur divergendo sulla identificazione del momento e della modalità dell’ingresso dell’essere vivente nella dimensione della persona, sia i laici che i cattolici assegnano a questa un primato assoluto sulla vita impersonale. Solo se può fornire le credenziali della persona, la vita umana acquista pieno diritto all’intoccabilità».
Dal ragionamento di Esposito affiora non tanto la condanna dell’idea di persona, ma la critica al suo fondamentalismo: «Pensi alla retorica sui diritti umani letti in chiave di riproposizione del concetto di persona». Apparentemente ineccepibile, in realtà largamente fallimentare: «Basta uno sguardo al quadro internazionale per accorgersi che il diritto oggi di gran lunga più disatteso è proprio quello alla vita. Non che in passato fosse meglio. Ma adesso, in relazione ai mezzi tecnici a disposizione dell’uomo, la sproporzione tra la parte di vita umana garantita ed anzi potenziata ben al di là dei suoi bisogni e la parte di vita umana condannata a morte per fame, malattia, guerra, è insostenibile, e ciò quando la bandiera della persona è issata all’unisono da tutta la cultura filosofica, giuridica, politica occidentale».
Assisteremmo dunque a un fallimento dei diritti umani la cui causa è nell’insistito richiamo al concetto di persona. Di qui, secondo Esposito, il passaggio a un fronte categoriale nuovo che metta al centro l’idea di impersonalità. Del resto è a questa sponda che, in modi differenti, sono approdati pensatori come Simone Weil, Alexandre Kojève, Michel Foucault, Maurice Blanchot e Gilles Deleuze. Ciascuno con una propria cifra ha lavorato sulla nozione di neutro. Per farne cosa? Per approdare a quale risultato? Per aprire quale prospettiva? «Sebbene gli esiti siano stati differenti resta il fatto che più o meno tutti coloro che si sono richiamati all’impersonale lo hanno fatto in nome e per conto della parola vita». Si torna al problema della biopolitica e al modo in cui essa declina l’esistenza umana. C’è una vita impersonale? Una vita che non sia soltanto il sottofondo biologico su cui si innesta tutto il resto? Foucault volse il suo sguardo a quanto di anonimo la vita stessa contiene. Vite infami, ovvero vite senza fama, è un suo testo che oggi andrebbe riletto: «Vite», spiega Esposito, «che non avendo mai giocato un ruolo soggettivo di primo piano, sfuggendo per così dire alle maglie della storia e perdendosi nell’anonimato dell’esistenza, non ci parlano mai in prima persona, non pronunciamo mai il pronome "io", né si rivolgono mai a un "tu". Non sono altro che dei fatti, o degli eventi, in terza persona». C’è da chiedersi se dopo tanto protagonismo si stia facendo strada una nuova concezione dell’anonimato.
* la Repubblica, 25.05. 2007, p. 51
Sull’argomento, nel sito, si cfr.
MESSAGGIO EV-ANGELICO E SANTO PADRE?! ABUSO DEL TITOLO E MENZOGNA. L’ERRORE DI RATZINGER.
Tra le opere sul tema, si cfr., il
coraggioso e prezioso lavoro di Rubina Giorgi, Figure di Nessuno, Out of London Press, Milano 1977.
AA. VV., OMAGGIO A RUBINA GIORGI (1930-2019), La Dimora del Tempo sospeso / I “Quaderni della Foce e la Sorgente” 21 settembre2020(Quaderno n. 9)
Federico La Sala
MEDEA E ULISSE, IL «POLUTROPOS ANER» DELL’ODISSEA: "IO MI CHIAMO #NESSUNO" ("JE M’APPELLE PERSONNE) E IL PROBLEMA DELL’ «ESSERE, O NON ESSERE» (SHAKESPEARE, "AMLETO", III.1).
IL "VELLO D’ORO" DI GIASONE E MEDEA, E LA FIGURA ("TROPICALLY") DELLA "TRAPPOLA PER TOPI " ("THE MOUSETRAP") DI AMLETO E OFELIA (HAMLET, III.2).
ANTROPOLOGIA E FILOLOGIA. CONSIDERANDO CHE Medea" (in greco antico: Μήδεια, Mḕdeia), a mio parere, richiama... "Ou-tis" (Odissea IX,366: Οὔτις ἐμοί γ’ ὄνομα), "Ne-Homo", "#Nessuno", "Nulla", "Niente" (in greco antico: Mηδείς, Medéis) è una figura "duplice" (allude a Sé e a Nessuno), come quella di Odisseo (di Ulisse con Polifemo), il nodo genealogico resta, e il problema "ontologico" (dell’ essere) della risposta alla questione della Sfinge anche: "#Chi" sei?
"METAMORFOSI" E "DIVINA COMMEDIA": "TRASUMANAR" (Par., I. 70). #DanteAlighieri, a quanto risulta, ha ben riflettuto sia su "Ulisse e Penelope" sia su "Giasone e Medea", come su "#Edipo e #Giocasta", e ha saputo trovare l’uscita antropologica dall’orizzonte "olimpico" della "tragedia", dalla "caduta" all’inferno: egli non ha fatto naufragio. Forse è bene tenerne conto.
ANTROPOLOGIA (CRISTOLOGIA) E ARTE: UNA NOTA DI ANTROPOGENESI CHIASMATICA (NEXOLOGIA) E DI STORICHE COSTRUZIONI NELL’ ANALISI (S. FREUD, 1937).
I VEGGENTI E L’ IPOTESI DELLA NASCITA DELL’ESSERE UMANO (E DELLA SUA COSCIENZA) DI MICHELANGELO BUONARROTI.
IL "MESSAGGIO" DEI SETTE PROFETI E DELLE CINQUE SIBILLE NELLA VOLTA DELLA CAPPELLA SISTINA E DEI "DUE PROFETI" E DELLE "DUE SIBILLE" DELLA SACRA FAMIGLIA DEL "TONDO DONI".
LA "TERZA PERSONA", IL PARADOSSO DEL "CORPO MISTICO", E IL "CREPUSCOLO DEGLI IDOLI" E DEL PAOLINISMO HEGELIANO (NIETZSCHE): "ESSERE, O NON ESSERE" ("AMLETO").
Una nota a margine di un breve testo di Gilles Deleuze:
Se è vero (come è vero) che "la letteratura incomincia solo quando nasce in noi una terza persona che ci spoglia del potere di dire Io (il “neutro” di Blanchot)" (G. Dekeuze, cit.), è altrettanto vero che la "terza persona" non è affatto una "Persona", ma innanzitutto la Relazione tra "le prime due persone che servono da condizione dell’enunciazione letteraria" stessa: "IN #PRINCIPIO ERA IL #LOGOS", LA "COSTITUZIONE", NON UN #LOGO DI UN SIGNOR "NESSUNO", IL "NEUTRO" DI BLANCHOT).
SUl tema, nel sito, si cfr.:
URGENTE UNA "RICAPITOLAZIONE", MATEMATICAMENTE CORRETTA --- PSICHE (INDIVIDUO) E POLIS (SOCIETA’): LA CURA. Note a margine del "XXI Congresso Società Psicoanalitica Italiana" (Roma, maggio 2024).
FLS
FREUD, L’INTERPRETAZIONE DEI SOGNI (1899) E LE "COSTRUZIONI NELLE ANALISI"(1937).
ANTROPOLOGIA E #LINGUA. Riflettendo, esemplarmente e rinascimentalmente, con l’aiuto dei #dueSoli (#DanteAlighieri), dei "due #emisferi" (dei "#duecervelli" del "#linguaggio del #cambiamento"), c’è da dire che l’installazione [sui "Coniugi Doni"] realizzata dalla #Galleria degli Uffizi delle opere di Raffaello e di Michelangelo->https://www.uffizi.it/eventi/doni-gennaio-2019] richiama "lodevolmente" (per il suo "esplicito" rinvio all’immagine di una #lavatrice) e fa un poco ricordare la famosa operazione di Alessandro #Manzoni, per realizzare il "sogno" dei suoi "Promessi Sposi", e la sua decisiva sollecitazione storica antropologica e linguistica: “risciacquare i panni in Arno”, a Firenze! Un "Inno alla #Gioia" (Freud+e = "#Freude")!
Federico La Sala->
"INNO ALLA GIOIA" (BEETHOVEN, #VIENNA #7MAGGIO1824 ).
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EUROPA: #7MAGGIO 1824 / #7MAGGIO2024.
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MEMORIA (#SALERNO, 1976) *:
"GIOIOSAMENTE, GIOCOSAMENTE: «FREUD ... E»
* (cit. da una mia relazione intitolata, "Cosa nasconde Freud a Freud? Cosa nascondiamo noi a noi stessi? Note da/per un seminario interdisciplinare sulla "Interpretazione dei sogni", all’ Università degli Studi di Salerno, Sede di Via Irno - 30. 03. 1976).
IDEOLOGIA E LINGUAGGIO: "ULISSE-POLIFEMO" E IL "PARADOSSO" DEL "MENTITORE" ("FATA MORGANA") *
I DUE VERSI DI EMILY DICKINSON
di Beniamino Placido ( la Repubblica, 10 aprile 1994).
Sempre per loro. Perché non si disperino. Cosa non si fa per loro, per quelli che verranno dopo di noi: fra cinquanta, cento, cinquecento anni. Poveretti, cercheranno di capire la nostra storia di oggi e si metterranno le mani nei capelli, ci sembra già di vederli. Come mai vinse quel Berlusconi: che non era un politico, che tre mesi prima non era ancora entrato in politica?
Non siamo egoisti. Diamogli una mano. Aiutiamoli a sgrovigliare nella loro Biblioteca i nostri giornali ingialliti, dove si naviga fra quattro, cinque ipotesi concorrenti. Berlusconi ha vinto perché era (o si presentava) come "nuovo". Il vecchio non andava più di moda. Berlusconi ha vinto perché era o si presentava come uomo "non politico". La politica non andava più di moda. Oppure: perché si presentava come l’ uomo dei "fatti", contrapposto agli uomini delle chiacchiere.
Le chiacchiere circolavano molto ma erano molto chiacchierate, in Italia. O ancora: Berlusconi ha vinto perché si presentava (e certamente era anche) un "vincente". Ce l’ ha fatta? Si è fatto da sé? Ebbene, farà in modo che ce la facciamo anche noi.
Altra ipotesi ancora: ha vinto perché aveva a disposizione tante televisioni, e le usava. Si può fare una previsione sicura, eccola. Sarà questa alla fine l’ ipotesi vincente. Perché la più comoda, la più pittoresca. Ma non necessariamente la più fondata. Se li avessi davanti, questi studiosi di domani (o dopodomani), impegnati a capire le nostre vicende di oggi, farei loro questo discorso. Non date retta. La televisione è potente, ma non onnipotente. Negli Anni Settanta la Democrazia Cristiana - al governo da sempre - aveva a disposizione tutta la Televisione che c’ era (tutta) e tuttavia non riuscì ad impedire che l’ aborrita legge sul divorzio passasse. Negli Anni Ottanta Umberto Bossi riuscì a creare la sua Lega, dal nulla, infischiandosene della Televisione.
Forse c’ entra qualche altra cosa. Forse c’ entra anche quel che si dice in televisione.
Se li avessi davanti, quegli storici di domani (o dopodomani) li costringerei a metter l’occhio su una cronaca da Torino (Massimo Gramellini, La Stampa, venerdì 1 aprile). Siamo a Mirafiori. Ecco un vecchio operaio che spiega come mai ci siano stati tanti voti per la destra. Anche a Mirafiori.
"Alza un braccio e lo punta su un condominio con tante finestre tutte uguali. Poi dice: io abito là. Tremila famiglie; di media in ogni alloggio c’ è un disoccupato e una tv: hanno votato Berlusconi perché lui ha fatto delle promesse, e noi nemmeno quelle".
E’ chiaro: non basta la televisione; ci vuole anche un disoccupato in casa (e c’è per spiegare il risultato elettorale del 27 marzo. A quel disoccupato Berlusconi ha promesso un milione di posti di lavoro. Ce ne sarà qualcuno (forse due) anche per lui, perbacco.
Supponete che quel disoccupato abbia venticinque anni e magari un diploma, o una laurea, in tasca. Segue la pubblicazione dei bandi di concorso sulla Gazzetta Ufficiale. Poi accende il televisore (ecco dove la televisione conta) e vede che per una manciata di posti ci sono centinaia, migliaia di concorrenti. Famelici. E’ un incubo. Sarà sciocco, ma volete che non presti l’ orecchio alla prima promessa che gli viene fatta? Sarà imprudente, ma volete che non ceda al primo sogno che gli viene prospettato ("un nuovo miracolo economico")?
Su questo tema - della Fata Morgana, delle illusorie promesse, delle artificiose illusioni elettorali - si è molto discusso in questi giorni in Italia. C’ è stato anche chi ne ha negato ogni importanza. I sogni ad occhi aperti: ma figuriamoci. Lo ha negato anche Rossana Rossanda (il manifesto, venerdì 8 aprile).
Mi pare strano. Rossana Rossanda non può non saperlo: ci sono due versi della poetessa americana Emily Dickinson che le danno torto. Meglio un sogno che niente. E la Dickinson è una poetessa dura, aspra, essenziale. Fatta di pietra e di quarzo. Non si fa illusioni. Non ne autorizza. Non crede nel paradiso in terra, non le piace ("I don’ t like Paradise").
Eppure è lei l’ autrice di quei due versi dove è detto che quando si è al buio persino un fuoco fatuo è meglio di niente. Meglio della totale assenza di luce "Better an ignis fatuus / Than no illume at all"é. Dove quel latino di "ignis fatuus", dove l’ arcaico di quell’ "illume" vogliono dire che è così, fatalmente. E’ una vecchia storia. Possiamo (dobbiamo anzi) contrastarlo. Non possiamo negarlo.
Mi pare strano che la Rossanda non se ne ricordi. C’ è un vecchio volumetto della Savelli, dove quella poesia (tradotta da Barbara Lanati) figura. La prefazione al volumetto - e che prefazione: acutissima, splendida - era di Rossana Rossanda.
I’m Nobody! Who are you?
Are you - Nobody - too?
Then there’s a pair of us!
Don’t tell! they’d advertise - you know!
How dreary - to be - Somebody!
How public - like a Frog -
To tell one’s name - the livelong June -
To an admiring Bog!
***
Io sono Nessuno! Tu chi sei?
Sei Nessuno anche tu?
Allora siamo in due!
Non dirlo! Potrebbero spargere la voce!
Che grande peso essere Qualcuno!
Così volgare - come una rana
che gracida il tuo nome - tutto giugno -
ad un pantano in estasi di lei!
Emily Dickinson ("Tutte le poesie", Mondadori, Milano 1997).
Ideologia, linguaggio, e psicoanalisi (in memoria di Edoardo Sanguineti).
NESSUNO (NOBODY)?
Cum grano salis: il nome di moltissimi "Nessuno" è solo l’altro nome di "nani sulle spalle di giganti" (E. Jeauneau, 1969): "Polifemo"... Perciò il naufragio e l’inferno di "Ulisse" (Dante, Inf. XXVI).
Federico La Sala
"MENTE ESTATICA" E "SCHIZOFRENIA DELLA SALUTE":
RITORNARE A HÖLDERLIN.
Una ipotesi-chiave per reinterpretare «“Pallaksch”, la parola magica di Hölderlin». *
In memoria di Elvio Fachinelli e di Rubina Giorgi...
*
"LA PAROLA MAGICA DI HÖLDERLIN: [...] Come nota Christoph Theodor Schwab nel suo diario del 1841, il #poeta malato aveva escogitato, e usava con predilezione, l’espressione #pallaksch, che si poteva prendere per un ‘sì’ o per un ‘no’ e che gli serviva come espediente per evitare l’affermazione o la negazione.
FriedrichHölderlin s’inchina e entra nella “torre” del falegname Ernst Zimmer nel 1807. Due anni prima lo avevano dichiarato ipocondriaco, “la sua #follia è diventata furiosa”, scrive il dottor Müller, a cui, da Homburg, è chiesta una perizia medica. In particolare, annota il #dottore, “i suoi discorsi paiono incomprensibili, parte in tedesco, parte in greco e in latino”. La fatale follia di Hölderlin si celebra in linguaggio, catabasi nell’incomprensibile. Hölderlin resta nella “torre” più di trent’anni, morirà nel giugno del 1843. [...]
Nello studio su «Hölderlin. «L’arte della parola» (IL Melangolo, 1979), Roman Jakobson ci porge la parola #pallaksch. “Una volta, mentre gli si facevano parole pressanti, Hölderlin fu preso da movimenti convulsi e si ebbe da lui solo ‘un terribile, confuso profluvio di parole senza senso’. Oppure Hölderlin preferisce semplicemente rifiutare la risposta... Alla continua contraddizione fra sì e no nel modo di parlare di Hölderlin, Waiblinger ha ‘innumerevoli volte’ prestato attenzione”. Il poeta non vuole rispondere perché non ammette la logica umana, non vi appartiene: sì e no accerchiano in scelte innaturali - non certo esclusive, escludenti, piuttosto -, che concimano morte. Non esiste ragionevolezza né opposizione nel mondo autentico, dove le “parole senza senso” sono la sola poesia possibile. Pallaksch è una specie di amuleto, una parola magica, il passepartout per tutte le visioni, da sbandierare di fronte a chi pensa per superfici piane e progressive, per convenzioni. A te, che ragioni in trapezi e rettangoli, la risposta: io resto sconfinato, opto per tutte le direzioni, dice il poeta. [...].
(cfr. «“Pallaksch”, la parola magica di Hölderlin. Il poeta si fionda nell’indicibile», Pangea, 03 Novembre 2020).
Federico La Sala
VITA E LETTERATURA: MEMORIA, POESIA, E ARTE DOPO AUSCHWITZ.
Appunti sul tema...
LA VITA CONTRO LA MORTE. "«Le dernier à parler» è ispirato a un verso dello stesso Celan: «Parla anche tu,/ parla come l’ultimo a parlare, /dì il tuo dire»". Probabilmente, il cuore [di Gisèle Celan-Lestrange] ha le sue ragioni, che la ragione [di Maurice Blanchot] non conosce! Blaise Pascal non si sbagliava, e nemmeno Kant!
PAUL CELAN:
PARLA ANCHE TU...
Parla anche tu,
parla per ultimo,
di’ ciò che hai da dire.
Parla -
ma non separare il no dal sì.
Dai anche senso a ciò che dici:
dagli l’ombra.
Dagli ombra che basti,
dagliene tanta
quanta sai sparsa intorno a te
fra mezzanotte e mezzogiorno e mezzanotte.
Guardati in giro:
lo vedi, che il vivo è dappertutto -
Prossimo alla morte, ma vivo!
Dice il vero, chi dice ombra.
Ma ora si stringe il luogo dove stai:
e adesso dove andrai, rivelatore d’ombre, dove?
Sali. Innalzati a tentoni.
Più sottile diventi, più irriconoscibile, più fine!
Più fine: un filo,
lungo il quale vuole scendere la stella:
per nuotare nel basso, giù in basso
dove vede se stessa luccicare: nella risacca
di erranti parole.
PAUL CELAN, PARLA ANCHE TU: "[...] A mio avviso, lo sprofondamento nell’altezza descritto nei versi conclusivi di Sprich auch du, è uno “shifter” importante per avvicinarsi a Celan, o perlomeno al Celan più notevole, che quando è al meglio di sé non è semplicemente un poeta nichilista. Per niente, anzi. Con buona pace dei tanti che l’hanno letto così, ma in fondo in fondo fraintendendolo... La visione metafisica di Celan ha tanti aspetti in comune con quella di Kafka, in realtà. Che, più disperato anche di Celan, non diversamente da Celan, in fondo, visse la frattura con la dottrina (la “malattia della tradizione” come l’ha chiamata Benjamin) come una sorta di peccato originale, che lo costrinse a convivere con angoscia e sospetto il suo abnorme bisogno di totalità e unità. [...]" (Massimo Morasso, Doppiozero, 20 aprile 2021).
VITA E POESIA: "LA PAROLA PURPUREA, CHE NOI CANTAVAMO". PER UNA FILOSOFIA "A PIU’ VOCI". In ricordo della straniera di Mantinea ...
PAUL CELAN E IL "PSALM". Dopo Eco e Narciso, dopo "Romeo e Giulietta", dopo "I Promessi Sposi", e dopo Auschwitz, c’è il Psalm (nella Rosa di Nessuno ,"Die Niemandrose", 1963) dell’ Amore (più forte di Morte), quello del "Cantico dei cantici, quello della "Purpurwort, das wir sangen". L’amore no è lo zimbello del tempo" (Shakespeare, "Sonetto 116").
Federico La Sala
Potere/Responsabilità
di Carlo Galli *
Il concetto di Responsabilità - da cui dipende quello di Cura (si ha cura di colui del quale si è responsabili) - ha a che fare con il rispondere: implica cioè una capacità di domanda, e di risposta, dalla quale ha
origine il prendersi Cura: è uno sporgersi dei soggetti oltre sé, dapprima
nella parola e poi nell’azione, fino all’incontro. Non necessariamente,
però, responsabilità implica un diritto di domanda e un dovere di risposta (responsività). Perché tale diritto e tale dovere si diano, è necessario
che ci sia la mediazione del riconoscimento.
Ad esempio, quando in Genesi 4, 8 Dio chiede ragione a Caino di Abele, Caino si dichiara irresponsabile, non riconosce la propria responsabilità verso Dio, e si rifiuta di
rispondere (se non con la sfuggente domanda “sono forse il custode di
mio fratello?”). Dio, d’altra parte, in Genesi 9, 5 promette che chiederà
conto del sangue versato anche dagli animali (rende così tutto il creato,
in particolare l’uomo, responsabile verso di Lui), mentre al contrario si
dichiara irresponsabile - si sottrae cioè al dovere di rispondere, è irresponsivo - davanti a Giobbe che gli chiede conto delle proprie sventure;
alla sua domanda Dio offre, per tutta risposta, l’esaltazione della onnipotenza divina e la sottolineatura dell’impotenza umana, in un’ulteriore
domanda (come aveva fatto Caino, ma ben più diretta e intimidatoria):
ubi eras quando ponebam fundamenta terrae?
Caino avrebbe dovuto rispondere a Dio, ma non comprendeva il fon- damento della sua obbligazione: essere responsabile di Abele davanti a Dio implicava anche riconoscere la insopprimibile alterità, paritetica, di Abele. Al Tre (Dio, Abele, Caino), che sarebbe scaturito da un atto di riconoscimento, Caino si è sottratto, rifugiandosi nella logica dell’Uno, del solipsismo. D’altra parte, Dio avrebbe potuto ma non dovuto rispondere a Giobbe, perché chi gli poneva la domanda - Giobbe - non riconosceva, in quel momento, la Sua insopprimibile alterità, e lo riteneva responsabile secondo una logica di causa-effetto, remunerativa e punitiva, autocentrata, che nel caso concreto era del tutto fallace (è Satana che colpisce Giobbe). Se risponde, Dio risponde per Grazia, non per responsabilità.
Se responsabilità è così un dialogo al quale è necessaria la parità fra gli interlocutori (la responsabilità sta insieme alla responsività, da entrambe le parti); se le è pertanto necessario il riconoscimento, cioè quell’autotrascendimento (non però un auto-annullamento) del Sé che rende possibile la relazione con l’Altro, il prendersi Cura alla pari; allora responsabilità è un atto di libertà, un’apertura del solipsismo, dell’interesse rivolto esclusivamente verso di sé. Nel dominio dell’etica questa apertura si dà nella forma del diritto e del dovere, al di fuori delle relazioni di potere, mentre in politica il potere è sicuramente implicato. Se invece la risposta alla domanda accade in modo necessario - non come decisione di apertura - non si tratta di responsabilità bensì di un automatismo, di un riflesso condizionato. Se infine la risposta alla domanda non c’è, allora questa mancanza di relazione è la libertà dell’Anarca, o dello stato di natura.
La questione della responsabilità - la responsabilità come nesso, mediato dal riconoscimento, di questione e risposta, con la conseguente reciproca Cura - va quin- di posta così: a chi, e perché, possiamo fare domande? A chi, e perché, dobbiamo rispondere? Ovvero: chi è responsivo verso chi, e perché? Chi è responsabile di chi o di che cosa, perché? Chi, infine, si prende Cura di chi, a quali fini, con quali limiti e modalità?
È vero che sotto il profilo intellettuale già il mondo antico aveva elaborato la teoria di una responsabilità libera, coincidente con l’umanità; l’affermazione di Terenzio (Heautontimoroumenos, v. 77) homo sum, humani nihil a me alienum puto ne è la prova. Ma, dal punto di vista politico, la responsabilità premoderna si struttura essenzialmente come auctoritas: quella della famiglia, della gens, dell’Urbs, e poi quelle della respublica christiana; in età cristiana, particolarmente, il vertice di un legame sociale organicistico, superiore al singolo, è responsabile davanti a Dio del suo prendersi cura dei sudditi, per farli vivere e per farli crescere secondo la loro ‘vera’ natura. In parallelo a questo dovere di Cura del superiore, il singolo ha solo un dovere di risposta nella forma dell’obbedienza: il potere non può essere interrogato dal basso, e non ha il dovere di rispondere (è responsabile ma non responsivo). -Fino al XVIII secolo il termine polizey esprimeva la logica profonda di questa politica che vede il monarca responsabile per il suddito davanti a Dio; una politica, quindi, che implica la minorità dei sudditi e l’azione politica paternalistica (tanto aspramente criticata da Kant), la censura, ecc.
La modernità, nel suo versante proto-liberale e razionalistico, non è altro che - primariamente - l’idea (e la prassi che ne discende) che la responsabilità vada
ridefinita e molto ridimensionata: nessuno ha diritto di rivolgere domande e di ottenere risposta in via autoritativa. Anzi, l’uomo è immaginato autonomo, responsabile
di sé: si interroga e si risponde da sé, scegliendo a proprio rischio la propria via,
per nulla fissata a priori. Infatti, la modernità è caratterizzata dall’assenza di un
Ordine dell’Essere condiviso, di gerarchie riconosciute, di quell’orizzonte comune (e
cogente) di civiltà che era il fulcro della responsabilità premoderna. Un uomo solo
e isolato, quindi, è quello moderno; che in realtà è anti-Prometeico, poiché rifiuta
la grandiose visioni dell’Assalto al Cielo e della redenzione dell’umanità come anche
gli interrogativi ultimi che, privi di soluzione, sono solo portatori di angoscia (non
a caso nel Leviatano di Hobbes, al XII capitolo, intitolato Della religione, Prometeo,
legato al Caucaso, guarda troppo avanti ed è torturato quindi non solo nel corpo ma
anche dalla consapevolezza del suo triste futuro).
Un uomo attento a sé, alla propria contingenza, che gioca la propria autonomia e libertà contro il paternalismo e
l’autorità, ma che non riconosce l’Altro: lo incontra e lo teme, o ne ha fastidio, o ne
ha bisogno; ma se ne fa un problema solo esterno, non esistenziale né morale. Anche la filosofia politica moderna, quindi, conosce la responsabilità, ma la interpreta come un’obbligazione che il singolo impone a se stesso, col costruire egli stesso la
Legge (la rappresentanza hobbesiana ne è l’esempio più calzante) a cui rispondere.
Soprattutto, questa responsabilità è un’obbligazione giuridica che non consiste nel
render conto a una persona specifica, a un Altro: si risponde alla Legge, creata dal
potere politico sovrano, rappresentante dei soggetti, a sua volta responsivo verso i
cittadini - almeno perché da essi legittimato. Anzi, in generale il soggetto moderno
è tanto poco sollecitato a uscire dal proprio solipsismo metodologico che rischia di
cadere (e la tarda modernità ne è la prova), in quella negazione della responsabilità
che è l’informe narcisismo dei consumi.
Il potere politico moderno, da parte sua, non è, di conseguenza, paterno: anzi, è costruito dagli uomini - separati tra di loro (Hobbes) e incapaci di promessa efficace - per uscire dallo stato di natura e per essere protetti sotto il profilo dei diritti naturali (da trasformarsi in civili e politici), ma anche per essere lasciati liberi per ogni altro aspetto. Il potere corre piuttosto il rischio di essere un agire tecnico, che è responsabile tanto quanto un automa (cioè per nulla responsabile); che cioè è responsivo perché obbedisce alla programmazione ricevuta, e nulla più; e che quindi ha Cura dei cittadini nel senso che ne protegge meccanicamente la vita e i beni, come da loro gli è richiesto, sottomettendoli a un’unica legge. Un automa costruito per essere dispensatore di Cura non individualizzata ma universale a priori; e che chiede a sua volta di essere oggetto di una responsabilità solo tecnica, di ricevere cioè le dovute manutenzioni, e di essere utilizzato razionalmente. Questa è la responsabilità ‘verticale’ che esige lo Stato-macchina moderno; mentre la responsabilità ‘orizzontale’ è, all’interno di questa logica, che ciascuno sappia fare oculatamente i propri interessi individuali, ossia non infranga la legge nel rapportarsi agli altri, e sia capace di calcolare ragionevolmente all’interno dello spazio del mercato. L’etica della responsabilità, opposta da Weber (La politica come professione, 1919) a quella della convinzione, è anch’essa impersonale, è un’analisi delle compatibilità sistemiche delle conseguenze delle azioni individuali: è un interesse personale temperato da interesse per un’istanza superiore di valore strutturale (lo Stato e la sua potenza). In generale, nella modernità la responsabilità è personale, è una scommessa su se stessi, è un confrontarsi solitario con la Legge (umana); la responsabilità si estende ad altri soltanto in ambiti non politici (la famiglia) e in circostanze che implicano la incapacità di qualcuno (minore o minorato) di essere responsabile di sé.
Naturalmente, c’è anche un’altra autonarrazione della modernità, più complessa
di quella razionalistica, e ad essa alternativa: quella dialettica. Che vede gli uomini
non separati tra di loro (e uniti solo artificialmente nella legge) ma relazionalmente
interdipendenti in un riconoscimento (tematizzato esplicitamente come tale) che
si dà non nell’orizzonte aprioristico del Dio della metafisica, sì nella storia e segnatamente nel lavoro. È da questo e dal potere che scaturisce dalle sue connaturate asimmetrie (le figure fenomenologiche del servo e del signore) che è reso possibile il
legame sociale; il potere non è un artificio razionale ma una struttura - inevitabile e
al contempo determinata - che attende di essere resa trasparente e umanizzata nella
storia dello Spirito (Hegel). In quest’ottica in cui il riconoscimento è un progressivo farsi dei soggetti (un prendersi Cura di Sé e degli Altri) attraverso la dialettica, la contraddizione, la responsabilità è l’interrogarsi e il rispondersi concreto degli
uomini, ovvero il loro sfidarsi e confliggere, sempre più consapevole della umana
spiritualità del reale; e implica quindi un dovere di emancipazione e di progresso,
una responsabilità davanti allo Spirito (che è l’insieme delle relazioni dialettiche di
riconoscimento, rese consapevoli). E questo rispondere Sì alla necessità dello sviluppo dialettico dell’umanità, questa responsabilità verso l’avvenire, è, in Marx e nel pensiero che ne deriva, la responsabilità verso il comunismo, e verso la lotta per
realizzarlo.
Si tratta quindi di responsabilità del singolo verso dimensioni sovrapersonali e progressive, quali sono lo Spirito, la storia e il comunismo (a cui si affianca,
in ambito non dialettico, la responsabilità del singolo verso la Nazione - un’altra
entità sovraindividuale che però è spesso, anche se non necessariamente, regressiva
e arcaica -). Una responsabilità, in ogni caso, verso istanze che da parte loro non
sono responsive, che tendono a nullificare il soggetto, riportandolo alla dimensione
dell’obbedienza, o della conciliazione col corso del mondo.
L’età moderna nega quindi ogni responsabilità a priori; ma pare destinata a oscillare fra il solipsismo e la tecnica, oppure il riemergere di nuove dimensioni dell’autorità (Legge, Storia, Progresso, Nazione): un’autorità che divide (la legge della tradizione razionalistica) o che unisce (il pensiero dialettico e l’ideologia della nazione), ma che è impersonale e immanente, a differenza di quella della tradizione cristiana. Una responsabilità che non si manifesta verso l’Altro, ma, nel versante dialettico, verso un Assoluto (è qui, semmai, e non nel razionalismo, l’aspetto prometeico del Moderno: una responsabilità priva di concretezza che diviene facilmente un incentivo alla irresponsabilità, all’obbedienza al Partito o al Capo, anche alle estreme inumane conseguenze).
Infine, la modernità può interpretarsi - nel pensiero negativo - come estranea sia al calcolo sia al dialogo; come sottratta a qualsiasi riconoscimento. E come fondata sul rapporto abissale (cioè infondato) amico/nemico (Schmitt), un rapporto che mette in causa il soggetto, il quale non può chiudersi in se stesso e che anzi deve specchiarsi nell’Altro. Anche da questo punto di vista, il pensiero negativo ha l’andamento di un liberalismo rovesciato: là la responsabilità è negata da un individualismo che scivola nel narcisismo; qui è negata da un rispecchiamento, non in sé quanto piuttosto in un Altro che è il nemico, e che quindi non genera alcun legame. Infatti, in questo rispecchiamento nessuno dei due si costituisce come persona, nessuno dei due interroga l’altro, né lo riconosce; piuttosto, si tratta di un muto rispecchiarsi di due enigmi, di due incomprensioni radicali (Der Feind ist unsere Frage als Gestalt). E quindi nel rapporto amico/nemico è implicita un’incompletezza del soggetto che non è autotrascendimento, né apertura; un legame negativo e non razionale che - poiché nulla è in comune - non dà luogo ad alcuna responsabilità né ad alcuna responsività.
Potere/Responsabilità
di Carlo Galli
Davanti a queste tre modalità della responsabilità nella politica moderna - tutte aporetiche, benché diversamente - si comprende perché Nietzsche (Genealogia della Morale, 1887, II, 2) parli della necessità di allevare un tipo d’uomo che sappia fare promesse, ma non “l’uomo necessario, uniforme, uguale fra gli eguali”, sì l’uomo concreto - “l’individuo sovrano”, non seriale, non calcolabile né calcolante - capace di assumersi responsabilità verso altri uomini concreti, in modo libero, cioè non sospinto dalla necessità, né dal dovere di rispondere a una qualche domanda. Un uomo - un’umanità, un sistema di relazioni - estraneo alla logica della domanda e della risposta, ma anche della Cura e dell’Autorità. Una provocazione intellettuale, quella di Nietzsche, che allude a un riconoscimento disinteressato e non servile (semmai signorile) dell’Altro come via d’uscita dalle aporie moderne della responsabilità.
Quella capacità di fare promesse è individuata da Hans Jonas (Il principio responsabilità, 1979) - che opera una sorta di ri-moralizzazione di Nietzsche e di Heidegger - nella stessa struttura ontologica del Mondo: l’essere responsabile deriva immediatamente dall’essere-nel-mondo. Per lui, infatti, il muto stupore davanti al mondo è già un’obbligazione: il mondo è costitutivamente un appello. La responsabilità è quindi
un dovere ontologico, non logico: contro la legge di Hume che vieta di dedurre un
dovere dal semplice essere, l’esserci della Vita è quindi già in sé una domanda, a cui il
soggetto può e deve liberamente rispondere, nelle più diverse modalità.
Naturalmente, la responsabilità archetipica è quella dell’uomo per l’uomo, che dà voce alla trama
relazionale dell’Esserci, alla responsabilità dell’Io per gli Enti nella forma della Cura:
alla responsabilità pertiene quindi la consapevolezza tanto del limite (senza la quale
c’è solipsismo, egolatria) quanto dello scopo, che non è un universale prometeismo
ma che consiste nel fatto che è Bene che la potenzialità relazionale del mondo trovi
attuazione. Al contrario, nemico della responsabilità è il nichilismo, ossia tanto la
pretesa (razionalistica) che oltre il soggetto non ci sia nulla, quanto la nullificazione
dialettica del soggetto davanti a un’Autorità universale e assoluta, quanto, ovviamente, la teorizzazione del ‘nulla in comune’ propria del pensiero negativo.
Ma c’è anche un altro modo di intendere la responsabilità, tanto quella verticale del potere verso di noi, e nostra verso il potere, quanto quella orizzontale di ciascuno di noi verso gli altri. Un modo concreto e personale - non assoluto e astratto - che passa attraverso la politica e non la morale, e che implica una re-interpretazione della modernità, e della sua origine a due lati: da una parte, infatti, è vero che nel Moderno il soggetto è tendenzialmente solipsistico e anomico, sordo alla responsabilità, e che quindi vede la politica in modo meccanico (oppure che, per converso, sovraccarica la politica di istanze tanto responsabilizzanti da essere deresponsabilizzanti, tanto assolute da schiacciare ogni singolarità); ma d’altra parte è anche vero che proprio l’età moderna pone come centro e obiettivo della politica il libero fiorire, in uguale dignità, dei diversi progetti di vita umana, nella loro piena e incoercibile diversità (C. Galli, Perché ancora destra e sinistra, 2010).
In quest’ottica, il soggetto immaginato dalla modernità è in se stesso un appello, una pretesa di fiorire rivolta a sé e a tutti (il soggetto moderno sa di non poter volere istituire supremazie o gerarchie qualitative fra gli umani); e poiché ciò vale per ogni soggetto, l’appello è tanto individualizzante quanto generalizzabile. Il soggetto moderno non può non volere la fioritura di tutti e di ciascuno, e non può quindi non sentirsi responsabile verso questo obiettivo, universale ma anche concreto e determinato. Insomma, i singoli sono l’un l’altro responsabili - moralmente e politicamente - di questo progetto, che non li trascende come un’autorità, che non li affratella forzosamente sotto un unico Padre, ma che è nell’origine stessa (troppo spesso dimenticata) e nella finalità (troppo spesso obliterata) della politica moderna. Che della modernità è la ragion d’essere, e al contempo l’energia propulsiva: l’essere e il dover essere. Analogamente, il potere moderno è responsabile, verso i cittadini, di una Cura non autoritaria, ma per dir così umanistica e liberale (appunto, rivolta al libero fiorire dei singoli, che non devono essere coltivati o allevati, ossia fatti fiorire secondo una loro ‘natura’ presunta ‘vera’, ma trattati gli uni come Altri rispetto a ogni altro, cioè come diversi in pari dignità). Ed è anche ‘responsivo’, ovvero può e deve essere chiamato a rispondere delle sue azioni politiche, se esse siano o non indirizzate a questo obiettivo (tutt’altro che facile e scontato, anzi, probabilmente irrealizzabile ma ugualmente cogente come orizzonte trascendentale dell’agire).
Ciò che nel Moderno può diventare nichilistico solipsismo è qui libera contingenza; ciò che può diventare meccanismo è responsabilità e responsività; ciò che può essere astrattezza dell’ideale a cui obbedire diventa la consapevolezza che la responsabilità e la libertà coincidono, poiché sono due nomi delle stesse relazioni concrete fra individui che si riconoscono diversi ma pari in dignità; relazioni, quindi, di collaborazione, di contesa e anche di conflitto - con l’esclusione della violenza e del dominio: un’esclusione del tutto logica, che può e deve diventare politica - nelle quali consiste una coesistenza umana degna dell’uomo. Il riconoscimento, qui, non è infastidito incontro, e non è neppure mediato dal lavoro e dal potere: è ontologico (ossia immanente a questa interpretazione moderna del soggetto) e politico al contempo, perché nasce dalla singola, comune e concreta consapevolezza dell’esser uomo, e orienta il potere al fine del libero fiorire degli uomini, in uguale dignità. Il riconoscimento, qui, dà vita a una responsabilità immanente (anch’essa un’ontologia che è in sé politica) a cui non ci si può sottrarre: l’ontologia della libera fioritura del singolo, che implica la continua domanda e risposta a noi stessi, e simultaneamente a ogni altro, sul nostro essere capaci di vivere liberi in dignità, e di vivere fra liberi in uguale dignità. È, questa, come si vede, la responsabilità verso la democrazia: verso l’ideale concreto, umanistico, civile, istituzionale, potestativo, del reciproco riconoscimento come uguali e come diversi, che non può non accomunarci pur senza legarci, che non può non interpellarci pur senza comandarci. È la politica della fedeltà a noi stessi, del prenderci Cura (senza interferire) tanto dell’Io quanto dell’Altro, di tutti e di ciascuno.
*Doc. Regione Basilicata - Quaderni (FestivalFemminile)
Il ruolo del «terzo»
Le vie della riconciliazione
di Piero Stefani ("Il Regno", Attualità, 20/2018)
Al pari del perdono, del pentimento e della consolazione, la riconciliazione è una realtà che si colloca nell’ambito del «dopo». È così perché in tutti questi casi si tenta di rispondere a quanto c’è stato ma non avrebbe dovuto esserci: lo scontro, la divisione, il contrasto, la lite, la colpa, l’offesa, la perdita, il dolore lancinante.
Si tratta di un «dopo» che non annulla quanto è stato. Non è un colpo di spugna, non sono né dimenticanza, né oblio. Per queste vie ci si misura a viso aperto con il passato per non restarne prigionieri. Ci si colloca quindi agli antipodi non solo dell’oblio, ma anche della rimozione.
Tra i termini prima enunciati sussistono rilevanti differenze. La riconciliazione comporta una bilateralità in atto, il pentimento è invece unilaterale, colui che si pente, anche se esprime una richiesta di essere perdonato, non è nelle condizioni d’imporre d’essere esaudito. Lo stesso vale per un perdono concesso prima che nell’animo dell’offensore prenda dimora il pentimento.
Su un altro piano, pure la consolazione è costretta a operare nell’ambito di una bilateralità «sbilanciata»: chi ha patito una perdita è oggetto di premura da parte di chi si trova in un’altra situazione. Dal canto suo la compiuta bilateralità, tipica della riconciliazione, comporta la pari dignità delle due parti. La precedente sperequazione ora viene a cessare. Ciò vale nel caso di relazioni sia interpersonali sia collettive. Sullo sfondo di questi processi si staglia però una possibile ombra, vale a dire il fatto che l’avvenuta riconciliazione a due apra una frattura nei confronti di un terzo.
Osservata in questa luce, la parabola del «padre misericordioso» (Lc 15,11-32) evidenzia due passaggi rilevanti. Il figlio minore, dopo aver dissipato i beni ricevuti, torna verso casa. Lungo il tragitto egli mostra d’ignorare il cuore del proprio genitore, infatti pensa di conquistarlo declassandosi a servo. Tuttavia «quando era ancora lontano» il padre «lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli gettò le braccia al collo e lo baciò» (Lc 15,20).
Per comprendere questa dinamica non è necessario evocare un diuturno scrutamento dell’orizzonte. La situazione è infatti paragonabile a quella del samaritano che scorge il ferito sul bordo della via. In entrambi i casi ci troviamo di fronte a una stessa successione di verbi: dapprima si vede e immediatamente dopo si prova compassione (verbo splagchnizomai; cf. Lc 10,33). L’atto di misericordia che ci conduce verso l’«altro» non è bilaterale; il padre e il figlio, il soccorritore e il malcapitato non si trovano sullo stesso piano. Nel caso dei fratelli, il discorso può invece diventare più bilaterale.
Esaù e Giacobbe
Giacobbe, dopo tanti anni trascorsi presso suo suocero Làbano, si mette in marcia per ritornare, ricco di prole e di beni, alla terra d’origine. Lungo la via il patriarca apprende che il fratello Esaù, a cui aveva sottratto la primogenitura, viene verso di lui accompagnato da quattrocento uomini. Allora «Giacobbe ebbe paura e fu angosciato» (Gen 32,8). Il tradizionale commento ebraico propone questa spiegazione: Giacobbe ebbe paura di essere ucciso e fu angosciato dall’idea che forse sarebbe toccato a lui uccidere.1 Non tutte le paure sono però uguali, alcune sono paralizzanti, altre sollecitano l’azione.
Nel caso del patriarca essa è del secondo tipo; egli infatti reagisce ed elabora piani difensivi: divide gli accampamenti per far sì che almeno uno dei due si salvi; inoltre invia al fratello copiosi doni, pensando in tal modo di placarlo. Il giorno dopo, quando vide giungere Esaù accompagnato dalla sua numerosa scorta, Giacobbe affidò i propri figli alle loro rispettive madri, si mise in testa al gruppo e, a debita distanza, si prostrò sette volte fino a terra davanti al fratello.
Eppure la primogenitura e la benedizione da lui carpite lo avrebbero dovuto costituire signore. La via verso la riconciliazione è spianata però dallo stesso Esaù. È il fratello maggiore a ricoprire il ruolo più nobile; i vent’anni trascorsi avevano smorzato in lui la sete di vendetta; tuttavia il passare del tempo da solo non basta a spiegare il suo comportamento: troppe volte l’odio ha dimostrato di essere dotato di una memoria più tenace dell’amore. «Ma Esaù gli corse incontro, lo abbracciò, gli si gettò al collo, lo baciò e piansero» (Gen 33,4).
L’atto compiuto dal fratello maggiore in quella circostanza è talmente alto da essere stato assunto come sottotesto del gesto compiuto dal padre nella parabola. Rispetto al Vangelo, tuttavia, nella Genesi c’è un particolare in più: i fratelli piangono assieme. L’atto ora diviene perfettamente bilaterale. Il sigillo della riconciliazione sta nelle lacrime sgorgate dagli occhi di entrambi. È vero che subito dopo questo incontro i due fratelli decisero di separarsi.
Tuttavia Esaù e Giacobbe (nominati proprio in questo ordine allusivo a una specie di primogenitura riconquistata) si sarebbero di nuovo incontrati nell’atto di seppellire il loro padre Isacco (cf. Gen 35,29). La Bibbia presenta quest’ultimo avvenimento in una riga come puro dato di cronaca, ma dietro a quella spoglia annotazione ogni lettore scorge il valore e lo spessore del non detto.
Il ruolo del «terzo»
Nella parabola il padre fa festa per il ritorno del figlio minore. Tra i due è avvenuta una forma di riconciliazione. Tuttavia è proprio quest’ultima a spalancare il problema del terzo, in questo caso rappresentato dalla figura del fratello maggiore. L’avvicinamento degli uni provoca l’allontanamento dell’altro. Si tratta di una dinamica frequente in politica, dove la parola «riconciliazione» è per lo più impropria, ma non assente in altre operazioni riconciliatrici, comprese quelle presenti in campo ecumenico e interreligioso.
La parabola non riporta alcuna conclusiva risposta del fratello maggiore. Luca lascia quindi in sospeso l’esito del tentativo paterno di riconciliarsi anche con il primogenito. Al pari di Andrè Gide,2 ogni lettore è nelle condizioni d’immaginare molteplici «dopo». In questo caso il non detto si apre sull’indefinito. La mancata risposta rende comunque più acuto il problema del «terzo», una questione che, fino a quando resta aperta, incrina inevitabilmente il processo di riconciliazione.
Il «terzo» come mediatore
Nella tradizione giudaica, Aronne è la figura associata più di ogni altra alla costruzione di una pace intesa come riconciliazione. Il fratello di Mosè, nonostante la sua debolezza e accondiscendenza, o forse proprio grazie a esse, viene presentato come il prototipo di chi si sforza senza posa d’instaurare la riconciliazione tra i membri del suo popolo. Su questo punto i commenti narrativi si dilungano ampiamente, prospettando molti episodi leggendari in cui emerge la convinzione che, quando urge la riconciliazione, si è sospinti a compiere molti atti rischiosi e ibridi, ivi compresa la scelta di percorrere, almeno parzialmente, la via della finzione.
Si racconta che, quando due uomini avevano litigato, Aronne si andasse a sedere accanto a uno di loro e gli dicesse: «Figlio mio, bada a quanto sta facendo tuo fratello! Egli si batte il petto e bagna i suoi abiti di lacrime dicendo: “Me sventurato! Come potrò alzare gli occhi e guardare il mio compagno? Sono stato io a trattarlo stoltamente”».
Dopo aver terminato di riferire tali parole, il fratello di Mosè continuava a parlargli fino a quando fosse scomparsa ogni traccia di rancore. Allora Aronne si recava dall’altro contendente e ripeteva lo stesso rito conciliatorio e «quando i due uomini si incontravano s’abbracciavano e baciavano reciprocamente».3
Un altro commento applica l’attività riconciliatrice all’ambito familiare. Allorché un uomo aveva scacciato la moglie, Aronne andava da lui e gli chiedeva come mai avesse litigato con la sua sposa. Se il marito gli rispondeva affermando: «Perché ha agito in modo svergognato nei miei confronti», Aronne replicava che lui stesso si sarebbe reso garante che ciò non si sarebbe più ripetuto. Poi andava dalla moglie e le poneva la stessa domanda e se lei rispondeva che il marito l’aveva picchiata e maledetta, Aronne si rendeva ancora una volta personalmente garante che in seguito ciò non avrebbe più avuto luogo.
Il fratello di Mosè insisteva fino a quando i due non si fossero rappacificati. Come frutto della riconciliazione tra i coniugi la donna avrebbe avuto un figlio a cui sarebbe stato imposto il nome di Aronne. I bambini chiamati in quel modo ammontarono a tremila.4
L’iperbolica cifra sta a significare che in ogni tempo è stata profonda tanto la consapevolezza della precarietà di una convivenza quotidiana insidiata dal logoramento, dalla fatica, dalla stanchezza, quanto la fiducia nelle capacità di ripresa insite nel rapporto coniugale. Tenendo conto di ciò si sarebbe propensi ad affermare che, in un’ottica esistenziale, parlare d’indissolubilità del matrimonio appare formale e astratto, mentre prospettarne la «riannodabilità» è concreto e riconciliatore.
Il ruolo del mediatore rispetto ai processi di riconciliazione è ben più esteso dei casi interpersonali e coniugali ora esemplificati; le dinamiche positive legate alla presenza di un «terzo» illustrate da questi riferimenti giudaici rimangono comunque significative anche quando ci si muove in orizzonti più vasti.
1 Cf. Rashi a Gen 32,8.
2 Cf. il racconto di A. Gide, Il ritorno del figliol prodigo (1907). Per altre esemplificazioni, cf. C. Mazzucco, Il figliol prodigo nella parabola lucana e nelle reinterpretazioni di alcuni autori europei della prima metà del ’900, Edizioni dell’Orso, Alessandria 2008.
3 ‘Avot de-Rabbi Natan A, 12.
4 ‘Avot de-Rabbi Natan B, 25.
PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E COSTITUZIONE DEL PENSIERO. FILOSOFIA DEL DIALOGO ... *
E già nel 1942 Guido Calogero smontava Heidegger
di Alfonso Berardinelli (Avvenire, venerdì 12 gennaio 2018)
Buone notizie, secondo me, dal numero di “MicroMega” intitolato “Gli intellettuali giudicano la religione”. La sezione su tale tema richiederebbe un resoconto critico per il quale non basterebbero una ventina di pagine. Vi è riportato un questionario del 1950 che l’americana “Partisan review” propose a scrittori, filosofi, critici e studiosi. “MicroMega” pubblica le risposte del grande poeta e saggista Auden (credente) e del filosofo analitico Ayer (non credente): due punti di vista opposti sui quali si potrebbe ragionare a lungo.
Ma quella che in particolare ho considerato subito la buona, ottima notizia è un’altra. È un saggio di Guido Calogero (1904-1986), studioso di storia della logica e della dialettica dai Presocratici al Novecento, filosofo del dialogo come strumento insuperabile del pensiero, teorico e animatore con Aldo Capitini del movimento liberal-socialista e tra i fondatori del Partito d’Azione.
In questo scritto del 1942, Calogero offriva una tempestiva, precoce analisi critica del pensiero e del linguaggio di Martin Heidegger, filosofo vicino al nazismo (mai esplicitamente rinnegato) che ha esercitato un’influenza magnetica su filosofi francesi e italiani di fine Novecento tuttora in attività. Benché Heidegger sia stato notoriamente discusso, criticato, demolito già da Adorno, Löwith e Anders, i nostri heideggeriani, per evitarsi dei fastidi, non hanno mai voluto prendere in considerazione i loro argomenti. Calogero (filosofo a sua volta oggi ciecamente trascurato) in questo scritto di settant’anni fa notava subito il punto debole della filosofia di Heidegger: la sovrapposizione, l’identificazione impropria e arbitraria fra il problema della conoscenza (gnoseologia) e il problema dell’essere (ontologia). Heidegger usa un linguaggio metafisico lì dove dovrebbe usare un linguaggio logico e metodologico.
Dire “essere” e dire “ente”, ripetere queste parole come una giaculatoria o un mantra, non significa dire qualcosa della cui realtà si possa dare conoscenza e discorso, poiché si tratta di una terminologia arcaica ormai priva di contenuto determinato e determinabile, un “modo di dire” generico e vuoto la cui pensabilità è nulla. Provate a pensare l’essere e vedrete che equivale a pensare il nulla, cosa altrettanto impensabile. Il linguaggio di Heidegger è una disonesta parodia verbalistica dell’esperienza mistica. Teologizza la filosofia, evitando il problema della religione.
*
SUL TEMA, NEL SITO E IN RETE, SI CFR.:
PAURA DELLA LIBERTA’... FASCISMO, STORIOGRAFIA, E COSTITUZIONE: "Vi fu chi accondiscese al giuramento, tra questi Guido Calogero e Luigi Einaudi, seguendo l’invito di Benedetto Croce, «per continuare il filo dell’insegnamento secondo l’idea di libertà»".
I POLITICI SI SONO FATTI TEOLOGI E LA TEOLOGIA, IN SENSO PROPRIO, NON PARLA PIU’. Una riflessione di Paolo Prodi.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
Chi è il numero uno?
Eugen Rosenstock-Huessy e il ruolo della prima persona.
di Damion Searls (Il Tascabile, 03.04.2018) *
Può essere sconvolgente rendersi conto, all’improvviso, che qualcosa a cui non avevi mai pensato - qualcosa che avevi sempre accettato come reale - è solo un articolo di fede. Spesso è il linguaggio a far accendere la lampadina: qualcuno ridefinisce la realtà con una nuova parola (mansplaining, Rebecca Solnit) o mostrando i poteri nascosti e le interconnessioni di una parola antica (debito, David Graeber). Raramente la rivelazione riguarda il linguaggio in sé.
La citazione è di Eugen Rosenstock-Huessy (1888-1973), un teorico del Cristianesimo dell’età moderna molto particolare. (Tutte le traduzioni sono dal volume The Language of the Human Race: An Incarnate Grammar in Four Parts [Die Sprache des Menschengeschlechts: Eine leibhafte Grammatik in vier Teilen].) Rosenstock-Huessy ha ispirato alcuni connoisseur, tra cui W. H. Auden e Peter Sloterdijk, ma possiamo dire in tutta tranquillità che è ancora poco conosciuto. È difficile capire cosa pensare di lui. Di sicuro trovo fastidiosa la palese importanza della nascita di Cristo - o della Missione Divina - che inserisce regolarmente nei suoi ragionamenti filosofici. (Auden: “Chi lo legge per la prima volta può trovare, come è capitato a me, certi aspetti della sua scrittura un po’ difficili da accettare... Per quanto mi riguarda, posso solo dire che ascoltando Rosenstock-Huessy, io sono cambiato”). Il dogma grammaticale a cui fa riferimento - e contro cui si è battuto a morte in un libro di oltre 1.900 pagine - è la lista all’apparenza innocente che risale ai Greci: la prima persona, la seconda persona, la terza persona. Io amo, tu ami, egli ama, o, se avete studiato Latino, amo, amas, amat.
Non sta dicendo che dovremmo aggiungere una forma per la “quarta persona”, come per esempio la distinzione tra terze persone in Ojibwe, oppure una “persona zero” per le costruzioni impersonali come in Finlandese. Sta dicendo che rendere “io” la prima persona è il peccato originale non solo della linguistica, ma della filosofia, della scienza e della stessa vita sociale. E lo intende davvero. Teoricamente, appiattisce l’esperienza vissuta in resoconti freddi e asettici, assimilando tutto all’“affermazione” di un “dato” in terza persona che non richiede alcun coraggio personale, non ha alcuna rilevanza sociale.
Empiricamente, la lista Greca commette un errore: la “prima persona” infatti non arriva per prima. L’io di un bambino si sviluppa quando gli viene rivolta la parola, da un genitore o da un’altra persona che si prende cura di lui. Qualcuno deve dire “tu” nel modo giusto perché un “io” non folle possa di fatto esistere. (Vedi Neither Sun Nor Death di Peter Sloterdijk, p. 30, dove ho sentito parlare di Rosenstock-Huessy per la prima volta). Dal punto di vista psicologico, neurocognitivo e dello sviluppo, “io” è l’ultima persona. Sei un bravo bambino. La bottiglia è lì. Ho fame.
È questa la rivelazione che mi ha tanto colpito. La prima persona non è la prima. Non esiste nessuna lista, a parte quelle che inventiamo. Che aspetto avrebbe il mondo se potessi vedere al di fuori di questo schema? Se prima venisse un legame tanto forte da darti l’autorità di giudicare l’esperienza di qualcun altro - tu ami, tu hai fame, sei carino oggi, ti stai comportando male - e poi venisse una visione condivisa del mondo, e solo successivamente un’espressione di sé? L’idea Cartesiana, “penso dunque sono”, e tutte le distinzioni tra mente/corpo/io/altro avrebbero potuto non emergere mai se Cartesio non fosse stato indottrinato con l’idea che “io” viene per primo. Esistono romanzi in prima e in terza persona, ma la seconda è un’anomalia, proprio come nella vita reale non possiamo prenderci la libertà di parlare per una seconda persona come faremmo di noi stessi in quest’era dell’espressione di sé. Quanto altro ancora della natura del romanzo, e della percezione della mia vita, risale essenzialmente alla grammatica greca di duemila anni fa?
Vale la pena notare che scrisse questi pensieri sulla tirannia nel 1945. E che l’uso del “lui o lei”, ben avanti sui tempi, è suo.
Rosenstock-Huessy fa risalire tutto a questo peccato, dai conflitti con l’autorità a scuola alla schizofrenia, e avanza delle rivendicazioni impressionanti per un proprio “metodo grammaticale” che riconfiguri il linguaggio. Come dicevo, non so cosa pensare al riguardo. Ma è qui, presentato per voi sotto forma di paragrafi alternati da me e da lui. Voi siete la prima persona. Fatene quello che volete.
Traduzione di Alessandra Castellazzi. Si ringraziano l’autore e The Paris Review per la pubblicazione dell’articolo.
* Damion Searls traduce dal tedesco, dal norvegese, dal francese e dall’olandese. Ha tradotto classici come Proust, Rilke, Nietzsche, e Ingeborg Bachmann. Il suo ultimo libro è Macchie d’inchiostro - Storia di Hermann Rorschach e del suo test.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
RILEGGERE SAUSSURE. UN "TRATTATO TEOLOGICO-POLITICO" RIDOTTO A UN BANALE "CORSO DI LINGUISTICA GENERALE"!!!
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89). Un omaggio a Kurt H. Wolff e a Barrington Moore Jr.
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
Perché le persone sono diventate solo cose e le cose solo merce
Nel nuovo saggio di Roberto Esposito l’origine della separazione tra corpo, individuo e politica
di Massimo Recalcati (la Repubblica, 29.08.2014)
CON questo suo ultimo libro titolato Le persone e le cose , Roberto Esposito aggiunge un altro capitolo importante alla sua ricerca filosofica intorno alle origini della nostra civiltà e alle ragioni che rendono possibile (o impossibile) il dono-dovere della comunità, il nostro vivere insieme. La sua chirurgica e meticolosa genealogia si configura come uno dei cammini filosofici più originali e innovativi degli ultimi vent’anni.
In queste due parole, “persone” e “cose”, si manifesta secondo Esposito una divisione ontologica che è stata la matrice di processi ben più ampi che hanno pesantemente coinvolto le fondamenta stesse della nostra vita collettiva. Questo binomio è infatti un “binomio escludente”. È una prima tesi del libro: l’operazione che fonda la persona come soggetto autorale, integralmente “decorporeizzato”, reso titolare di diritti e di patrimoni, è tutt’uno con quello che lo elegge a padrone delle cose.
In questa doppia fondazione si produce un’esclusione di tutto ciò che contrasta con questa biforcazione metafisica. In primis l’esclusione del corpo: «Non rientrando compiutamente né nella categoria di persona né in quella di cosa, il corpo è stato cancellato come oggetto di diritto».
Esposito mostra bene come la genealogia del concetto di “persona” sia il risultato di un’astrazione progressiva che finisce per disgiungerla nettamente dal corpo. Già nel diritto romano la persona giuridica appare autonoma dal corpo e come padrona delle cose. Quello che definisce le cose secondo l’ordinamento di quel diritto «è la loro appartenenza a uno o a più proprietari». Allo stesso modo anche le cose sono state private del loro corpo. Accade originariamente con la metafisica greca, ma ancora più chiaramente con l’affermazione della tecnica che da quella tradizione scaturisce già secondo l’insegnamento di Marx, prima ancora di quello di Heidegger: le cose non sono lasciate essere per quello che sono, ma sono ridotte a “risorsa” (Bestand) e sottoposte a uno sfruttamento illimitato.
La spinta all’appropriazione appare così come una sorta di nucleo pulsionale originario che regola in Occidente il rapporto tra l’uomo e le cose. Questo comporta lo schiacciamento di altri esseri umani allo statuto inerte degli oggetti inanimati, delle cose anziché delle persone. Il corpo stesso viene colonizzato: il soggetto si divide in una parte animale e sensibile e in un’altra razionale e spirituale che deve esercitare il suo dominio su di essa.
Questo esito nichilistico troverebbe un suo antagonista irriducibile, anche se minoritario, in una tradizione di pensiero che Esposito fa risalire a Spinoza e che, passando da Vico, giunge sino a Nietzsche e alla fenomenologia francese (Sartre, Meleau-Ponty). Questa tradizione contesta radicalmente il taglio che disgiunge irreversibilmente l’anima dal corpo e la persona dalle cose e che ha fondato, a partire dal gesto inaugurale di Cartesio che distingue la res cogitans dalla res extensa, l’attuale primato narcisistico dell’Io come governatore del proprio corpo e del mondo delle cose. Siamo alla pars costruens del libro: il corpo può essere la pietra di scarto destinata a divenire la pietra angolare di un altro modo di pensare la vita.
Una constatazione preliminare si impone: sebbene escluso, o proprio perché escluso, il corpo vivente torna incessantemente al centro della scena della politica e dei suoi conflitti. «La vita umana - scrive Esposito - da cornice dell’agire politico, ne diviene il centro - si fa affare di governo, così come la politica diventa governo della vita».
Questo significa che l’esclusione del corpo dal regime della persona genera uno spazio vuoto dove domande sempre più pressanti restano senza risposta: «Da quando e sino a quando il corpo può essere considerato persona anziché cosa? Il trafugamento di un cadavere, oppure di embrioni, va considerato alla stregua di un rapimento o di un furto?».
Ecco apparire la dimensione più chiaramente politica della riflessione di Esposito: come individuare i modi del ritorno di ciò che è stato rimosso, bandito, esiliato? Non si deve dimenticare che questa parte esclusa non s’incarna solo nelle istanze del corpo individuale vivente, ma anche in quelle collettive di un popolo - di una moltitudine - che è stata tenuta fuori dalla rappresentanza e che oggi spinge per denunciare il limite costitutivo di quella stessa idea di rappresentanza (fondata arbitrariamente su di una esclusione).
È l’aut-aut etico che il libro ci consegna: prevarrà la passione immunitaria che esalta il proprio sul comune, l’interesse individuale su quello collettivo, l’Io sull’Altro o la passione per la comunità e l’economia del dono insieme al rischio di smarrimento e di perdita di identità che l’esposizione all’Altro sempre comporta?
ALL’OLANDA, AD AMSTERDAM, E A RENZO PIANO, UN OMAGGIO.
Una scheda dettagliata sul
Museo della scienza e della tecnica - Amsterdam
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Quando Spinoza sognava il modello di un’altra Europa
Un romanzo e una monografia dedicate al filosofo rilanciano l’idea della repubblica federale olandese
di Roberto Esposito (la Repubblica, 16.06.2014)
E se fosse Spinoza l’autore in cui cercare un punto di riferimento in una fase in cui è sempre più difficile orientarsi sul piano filosofico e soprattutto politico? E se perfino questa Europa, sospesa tra vecchi nazionalismi e nuovi populismi, prestasse qualche attenzione alla Repubblica delle Sette Province Unite olandesi in cui egli visse, godendo di insolita libertà intellettuale all’interno di un continente insanguinato da guerre ininterrotte?
Certo, quella sorta di zona franca, di felice anomalia, che furono i Paesi Bassi rispetto agli Stati assoluti, si chiuse presto, come la condanna e l’espulsione di Spinoza dalla comunità ebraica testimoniano. Eppure Il sogno di Spinoza - come s’intitola il romanzo di Goce Smilevski appena tradotto da Guanda - continua ad interpellarci non solo sul nostro passato, ma anche sul nostro futuro.
In verità esso non tratta di questioni politiche e considera solo di scorcio la prospettiva filosofica di Spinoza. Di cui delinea, però, con maestria, il mondo interiore - turbamenti, emozioni, ossessioni. La vita, in continuo transito tra Amsterdam, Rijnsburg e l’Aia; il mestiere, singolare per un filosofo, di tornitore di lenti; le amicizie, tra cui quella, forse sul punto di scivolare in passione, con la sua giovane maestra di latino Clara Maria Van den Enden, e l’altra con l’allievo, studioso di Cartesio, Joan Casearius.
Forse nulla più del libro di Robert Burton sulla malinconia, insieme al celebre dipinto di Rembrandt Lezione di anatomia del dottor Tulp, in cui lo scalpello del medico penetra nelle carni aperte di un cadavere, restituiscono il clima di quegli anni e anche qualcosa della psicologia di Spinoza - pensatore della vita perché perennemente ossessionato dalla caducità dell’esistenza. La sua stessa idea di una sostanza infinita ed eterna, in cui Dio coincide con la natura delle cose, può essere interpretata anche come il punto di resistenza nei confronti di qualcosa che ci viene sottratta in un modo inaccettabile e prepotente.
La resistenza all’oppressione e all’intolleranza è, d’altra parte, la cifra dell’intero pen- siero di Spinoza. In particolare di quel saggio contro ogni forma di teologia politica che curiosamente ha proprio il titolo di Trattato teologico-politico. «Un libro forgiato all’inferno», come fu definito dai nemici del filosofo e adottato come titolo della monografia spinoziana, adesso tradotta da Einaudi, di Steven Nadler. Autore già di un altro lavoro su Spinoza e l’Olanda del Seicento, nonché di un originale saggio su Descartes, dal titolo Il filosofo, il sacerdote e il pittore , entrambi editi da Einaudi, Nadler riesce nella difficile impresa di presentare il complesso pensiero di Spinoza ad un ampio pubblico senza tradirne i contenuti peculiari.
Ma che cosa c’è di tanto scandaloso nel suo Trattato? Cosa ne fa un libro maledetto destinato alla distruzione e all’oblio? Si tratta di una coraggiosa, almeno per allora, difesa dell’autonomia della filosofia, e anche della politica, dalla invadenza della religione. Rifiuto dei miracoli e del ruolo divino dei profeti, riduzione della provvidenza all’insieme delle leggi di natura, attribuzione della Bibbia all’opera dell’uomo sono i contenuti blasfemi in base ai quali Giordano Bruno era stato bruciato appena pochi decenni prima. Qualcosa di non meno pericoloso delle scoperte astronomiche che Galileo fu costretto ad abiurare.
Ma l’elemento forse più rilevante in termini politici sta nella maniera in cui la negazione del carattere trascendente ed onnipotente della Persona divina si traduce nel rifiuto di quella del monarca. Ecco ciò che differenzia Spinoza da Hobbes. Come questi, anch’egli è alla ricerca di una forma politica che metta fine al caos delle guerre di religione.
Ma anziché individuarla nello Stato Leviatano, vale a dire nel potere assoluto che condiziona la protezione dei sudditi alla loro obbedienza, lo individua in una forma di democrazia che, contro il modello monarchico e aristocratico, rispetta la libertà dei cittadini. Con ciò Spinoza non intende negare il principio di autorità politica, ma sottoporlo ad una legittimazione diffusa in base alla quale il diritto di definire quello che è nell’interesse di tutti spetta al popolo stesso.
Per certi versi Spinoza non fa che riprodurre in forma radicale il regime politico della Repubblica olandese della seconda metà del secolo, assediata dagli eserciti delle monarchie assolute. Essa era governata, in forma federale, dai rappresentanti delle Sette Province Unite, provenienti dal ceto mercantile delle città olandesi, gelose della propria indipendenza nei confronti sia della Chiesa che, almeno entro certi limiti, dello Stato centrale. Allorché Johan de Witt, deputato permanente di Dordrecht e punto di riferimento politico dei democratici radicali, fu assassinato, quel modello che rappresentava un’eccezione vistosa nell’Europa del tempo crollò, perdendo le sue connotazioni più peculiari.
La messa al bando dell’opera di Spinoza fu anche conseguenza di questa restaurazione. Ma tale esito non cancella, né sul piano filosofico né su quello politico, il significato di quello straordinario esperimento. Al suo centro era il progetto, fino allora inaudito, di una federazione costituzionale che escludeva ogni carica centralizzata e onnipotente. Ad ogni provincia era invece riconosciuto il diritto di avere i propri rappresentanti, senza per questo indebolire la loro unione, cui restavano le competenze della politica estera e finanziaria.
Quali suggestioni tale modello costituzionale possa contenere per un mondo, come il nostro, che ha conosciuto la crisi di tutti i Leviatani, non è difficile intuire. Persino l’Unione europea potrebbe riprodurne qualche tratto, nel difficile equilibrio tra unità e differenze nazionali.
Naturalmente senza omologare situazioni e problematiche separate da secoli di storia e di pensiero. Se però ricordiamo l’insistenza di Spinoza sulla necessità di contenere le inevitabili spinte passionali nei limiti della razionalità, possiamo ricavarne un’indicazione che muove in direzione contraria sia a un’idea di sovranità trascendente - al potere assoluto degli Stati sovrani - sia agli impulsi anarchici e irrazionali che alimentano la crescita dei nuovi populismi.
Teologia politica
«Parousia» senza apocalisse
Si può smontare il meccanismo teologico di sudditanza all’Uno su cui si fondano i rapporti di potere? La risposta nel nuovo saggio di Roberto Esposito
di Remo Bodei (Il Sole-24ore-domenica, 20.04.2014)
Si tratta di un libro teoricamente denso, caratterizzato da una fitta tessitura, con tanti nodi come nei tappeti pregiati, e in grado di spaziare dalla filosofia alla politica e dalla teologia al diritto romano. Continua, innovando, la riflessione già condotta dall’autore in Terza persona. Politica della vita e filosofia dell’impersonale (Torino, Einaudi, 2007).
L’intuizione di fondo che guida Due è che non riusciamo a smontare la macchina della teologia politica che «funziona precisamente separando ciò che dichiara di unire e unificando ciò che divide mediante la sottomissione di una parte al dominio del tutto».
È difficile abbandonare questo schema in quanto siamo completamente immersi nel suo orizzonte, «non perché la porta d’ingresso sia sbarrata, ma perché l’abbiamo da tempo immemorabile varcata, prima che essa si richiudesse alle nostre spalle impedendoci di uscire».
La sfida consiste, dunque, nel procurarsi uno sguardo esterno e nell’abbattere la prigione mentale, ormai invisibile, in cui la nostra civiltà ci ha rinchiusi. Un’impresa, in apparenza impossibile, simile a quella del barone di Münchausen, che pretendeva di sollevarsi da terra tirandosi su con il codino.
Ma cosa è che ci vincola in maniera così stringente e come è possibile liberarsene? Essenzialmente, è la radicata concezione che l’uno assorbe la dualità degli opposti, sottoponendo un elemento all’altro (ad esempio dividendo l’uomo in anima e corpo e asservendo questo a quella o considerando la cultura europea come universale perché ha incluso in sé, separandosene, quella di altri popoli).
Il dispositivo teologico-politico è riuscito a imporsi soprattutto attraverso la categoria di persona, in cui confluiscono il diritto romano e la teologia cristiana. Infatti, è a partire dalla summa divisio di Gaio tra persona e res che si separano i liberi dagli schiavi, riducendoli a cosa pur senza escluderli dall’appartenenza a una comune umanità. Ed è nel dibattito dei primi secoli del cristianesimo sulla doppia natura di Gesù/Cristo - vero uomo e vero Dio - e nella faticosa formulazione del dogma trinitario (una sola sostanza in tre persone) che si cristallizza e domina l’inclusione oppositiva o l’opposizione includente.
Una parte del libro è consacrata alla ripresa della nozione paolina di katechon (contenuta nella Seconda lettera ai Tessalonicesi, 19, 2), la forza frenante che, trattenendo il male, impedisce però l’avvento della parousia, della seconda venuta di Cristo. Anche in questo caso, il bene contiene in sé il male che sottomette fino all’apocalisse. Da cosa deriva questa idea di invitare i fedeli ad attingere la salvezza evitando di scontrarsi con colui che Paolo definisce enigmaticamente l’anomos, l’Anticristo?
Credo che, al di là delle dispute teologiche, bisognerebbe storicizzare maggiormente la funzione del katechon, nel senso di vederla come una risposta tattica di Paolo alle attese deluse dei cristiani, ai quali Gesù aveva predetto «verrò presto» (erchomay tachy): la parousia non si è ancora prodotta perché è frenata e ritardata dalle forze del male.
La proposta di Esposito (che ricorda per certi versi «la piccola porta attraverso la quale può entrare il Messia» di Walter Benjamin) è di conseguire una parousia senza apocalisse, una affermazione senza negazione, di spezzare cioè la subordinazione forzata del due all’uno e di fare coesistere quelli che appaiono ora come opposti.
Ciò è per lui possibile qualora ci si colleghi a una tradizione filosofica che, seppur minoritaria, attraversa l’Occidente da quasi mille anni, da quando Averroè scrisse il Grande commento al De anima di Aristotele. In esso il filosofo arabo sostiene che il pensiero in atto, l’intelletto attivo, non appartiene alla persona.
In altri termini: come per il vedere qualcosa sono necessari gli occhi e gli oggetti, ma non si vede nulla se non c’è la luce, allo stesso modo gli uomini hanno in potenza la facoltà di pensare (l’intelletto passivo) e i concetti (noemata) pensabili, ma se manca l’intelletto attivo, la luce - quella che gli scolastici chiameranno lux intellegibilis - non si riesce effettivamente a pensare.
Questa luce non appartiene, tuttavia, all’individuo: simile alla luce del sole che continua a brillare anche quando il singolo muore, il pensiero è impersonale. Averroè - difeso da Dante e contrastato da San Tommaso - sostiene dunque la mortalità dell’anima e il carattere collettivo del pensiero, in ciò seguito, in diversi modi, da una serie di pensatori che Esposito opportunamente inquadra: Pomponazzi, Bruno, Spinoza, Schelling, Nietzsche, Bergson, Deleuze.
Che Bruno e Spinoza seguano questa linea sembra pacifico. Meno scontato che lo sia Nietzsche, il quale in Aurora sostiene che il compito del filosofo consiste nel coltivare le conclusioni dei pensieri che germogliano spontaneamente dal grembo di quel «saggio ignoto» che è il corpo: «Spuntano in noi da giorni umidi e nuvolosi, dalla solitudine, da due parole, conclusioni, come fossero funghi: eccole arrivare un bel mattino, chissà da dove, e girano attorno lo sguardo per cercarci, con aria grigia e malcontenta. Guai al pensatore che non è il giardiniere, ma soltanto il terreno delle sue piante!».
Meno ovvio è invece l’inserimento in questa genealogia dello Schelling delle Lezioni di Stoccarda, che parla dell’impersonalità dell’anima, o di Bergson, che mostra, attraverso la similitudine del cinema in cui il movimento è prodotto da fotogrammi fissi, come funzioni il dispositivo duale riportato all’unità: prima si fissano le astrazioni e poi si genera meccanicamente il movimento.
L’audace strada percorsa da Esposito è interessante e, in parte condivisibile, in quanto il pensiero, al pari della lingua, non appartiene al soggetto. Eppure, alla De Saussure, un ruolo bisognerebbe pur attribuirlo alla parole, all’elemento di specificità e di creatività di un individuo all’interno della langue impersonale di una comunità. Forse le cose sarebbero più perspicue se Esposito distinguesse tra pensiero (impersonale) e coscienza (personale) di chi pensa.
Se l’alfabeto è una prigione
di Roberto Esposito (la Repubblica, 14.07.2013)
«Note caratteristiche: Andrea Emo, persona di poco fondamento, inetto a qualunque cosa, con qualche vena di pazzia» - così uno dei maggiori filosofi italiani del Novecento si presentava nel 1929 ad un lettore che si augurava non dovesse mai avere. E non sembra una follia scrivere circa quarantamila pagine, senza pubblicarne nessuna, come ha fatto questo pensatore veneto, allievo eterodosso di Gentile, legato da profonda amicizia con Alberto Savinio e Cristina Campo?
Il suo rilievo filosofico è ormai noto da quando, soprattutto ad opera di Massimo Cacciari, alcuni dei suoi frammenti hanno cominciato ad essere pubblicati. Ma forse nessuna delle raccolte precedenti dà ragione della sua scelta di anonimato più di quella, appena edita da Gallucci con il titolo La voce incomparabile del silenzio, a cura di Massimo Donà e Raffaella Toffolo, con tre testi di Cacciari, Giorello e dello stesso Donà.
Se è generalmente vero che senza un possibile destinatario nessuno scriverebbe mai, per Emo chi cerca la celebrità, rendendo pubblico ciò che è privato, svilisce e profana la propria opera. Del resto, egli osserva, di nessuno si è parlato tanto quanto di coloro che, come Socrate, Cristo, Budda e forse perfino Omero, non hanno mai scritto nulla. Questi grandi ‘analfabeti’ - nel senso letterale dell’espressione - non hanno mai voluto imprigionare la parola vivente “nelle carceri dell’alfabeto”. La scrittura è nata, come una sorta di segretario collettivo, quando la memoria dell’umanità è cominciata a declinare. Ma come la scrittura tradisce la parola, così la pubblicazione tradisce l’esigenza intima della scrittura.
Naturalmente per cogliere il senso di queste proposizioni bisogna risalire al cuore della con-cezione di Emo. Più vicino a Schelling che a Hegel e a Fichte, cui invece si richiama Gentile, il suo pensiero va accostato al neoplatonismo lungo la linea che congiunge Meister Eckhart a Cusano. Ma un rimando più prossimo, forse mediato da Cristina Campo, conduce alla prospettiva di Simone Weil. Anche per lei il soggetto - sia divino che umano - si esprime solo negandosi. L’Inizio - anche nel senso cristiano della Creazione - è un atto di svuotamento che fa spazio all’altro da sé. Il Soggetto, in questo caso, non è una sostanza, un fondamento, un ente, ma un niente che può agire soltanto negandosi. Da qui una relazione con il nichilismo, ma anche con la teologia della Croce. Cosa altro annuncia Cristo se non che la Resurrezione passa per la morte? Dio si manifesta non nella gloria, ma nel sacrificio ultimo. Allo stesso modo l’uomo, esposto all’assenza disenso e alla potenza del nulla - l’affinità spirituale con Leopardi è palese - , non può realizzarsi che nella meditazione della propria nullità. Appunto in essa è custodita la libertà dei pensieri. La loro possibilità di non essere “dei subordinati, schiavi, cariatidi di un sistema o di una persona”.
In queste frasi balena un altro, forse ancora più radicale, punto di tangenza con Simone Weil. Si tratta del carattere impersonale del pensiero. Se, come si è detto, il soggetto non può affermarsi che negandosi; se quello che Gentile chiamava ‘atto puro’ passa sempre per uno svuotamento della dimensione soggettiva; se ogni creazione, divina o umana, non è che decreazione, il vero pensiero, il pensiero originario, non può di certo appartenere al soggetto. E infatti, per Emo, “quando si pensa o si scrive, non si deve creare solo il pensiero proprio, ma anche l’altrui”. Il pensiero, nella suaforma originaria, non sta nella coscienza individuale, ma in ciò che la contrasta e la forza ad alterarsi. Anzi quando il pensiero diviene cosciente, “esiste sempre meno”. La coscienza può tornare ad essere creatrice soltanto quando si conosce negativamente. Solo allora, tornata su di un piano impersonale, può creare pensieri nuovi e originali.
Ciò vale ancora di più per la poesia: “Il miracolo della poesia - scrive Emo con una intensità che deve aver colpito Cristina Campo - è sempre l’impersonalità”. In questa rinuncia a tutte le cose e a tutte le forze è il segreto della poesia. Il poeta non parla mai per sé - è un intermediario che, annullando la propria personalità, permette ai sentimenti di manifestarsi allo stato puro, “permette l’apparizione di una verità assoluta, impersonale, e quindi utile e vera per tutti”. Da questo punto di vista, che solo oggi possiamo riconoscere in tutta la sua pregnanza, poeta sommo è Mallarmé, richiamato in molte pagine della raccolta. Come farà lo stesso Emo per la filosofia, egli è stato colui che ha situato la poesia moderna nel punto d’incrocio, sublime impossibile, tra parola e silenzio. Facendo del silenzio la custodia della parola e della parola la voce del silenzio.
Da Dio allo spread il Due è sempre tiranno
Una liberazione dalle gerarchie del capitalismo mondiale chiedendo aiuto ad Averroè, Deleuze e Heidegger
Il soggettivismo personalistico ci fa vedere tutto in termini di colpa, debito, personalismo individuale
di Gianni Vattimo (La Stampa TuttoLibri, 13.07.2013)
Uno dei termini chiave della filosofia recente, introdotto per la prima volta da Heidegger nel 1927 (in Essere e tempo) e poi reso popolare soprattutto da Jacques Derrida è quello di «decostruzione»; in origine, nel testo heideggeriano era semplicemente «distruzione» (della storia dell’ontologia, cioè del modo in cui la tradizione metafisica ha sempre pensato l’essere, identificandolo con ciò che è dato nella presenza). Ma già nell’ opera di Heidegger la distruzione era diventata una specie di riflessione genealogica sulla storia della metafisica occidentale, dunque più una ricostruzione del passato che una sua liquidazione.
Nei filosofi - tanti - che si sono ispirati alla lezione di Heidegger e Derrida rimangono decisivi questi due aspetti del filosofare: l’idea radicale di una distruzione, che si attua, e spesso si esaurisce, in un lungo percorso rammemorativo. Nei casi migliori, come è quello dell’ultimo libro di Roberto Esposito, filosofo napoletano tra i più originali della sua generazione, il risultato è sicuramente affascinante per la quantità di informazione storica che mobilita - da Averroè a Deleuze! - anche se lascia aperte molte domande e giustifica qualche insoddisfazione.
Il Due che dà il titolo al libro di Esposito allude alla struttura teologico-politica della tradizione egemone nella nostra cultura: da sempre siamo abituati a definirci persone in quanto abbiamo un corpo e un’anima, o anche ragione e istinto, spesso in lotta tra di loro, con il dovere di realizzare l’unità attraverso la sottomissione di una parte all’altra. Questo schema ripete quello del rapporto tra Dio e il mondo, che ci sembra del tutto naturale , mentre naturale non è , ed è anzi, alla lunga responsabile del disagio esistenziale in cui viviamo; soprattutto, è la struttura portante di un «dispositivo» fondamentalmente politico che Esposito, nelle pagine conclusive del libro, non esita a identificare con la macchina mondiale del capitalismo che ci impone sempre più esplicitamente una logica del debito insolvibile, anche nei termini del discorso politico quotidiano.
Anche per chi non sempre riesce a seguire il complesso discorso decostruttivo di Esposito, il libro riveste un sicuro interesse per le tante informazioni storiche che mette in campo: così anche il lettore medio leggerà con profitto le pagine sul grande commentario di Averroè (1126-98) al trattato sull’anima di Aristotele, che non è proprio un dato di cultura comune ; o quelle dedicate alle discussioni sulla Trinità tra Carl Schmitt, Erik Peterson, Jacob Taubes; e la parte del libro teoreticamente più impegnata che analizza il rapporto di Schelling (ma qui andava tenuto più presente il lavoro di Pareyson) con Spinoza. Non vogliamo spaventare il lettore con questi richiami perché per la massima parte del lavoro Esposito riesce ad essere chiaro e in genere persuasivo.
In vista di quale conclusione? Come abbiamo accennato, il libro finisce con Deleuze e la sua polemica contro le «territorializzazioni», le divisioni e le gerarchie (sempre il due che ritorna) che caratterizzano la macchina del capitalismo mondiale, e dunque anche il nostro disagio di cittadini di questo ordine-disordine. La decostruzione delle strutture binarie della teologia politica che continua a dominarci dovrebbe preparare una trasformazione radicale del nostro modo di fare esperienza del mondo. Liberandoci soprattutto dal predominio del soggettivismo personalistico, che ci fa vedere tutto in termini di debito, colpa, responsabilità individuale, alla fine anche di nevrosi.
Averroè sta all’inizio di una tradizione liberante che arriva appunto, secondo l’autore, a Bergson, a Deleuze, anche a Heidegger sia pure in termini non esattamente coincidenti. Averroè aveva sostenuto la tesi della unità dell’intelletto , quello che Aristotele chiamava l’intelletto agente, universale, capace della verità, di cui le intelligenze dei singoli sono partecipi solo nella misura in cui si liberano dai limiti e dalla opacità legati alla loro costituzione finita, appunto dal loro essere «persone»..
Ciò che dovrebbe liberarci dal meccanismo del dominio capitalistico, o almeno porre le premesse per questa trasformazione, è la capacità (ma con una decisione sempre ancora «personale»?) di abbandonarci, in una sorta di estasi mistica, al flusso della vita e a una conoscenza che non appartiene più al singolo ma, come la sapienza di cui parla Schelling, è una sorta di teoria-prassi condivisa.
Il rischio di irrazionalismo che percepiamo a questo punto è limitato, come del resto accade in Deleuze e in certa misura, prima ancora, in Heidegger, dal realismo del richiamo alla macchina mondiale del capitalismo. Niente pura ricerca di una liberazione mistica, direbbe Esposito, ma lotta dura per uscire dal dominio del «dispositivo» teologico-politico. O, diremmo noi, semplicemente dalla logica del dominio. Certo il capitalismo non sembra avere niente da temere da questa decostruzione della teologia politica. Ma non si sa mai, anche Averroè (niente da fare con l’islamismo radicale!) potrebbe alla fine dare una mano all’impresa.
“Basta con quel pensiero che ci tiene prigionieri”
Intervista a Roberto Esposito che in un libro affronta il rapporto tra religione e potere
Contro una tradizione che ha identificato il debito con una colpa personale
Intervista di Leopoldo Fabiani (la Repubblica, 27.05.2013)
«Tutti i concetti politici sono concetti teologici secolarizzati ». La celebre definizione di Carl Schmitt ha segnato per tutto il Novecento la riflessione filosofica sulla politica. “Teologia politica” è divenuto così un paradigma irrinunciabile per comprendere non solo i rapporti tra potere e religione, tra Stato e chiesa, ma tutta l’evoluzione della civiltà occidentale.
Ma “teologia politica” è anche una “macchina” di pensiero dentro la quale siamo da sempre imprigionati. La “cattura” non riguarda solo le menti ma, nell’era della biopolitica, anche i corpi, per mezzo del debito, figura centrale della “teologia economica”. È arrivato il momento di liberarcene. Questo è il tema dell’ultimo libro di Roberto Esposito, Due. La macchina della teologia politica e il posto del pensiero (Einaudi, 234 pagine, 21 euro) che esce in questi giorni. Un testo che mentre ricostruisce la genealogia di questa categoria concettuale, ne mina allo stesso tempo le fondamenta.
E sostiene che se vogliamo uscirne non si tratta solo di abbandonare una millenaria tradizione di pensiero, ma anche di ritrovare le ragioni profonde del vivere insieme in una collettività.
Professor Esposito, l’idea della fede come “instrumentum regni” è solo funzionale a una ideologia conservatrice o nasconde qualcosa di più profondo?
«L’idea che senza valori religiosi dominanti non si tenga insieme una società non è solo degli “atei devoti” come Giuliano Ferrara. Anche pensatori raffinati come Massimo Cacciari o Mario Tronti credono che il riferimento alle radici teologiche sia decisivo. Ecco dimostrato, se ce ne fosse bisogno, quanto sia persistente e pervasivo questo modo di pensare».
Altri però ritengono che viviamo nell’era della secolarizzazione, del relativismo, della morale “fai da te”.
«Ma questo non significa affatto che ci siamo “liberati”. Categorie come “secolarizzazione”, “disincanto” “ateismo” sono concetti teologici negativi o rovesciati. Esistono solo all’interno di quell’orizzonte che si vorrebbe invece oltrepassare».
Possiamo fare un esempio di qualche concetto “teologico” operante nell’attualità politica di questi giorni?
«Se ne possono fare molti, pensiamo al dibattito recente sul presidenzialismo. Si è sostenuto che siamo una società che non può fare a meno della figura del padre. Ora, l’azione del presidente Napolitano è stata un bene per tutti, ha trovato soluzioni, ha sbloccato una situazione che era arrivata alla paralisi. Sul piano simbolico però c’è qualcosa che non va. Perché la democrazia non deve essere un regime di “figli”, bensì di “fratelli”. Non è vero che abbiamo bisogno di un riferimento superiore, trascendente».
Ma in cosa consiste il meccanismo oppressivo che lei attribuisce alla teologia politica?
«È una tradizione di pensiero che taglia in due le nostre vite. Che tende a realizzare l’unità attraverso l’emarginazione di una delle parti. Che esclude mentre pretende di includere. L’uguaglianza, storicamente, è stata sempre “tagliata”: tra bianchi e neri, uomini e donne. Ecco, l’Occidente che sottomette il resto del mondo, la globalizzazione che impoverisce tante parti di umanità».
Secondo lei è giunto il momento di uscire da questo “dispositivo” che ci ha catturati e impedisce un’autentica libertà di pensiero. Ma come è possibile riuscirci?
«Non è certo un compito facile, al contrario, è difficilissimo. Io credo che la cappa che ci tiene prigionieri e che dobbiamo provare a rompere, sia fondata sul concetto di persona. Più precisamente, sull’idea che il pensiero appartenga al singolo, all’individuo. Dopo Cartesio, ci pare ovvio. Invece occorre tornare a una tradizione che da Aristotele arriva a Bergson e Deleuze, passando per Averroè, Dante e Spinoza. È una catena che risale all’antichità dove il pensiero è visto come un luogo che tutti possiamo attraversare, un patrimonio cui tutti possiamo attingere. Il primo e più importante, si potrebbe dire, dei beni comuni».
Arriviamo alla “teologia economica” dove la parte centrale del suo ragionamento si svolge attorno all’idea di debito.
«Intanto pensiamo all’ironia di definire i debiti degli stati con l’espressione “debito sovrano” (concetto, quello di sovranità eminentemente teologico). Oggi, chiaramente, la sovranità non appartiene più ai singoli stati, ma alla finanza». Cosa c’è di teologico nel concetto di debito?
«Walter Benjamin definiva il capitalismo “l’unico culto che non purifica ma colpevolizza”. L’origine teologica di questo concetto è chiarissima. Se pensiamo che nella lingua tedesca la stessa parola significa sia debito sia colpa, capiamo molte cose. Comprendiamo perché i tedeschi vivano se stessi come virtuosi e considerino ad esempio i greci non solo indebitati, ma anche colpevoli. Ma oggi, attraverso il debito pubblico, siamo tutti indebitati».
Siamo tutti “prigionieri” del debito?
«Nietzsche diceva che il debito ci ha reso tutti schiavi gli uni degli altri. E non solo in senso simbolico. Il cerchio biopolitico che lega il corpo del debitore al creditore ha origini lontane. L’istituzione romana del “nexum” consegnava il destino della persona indebitata al suo creditore, che ne poteva disporre liberamente, per la vita e per la morte. Il mercante di Venezia di Shakespeare pretende di essere ripagato con una libbra di carne da chi non può farlo col denaro. Ma anche oggi il debito si paga con la vita. Pensiamo agli immigrati che devono ripagare per sempre con il lavoro chi gli ha prestato i soldi per uscire dai loro paesi. Pensiamo ai suicidi per debiti».
Se siamo arrivati a questo punto non è solo frutto della “macchina” teologica, ci sono anche responsabilità più recenti.
«Senza dubbio tutto questo processo è stato agevolato dalla governance liberale, attuata a partire dagli anni di Margaret Thatcher e Ronald Reagan, che non ci ha affatto liberato, anzi. Ha trasformato il welfare in un peso insostenibile, teorizzando il “Lightfare”, lo stato leggero. È l’ideologia dell’“ognuno per sé” che ha portato alla crisi e reso il 99% della popolazione più povera». Per liberarci come individui, lei sostiene, bisogna agire collettivamente.
«Io credo di sì. Il meccanismo di sviluppo va cambiato, dobbiamo tornare a pensare agli investimenti socialmente utili, non al guadagno personale. In questo ci aiuta il concetto di “communitas”. Che significa avere in comune un “munus”, parola che originariamente significava al tempo stesso debito e dono. Nelle società arcaiche il debito era vissuto come un legame sociale. Essere comunità non significa cercare di sopraffarsi uno con l’altro, ma sentirsi vincolati da un dono di fratellanza ».
Storia del pensiero senza la persona
Da un testo di Simone Weil fino all’arte contemporanea
di Roberto Esposito (la Repubblica, 23.02.2013)
C’è qualcosa di enigmatico e di urtante - che cozza inevitabilmente col senso comune - nello straordinario frammento di Simone Weil La persona e il sacro, adesso edito da Adelphi, a cura di Maria Concetta Sala, con una postfazione di Giancarlo Gaeta intitolata Il passaggio nell’impersonale.
La questione è proprio quella racchiusa in quest’ultimo termine. Cosa è l’impersonale e in che senso interpella il pensiero? In quali scaturigini affonda e in quale direzione muove? Per rispondere a queste domande bisogna partire dalla tesi più radicale avanzata dalla Weil con il coraggio che le era proprio.
Appena prima della fine della guerra, nel momento in cui più forte soffiava il vento del personalismo, rilanciato dagli interventi di Mounier e di Maritain, subito recepiti nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948, Simone, solitariamente, afferma che «la nozione di diritto, proprio per la sua mediocrità, trascina naturalmente al suo seguito quella di persona, perché il diritto è relativo alle cose personali. È posto a questo livello». Concludendo che «ciò che è sacro, lungi dall’essere la persona, è quello che in un essere umano è impersonale».
Cosa voleva dire? Come osava sfidare il più potente totem della cultura democratica? Per capirlo bisogna leggere le pagine che, non solo in questo testo, aveva dedicato al diritto romano e alla funzione escludente che in esso giocava la categoria di persona.
Tale termine, a Roma, non designava per nulla il singolo individuo. Rimandava, piuttosto, secondo l’etimo, alla sua maschera sociale, ad uno stato giuridico che, pur comprendendo in astratto tutti gli esseri viventi, li discriminava, ponendo gli uni nella piena disponibilità di altri. Al punto che la maggioranza dei romani - esclusi i maschi liberi e adulti - finiva per oscillare tra la categoria di persona e quella di cosa posseduta.
In tal modo proprio quel concetto, oggi assunto a garanzia del rispetto per ogni individuo, è stato a lungo, e per certi versi continua ad essere, un dispositivo di discriminazione tra “persone vere e proprie” e semplici appartenenti al genere homo sapiens, come filosofi liberali quali Peter Singer e Hugo Engelhardt continuano a teorizzare. Del resto, se forse nessun altro ha colto la questione con la nettezza provocatoria di Simone Weil, il riferimento, implicito o esplicito, all’impersonale, come punto di unificazione dell’uomo con se stesso, attraversa l’intero Novecento.
Che rilievo abbia avuto nella nozione freudiana di inconscio, volta appunto a decostruire le ingenue pretese di autodominio del soggetto personale, è fin troppo evidente. Ma si può ben dire che l’intera arte contemporanea - assai più pronta della filosofia a recepire gli umori profondi del tempo - si costituisca nella critica della nozione classica di soggetto. Basti pensare alla decostruzione della figura in tutta la pittura novecentesca, almeno a partire dal cubismo. Per non parlare della letteratura.
Quando Maurice Blanchot sostiene che «scrivere equivale a passare dalla prima alla terza persona» (L’intrattenimento infinito, Einaudi 1977), si riferisce appunto a quel processo sotterraneo che disloca tutta l’esperienza letteraria novecentesca verso la terra dell’impersonale. E cosa di diverso intendeva, il protagonista dell’Uomo senza qualità, quando affermava che «poiché le leggi sono la cosa più impersonale del mondo, la personalità non sarà ben presto che l’immaginario punto d’incontro dell’impersonale» (Einaudi 1965)? Essendo venuta meno l’identità personale - tanto che a distanza di qualche anno si assomiglia più agli altri che a se stessi - il mondo ha assunto una configurazione eccentrica rispetto alla classica bipartizione tra soggetto e oggetto.
Quanto al cinema e alla musica contemporanea, se ne capirebbe ben poco fuori dal riferimento all’impersonale. Da Ejzenstejn a Pelesjan l’immagine cinematografica passa dietro o davanti il soggetto - lo attraversa e lo sfonda. Non diversamente da come il suono pieno si spezza, o si interrompe, nella dodecafonia. Rispetto a tutto ciò può apparire che il pensiero sia in grave ritardo. Solo da poco, in connessione con la critica del dispositivo giuridico della persona, ha aperto una interrogazione radicale sul significato dell’impersonale.
Eppure una vena profonda - che si può far partire dall’averroismo - percorre, come una trama nascosta, la storia del pensiero. Autori come Giordano Bruno, nettamente avverso alla categoria teologica di persona, o come Spinoza, già avevano posto le domande decisive su ciò che significa oltrepassare il lessico antropocentrico, in una prospettiva che ricollochi l’uomo in una relazione costitutiva col mondo e con le altre specie viventi.
Proprio l’attuale ripresa della categoria di vita - diversamente dalle filosofie del soggetto e dell’oggetto - costituisce il centro focale di un nuovo pensiero che, soprattutto in Francia e in Italia, taglia in maniera trasversale il dibattito filosofico.
Una vita... è il titolo dell’ultimo testo, interamente affacciato sul bordo dell’impersonale, che ci ha lasciato Gilles Deleuze (adesso in Due regimi di folli e altri scritti, Einaudi 2010). Cosa altro è la vita, se non quanto abbiamo di più impersonale, perché non ci appartiene in proprio, e di più singolare, perché assolutamente irripetibile?
CEDIMENTO STRUTTURALE DELLA FIDUCIA:
Sulla fiducia. Il senso della comunità al tempo della crisi
di Roberto Esposito (la Repubblica, 3 settembre 2012)
Chi si aspettasse di trovare nel libro di Michela Marzano Avere fiducia. Perché è necessario credere negli altri, appena tradotto da Mondadori, un esercizio di tradizionale filosofia morale, rimarrebbe positivamente sorpreso. Non solo esso prende una salutare distanza da luoghi comuni sempre più diffusi - come quello della equivalenza tra verità e assoluta trasparenza -, ma annoda con esiti di particolare rilievo il linguaggio filosofico a quelli sociologico, antropologico, economico.
Del resto quale concetto, più di quello di fiducia, si pone nel punto di incrocio e di tensione tra il lessico teologico della fede, quello sociale della credenza e quello economico del credito? Per inquadrarlo in tutta la sua valenza l’autrice attiva uno sguardo genealogico che dall’età classica - ancora basata sull’onore ed il rispetto della promessa - arriva alla modernità, in cui la categoria di fiducia subisce una serie di contraccolpi che finiscono per rovesciare la société de confiance nella société de défiance - come si intitolano rispettivamente i saggi di A. Peyrefitte (Odile Jacob, 2005) e di Y Algan e P. Cahuc (Presse de l’Ecole normale supérieure, 2007).
Il punto di innesco di questo processo di secolarizzazione è costituito dalla critica cui i moralisti francesi, come Pascal, La Rochefoucauld e La Bruyère, sottopongono le antiche virtù eroiche dell’onore e della lealtà. Mandeville e Adam Smith assumono la medesima concezione disincantata, pur capovolgendone le conclusioni: sono proprio i vizi privati, e cioè gli interessi particolari, a costituire, nel loro insieme, la sorgente della ricchezza sociale. Ma questo passaggio dal negativo al positivo, presto traslato nell’immagine liberale della ‘mano invisibile’, si basa sulla sovrapposizione indebita tra la nozione, etica, di fiducia e quella, economica, di interesse: la “società di fiducia” di cui parla Smith poggia in realtà sulla generalizzazione della sfiducia reciproca.
È qui che l’autrice innesta il vettore forse più originale della propria ricerca, profilando con rapidi tratti il transito, genialmente intuito dall’economista scozzese John Law, dal sistema monetario incentrato sull’oro a quello fondato sull’emissione dei biglietti bancari e delle carte di credito. Il quale non può poggiare che sulla fiducia reciproca degli attori economici. Ma proprio qui inizia ad aprirsi quella frattura antropologica che oggi minaccia di diventare una vera e propria voragine: come conservare la fiducia nella solvibilità degli individui, delle banche o degli stessi Stati che le garantiscono, quando gli uomini si comportano in maniera palesemente egoistica? È come se tutto il castello dell’economia moderna poggiasse su un fondamento di carta destinato a strapparsi al primo urto.
La storia delle molteplici crisi finanziarie, dalla bancarotta del 1720 in Francia a quella dei nostri giorni, al di là delle ovvie differenze di tempo e di contesto, rimanda a questo vuoto originario, a partire dal quale la sfiducia tende sempre più rapidamente a sfondare le fragili pareti della fiducia: come scriveva Duclos nelle sue Memorie segrete, “la fiducia si ispira per gradi, ma basta un istante per distruggerla, e, allora è in qualche modo impossibile ristabilirla”. Senza una credibilità diffusa, l’intero sistema economico minaccia di crollare, ma per crearla occorre che da qualche parte si dia prova di meritarla.
È il cortocircuito in cui la speculazione finanziaria ha trascinato prima l’economia americana e poi il resto del mondo: il mancato pagamento dei subprimes ha portato alla caduta del prezzo degli alloggi ipotecati senza copertura. Ciò, a sua volta, ha determinato una generale crisi del credito e una conseguente perdita di fiducia nei confronti dell’intero sistema finanziario.
Tutto ciò è ben noto agli economisti. Che però tendono a restare chiusi all’interno del loro orizzonte, impedendosi così di vedere quella faglia che lo sottende, sulla quale concentra invece l’attenzione la Marzano. Quando il senso comune diventa quello efficacemente stilizzato nel film di Ridley Scott Nessuna verità (2008) “Non fidarti di nessuno. Inganna tutti”, la soglia di guardia è abbondantemente superata.
La fiducia, ridotta a credito economico, o a contratto giuridico, non è che l’ombra deformata della diffidenza. A quel punto, rotti gli argini etici che tengono insieme gli uomini, nulla può più arrestare la valanga. Quando, già nel 1937, Franklin D. Roosevelt affermava che l’egoismo è cattivo non solo moralmente, ma anche economicamente, coglieva l’anello decisivo della catena di crisi economiche che avrebbero squassato il sistema capitalistico.
Ad uscirne non bastano i - pur necessari - provvedimenti economici. E neanche solamente quelli politici. Serve un sommovimento generale delle coscienze che liberi l’idea, e la pratica, della fiducia dalla sua sudditanza all’ideologia dell’interesse. Alla sua base non vi può essere solo la fiducia in se stessi predicata dai nuovi addestratori di manager e trader, quanto il coraggio di fare la prima mossa - credere negli altri prima ancora che questi credano in te.
Con tutto il rischio che tale opzione comporta. Certo, guardarsi dalla sempre possibile cattiva fede altrui è opportuno, ma senza per questo presumere di dovere avere tutto sotto controllo. Un discorso - quello della Marzano - traducibile nelle categorie di comunità e di immunità: l’eccesso di protezione immunitaria contro il possibile pericolo conduce non solo alla rottura del legame sociale, ma anche al rischio mortale di una malattia autoimmune.
La teologia della libertà.
Perché la fede deve dialogare con il pensiero eretico
di Roberto Esposito (la Repubblica, 30 marzo 2012)
C’è qualcosa, nell’ultimo libro di Vito Mancuso edito da Fazi col titolo Obbedienza e libertà. Critica e rinnovamento della coscienza cristiana - che va anche al di là delle sue tesi originali ed ardite. Si tratta di una forza emotiva, di un’energia viva, che coinvolge il lettore in una sfida cui risulta difficile sottrarsi.
La posta in gioco è alta e decisiva per una tradizione, come la nostra, radicata nel dialogo critico con il cristianesimo. E ciò anche a prescindere dal punto di vista religioso - laico o perfino ateo, dell’interlocutore. Nessuna di queste posizioni assume senso, d’altra parte, fuori dal rapporto, affermativo o negativo, con la questione di Dio. Più precisamente, con la relazione tra Cristo e la verità.
Ma, perché essa diventi davvero la nostra questione - perché in essa ne vada della vita e della morte di ciascuno di noi, credenti o meno - bisogna che venga formulata nella sua modalità più radicale, a rischio di spezzare il guscio protettivo in cui tutti noi, cristiani e laici, custodiamo le nostre certezze.
È questo l’obiettivo che da tempo Mancuso ha assegnato alla propria ricerca teologica, congiungendo il più inteso impegno spirituale alla massima libertà teoretica, secondo l’esigente richiesta di Giacomo (2, 12) «Parlate e agite come persone che devono essere giudicate secondo una legge di libertà».
L’elemento su cui va concentrata l’attenzione, in questa teologia della libertà, è proprio il nesso costitutivo tra parola ed azione. Un pensiero, non misurato alla prova dell’azione concreta, si ripiega su se stesso e si spegne. Ma anche un’azione che perda il rapporto con il pensiero è destinata a smarrire il proprio senso. È appunto quanto accade oggi alla Chiesa cattolica che, certo presente nella società dal punto di vista delle opere, appare sempre più incerta ed esitante su quello dei principî. Perché? - si chiede Mancuso. Cosa, quale peso gravoso, sembra trattenere la Chiesa di Roma sempre al di qua di se stessa, chiudendola alla comprensione del mondo che la circonda e così sottraendola alla propria missione evangelica?
La risposta, netta fino all’asprezza, dell’autore è che si tratta del timore di confrontarsi con quella parte di sé, del suo passato ma anche del suo presente, che la trascina in basso, portandola a preferire alla parola di Cristo quella dei suoi persecutori - a rinnegarlo e a rinchiuderlo in una cella come fa il Grande Inquisitore di Dostoevskij.
Del resto la figura sinistra che compare ne I Fratelli Karamazov non è un’invenzione fantastica dello scrittore russo, se quel concentrato di superstizione e di orrore, istituito da Paolo III con il nome famigerato di Sacra Congregazione della Romana e Universale Inquisizione, solo nel 1965, alla conclusione del Concilio vaticano II, è potuto diventare l’odierna Congregazione della Dottrina della Fede.
Ebbene, se il Cristianesimo non trova il coraggio di tornare su questa vergognosa macchina del sangue, che ha mortificato, tormentato, stritolato, letteralmente mandandola in cenere, l’intelligenza o la vita di un numero impressionante di uomini straordinari, come Hus e Serveto, Bruno e Galileo, se non fa questo passo decisivo nel proprio passato delirio di cui il papato stesso si è fatto per secoli garante, non sarà capace di ritrovare quella forza necessaria a riformarsi nel profondo.
Non è solo questione di riparare torti, ormai irreparabili, rispetto a coloro che furono dichiarati eretici, ma di porre l’eresia al centro stesso della fede - come la linea di fuoco nei confronti della quale solamente il cristianesimo può ancora sperimentare la propria ispirazione e profondità. Solo se incorpora quella esigenza assoluta di verità - «La verità è avanti tutte le cose, è con tutte le cose, è dopo tutte le cose», affermava Giordano Bruno -, scelta dagli eretici come propria ultima testimonianza, la fede potrà confrontarsi senza complessi con un mondo che sembra metterla ai margini anche per la sua mancanza di onestà intellettuale.
Ma per conquistare questa estrema libertà interiore nella, e anche contro, la dottrina ufficiale, per abbattere quel generale dispositivo dell’obbedienza elevato da grandi e piccoli inquisitori, è necessaria una svolta senza compromessi nella stessa concezione della verità, di cui la Chiesa si ritiene depositaria al punto di aver voluto a lungo convertire ad essa, anche con la forza, coloro che la negavano.
Da un lato essa va pensata non contro, ma attraverso la contraddizione che porta dentro, secondo la traduzione che una volta il cardinale Martini dette del motto Pro veritate adversa diligere - «essere contenti della contraddizione»; dall’altro va rimessa a contatto diretto con la vita, dal momento che «il pensiero, quando è vero, è pensiero della vita, e in ciò e perciò è pensiero di Dio» (Karl Barth). Non è la verità che può verificare la vita, ma la vita che verifica, di volta in volta, la verità. La quale non va pensata come un insieme di dottrine statiche e bloccate su se stesse, ma come un farsi dinamico che risponde alle domande della contemporaneità.
Qui Mancuso si impegna in un vero corpo a corpo con il più grande antagonista moderno del cristianesimo, vale a dire quel Nietzsche che appunto alla vita riconduceva la realtà del pensiero. Ma con la differenza decisiva che mentre egli individuava nella potenza il significato stesso della vita, Mancuso, in conformità con il messaggio di Cristo, lo pone nel bene. Nulla come un passo di Simone Weil, vera fonte di ispirazione dell’autore, ne illumina il senso, allorché ella scrive che su questa terra non c’è altra forza che la forza, ma che anche la forza suprema deve sottostare a un limite cui la tradizione ha dato il nome impersonale di giustizia.
Sul carattere "impersonale" della giustizia può farsi una riflessione, che segnala, se non un punto cieco, un passaggio mancato, o almeno incompleto, del discorso di Mancuso. Si tratta del lessico personalista che egli - peraltro in buona compagnia (si veda in proposito il libro di Roberta De Monticelli La novità di ognuno. Persona e libertà, Garzanti) - adopera nella sua intera opera, senza accorgersi che è stato proprio attraverso di esso che, dai primi secoli cristiani, è stata elaborata quella teologia politica che pure contesta.
Del resto nella sua originale ricerca filosofica sul significato dell’anima, richiamando l’intelletto attivo di cui parla Aristotele, Mancuso perviene a sfiorare la più eretica teoria di Averroé - altra vittima dell’intransigenza religiosa, in quel caso islamica - di un’intelligenza separata e impersonale. Solo in questo modo il bene può essere inteso come pura relazione che riguarda tutti, anziché come prerogativa di un singolo individuo. Nel punto forse più ispirato del suo libro, Mancuso scrive che la formulazione «In principio era il logos» può essere intesa non solo come «In principio era l’azione» (Goethe), ma anche come «In principio era la relazione» - l’essere in comune non ancora diviso, e discriminato, tra i vari soggetti personali.
Del resto questa era anche la tesi di quel Sigieri di Brabante, citato dall’autore perché trucidato per le sue posizioni averroiste e posto invece nel Paradiso da Dante. D’altra parte perché fu condannato Bruno, se non per aver negato il concetto di persona, sia nell’uomo che in Dio, a favore del principio impersonale della vita infinita?
Non c’è modo migliore di congedarsi da un libro, alto e forte, come quello di Mancuso che citando la sua autrice preferita: «Ciò che è sacro, ben lungi dall ’essere la persona, è ciò che, in un essere umano, è impersonale (...) Ognuno di quelli che sono penetrati nella sfera dell’impersonale vi incontra una responsabilità verso tutti gli esseri umani. Quella di proteggere in loro, non la persona, ma tutto ciò che la persona racchiude di fragili possibilità di passaggio nell’impersonale» (Simone Weil, La persona e il sacro).
Se la feroce religione del denaro divora il futuro
di Giorgio Agamben (la Repubblica, 16.02.2012)
Per capire che cosa significa la parola "futuro", bisogna prima capire che cosa significa un’altra parola, che non siamo più abituati a usare se non nella sfera religiosa: la parola "fede". Senza fede o fiducia, non è possibile futuro, c’è futuro solo se possiamo sperare o credere in qualcosa.
Già, ma che cos’è la fede? David Flüsser, un grande studioso di scienza delle religioni - esiste anche una disciplina con questo strano nome - stava appunto lavorando sulla parola pistis, che è il termine greco che Gesù e gli apostoli usavano per "fede". Quel giorno si trovava per caso in una piazza di Atene e a un certo punto, alzando gli occhi, vide scritto a caratteri cubitali davanti a sé Trapeza tes pisteos. Stupefatto per la coincidenza, guardò meglio e dopo pochi secondi si rese conto di trovarsi semplicemente davanti a una banca: trapeza tes pisteos significa in greco "banco di credito".
Ecco qual era il senso della parola pistis, che stava cercando da mesi di capire: pistis, " fede" è semplicemente il credito di cui godiamo presso Dio e di cui la parola di Dio gode presso di noi, dal momento che le crediamo. Per questi Paolo può dire in una famosa definizione che "la fede è sostanza di cose sperate": essa è ciò che dà realtà a ciò che non esiste ancora, ma in cui crediamo e abbiamo fiducia, in cui abbiamo messo in gioco il nostro credito e la nostra parola. Qualcosa come un futuro esiste nella misura in cui la nostra fede riesce a dare sostanza, cioè realtà alle nostre speranze.
Ma la nostra, si sa, è un’epoca di scarsa fede o, come diceva Nicola Chiaromonte, di malafede, cioè di fede mantenuta a forza e senza convinzione. Quindi un’epoca senza futuro e senza speranze - o di futuri vuoti e di false speranze. Ma, in quest’epoca troppo vecchia per credere veramente in qualcosa e troppo furba per essere veramente disperata, che ne è del nostro credito, che ne è del nostro futuro?
Perché, a ben guardare, c’è ancora una sfera che gira tutta intorno al perno del credito, una sfera in cui è andata a finire tutta la nostra pistis, tutta la nostra fede. Questa sfera è il denaro e la banca - la trapeza tes pisteos - è il suo tempio. Il denaro non è che un credito e su molte banconote (sulla sterlina, sul dollaro, anche se non - chissà perché, forse questo avrebbe dovuto insospettirci - sull’euro), c’è ancora scritto che la banca centrale promette di garantire in qualche modo quel credito.
La cosiddetta "crisi" che stiamo attraversando - ma ciò che si chiama "crisi", questo è ormai chiaro, non è che il modo normale in cui funziona il capitalismo del nostro tempo - è cominciata con una serie sconsiderata di operazioni sul credito, su crediti che venivano scontati e rivenduti decine di volte prima di poter essere realizzati. Ciò significa, in altre parole, che il capitalismo finanziario - e le banche che ne sono l’organo principale - funziona giocando sul credito - cioè sulla fede - degli uomini.
Ma ciò significa, anche, che l’ipotesi di Walter Benjamin, secondo la quale il capitalismo è, in verità, una religione e la più feroce e implacabile che sia mai esistita, perché non conosce redenzione né tregua, va presa alla lettera. La Banca - coi suoi grigi funzionari ed esperti - ha preso il posto della Chiesa e dei suoi preti e, governando il credito, manipola e gestisce la fede - la scarsa, incerta fiducia - che il nostro tempo ha ancora in se stesso. E lo fa nel modo più irresponsabile e privo di scrupoli, cercando di lucrare denaro dalla fiducia e dalle speranze degli esseri umani, stabilendo il credito di cui ciascuno può godere e il prezzo che deve pagare per esso (persino il credito degli Stati, che hanno docilmente abdicato alla loro sovranità).
In questo modo, governando il credito, governa non solo il mondo, ma anche il futuro degli uomini, un futuro che la crisi fa sempre più corto e a scadenza. E se oggi la politica non sembra più possibile, ciò è perché il potere finanziario ha di fatto sequestrato tutta la fede e tutto il futuro, tutto il tempo e tutte le attese.
Finché dura questa situazione, finché la nostra società che si crede laica resterà asservita alla più oscura e irrazionale delle religioni, sarà bene che ciascuno si riprenda il suo credito e il suo futuro dalle mani di questi tetri, screditati pseudosacerdoti, banchieri, professori e funzionari delle varie agenzie di rating.
E forse la prima cosa da fare è di smettere di guardare soltanto al futuro, come essi esortano a fare, per rivolgere invece lo sguardo al passato. Soltanto comprendendo che cosa è avvenuto e soprattutto cercando di capire come è potuto avvenire sarà possibile, forse, ritrovare la propria libertà. L’archeologia - non la futurologia - è la sola via di accesso al presente.
Ma la fiducia è diversa dalla fede
di Mario Perniola (la Repubblica, 18 febbraio 2012)
Caro Direttore,
l’articolo di Giorgio Agamben "Se la feroce religione del denaro divora il futuro" (La Repubblica, 16 febbraio 2012) ha il merito di mostrare come perfino l’interesse economico, che dovrebbe essere l’ambito per eccellenza della razionalità e del calcolo, possa dar luogo ad un fanatismo e ad un accecamento, nei quali va perduto il senso della vita. Tuttavia l’articolo si presta ad un equivoco piuttosto pericoloso in un’epoca come la nostra in cui è più che mai opportuno stare dalla parte della ragione. Infatti, Agamben confonde la fiducia con la fede.
A queste due parole corrispondono due verbi del greco antico che, pur provenendo dalla stessa radice, hanno assunto significati molto differenti. La fiducia è connessa al verbo peítho, che nella forma passiva e media vuol dire "fidarsi di una persona o di una cosa"; la fede, che è credenza dogmatica, corrisponde al verbo pisteúo, da cui appunto pístis. La fiducia significa essere e restare in uno stato di sicurezza e di calma, qualsiasi cosa succeda: non si tratta di convincere o imporre agli altri il proprio punto di vista o addirittura la condivisione di qualche "valore".
L’accento è posto sulla condizione di sicurezza del "giusto" che, secondo la Bibbia, riposa sulla sua illimitata fiducia in Jahvé. Una cosa completamente diversa è la pístis che è legata al proselitismo e quindi sollecita un’esplicita adesione a una determinata dottrina o religione.
Perciò la nozione di fede urta la sensibilità di chi è allergico ai dogmi e alle prediche: essa implica un’intimazione a credere alcunché e a comportarsi in un certo modo. Essa apre la strada all’intolleranza o perlomeno a un sentire esaltato di cui non abbiamo per niente bisogno nel campo etico-politico; lasciamolo alla letteratura e alle arti.
Esposito, Roberto, Terza persona. Politica della vita e filosofia dell’impersonale.
Torino, Einaudi, 2007, pp. 184, € 17,00, ISBN 9788806187811.
Recensione di Gianmaria Merenda ( ReF- 27/04/2008)
Filosofia politica
Indice - L’autore
L’autore, nell’introduzione al proprio lavoro concernente la categoria di persona, mette in chiaro un fatto indiscutibile, apparentemente incontestabile, sicuramente paradossale: “Se c’è un postulato indiscusso nel dibattito contemporaneo, esso riguarda il valore universalmente conferito alla categoria di persona” (p. 3). Iniziare un lavoro esplicitando che l’argomento di cui si vuole discutere è quasi off-limits non è male. Suona un po’ retorico, ma con il dipanarsi dell’opera viene in luce l’obiettivo di Esposito: sondare il campo, forse gettare l’esca, tanto per vedere che effetto può sortire in ambito accademico-filosofico.
Difatti il testo sembra improntato sul versante ricognitivo più che su quello definitivo, ovvero per la definizione di una teoria risolutiva al problema. Questo però non toglie che si tratti di un’ottima base di partenza per ulteriori e successive ricerche, quasi doverose visto il “la” di Esposito. La particolare caratteristica si comprende anche dal fatto che non esiste una bibliografia finale, così come manca del tutto un indice dei nomi, utili strumenti per comprendere l’impianto di un’opera. Non crediamo che si sia trattato di una certa pigrizia compositiva ma che, anzi, sia l’indizio di un lavoro di ricerca ancora tutto in itinere e per questo non concluso con poderosi, ma spesso annichilenti, apparati paratestuali. Ne deriva un correre di qua e di la tra le pagine per cercare il nome citato, il testo e l’autore che si desidera trovare in ogni saggio, fosse solo per capire in una rapida lettura se il testo può essere compreso in un determinato filone di ricerca.
Un primissimo inquadramento del concetto di persona si ha a pagina sette: “Quella di persona appare l’unica categoria capace di unificare uomo e cittadino, anima e corpo, diritto e vita”. Constatazione repentina per essere messa in introduzione. Infatti poco sotto l’autore si chiede se in qualche modo possa bastare ciò per giustificare il massacro continuo, lo stillicidio silenzioso, che, nonostante la dichiarazione dei diritti dell’uomo, la persona per eccellenza, quotidianamente si attua nel mondo e nella storia ai danni dell’uomo stesso. “Se con questo termine si voleva alludere all’ingresso dell’intera vita umana nel cerchio protettivo del diritto, si è costretti ad ammettere che oggi nessun diritto è meno garantito di quello della vita” (p.7). Perentorio e lapidario. Esposito da queste parole raggelanti per la loro inerte verità inizia una breve storia delle motivazioni che hanno portato alla disfatta del diritto sul fronte della difesa della vita umana. Qui si presenta la tesi che caparbiamente si porterà avanti per l’intero sviluppo del testo, ovvero che proprio il concetto di persona ha introdotto una frattura insanabile tra diritto e vita. Proprio nel momento in cui i popoli del mondo hanno cercato di interrompere gli spargimenti di sangue stabilendo con la dichiarazione dei diritti dell’uomo un invalicabile limite, questa dichiarazione divenne la base edificante dei successivi massacri.
Causa di tutto ciò pare essere l’introduzione di paradigmi biologici all’interno del lessico di filosofia e politica. Dal XIX secolo in poi le nozioni della “teoria organicistica del linguaggio” di Schleicher, gli sviluppi della fisiologia apportati dal fisiologo Bichat, tesi poi approfondite e tradotte in filosofia da Schopenhauer, e da Comte in ambito sociologico, porteranno alla moderna branca della filosofia politica che prende il nome di “biopolitica” (p. 9). Questo il cancro che una volta incistato nelle altre scienze si svilupperà fino alla fioritura della morte in serie della macchina di sterminio totalitaria. “Ciò è l’esito di uno spostamento paradigmatico che va anche al di là della semplice contaminazione lessicale tra discipline differenti. Quello che in esso si registra è una sorta di effetto retroattivo, o di rimbalzo prospettico, in base al quale l’influsso della biologia sulla politica viene caricato di significato politico aggressivo ed escludente” (p. 10).
Il concetto di persona è dunque associato all’uomo in quanto essere animale con delle peculiari caratteristiche che lo distinguono dagli altri animali. Un quid in più che solo l’essere umano possiede rispetto agli altri animali: la capacità di astrazione. Il problema nasce però da quel resto di animalità che insiste in ogni essere umano. Su quel resto andranno ad infrangersi i sogni di giustizia di ogni diritto positivo. Le sfumature infinite che si possono dare all’ineludibile caratteristica dell’uomo, saranno di fatto la continua apertura del diritto verso una tanatologia incurante del diritto stesso, un’antroposociologia virata verso una zoologia comparata, per utilizzare le parole di Esposito. Il “dispositivo” persona opera una spaccatura nell’ambito del riconoscimento dell’esser umano: da una parte una categoria astratta di persona, gestibile in vari modi, verrebbe da dire spinoziani, dall’altra parte “un uomo come essere naturale cui può convenire o meno uno statuto personale” (p. 13). Da qui tutto il delirio razzista ed eugenetico.
A questo punto dell’introduzione Esposito mette in gioco un concetto pesante nel tentativo di svincolarsi dal pericoloso postulato di persona che ha appena illustrato: l’impersonale. La terza persona come unica via d’uscita alla dicotomia uomo/persona. “L’impersonale - si potrebbe dire - è quel confine mobile, quel margine critico, che separa la semantica della persona dal suo naturale effetto di separazione. Che blocca il suo esito reificante. Non è la sua negazione frontale [...] ma la sua alterazione, o estroflessione, in un’esteriorità che ne revoca in causa e rovescia il significato prevalente” (p. 19).
Il lavoro di Esposito, in un certo senso, potrebbe considerarsi concluso in questa introduzione, per i motivi, di ricognizione, che si elencavano poco sopra. Invece con Deleuze e Kojève, con i loro apparati di differenziazione, dell’evento e del divenire animale, Esposito rilancia la definitiva sfida teoretica, foriera, c’è da sperarlo, di ulteriori sviluppi: “La figura estrema, quasi postuma, del ‘divenire animale’ - che sembra anticipare nel presente l’immagine preumana, o postumana, proiettata da Kojève alla fine della storia - apre il pensiero dell’impersonale a una prospettiva ancora ignota nel suo significato d’insieme. Ciò che in essa si profila, ormai fuori dalla sagoma fatale della persona, e dunque anche dalla cosa, non è solo la liberazione dell’interdetto fondamentale del nostro tempo. È anche il rimando a quella riunificazione tra forma e forza, modo e sostanza, bíos e zoé, sempre promessa, ma mai davvero sperimentata” (p. 24).
Il primo capitolo intitolato “La doppia vita (la macchina delle scienze umane)” è un largo scorcio della pesante eredità che le così dette scienze umane si portano appresso dopo aver incamerato al loro interno i paradigmi della fisiologia. Il pesante fardello che ha generato in successione le teorie razziste, le persecuzioni e l’eliminazione di una parte del genere umano, sta nel aver diviso e valorizzato la vita umana in due grandi contenitori pronti per essere sfruttati dalle grandi ideologie del XX secolo: l’uomo e la persona. L’essere umano come oggetto che sorregge la persona umana, ammette la possibilità tassonomica di dividere il genere umano in differenti categorie animali, non umane, e per questo non in grado di assicurarsi una personalità definita e difendibile.
Il secondo capitolo, “Persona, uomo, cosa”, è la disamina dell’applicazione in ambito politico delle categorie razziali esposte nel primo capitolo. Particolare rilevanza è data alla differenza della dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1789 e quella del 1948. “Il lemma concettuale volto a riempire la frattura aperta, fin dalla Dichiarazione del 1789, tra le due polarità dell’uomo e del cittadino è quello di ‘persona’. Se si confronta a quel testo la dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 la differenza salta all’occhio: il nuovo epicentro semantico, rispetto all’enfasi rivoluzionaria sulla cittadinanza, è costituito dalla rivendicazione incondizionata della dignità e del valore della persona umana” (p. 87). Qui il termine persona è da riferirsi, come efficacemente indicato dall’autore, alla possibile e ambivalente lettura nel senso laico e illuminista, da una parte, e teologico dall’altra. La fortuna del termine, se si può parlare di fortuna, sta tutta nella plurisecolare erranza che va dai testi sacri fino all’alveo della politica secolarizzata di Hobbes.
Il terzo capitolo, “Terza persona”, è quello più organizzato dal punto di vista compositivo. Sono sette i paragrafi che lo compongono. Sette passi che come in un cammino mistico ci portano in un intenso crescendo dalla Non-persona di Benveniste all’Evento deleuziano, per poi tacere su ciò di cui non si può ancora parlare. Quindi uno studio che dal pronome “io” ci porta verso l’indeterminato “egli”, passando da Kafka, per l’“indeterminato” di Blanchot, verso un fuori della persona che annuncia le teorie di Foucault sugli enunciati, (espressa ne L’archeologia del sapere , Milano, 1980), dove l’enunciato, il si dice, è una pura molteplicità, per approdare all’Evento di Deleuze. “Se la filosofia contemporanea si è mai esposta alla potenza dell’impersonale, questo incontro è certamente avvenuto nell’opera di Gilles Deleuze. [...] Alla sua base non vi è, come negli autori precedenti, semplicemente la sostituzione di una persona all’altra, o anche una triangolazione che apra il dialogo a due alla presenza diagonale di un terzo, ma una rotazione dell’intero orizzonte filosofico in direzione di una teoria dell’evento preindividuale e impersonale” (p. 173). E ancora: “Ciò non vuol dire, per Deleuze, che il soggetto scompaia del tutto - che divenga un contenitore inerte o uno spettatore passivo dell’evento che si scarica su di lui. Al contrario, la formula più volte ripetuta, che invita ciascuno ad essere degno di ciò che gli accade, rimanda a una concezione più complessa, secondo la quale l’individuo da un lato si identifica con l’evento impersonale, ma dall’altro è in grado di tenergli testa arrivando a rivolgerlo contro se stsso - o, come Deleuze si esprime, a ‘controeffettuarlo’” (p. 174).
Esposito sembra tentare una fuga veloce dal quel fatale termine che è “persona”: “La persona vivente - non separata dalla, o impiantata nella, vita, ma coincidente con essa come sinolo inscindibile di forma e di forza, di esterno e d’interno, di bíos e zoé. A questo unicum, a questo essere singolare e plurale, rimanda la figura, ancora insondata, della terza persona - alla non-persona inscritta nella persona, alla persona aperta a ciò che non è mai ancora stata” (p. 184).
Indice
Introduzione
La doppia vita (la macchina delle scienze umane)
Persona, uomo, cosa
Terza persona
L’autore
Roberto Esposito insegna filosofia teoretica presso l’Istituto Italiano di Scienze Umane di Napoli. Tra i suoi libri si segnalano: Communitas. Origine e destino della comunità (Einaudi, Torino, 2006); Immunitas. Protezione e negazione della vita (Einaudi, Torino, 2002); Bíos. Biopolitica e filosofia (Einaudi, Torino, 2004).
Conosciamo il giuramento come pertinente alla sfera del sacro e in seguito come istituto giuridico per lo studioso si tratta di una storia che in origine riguarda la parola
Le cose sono molto cambiate nel corso dei secoli e oggi si vive senza un patto giurato
In principio l’atto del giurare mette la lingua umana in relazione con quella divina
Quando si dice lo giuro
Un saggio di Giorgio Agamben
di Gustavo Zagrebelsky (la Repubblica, 19.12.2008)
La molla intellettuale comune a molta parte delle ricerche di Giorgio Agamben è l’interesse per l’archeologia dell’essere umano, archeologia non come risalita della corrente del tempo verso le origini, ma come scoperta di principi costitutivi e fondativi: arcani, da arké, per l’appunto. C’è molta differenza tra queste ricerche e, per esempio, quella che si potrebbe dire di antropologia filosofica elementare di un Arnold Gehlen, in Italia noto soprattutto per il suo volume tradotto da Feltrinelli nel 1983, col titolo L’uomo. Qui si sviluppa un nucleo concettuale, l’idea dell’essere umano come eccesso di pulsioni che si "istituzionalizza" per tenerle sotto controllo e, su questa idea, si compone un sistema. Questo accenno serve per differenza. In Agamben, è il contrario. Egli, per così dire, segue segni e tracce, dovunque si trovino: certo nella preistoria o ultra-storia, nella storia e perfino nella "poststoria", ma anche nella filosofia, nella filologia, nella linguistica, nella teologia, nella politica, nella fisiologia, nella psicologia, nell’arte e perfino nel diritto. Insomma, un seguire le piste che conducono dovunque si possa trovare qualcosa di utile. Per muoversi così, occorre illimitata curiosità unita a eccezionale vastità del sapere. In ogni caso, sono travolte le consuete divisioni disciplinari accademiche, onde definire Agamben un "filosofo" è certo riduttivo.
Il risultato, secondo il titolo di un suo volume del 2003, è L’aperto, l’essere umano indefinito che viene definendosi, mai definitivamente, entro campi di tensione che, oggi, a differenza d’un tempo, mettono in questione l’esistenza stessa di una sostanza, un’ontologia minima, comune a tutti gli esseri umani e costante in ogni tempo. Davvero, l’uomo non è più una «natura umana», ma qualcosa da ridefinire continuamente attraverso scomposizioni e composizioni dall’esito sempre variabile. I campi di tensione sono i più diversi, determinati da forze materiali ed elaborati culturalmente: corporeità-spiritualità, macchina-organismo, tenebre-luce, tempo finito-tempo infinito, animalità-umanità, eccetera, fino al dualismo radicale vita-morte, proprio dell’epoca della biopolitica e della «nuda vita».
Nel libro che qui si presenta, Il sacramento del linguaggio. Archeologia del giuramento (Laterza), l’essere umano è considerato nella tensione tra parola significante e oggetto significato. Nel momento in cui l’essere vivente si percepisce come parlante, percepisce anche una realtà esterna che deve essere in corrispondenza, deve essere "corrisposta" dal discorso. Ma non c’è nessuna garanzia di corrispondenza, c’è invece uno spazio vuoto, una distanza incolmabile che nessuna parola, nessuna moltiplicazione di parole può colmare: anzi, si potrebbe dire che il moltiplicare le parole moltiplica questi spazi. Poiché la parola detta non è detta soltanto per sé dal parlante, ma è detta in funzione della comunicazione con altri, per costoro la parola diventa a sua volta una "cosa", un significato che ha bisogno d’essere afferrato attraverso un significante, cioè un’altra parola. Questa può anche essere la medesima della prima, ma con questa entra in un rapporto di indeterminatezza analogo a quello che legava la prima parola alla cosa significata. In altri termini, il linguaggio umano e i rapporti sociali che esso stabilisce sono una somma di innumerevoli spazi intermedi di comprensioni incerte, di fiducia carente, di equivoci, di menzogne, di inganni possibili, di sospetti inevitabili. L’essere umano sta in questo vasto luogo incerto, che le sue parole delimitano da una parte, e la realtà cui il linguaggio si riferisce delimita dall’altra. Qui, in questo spazio, si collocano l’essere umano, in quanto "parlante", e il suo giuramento.
Il giuramento, così come lo conosciamo, è un istituto della religione e del diritto: un’affermazione (di un fatto o di una promessa), assistita dall’evocazione della divinità, o comunque di qualcosa di sacro, come testimone o garante, e da un’auto-maledizione in caso di spergiuro. L’apparato sanzionatorio è messo in moto da norme e strumenti religiosi o giuridici. Sempre secondo le idee ricevute, in base a un paradigma esplicativo di portata generale, in origine il giuramento sarebbe appartenuto alla sfera del sacro, poi, attraverso processi di differenziazione del diritto dalla religione, sarebbe divenuto un istituto giuridico.
Ma, secondo Agamben, la ricerca dell’arké ci porta altrove, rispetto alla religione e al diritto. Il giuramento, nella sua essenza, sarebbe una vicenda della parola, non dell’autorità. Religione e diritto intervengono semmai in un secondo momento, a supporto di un deficit di linguaggio. Il giuramento è una proposizione di validità della parola, cioè di rispondenza fedele del significante al significato; esso non riguarda, in origine, una promessa (di dire la verità, di adempiere un impegno preso) nei confronti dell’udente, ma riguarda il linguaggio stesso e, come tale, appartiene al suo "statuto" e alla condizione di parlante.
L’archetipo della parola è la parola di Dio, la parola creatrice. «E Dio disse: sia la luce. E la luce fu» (Gen 1, 3). La parola di Dio è vera, è la parola per eccellenza, perché essendo creatrice, non ha di fronte a sé "cose significate" cui deve corrispondenza, anzi non ha nulla «di fronte a sé», che non sia nella parola che realizza se stessa. La parola divina è l’esempio più chiaro di "performativo": l’atto linguistico che non descrive uno stato di cose, ma produce immediatamente un fatto, realizzando il suo significato. Sotto questo aspetto, si comprende che Dio non giuri, perché - si può dire - in verità ogni sua parola è un giuramento. Sotto un altro aspetto, si può aggiungere che ogni parola divina è miracolo. «Talità kum», fanciulla alzati, disse il Cristo alla figlia morta del capo della Sinagoga (Mc 6, 41) e la fanciulla si alzò. Ecco un altro esempio della potenza creatrice della parola divina.
Nel modo che è possibile, il giuramento degli esseri umani è un modo di mettere la loro lingua in comunicazione con quella divina, sotto l’aspetto che più d’ogni altro interessa: la corrispondenza tra significante (la parola) e il significato (la cosa), ciò che è alla base della fiducia, la risorsa essenziale per la costruzione di qualsiasi forma di convivenza tra gli umani. Un esempio di "performativo" nel linguaggio umano è certo linguaggio giuridico. «Uti lingua nuncupassit, ita ius esto», dicevano le XII Tavole (come correttamente sarà detto dalla parola, così sarà per il diritto). Un altro è il "sì" che si pronuncia davanti all’ufficiale dello stato civile che, di per sé, produce lo status coniugale. Un altro ancora è il linguaggio legislativo, quando esso determina situazioni giuridiche: l’extra-comunitario che entra nel nostro Paese, in assenza di determinate condizioni, è "clandestino".
Qui davvero le parole creano le cose, le situazioni. Ma si vede l’irriducibile differenza rispetto alla parola divina: mentre questa deriva da un potere totalmente fondato su se stesso (l’ «io sono colui che sono» del roveto ardente), la parola umana, per produrre i suoi effetti, ha sempre bisogno di fondare la sua validità su qualcosa, una norma (le XII Tavole o il codice civile) o un principio che la precede come un criterio di validità. Anche la legge è sottoposta a un test di validità. In un supremo esercizio di teologia politica, potremmo dire che lo Stato, assunto come assoluto, cioè come colui che ha detronizzato Dio, potrebbe ambire ad auto-assegnarsi la parola creatrice, la parola che non dipende che da se stessa: lo Stato che potesse auto-definirsi, per analogia, «io, lo Stato, sono colui che sono stato». Ma ciò non è nemmeno per le teorie più marcate in senso assolutistico: lo Stato di Thomas Hobbes è pur sempre e solo un Dio "mortale", di cui occorre comunque poter giustificare la sua "vita".
In breve, il giuramento è un performativo: vuole legare fino a far coincidere la parola con la cosa. Ma, per gli umani, occorre che il giuramento stesso risponda a un criterio di validità. Il criterio è: i giuramenti sono vincolanti. Ma il giuramento non esclude lo spergiuro; l’invocazione del nome di Dio non è garanzia ch’essa non sia "invano". Il perché i giuramenti fossero e dovessero essere vincolanti, per molti secoli è dipeso dalla presenza, testimoniale o vendicatrice, di Dio.
Oggi non è, palesemente, più così, in particolare nella sfera pubblica. Il giuramento, che Machiavelli metteva a base della gloria romana, più ancora che l’obbedienza alle leggi; il giuramento da cui, per Locke, poteva scaturire l’appartenenza al patto sociale, con la conseguenza che gli atei, che non potevano giurare, dovevano esserne esclusi; il giuramento, dunque, non figura più al posto d’onore delle istituzioni politiche, che la secolarizzazione ha reso autonome dalla dimensione del sacro. Dove residua, ha perso questo suo carattere, essendosi trasformato in una semplice «promessa solenne» (Corte costituzionale, sent. n. 334 del 1969), oppure essendo divenuto facoltativo (Corte costituzionale, sent. n. 117 del 1979).
L’integrità della parola è rimessa interamente alla auto-responsabilità verso gli altri, potremmo dire alla responsabilità politica di chi la usa. Forse, c’è un rapporto tra evanescenza del giuramento ed evanescenza di questa responsabilità. La menzogna, magari spudoratamente spergiurata; la parola detta e poi subito dopo contraddetta; la parola che vaga male-detta, indipendentemente da ogni legame con un significato: tutto ciò ha invaso la nostra vita e costituisce uno dei non minori segni di disfacimento di convivenza.
Il libro di Agamben inizia e termina con la citazione da Paolo Prodi, Il sacramento del potere. Il giuramento politico nella storia costituzionale dell’Occidente (1992). In questo libro si constatava che le nostre generazioni convivono, pur senza fondarsi su alcun patto giurato, e ci si chiedeva se la novità non dovesse indurre a riflettere su una capitale trasformazioni delle modalità di associazione politica. Agamben, riprendendo questo spunto, conclude con queste osservazioni la sua diagnosi circa la dissociazione tra parola e cosa, causa ed effetto di radicale de-responsabilizzazione del parlante rispetto al parlare e alle cose di cui parla, prima che rispetto all’ascoltatore: «da una parte sta ora il vivente, sempre più ridotto a una realtà puramente biologica e a nuda vita, e, dall’altra, il parlante, separato artificiosamente da esso, attraverso una molteplicità di dispositivi tecnico-mediatici, in un’esperienza della parola sempre più vana, di cui gli è impossibile rispondere e in cui qualcosa come un’esperienza politica diventa sempre più precaria». Anche questo è un tassello, non tra i meno preoccupanti, per la comprensione di che cosa sia quella materia mobile, aperta, che è l’essere umano.
BENDATA O NON BENDATA? IMMAGINI DELLA GIUSTIZIA
La bilancia E IL VELO
Raffigurata come una bella signora che tiene nella sinistra una bilancia e nella destra una spada, la Giustizia ha a volte gli occhi bene aperti, a volte nascosti da una benda che le impedisce di vedere. Da qui ha preso le mosse Adriano Prosperi nel suo ultimo saggio, «Giustizia bendata», uscito per Einaudi, che analizza i mutevoli significati di un concetto centrale per la nostra società
di Rossana Rossanda (il manifesto, 10.12.2008)
Adriano Prosperi è uno di quei maghi che prende un frammento di storia e, girandolo fra le mani come un cristallo, ne moltiplica faccette e riflessi. In Giustizia bendata (Einaudi, 2008) la domanda che ha mosso la sua curiosità sembra semplice: perché la Giustizia, sempre raffigurata come una bella donna (il codice maschile ci ha considerate inferiori e però ha dato vesti femminili a idee, valori, virtù, arti, eccetera, va a capire) a volte è bendata e a volte no? Di regola è una bella signora che tiene nella sinistra una bilancia e nella destra una spada, ma sugli occhi può avere una benda o non averla. Proprio lei che deve discernere il torto dalla ragione!
Prosperi ci inoltra in un labirinto, non senza metterci in guardia da conclusioni frettolose, incluse quelle di qualche grande iconologo (Panofski), che talvolta ignora la vastità del retroterra culturale e sociale dal quale a un certo momento sorge un simbolo in figura. È tutta un’avventura, occidentale e moderna, quella della benda messa sugli occhi della Giustizia; e riflette concetti diversi della Giustizia medesima, che restano parte nel dibattito odierno. È bellissima e bendata la giustizia che ha condannato un innocente, con la quale se la prende violentemente Edgar Lee Masters nell’ Antologia di Spoon River. Ma non sempre la benda ha indicato una giustizia ingiusta. Chi si vanta di vivere tutto sul presente non sa quanto di noi rivela il passato e quanto poco innocente sia lo scordarsene.
Disobbedienze fatali
La vicenda comincia nel rinascimento. I greci avevano naturalmente un’idea della giustizia, grosso modo Dike, e distinta dai concetti del giudicare, grosso modo Temi. Nessuna delle due aveva la benda e neanche la spada; del resto giustizie non scritte ma figurate non vengono facilmente in mente. Gli dèi dei greci non sono particolarmente giusti, non l’irascibile Zeus e neppure Pallade Atena, che spesso è chiamata a giudicare ma per capriccio ha fatto impazzire Aiace, diventato una furia. Perché negli umani più che di malvagità o colpa si tratta sempre di un oscuramento della ragione, un errore, «amartìa». Quanto a Roma, più che di figurazioni mitiche si è occupata di dare alla coesistenza fra gli uomini concetti, regole, procedure, delle quali sappiamo ancora oggi, e che rispuntano nei secoli in Europa ogni volta che la giustizia è riportata con i piedi a terra.
Nell’ebraismo, e di là nel cristianesimo, la giustizia implica una trascendenza, perché apparentata con la colpa originaria all’inizio dell’umanità. Il primo libro della Bibbia, la Genesi, narra della disobbedienza fatale di Adamo ed Eva, con conseguente perdita del paradiso, morte e dolore. La prima spada è quella dell’arcangelo che ci caccia all’est dell’Eden. Da allora la storia è un tempestoso dialogo degli imperfetti e quindi ingiusti uomini con Dio - il solo Dio, il solo nel quale sono conoscenza e giustizia. Justitia, id est Deus, titola un suo capitolo Prosperi.
Una colpa inseparabile
Dio non può essere cieco, quindi a lungo l’occidente cristiano lascia integra e vedente questa Giustizia, virtù cardinale. E così la rappresentano, bella creatura severa, Giotto e i senesi. La benda resta un attributo della volubile Fortuna, che di virtuoso e divino non ha proprio niente. È agli inizi del 1400 che appare una prima Giustizia bendata, in un contesto secolarizzato, una specie di aurora della Riforma, quando già corre il bisogno di un cambiamento della Chiesa.
Ma sarà a fine secolo che nelle illustrazioni della Nave dei folli di Sebastian Brant (1494), giurista e poeta, una incisione rappresenta la signora con spada e bilancia mentre un pazzo le annoda una fascia sugli occhi. È un folle con il copricapo a sonagli, simile al fool di Shakespeare che spiattella impunemente in faccia al re acerbe verità, cosa che a un cortigiano normale non sarebbe permessa; l’ambiguità della follia, della quale sa molto Erasmo, fa capolino. Da quel momento - la Nave dei folli è a suo tempo un bestseller - la giustizia bendata dilagherà in quadri, incisioni e statue: specie nel XVI secolo. Ma cambiando segno per strada. In Brant era sicuramente negativo, impedire che la Giustizia vedesse era cosa da pazzi.
Ma Lutero è gia là e separerà aspramente da Dio la giustizia del mondo, in coerenza con il pensiero tragico di Agostino: la colpa è inseparabile dagli uomini, siamo inchiodati al peccato originale, saremo salvati o dannati per grazia, non per le opere. La giustizia degli uomini non tiri Dio in ballo, sia espressione dell’autorità in terra cui - e lo impareranno duramente i contadini di Thomas Müntzer - ci si deve inchinare. In un mondo segnato incancellabilmente dal peccato, gli uomini sono ex origine soggetti alla tentazione e così ogni loro istituzione. E a meno di quarant’anni dal libro di Brant, nella edizione della Costituzione penale di Worms del 1531, quella benda diventa positiva: con un velo sugli occhi la giustizia si preclude dal vedere le parti che ad essa ricorrono, il ricco e potente che le porge una borsa d’oro e il povero niente di niente. Soltanto così potrà difendere le vedove e gli orfani che si riparano sotto la sua sfolgorante ma cieca immagine.
Anzi meglio sarebbe che i giudici fossero anche senza mani con le quali afferrare l’oro. O, se loro ci vedono, è bene che sia bendato il sovrano, massima autorità in terra. Giustizie cieche e paci vedenti si abbracciano cordialmente. La benda è diventata garanzia di imparzialità. Perciò sono bendate le giustizie fanciulle che spesso sovrastano le fontane sulle piazze, perché come l’acqua la giustizia dev’essere un bene comune.
Pietà per colpevole e boia
Da allora restano bendate fino ai nostri giorni alcune statue che si ergono solennemente davanti ai tribunali. Non sapere chi si giudica sarebbe garanzia che la legge è uguale per tutti. Non la pensa così Rawls, ma è bendata la piccola Giustizia che la Corte suprema degli Stati Uniti tiene in mano e contempla meditabonda. È il colmo della secolarizzazione: non è una grande Giustizia che tiene in mano una piccola Corte, ma viceversa. Non basta. La benda ha una ambiguità di suo. È bendato il Giusto per eccellenza, il Cristo, quando viene flagellato da personaggi feroci e ghignanti, specie nel nord, ma non sempre: Gruenewald lo benda, qualche altro no - uno sconcertante Cristo dal viso fermo, le mani sulle ginocchia, ha alzato la benda sopra gli occhi sulla fronte e guarda lontano (Jorg Breu il Vecchio a Augsburg). Ma succede anche nelle nostre meno spaventevoli, perfino assurdamente serene, flagellazioni; l’Angelico lo benda, Piero della Francesca a Urbino no. Anche nel nord, subito dopo la flagellazione, non ha più benda quando gli viene imposta la corona di spine. Sono due visioni diverse della tradizione cristiana, ma anche del dipingere; nei nordici a cavallo fra il XV e il XVI secolo, eccezion fatta per Duerer che ha l’impronta del sud, le immagini della Passione riproducono i lineamenti stravolti e i corpi devastati conosciuti nelle rivolte del secolo appena trascorso.
E poi, quando il figlio di Dio è bendato, perché lo è? Perché si trova nella più cieca impotenza umana? Perché non veda chi lo supplizia? O perché gli occhi dei tormentatori non incontrino i suoi? Anche ai condannati alla fucilazione si offriva la benda (gli eroi la rifiutavano) e «ciechi» erano i soldati del plotone che doveva sparare, ognuno ignorando se il suo fucile fosse fra quelli caricati a salve o no. La benda non evitava la pena ma un poco la celava. All’impiccato il cappuccio è imposto per non vederne il volto sotto la stretta. È la pietà per il colpevole, anche per il boia che colpevole è e non è. Misericordia cristiana. Più cattolica che protestante. Femminile anch’essa, speciale della Vergine che intercede per il peccatore.
Ancora sulla mutevolezza di significati del vedere e non vedere. I giudici interrogavano e decidevano in segreto, era pubblico soltanto il supplizio. In democrazia diventa pubblico il processo e viene allontanata dagli occhi della folla la pena (l’esecuzione può essere vista, come concessione alla vendetta privata, in alcuni fra gli Stati Uniti). La pubblicità del processo è un cardine della democraticità come controllo popolare sul potere. Però da qualche tempo in qua la tv tenta di frugare davvicino il volto dei giudici e quello degli accusati - ne fa spettacolo. Ma fare spettacolo significa mostrare il vero? O banalizzarlo? O concedere al voyeurismo, al sadismo? Il giudice che si sa ripreso da una camera parla e decide come se non lo fosse? Nel dubbio, giudici o imputati possono rifiutare l’occhio della tv. Alla fine del volume, Prosperi ci mostra una Lady Giustizia in jeans che impugna un mitra e una daga. Sparita la bilancia, bendata. Cieca e repressiva.
Metri e misure
A proposito, la bilancia sembra della giustizia lo strumento più antico e indiscusso. Stava già accanto, segnala Prosperi, alla dea egizia Ma’at e pesava meriti e demeriti dei morti. Ma che significa pesare se non misurare? E la misura ha un metro convenzionale. Ma qual è il metro con il quale si misura la giustizia? La bilancia serviva allo scambio delle merci. La giustizia che scambia? Uno stupro vale tot di grano, dicono le prime tavole di Gortyna; ancora adesso «si paga» con la galera o i soldi. Che hanno in comune? Nulla, diversamente dal feroce occhio per occhio, dente per dente. La bilancia della giustizia sottintende un equivalente universale fra dolore e colpa, colpa e pena. O cielo. Non è la prima volta - penso a Tribunali della coscienza e a Dare l’anima - che Adriano Prosperi si affaccia su questi abissi.
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Terza persona. Politica della vita e filosofia dell’impersonale
di Maria Teresa Granati (inattuale.vulgo.net, 21 November 2007)
Per ricostituire l’unità originaria dell’essere vivente, reintegrandone la dimensione razionale nella “falda animale” che lo costituisce, per garantire a tutti gli uomini i diritti alla vita, alla salute, alla cultura, dobbiamo sbarazzarci della categoria di “persona” e assumere, soprattutto nella sfera giuridica e politica, la prospettiva della terza persona.
L’ultimo saggio di Roberto Esposito (Terza persona. Politica della vita e filosofia dell’impersonale, Einaudi, 2007) continua e sembra in parte concludere la penetrante analisi o “decostruzione genealogica delle principali categorie politico filosofiche dell’Occidente” già condotta nelle sue opere precedenti, da “La categoria dell’impolitico”, Il Mulino, 1998, Communitas. Origine e destino della comunità, Einaudi, 1998, Immunitas. Protezione e negazione della vita, Einaudi, 2002, Bios, biopolitica e filosofia, Einaudi, 2004: una vera e propria esplorazione della crisi della ragione politica occidentale nei suoi aspetti fondamentali, in cui il filosofo chiama in causa i linguaggi della filosofia, della biologia, dell’antropologia e del diritto, la tematica della biopolitica, rifacendosi a Foucault e a molti altri autori, da Simone Weil a Gilles Deleuze.
In questo nuovo libro, Esposito formula una proposta provocatoria: occorre superare il concetto occidentale di persona a favore dell’impersonale e dell’esperienza vitale e sensibile.
Suona quasi come una bestemmia: la “categoria” o, per usare, come fa l’autore, il termine di derivazione foucaultiana, “il dispositivo”, di persona è, non da ora, postulato indiscusso di ogni dibattito filosofico, giuridico, politico, bioetico; per stare all’attualità, la polemica rovente che contrappone oggi laici e cattolici italiani sul problema dell’embrione registra una solida convergenza su un punto base: la valenza dell’essere vivente, il suo passaggio allo status di uomo inizia dal suo ingresso nel regime della persona. L’essere vivente è sacro e soggetto di diritto solo quando diventa persona. Il disaccordo permane su quando ciò avvenga, se fin dal concepimento o successivamente.
Il filo conduttore del libro è l’ipotesi che “il sostanziale fallimento dei diritti umani” - la mancata ricomposizione tra diritto e vita - abbia luogo non nonostante, ma in ragione dell’affermarsi dell’ideologia della persona. Questa ipotesi apre un orizzonte di riflessioni e ricerche, oltre a mettere in crisi un edificio di certezze abitato da quasi tutti noi, imbevuti di un “personalismo” talvolta semplificato e banalizzato.
Il contributo di questo saggio, a mio parere, è soprattutto in questa spregiudicata e acuta penetrazione nel percorso storico culturale che ha all’origine il diritto romano col suo dispositivo della persona nettamente separato tra persona (in italiano maschera, dunque entità artificiale) ed essere naturale, tra il soggetto giuridico libero e lo schiavo, ad esempio, ma, nella Roma antica, anche il figlio, la donna, il servo. Tale separazione, rafforzata storicamente dal Cristianesimo, è un filo costante nei secoli e costruisce via via un’antropologia che vede una “doppia falda” in ogni essere vivente, quella vegetativa-animale e quella cerebrale-relazionale. Il dualismo arriva fino a Cartesio, Locke, Hobbes e Shopenhauer, fino all’Illuminismo e all’età dei diritti, alla rivoluzione francese, all’intera cultura moderna, conducendo come esito finale alla biologizzazione della politica, a partire soprattutto dal XIX secolo, quando l’influsso della biologia sulla politica viene caricato di significato politico aggressivo ed escludente; il nazismo compie la critica biopolitica alla tradizione schiacciando la persona sul corpo, eliminando ogni trascendenza rispetto al dato biologico.
A questo punto la separazione tra le due categorie segna la vita degli uni e la morte degli altri. La biopolitica diventa col nazismo la tanatopolitica.
Dopo la seconda guerra mondiale, ci fu un recupero dell’idea di persona e un suo rilancio, sancito nel 1948 dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, che mette al centro non il cittadino, come quella dell’89, ma la dignità e il valore della persona umana, capace di autodeterminarsi, secondo la definizione di Jacques Maritain. Fu la necessaria risposta agli orrori del lager, prodotti dalle ideologie fasciste e naziste basate sul razzismo e sul riduzionismo biologico dell’uomo.
La nozione di persona riuscì a unire in un unico referente elementi della cultura illuminista e del linguaggio teologico.
Ma quella separazione restò, si operò solo un rovesciamento rispetto alla teoria che voleva la parte animale, vegetativa e irrazionale prevalere su quella razionale e volontaria. Che sia proprietà divina o del soggetto che lo abita, comunque il corpo vivente è pensato nel senso di una cosa.
La corporeizzazione biopolitica e la spiritualizzazione personalistica marciano insieme: il liberalismo assegna alla persona la proprietà del corpo, mentre per la biocrazia (neologismo coniato da Auguste Compte) nazista esso appartiene allo Stato, ma in entrambi i casi il corpo è proprietà, ossia cosa. La persona per essere tale non può coincidere col proprio corpo, anche se ne ha la proprietà.
Dopo due secoli, quasi, dacché gli uomini furono dichiarati portatori, in quanto tali, di diritti e resi uguali come cittadini, quella distinzione permane, per cui il diritto si riferisce solo alla parte superiore e razionale dell’uomo.
L’idea di persona, apparentemente ineccepibile, non tutela insomma l’uomo dalla violenza né lo rende titolare di reali diritti; basta constatare il fatto che il diritto umano fondamentale, quello alla vita, è universalmente violato; e ciò perché si tratta in realtà di un meccanismo immunitario, di un potente dispositivo di separazione che divide tra diritto e vita, tra anima e corpo, un meccanismo che include in quanto separa ed esclude tutti coloro che non vi rientrano. Lo aveva già detto Luhmann.
L’umanesimo ha prodotto un frutto avvelenato, l’idea che ci si debba liberare della propria “animalità”, della radice animale, ossia della mortalità.
Ma allora? Dobbiamo diventare di nuovo animali per rendere universali e fruibili i diritti umani?
È una domanda inquietante, ma meno paradossale di quanto appaia, stando alle argomentazioni di Esposito. Come ridare unità a diritto e umanità, interrompendo “il transito tanatopolitico tra persona animale e cosa” inaugurato da Xavier Bichat alla fine dell’ottocento?
Come rompere la macchina dualistica che ha caratterizzato l’intera cultura occidentale, il “dispositivo di separazione escludente, gerarchico e violento” che essa ha costruito?
Il pensiero giuridico sta cercando di reinventare la persona, di concettualizzare la realtà senza cancellarla, di conciliare il sostrato biologico del soggetto con l’individuo razionale e autosufficiente della tradizione liberale. La stessa Carta dei diritti dell’Unione Europea pone la persona al centro della sua azione; tutto ciò indica i segni di un processo di ripensamento della categoria di soggetto, delineando l’esigenza di un “passaggio dal soggetto di diritto al soggetto di carne” e al concreto individuo sociale, per rompere la macchina dualistica che ha caratterizzato l’intera cultura occidentale. La Costituzione italiana, agli articoli 2 e 3, parla di libero sviluppo della personalità, di eguaglianza sostanziale e di ostacoli che la Repubblica deve rimuovere per la realizzazione di tali obiettivi. Ma resta lo scarto tra diritto e vita, tra uomo e cittadino.
Dal ragionamento di Esposito sembra affiorare alla fine non tanto la condanna dell’idea di persona, ma soprattutto la critica al suo fondamentalismo, per ripensare i diritti umani calpestati, considerando anche il pericolo del ritorno ad una teologia politica carica di elementi inquietanti e di cui conosciamo gli esiti; e ciò in un contesto globale, in cui i “diritti universali” dell’uomo e quelli del “cittadino” devono misurarsi con le tensioni fra eguaglianza e diversità, per “passare dalla separazione alla condivisione”.
La “decostruzione del dispositivo di persona” conduce alla “persona vivente”, o alla “terza persona”, concepita come “sinolo inscindibile di forma e forza, di interno ed esterno” e alla costruzione di un “pensiero dell’impersonale”, che restituisca unità all’essere vivente, rompendo la macchina dualistica che schiaccia la persona sul corpo, come fece la biopolitica nazista, o nega il corpo.
La parte construens della riflessione di Esposito delinea un percorso intellettuale complesso e non del tutto evidente nelle conclusioni, che restano aperte.
Può esistere una persona non personale?
L’idea di impersonale, di terza persona, di terzo, di neutro è variamente formulata, approfondita, o solo accennata, in vari momenti di pensiero del ‘900, che Esposito richiama puntualmente: a questa sponda, per diverse vie, sono approdati pensatori come Simone Weil, Kojève, Foucault, Blanchot, Levinas, Deleuze.
Weil per prima, in polemica col personalismo di Maritain, richiama il diritto romano in forza del quale la persona poteva usare ed abusare di chiunque, persona o cosa, fosse in suo possesso; denuncia il nesso tra diritto e persona, proponendo di “rovesciarlo” nella figura dell’impersonale. Nell’uomo è sacra non la persona, ma ciò che non è coperto dalla sua maschera. Questa esigenza di un diritto comune o “in comune” o “di tutti, di nessuno, di ciascuno”, viene posta in termini diversi da Kojève fino a Lévinas: è la terza persona ad annunciare l’avvento di un diritto che diventa finalmente giustizia.
Ma come definire il terzo, o la terza persona?
All’inizio esso ha un’accezione negativa: assenza, presenza divina, si situa sullo sfondo, non configura un terzo polo tra io e tu. Un’eccedenza, un margine, una soglia, non un’entità positiva.
Si parte comunque dall’effrazione del modello dialogico io-tu, entrambi prigionieri della logica duale e della loro alterità per delineare una terza persona, che non è un’antipersona, ma sporge dalla logica escludente per un diverso regime di senso; non è autoreferenziale, ma rimanda all’esterno, a qualcuno, a tutti. Per Kojève essa rompe la dialettica binaria delle altre due: il diritto è indissolubilmente legato al terzo. Gli autori che seguono, i filosofi della “seconda persona”, da Jankélévitch a Blanchot a Levinas, ripropongono la questione posta dalla Weil. La terza persona inquieta l’intera opera di Levinas, che tenta di comporre la logica binaria del rapporto a due con l’esigenza di giustizia universale nei confronti del terzo; senza tuttavia riuscirvi, poiché l’io, vincolato all’impegno esclusivo verso il proprio altro, è costretto a trascurare il terzo. Si tratta, in altre parole, del rapporto, di contiguità e di opposizione, tra giustizia e amore, tra “l’unicità del volto che si ha di fronte e la pluralità dei volti che lo circondano”; occorre “rompere la struttura dialogica del faccia a faccia per aprire e rendere visibile il terzo ... rovesciare il linguaggio della persona nella forma dell’impersonale, ... esporsi all’obliquità di un terzo termine”, che Levinas chiama illeità.
L’altrui di Blanchot, o il neutro, come l’il dell’il y a di Levinas, che non è persona né impersonale e in cui si perde la distinzione tra essere e nulla, è un evento, fuori dal livello della coscienza, una faglia, un vuoto. Ma se è così, come potrà dare giustizia?
Sembra che sia la letteratura ad incontrare il neutro. Il romanziere si ritira dietro le quinte ed ecco Flaubert, ma soprattutto Kafka, in cui il decentramento opera come assenza della voce narrativa ed estraneità non solo nella soggettività dei personaggi, ma nella struttura stessa dell’opera....(M. Blanchot, L’entretien enfini, Paris, 1969). La letteratura ha dunque un rapporto con la terza persona. Di più, la letteratura incomincia quando nasce in noi una terza persona che ci spoglia del potere di dire io: “La forza contestativa della letteratura consiste in un movimento di esteriorizzazione, o di estraneazione... lo scrittore, a partire da Proust, trascina la lingua fuori dai suoi solchi, facendola letteralmente delirare o aprendola e rovesciandola come un guanto”. Ecco lo scrittore veggente e audiente, è il passaggio della vita nel linguaggio...”(Deleuze, Critique et clinique, Paris, 1993).
Con Foucault, la decostruzione della categoria di persona approda alla identificazione della terza persona, irriducibile all’io-tu, con la figura della vita, che ci determina e attraversa come ciò che è più impersonale. La biopolitica sostituisce ai soggetti di diritto degli esseri viventi, una società normalizzatrice è l’effetto storico di una tecnologia di potere centrata sulla vita.
Gilles Deleuze, con la sua figura estrema del “divenire animale” dell’uomo, ossia di un modo di essere uomo che non coincide né con la persona né con la cosa, sembra riproporre l’immagine proiettata da Kojève alla fine della storia, introducendo nel pensiero dell’impersonale una sorta di tabu.
C’è una vita impersonale, ossia una vita che non sia solo il supporto biologico di altro? Si può restituire unità all’essere vivente, da sempre scisso tra sfera razionale e animalità irrazionale? È il “divenire animale” che può restituire la “persona vivente”? Difficile rispondere. Roberto Esposito compone una sorta di griglia teoretica del pensiero dell’impersonale, che, in modo tutt’altro che sistematico, percorre la filosofia e anche l’arte del Novecento, in modi non sempre riconoscibili, talvolta per frammenti e intuizioni. Ma la figura della terza persona resta insoluta.
La scienza di Nessuno
di Maria Teresa Granati *
Il mio nome è Nessuno (Odissea, 9, 366)
Nessuno sono chiamato a serve e servi ben noto (in Erhardt Schoen, xilogr. 1533 ca.)
Fin dagli antichi tempi "Nessuno" indica scherzosamente, con giochi di linguaggio, le catastrofi che accadono all’economia domestica quando il padrone di casa è assente. La casa è a soqquadro, la suppellettile devastata. Alla domanda: "chi è stato?" i servi rispondono: "Nessuno è il colpevole!". Tale situazione può venire assunta a molteplice metafora di ciò che accade nell’economia domestica dell’anima.
"Aprire le cose chiuse, rompere argini e case, rovesciare radici e ascolti (...). L’attenuato Nessuno separa dall’io il suo meno-ponderabile. Così costringe alla conoscenza di se stessi, perché se stessi non è un compatto, ma un’aria diffusa e misteriosa. (...) Si apre con Nessuno un mare da cui non si può tirarsi indietro: un mare in cui inoltrarsi o sprofondando o apprendendo a respirare. E il segreto che l’ombra rischiarante di Nessuno ha rivelato è questo: ciò che è coperto non è l’Ignoto, ma il Noto. Che il Noto sia noto e che ciò sia ignoto a Ciascuno dimentico è celato in Nessuno il Noto: Nessuno dunque documento e maschera del Celato".
Scienza senza sapere o non invece un sapere senza scienza? Dico "scienza" perché desidero un conoscere preciso, un conoscere ostinato, continuo, impietoso, determinato, incandescente e candido infine, un conoscere da tutti i lati. Ciò che si intende per "scienza", ma non si fa.
Ho tratto queste righe dall’ultima e dalla prima pagina di un libro, davvero raro e affascinante, un saggio lirico e perciò difficilmente riassumibile, degli anni Settanta (Figure di Nessuno, OOLP, Milano-New York, 1977), che mi è stato prestato dalla sua autrice, la scrittrice, poetessa e filosofa Rubina Giorgi. Dopo averlo letto e riletto con qualche fatica e con grande interesse e piacere, l’ho messo sul mio tavolo e a tratti lo riprendo in mano. Ora mi spiace separarmene, ma devo restituirglielo, perché è l’unica copia che le resta. Ho pensato così di prendere note da alcune pagine e ne ho trascritto interi periodi, oltre ai riferimenti bibliografici e iconografici, rari e preziosi. Si va da quelli che l’autrice definisce "ingegni satirici", da Johann Fischart a Bruegel il Vecchio, a J. Balthasar Schupp, per incontrare poi Leibniz, Hamann, i fratelli Grimm, Achim von Arnim, Jean Paul, von Chamisso, Jacobi, Jung e Freud, Celan, Enzensberger, Borges, oltre ad Enrico Castelli, a cui è dedicato il libro, ai giorni nostri "suscitatore di figure nessunali".
E un libro che sta sotto le insegne di Nessuno il Noto, espressione densa di ambiguità che l’autrice desume da J.G. Hamann, ed è popolato da strane entità come i Meno-ponderabili, il Simbolo, il Caos, il Detrito, l’Astrazione che fiorisce...E poi anche di espressioni pronominali e semantiche inquietanti come Ciascuno, Qualcuno, Tutti, Nessuno e Nulla, in Nessun luogo, Mai, che hanno ascendenze bibliche ed iniziatiche.
Nessuno, segno di contraddizione, è l’oscuro che fa luce con le tenebre. E’ un prestigiatore dell’anima, occhio degli occhi di tutti, che guida all’imponderabile dell’esistenza. E’ la possibilità di uscire, di eccedere dalla fittizia pienezza umana, di porsi in cerca di terre desertiche della mente e dell’anima. E’ un disobbedire al mondo e alle sue leggi. E’ l’esistenza mortificata che si apre, e svela vene aurifere di natura regale e divina.
Nessuno, Niemand o Personne o Nobody delle sacre rappresentazioni medioevali, è "nascosto sotto gli occhi di tutti", è un Proteo che gioca nella prosaica significanza o insignificanza di ogni giorno, che "svela il suo mistero in piena luce" e poi "svanisce di fronte allo sguardo di chi vuole fissarlo"- è detto nella prefazione di Stanislas Breton. Non è "l’impotenza triste", un "io superficiale" né il si dell’uomo qualunque e senza qualità, ma il nostro altro o il nostro doppio, che ci interroga rispecchiandoci.
L’autrice lo racconta come un tema medioevale che giungerà a sollecitare l’Umanesimo europeo, attraverserà il Rinascimento (e con esso Shakespeare) e la modernità - letteratura, teatro, pittura, filosofia - fino ad approdare alla psicoanalisi. A quest’ultimo proposito, Rubina Giorgi ci induce a pensare che la psicoanalisi abbia avuto, negli autori nominati sopra, esperti degli intrecci tra conscio e inconscio, i suoi involontari scopritori ante litteram.
Il primo riferimento del Niemand che viene in mente è ovviamente Ulisse, principe di raggiri e capostipite di ogni Nessuno, il quale, grazie alla sua astuzia e all’aiuto di Minerva, ha navigato il mondo nel fluido più notturno ed infido che si conosca -l’insopprimibile ambivalenza della mente e la sua imponderabilità.
Ma il Nessuno di Rubina Giorgi non è la volpe che medita i suoi inganni, né la sua ragione è il logos di cui disserta la filosofia critica: è più quotidiano e più inquietante, si nasconde nella luce come sua ombra (v. la favola dell’ombra nel Peter Schlemihl di Chamisso) e nel cuore fondo dell’ombra stessa. Per questo, malgrado ogni bassa apparenza, il suo linguaggio è più adatto alla tenebra delle cose divine e alla visione dell’Ineffabile, alla navigazione verso l’Homo abyssus o il Deus abyssus. Il viaggio di Ulisse può dunque trasgredire nel viaggio di Nessuno come viaggio iniziatico dell’anima alla volta di se stessa e del suo fondo buio. Nessuno è movimento e viaggio che resta agli inizi sempre, imprendibile fluidità. Anche esitando, siamo tentati di trovargli un analogo nel Sé del buddismo Zen o nell’Es della psicoanalisi.
Le "scienze dell’uomo" sembrano talora essere fatte "per non vedere", allontanano "col pretesto di filtrare ciò che hanno sotto gli occhi, per terrore di conoscere". Meglio allora, più inventivo in senso forte, volgersi a una scienza del Non-uomo, del Nemo o Nessuno. Ma "non si può uccidere la responsabilità di sapere": occorre farla uscire "all’incrocio dei venti che aprono il linguaggio della risposta" per colui che si avventura e cerca.
Inizia così la ricerca delle "inattingibili sembianze" del nostro, di tutti e di ciascuno, Nessuno, di colui che ha una doppia maschera, dal lato del celare e da quello del rivelare. Però, malgrado la maschera, qualcosa accade se si ha l’iniziatica pazienza di aspettare e provocare lo spirare del vento che è Nessuno, del vento che ci sfiora come lo Spirito attraversando la scena di questo mondo. Occorre scoprirne le molte fonti e diramazioni, snidarlo dalle pieghe della mente in cui si nasconde; dalla follia, che parla più forte e chiaro della scienza, e dallo specchio di autoconoscenza.
Nel corso del Cinquecento, Nessuno è, oltre che il ben noto guastatore, tipografo, giudice, taumaturgo o mago, santo, e, naturalmente filosofo. Nonché maestro dei folli di questo mondo. Dalla Prosopopeia Neminis di Geoffroy Tory (1513) al dramma anonimo d’età shakespeariana Nobody and Somebody rielaborato da Achim von Arnim, allo Xenium di J.B. Schupp che disserta sul Nihil (1639) l’ombra di Nessuno accompagna la vena letteraria della follia, ed è presente nella figura del matto popolare tedesco Eulenspiegel, servo infido e maligno, astuto mentitore. Schalk lo chiama Johann Fischart (che è anche un nome per il Mefistofele di Goethe): appunto l’indicatore della qualità infida del servo. Vien da pensare all’uomo diviso in se stesso, al prepotere della sua parte meno nobile, servile. Ma Eulenspiegel è, come dichiara il nome, insieme civetta, uccello agli occhi di tutti sinistro, che si muove nelle tenebre, e specchio, ossia riflesso e accensione di queste tenebre. Fischart lo connette a Ulisse e al Niemand.
Rubina Giorgi commenta con motto quasi emblematico: Non dire a Nessuno chi egli è, ché tu apprenderesti chi sei tu.
Il punto è infatti l’incontro con se stessi, che fa paura, il nosce te ipsum. Nessuno è lo specchio o "l’occhio antagonista" che accoglie figura di ciò che un uomo non vuol vedere di se stesso. "Dove nessuno ha posato il suo occhio, la casa svela lo stato dell’anima". L’occhio di Nessuno "abbatte pareti dentro e fuori" e ciò è salutare perché "l’anima chiusa non si salva, deve rompere per far passare, trasmutare..." Nella tela dal titolo Nessuno conosce se stesso, Bruegel il Vecchio mostra Nessuno in abito da folle che si guarda allo specchio: ossia il folle, che si guarda e riconosce, può ricevere luce e divenire luce.
Hamann, il "Mago del Nord", contemporaneo di Kant, nella sua opera dedicata "Al Pubblico, o a Nessuno il Noto", cita un verso di Orazio: Non fumum ex fulgore, sed ex fumo lucem cogitat. E’ il proprio di Nessuno: trarre luce dalla caligine, dal mistero dell’infimo, dove nessuno degna di volgere uno sguardo...Trapanare con gli occhi la polvere del tempo (c’è nel libro di R. Giorgi un mistico archivio della polvere), la noia o melanconia iniziatica del vivere, per giungere al cuore del dolore e della conoscenza.
Ma Nessuno è nemico? Egli è cattivo e colpevole proprio e solo perché "storna su di sé il terrore di conoscere e il conoscere stesso". Ma, in tal senso, Nessuno indica e introduce una specie di "schizofrenia della salute" - leggiamo in Figure di Nessuno. Schizofrenia che sarebbe, rovesciandosi, il riscatto della nostra parte servile.
Venendo ai nostri tempi, Nulla-Nessuno "apre gli occhi agli uomini perché si vedano" come nella pièce di Picasso Le désir attrapé par la queue e nei versi di Celan: "e talvolta, quando/ solo il nulla era tra noi, ci trovavamo/ interamente".
Uscire nel tempo e cercare la propria estensione fin dentro l’ombra di nessuno o specchiarsi in se stessi o in Nessuno, fino al sé e oltre sé (...). Nessuno, figura di figure, ci induce a cogliere alcune sue ombre o doppi per guadagnare lo specchio di autoconoscenza.
Nessuno ha Qualcuno come sua ombra o doppio. Ogni favola di ombra o doppio è una " parabola variata del chiamato (...) a giudizio davanti a Dio. Ciò cui si è chiamati è il confronto con l’altra parte di se stessi: inconscio, o tempo, o corpo". Conoscere se stessi nel non negarsi alla conoscenza di Nessuno, del proprio Nessuno: "dividere il grossolano dal sottile", come insegna un frammento, citato da Jung, di Aurelia Occulta su Mercurio, alla cui alchimia assomiglia quella di Nessuno. Nell’autopresentazione di Mercurio si coglie il riferimento all’alchimia dell’anima: "sono il carbonchio solare, la preziosissima terra trasfigurata, con la quale tu puoi mutare in oro rame, ferro...". Ma anche i contrari che formano la natura mercuriale appartengono a Nessuno, il debolissimo e fortissimo, giovane e vecchio, maschio e femmina, infimo e sublime dissolutore delle identità, sovvertitore di ordini naturali, Nessuno il Noto. E "sotto l’estrema ironia di Nessuno il noto traspare Nessuno il Sé".
Ma ora, appunto, la psicoanalisi sembra mancare la propria meta, che è scoprire la porta dell’inconscio, lasciando inguarita la "separatezza dal corpo di desiderio che è la psiche o mente". Ciò accade perché la psicoanalisi è ancora troppo inficiata di razionalismo e egualmente troppo di irrazionalismo, sostiene R. Giorgi, che vede quello che chiama il mondo del "bipedismo" razionale/irrazionale come un mondo fin troppo, e fittiziamente, dritto. E’ per questo che bisogna, trasversalmente, guardare in direzione di un non-uomo o Nemo o Nessuno.
Se l’uomo tutto umano, spirituale, razionale ha fallito nel realizzare felicità amore conoscenza e si ritrova accanto il proprio sangue irrazionale, non è con le forze di questo auriga di cavalli che bisognerà continuare.
Bisognerà adoperarsi invece ad un capovolgimento del mondo. Di contro ai "concettosi" che hanno tanto ammaestrato di chiarezze e non sanno nulla di "mondi alla rovescia". Occorrerà purificare lo specchio della mente dagli effetti distorcenti dell’io, dell’identità a tutti i costi. L’Oriente conosce la magia dello specchio vuoto di cose. Nessuno
Presta a tutti la sua virtù d’ombra affinché sappiamo guardare nel suo specchio, senza riflessi d’io (...) e guardare senza ripari Nessuno e Nulla accendere il sereno della morte...
Se l’io, grazie alla morte esoterica, viene meno, Nessuno-Nulla o l’inconscio è in grado di "sostenere da solo il peso della totalità", di sanare l’intero dell’uomo.
Chè, infine, Nessuno conosce se stesso....
* intellettuali/Storia, 27.08.2005
violenza
Il criterio dell’inerme
L’inadeguatezza dei concetti moderni della guerra e del terrorismo impongono un salto di paradigma per interpretare la violenza globale. «Orrorismo», la provocatoria proposta di Adriana Cavarero
di Ida Dominijanni (il manifesto, 09.06.2007)
I bambini iracheni dilaniati da un attentatore suicida a Baghdad il 12 luglio 2005. Gli invitati a un matrimonio di un villaggio iracheno al confine con la Siria, massacrati il 19 maggio 2004 dai missili lanciati «per sbaglio» dagli americani. La giovane kamikaze cecena di nome Ajza di cui, dopo l’autoesplosione, il padre raccoglie in un sacchetto ciò che resta, cioè la testa coi capelli arruffati, una spalla e un dito. La donna con una maschera di garza sul viso che è diventata l’icona fotografica degli attentati di Londra del 7 luglio 2005. I diciotto civili annientati a Damadola, Pakistan, il 14 gennaio 2006, in un prolungamento della guerra contro l’Afghanistan, da aerei americani senza pilota telecomandati da una base del Nevada. Le teste dei sequestrati occidentali mozzate davanti alla telecamera dalle bande irachene. I corpi umiliati a Abu Ghraib davanti alla macchina fotografica dalle torturatrici americane.
Si muove fra questi e altri materiali di quel sequel dell’orrore che è il nostro presente il nuovo libro di Adriana Cavarero, un titolo - Orrorismo - che è un programma. «Orrorismo» è una parola inesistente nel vocabolario italiano, orrenda e respingente come quello che, nelle intenzioni dell’autrice, vuole significare. Che cosa? Il salto di scala che la violenza sugli inermi sta compiendo nel teatro globale del terrorismo e della guerra. «Un neologismo - scrive Cavarero - è sempre un azzardo, e quando sia coniato a tavolino lo è ancora di più». Se decide di giocarlo, è perché i nomi tradizionali non bastano più a dire la realtà; la lingua va in scacco di fronte all’impazzimento dei fatti, e con la lingua il pensiero.
Che i concetti della tradizione politica moderna non bastassero più a interpretare il presente fu improvvisamente chiaro l’11 settembre del 2001, davanti a quei quattro aerei-kamikaze nei cieli americani che più che un atto di terrorismo sembravano configurare una dichiarazione di guerra. E divenne ancor più chiaro un anno dopo, quando la National Security Strategy di Bush delineò quel teorema della «guerra preventiva» che faceva carta straccia di tutte le definizioni e regolamentazioni della guerra convenzionale. Del resto, seguendo i tracciati di genealogia dei concetti moderni di «guerra» e «terrorismo» che Cavarero ricostruisce, si capisce che l’arte della distinzione esercita dalla filosofia politica e dalla scienza giuridica non ha mai retto granché alla prova della storia: se è vero che il paradigma della guerra regolare fra stati era già stato messo in mora nel Novecento dai combattenti «irregolari», come comprese Carl Schmitt nella Teoria del partigiano già all’inizio degli anni Sessanta; e se è vero che la definizione di terrorismo come forma criminale di violenza incompatibile con la guerra convenzionale è messa in mora ab origine dal carattere statuale di tutti i regimi del terrore, da quello giacobino in avanti. Ma oggi più che mai, di fronte a «guerre regolari» che fanno dello sterminio dei civili la norma e a un terrorismo «irregolare» che agisce su scala planetaria, quell’arte della distinzione vacilla e si perde nel comune teatro della devastazione. Dove tuttavia, se «sul piano della macelleria la bilancia pende decisamente dalla parte della guerra e della sua propensione a tecnologizzare il massacro», sul piano concettuale va invece al terrorismo il primato di una doppia innovazione - l’uso del corpo suicida per uccidere altri corpi, e l’individuazione dell’obiettivo in chiunque, ovunque e in qualsiasi momento - che fa la differenza dal passato.
Il salto di scenario comporta dunque un salto di paradigma interpretativo, contro l’ostinazione sia degli specialisti sia dei massmedia a leggere quello che accade con lo schema usurato della guerra fra stati (o di provvisorie deroghe a quello schema). La chiave dell’«orrorismo» proposta da Cavarero apre invece almeno due porte. Per un verso, punta lo sguardo sull’orrore come ingrediente centrale, e non collaterale, sia della guerra sia del terrorismo di oggi: per «orrore» intendendosi il salto dell’obiettivo dalla morte al massacro del nemico, e dalla sua sconfitta alla sua disumanizzazione attraverso lo sfiguramento del suo corpo e della «singolare umanità» che ogni corpo racchiude. Per l’altro verso, la chiave dell’«orrorismo» domanda uno spostamento del punto di vista: dal «criterio del guerriero», dominante nei paradigmi tradizionali e della guerra e del terrorismo, al criterio della vittima inerme - spostamento che a sua volta comporta l’abbandono della logica mezzi-fini come bussola di valutazione politica della violenza e dei suoi effetti.
Non si tratta solo - solo? - di sostituire alla centralità del carnefice la centralità della vittima. Nel «criterio dell’inerme» proposto da Cavarero precipita una più ampia riflessione filosofica, non a caso femminile, che dall’11 settembre in poi accompagna la rilettura del mondo globale, dei suoi dispositivi di dominio, delle sue strutture politiche ed economiche, con una rilettura dell’ontologia del presente incentrata su un ripensamento dell’umano, in contrapposizione ai processi di disumanizzazione innescati dalla violenza globale. Di questo ripensamento, la vulnerabilità e l’esposizione di ciascuno/a all’altro (alla violenza e alla cura dell’altro) sono perni cruciali, comuni a Adriana Cavarero, a Judith Butler (Vite precarie, Meltemi; Critica della violenza etica, Feltrinelli) e a quante altre abbiano elaborato lo shock dell’11 settembre prima e della guerra poi non nella logica della ritorsione o della vendetta ma nell’apertura alla vulnerabilità e all’interdipendenza come condizione che accomuna la popolazione del pianeta globale.
Nel libro di Cavarero la figura dell’inerme - di chi cioè, ontologicamente vulnerabile, è anche contingentemente privo di mezzi per difendersi - prosegue e completa questo tracciato. E si sporge non solo sul presente, ma, sulla scia di Hannah Arendt e di Primo Levi, anche sul passato, nella stazione su Auschwitz e sui metodi pianificati di annientamento dell’umano nei campi di sterminio che in un libro sull’orrore non poteva mancare, e in altre stazioni che ripercorrono le tappe dell’orrore novecentesco, dal genocidio degli Armeni a Hiroshima, dal Vietnam al Ruanda ai Balcani.
Lo scopo non è iconografico - un’ennesima galleria degli orrori, è il caso di dire - e l’intenzione non è di marca «buonista»; si tratta piuttosto di una ruvida convocazione a interrogarci sulle poste in gioco ultime e ultimative del presente, che non si risparmia una decisa presa di distanza sia dai paradigmi etico-politici che giustificano la violenza estrema sulla base di «più alti» valori (la retorica dell’eroe), sia dalle correnti culturali che da Bataille in poi hanno associato alla guerra il sublime, l’erotismo e il godimento, sia da una certa deriva della psicoanalisi che ha fatto della pulsione di morte freudiana un criterio di naturalizzazione della violenza. Sia ancora, last non least, da qualsivoglia visione salvifica del femminile, che in questo libro viene al contrario interrogato nelle sue maschere orrifiche più sintomatiche: dalle figure mitiche di Medusa e di Medea a quelle contemporanee delle suicide bombers cecene e palestinesi e delle torturatrici di Abu Ghraib. Nessuna delle quali va interpretata come eccezione dalla «retta via» del femminile che mette al mondo, cura e accudisce, bensì come il suo inquietante rovescio: perché è proprio quando l’orrore assume un volto femminile che la deriva verso la messa a morte e la disumanizzazione arriva al suo limite estremo.
Da questo limite, il corpo torna a interrogare la politica. In un testo di qualche anno fa, Corpo in figure, Adriana Cavarero aveva egregiamente descritto il processo di astrazione che lungo tutta la storia del politico occidentale neutralizza il corpo singolare per metaforizzarlo e disciplinarlo nella figura del corpo politic.
Uno degli effetti imprevisti del presente globale è che il corpo sembra oggi presentarci il conto di questo processo di neutralizzazione e metaforizzzaione, ripresentandosi nella forma - e nella forza - irriducibile di un corpo-arma, che non punta a preservarsi dalla morte ma a uccidere uccidendosi; o nella forma di un corpo messo a nudo, umiliato, sadomasicamente deriso e orgiasticamente fotografato com’è accaduto a Abu Ghraib.
La spettacolarizzzazione, anzi l’intrinseca mediaticità di queste figurazioni contemporanee del corpo non deve fare velo - qui Cavarero è in sintonia con Susan Sontag - alla materialità della sofferenza inflitta e autoinflitta. Ma è pur sempre dal corpo che viene, in forma di sintomo, un’indicazione al pensiero. Se è il volto di Medusa la maschera estrema dell’orrore, l’antico mito racconta di una specularità dello sguardo, di una reciprocità del vedere e dell’essere visto, intrinseche alla sua produzione: «C’è a quanto pare, nell’orrore, un faccia a faccia che non può essere evitato». La politica dell’orrore non riguarda mai solo l’altro: dal volto dell’altro, implacabilmente ci guarda e ci interpella.
il superamento dell’odio e della vendetta nella direzione della giustizia (il terzo) è un cammino ancora da compiere (U. Galimberti)
Due punti di vista, per un obiettivo: trovare soluzioni ai conflitti
Ottenendo l’indipendenza si riconquista la propria identità?quali sono i confini della mente? abbiamo davvero bisogno di un leader? ne parlano Vamik Volkan e Umberto Galimberti. *
Vamik Volkan:
"Nelle aree di conflitto non si può dire che oggi manchi il dialogo. Anzi, c’è una comunicazione costante: ci sono i governi impegnati in questo, ci sono le organizzazioni non governative (ong) e le diverse fondazioni. Sono tutti concentrati a far dialogare tutti con tutti. Io stesso, da psicoanalista, sono stato coinvolto in colloqui con diplomatici e personalità politiche e mi è stato chiesto di capire come mai nei grandi gruppi avvengano certe dinamiche di tensione.
Esistono scambi ufficiali e altri che non lo sono, ma che comunque possono essere determinanti. Durante la guerra tra Israele ed Egitto, un ruolo importante l’ha avuto per esempio un giornalista della CBS news, che ha fatto da vero trait d’union tra i due Paesi, più di quanto forse non abbiano fatto i rispettivi assetti istituzionali. Oggi poi ci sono molte, forse troppe, ong. Sono ovunque: alcune non appartengono a nessuno, altre sono affiliate a gruppi religiosi, altre sono legate all’Onu. E se è vero che queste associazioni smuovono parecchie cose e sono in grado di riunire moltissimi ragazzi, è anche vero che spesso scivolano in errori che stanno diventando sempre più lampanti.
Penso alla gestione dei rapporti tra serbi e croati: è stato un disastro. Alcune ong si sono impegnate ad avvicinare i ragazzini serbi ai croati, facendo fare loro dei viaggi insieme od organizzando partite di pallone in giro per il mondo. Poi però quando ognuno di loro tornava in patria, a casa sua, veniva trattato dagli altri quasi alla stregua di un traditore. Si sono creati non pochi problemi in seguito a queste iniziative alternative. È diventata una moda del XXI secolo: si vogliono creare ponti, accordi, alleanze e amicizie. Ma bisogna saper fare le cose, bisogna avere un approccio sistematico e i diplomatici ufficiali sono stanchi di queste persone che pretendono di dire la loro, con modalità non sempre corrette".
Umberto Galimberti:
"Per dialogare la precondizione è che io riesca a catturare la simbolica dell’altro, i suoi valori di fondo, la cultura che sostiene la sua posizione. Questa simbolica dell’altro è inconscia e si verifica anche nei rapporti duali, d’amore. Per cui due innamorati si comprendono al di là delle parole perché conoscono i valori di riferimento a partire dai quali l’altro parla. È la stessa condizione da cui è nata la filosofia che ha inaugurato il dialogo, il dialogo socratico: per parlare ci deve essere un rapporto di philia, ovvero l’atteggiamento non deve essere quello di superare l’avversario e vincere la partita (euristica), ma di comprendere le ragioni per cui l’altro sostiene le sue tesi. Ne consegue che la comunicazione è un’impresa assolutamente difficile e finché non si perviene alla comprensione di queste ragioni, il dialogo è solo una forma di buona educazione dove ciascuno resta dalla sua parte".
LA CONQUISTA DELL’INDIPENDENZA
Vamik Volkan:
"Molte etnie sono state colonizzate e sono diventate indipendenti. Per alcune è stato un bene e hanno reagito positivamente, per altre è stato un danno, una rovina. Detto questo è vero che ci sono problemi condivisi nel momento in cui si recupera la propria indipendenza. Un popolo che vive sotto un altro popolo, è come se si appropriasse dell’identità del Paese che lo sta colonizzando, si identifica con questo. Allo stesso tempo, però, come nel caso dell’Estonia, della Lettonia e della Lituania, ognuno ha comunque la sua singola identità. Dopo il crollo dell’Impero Ottomano, gli europei fecero delle linee dritte - che si possono notare ancora adesso - per dividere il loro territorio dal Medio Oriente. E in Africa, con queste demarcazioni così nette, sono stati divisi interi gruppi etnici che si sono ritrovati separati da una parte e dall’altra del confine. E questo, di necessità, ha creato un’assoluta disgregazione delle tribù.
Poi può succedere come è accaduto alla Georgia e all’Ossezia. Dopo aver conseguito l’indipendenza, nel 1991, la Georgia ha abolito l’enclave autonoma osseta provocando una migrazione di molta della popolazione dall’Ossezia del Sud (della Georgia) all’Ossezia del Nord (della Russia). Gli abitanti dell’Ossezia del Sud, che si sono trovati in conflitto con la Georgia, hanno pensato di fare fronte comune con gli abitanti dell’Ossezia del Nord, che, sebbene fossero "diversi" perché facevano parte della federazione russa, erano, però, comunque osseti e non georgiani. Un’indipendenza, dunque, che ha messo sul piatto tutto il problema dell’identità.
Un’altra questione è che noi occidentali ci sentiamo così onnipotenti, così forti, che quando decidiamo di aiutare i Paesi in via di sviluppo pretendiamo che questi diventino a nostra immagine e somiglianza. Per queste popolazioni invece ci vogliono decenni per imparare cose che noi diamo per scontate".
Umberto Galimberti:
"Rispetto ai popoli, il singolo è più disposto a cedere la propria indipendenza per ragioni di protezione. È il caso di molte donne che, soprattutto nelle generazioni che ci hanno preceduto, pur di garantirsi la protezione economica rinunciavano alla propria indipendenza. E questo, che era particolarmente evidente un tempo, non è comunque estinto neppure oggi. Jung istituisce come scopo di un percorso analitico il conseguimento della propria individuazione, seguendo il detto di Nietzsche: "diventa ciò che sei". Però, per riuscirci, ci vogliono dei vantaggi sociali, come la ricchezza, la forza di carattere, la capacità di non dipendere dall’altro. L’indipendenza è così un privilegio di chi ha le condizioni oggettive per esserlo. Sarebbero più facili le separazioni coniugali se le condizioni oggettive di indipendenza fossero disponibili come invece non sempre sono. Nel caso dei popoli, invece, l’indipendenza coincide rigorosamente con la propria identità e l’identità affonda le sue radici nel dato antropologico che antecede quello politico e persino quello economico. In un mondo globalizzato noi occidentali, che abbiamo fatto del denaro il generatore simbolico di tutti i valori, possiamo tranquillamente prescindere dal dato antropologico dell’identità a differenza invece dei Paesi poveri dove l’unico dato di riconoscimento è nell’appartenenza alla stessa cultura, la condivisione della stessa tradizione".
CHE COS’È L’APPARTENENZA?
Vamik Volkan:
"Ci sono diversi elementi che creano un’identità di gruppo. Un grande gruppo è fatto da milioni di persone che non si incontreranno mai. E, nonostante le sue divisioni interne, un gruppo è capace velocemente di ricompattarsi. Prendiamo l’Italia per esempio. C’è l’Italia del Nord e l’Italia del Sud, che ci tengono a essere ben distinte. Poi però immaginiamo che gli albanesi vengano in Italia e invadano l’Italia del Sud. Bene, in realtà l’Italia intera si sentirebbe attaccata: non farebbe più differenza se l’attacco è stato al Nord o al Sud. La verità è che quando c’è un trauma, le differenze si annullano e il trauma diventa condiviso. Ogni Paese individua dei simboli, che possono essere degli animali, una montagna, un piatto caratteristico e li identifica come simboli della propria appartenenza. Così, per esempio, per i finlandesi lo è la sauna e per gli italiani i maccheroni o la pizza: sono elementi di coesione, nonostante tutte le altre differenze, magari anche più sostanziali. Guardiamo ai Paesi che io chiamo "sintetici", come può esserlo Israele. Israele ha una forte connessione religiosa, ma è composto da realtà molto disparate: ci sono gli askenazi, i safarditi, le vittime dell’Olocausto e quelli che non hanno vissuto l’Olocausto, ci sono quelli che arrivano dall’Etiopia e i russi. Ma come si fa a creare un’identità israelita e tenere unite tutte queste realtà? In Israele hanno addirittura un ministro che se ne occupa: c’è il cosiddetto ministero dell’assorbimento. Ero ospite al cinquantesimo anniversario dello Stato ebraico e, in quell’occasione, il tema dominante era proprio questo: come mettere tutti insieme? Spesso, infatti, per creare coesione si ha bisogno di focalizzare un nemico comune: il nemico serve a rafforzare la propria identità. E lo stesso vale per i palestinesi, per i musulmani in generale, per gli americani. Se non si capisce questo scoglio, non ci sarà mai una reale soluzione del conflitto".
Umberto Galimberti: "Stabilire identità e appartenenza a partire dall’individuazione di un nemico è la macchina più antica del mondo e siccome anche noi occidentali procediamo secondo questo schema il nostro "progresso" sembra faccia acqua da tutte le parti. Di per sé identità e appartenenza sono tra di loro antitetiche. Nel senso che l’identità è ciò che si individua a scapito dell’appartenenza. L’adolescente che cerca la sua strada è obbligato a sganciarsi dalla famiglia di appartenenza (i genitori ne sanno qualcosa).
Ancora una volta però dobbiamo dire che l’identità è di coloro che si possono permettere di prescindere dall’appartenenza, come ad esempio i ricchi: i deboli sono invece costretti a reperire la loro identità nell’appartenenza. Questa è la ragione per cui noi occidentali, essendo i più ricchi del mondo, e avendo sviluppato per secoli il concetto di individuo, siamo facilitati nel prescindere dall’appartenenza. Un giocatore nero che sia valido sul campo è più legato alla sua identità che al legame con la sua tribù d’origine. I ricchi si intendono al di là delle appartenenze etniche. Per cui potremmo dire che l’appartenenza è il sostegno dei poveri, e invece l’identità che prescinde dall’appartenenza è il privilegio dei ricchi".
TROVARE IL PROPRIO LEADER
Vamik Volkan:
"Quando una società è in crisi, di solito crea un leader con una personalità narcisistica. La gente cerca un salvatore. D’altra parte un buon leader deve essere un narcisista, perché si deve sentire a suo agio nell’essere il numero uno. E un buon leader deve essere anche un po’ paranoico, perché deve avere sempre sotto controllo la propria popolazione. Poi, di certo, è bene che sia intelligente e che abbia sense of humor.
Caratteristiche non facili da avere tutte insieme. La personalità del capo, nelle situazioni difficili, è importante, determinante direi. Se il leader regredisce a livello della società, se arriva a provare le stesse ansie che prova la sua nazione è grave e negativo. Colui che sta al comando deve distinguere i pericoli reali dai pericoli fantasticati ed esagerati: solo così la società può trarne beneficio.
Farò due esempi, per capirci meglio. Un caso positivo è sicuramente quello di Nelson Mandela: lui di certo non si è ridotto a provare le paure e le umiliazioni della sua gente. Racconterò un episodio esplicativo: tre mesi prima che lui prendesse il potere, era a un meeting con il suo futuro governo. Ricevette una telefonata e dovette uscire per un quarto d’ora. Quando tornò, gli altri gli dissero: "Abbiamo preso una decisione mentre tu non c’eri: cambieremo l’inno nazionale. Quello che c’è è pensato per i bianchi...". Mandela si contrariò: "Non potete farlo, umiliereste la nostra gente: l’inno è un simbolo della loro identità". Era riuscito ad avere una visione più ampia. Al contrario George Bush, quando ci fu l’11 settembre, cedette ai timori del suo popolo e contribuì ad incrementarli. All’improvviso questo grande Paese era stato umiliato e per lui si trattò di un’umiliazione personale. Fu lì che perse la sua battaglia da leader".
Umberto Galimberti:
"Confermo che il leader per essere tale deve essere un narcisista e paranoico e ciò in omaggio a quanto ci racconta Jung secondo il quale non tutte le nevrosi devono essere guarite, alcune possono essere utilizzate. Il problema è che il leader crea una società di massa. Il solo fatto che la massa desideri un leader rivela la condizione infantile del bambino che senza il padre non sa sopravvivere. Il leader era particolarmente in auge nella società umanistica che io ritengo conclusa con la Seconda Guerra Mondiale dove si riteneva che un uomo potesse risolvere i problemi di un Paese. Questo spiega perché in Occidente un Hitler, un Mussolini, uno Stalin non possono più affermarsi: nelle società complesse, come quelle di oggi le dinamiche sono troppo complicate perché un singolo uomo possa tenerne il controllo.
Nella stessa America il presidente degli Stati Uniti è un leader costruito. In realtà è un rappresentante della composizione di interessi che stanno alle sue spalle. E così, anche nel campo del lavoro la figura del leader è pressoché sparita: al massimo abbiamo a che fare con dei capoufficio dove la dimensione del mansionario e della procedura prevale sulla personalità di chi comanda.
Troviamo invece dimensioni da leader in quelle forme sociali primitive come la mafia, dove la personalità del singolo è decisiva per l’organizzazione. Il leader infatti è tale se riesce a muovere le paure e le fascinazioni dei suoi subordinati, quindi se opera su fattori irrazionali. Leader ad esempio sono i capi religiosi (di qualsiasi religione), ma si sa che le religioni affondano le loro radici nella parte irrazionale di ciascuno di noi, giocando sulle nostre paure, le nostre ansie, il nostro desiderio di reperire un senso. In ogni caso dove c’è un leader si ha la regressione infantile di un popolo a massa. Consiglio di leggere, in proposito, il bellissimo saggio di Freud sulla psicologia delle masse".
L’ODIO PERPETUO
Vamik Volkan:
"L’odio è necessario per creare un’identità di popolo. E questo odio viene portato avanti per anni e anni. Si è notato come non si riesca a capovolgere la propria umiliazione, né la propria impotenza, né si riesca a elaborare il lutto fino in fondo se si sono avute delle perdite gravi. Così, se le madri e i padri non risolvono questi nodi, li delegano ai propri figli. E se i figli si dovessero trovare nella stessa situazione di crisi, passerebbero la questione alla generazione successiva. Finché queste situazioni di conflitto non diventano croniche, insite nell’essere di quel popolo: ci si sente in diritto di provare odio e di considerare il nemico quasi non umano. I confini fisici diventano confini della mente. Ma, benché tutto ciò sia risaputo è come se mancasse uno sforzo sistematico e globale per risolvere la grande questione del conflitto".
Umberto Galimberti:
"Odio e vendetta sono le grandi macchine che garantiscono identità e appartenenza. Infatti nell’odio e nella vendetta sono in gioco le soggettività dei contendenti. E questo vale nel rapporto tra i vicini di casa fino all’odio dei popoli. Questa situazione è stata pensata e tematizzata dalla cultura greca prima dell’avvento della filosofia, nella grande stagione della tragedia. Le tragedie avevano un andamento triadico, raccontavano la storia dei padri quella successiva dei figli e la terza dei nipoti in cui si perpetuava il rapporto dell’odio e della vendetta.
Il superamento di questa dimensione è stato istituito con l’inaugurazione del dikasterion (tribunale) dove dike, la giustizia, toglieva il conflitto, la carica soggettiva, e giudicava i fatti oggettivamente cosa che non può essere fatta dai due contendenti ma solo da un terzo, che non è soggettivamente coinvolto. Questo il grande lavoro della mediazione che prevede sempre un terzo, che, esonerato dalle cariche soggettive di odio e di vendetta, sia in grado di computare colpe e pene sul piano oggettivo.
I greci l’avevano capito e in questa direzione si è mosso l’Occidente che ha fondato un ordine giuridico laico anche se ancora questo ordine giuridico subisce le pressioni della soggettività di solito politica o affaristica. Per cui il superamento dell’odio e della vendetta nella direzione della giustizia (il terzo) è un cammino ancora da compiere".
* la Repubblica/D, n. 556, 07.07.2007
La lotta continua delle identità negate
Un’intervista con lo studioso italiano in occasione dell’uscita del volume «Il velo della diversità» per Feltrinelli. Nel mare in tempesta della globalizzazione, la cerchia del riconoscimento è il porto da cui partire per svelare l’arcano della realtà contemporanea evitando le insidie dell’individualismo metodologico
di Benedetto Vecchi *
La sua scrivania è di un ordine disarmante e tutti gli oggetti sono posti con meticolosa progressione. Un’agenda, una rubrica telefonica, pochi fogli bianchi e un computer, ma se lo sguardo va in basso quella stessa scrivania sembra un fortino assediato da pile di libri e quaderni di appunti. Alessandro Pizzorno è molto orgoglioso del suo lavoro all’Istituto universitario europeo a Fiesole, dove è docente emerito. «Era molto tempo che non incontravo un ambiente di lavoro così creativo. Anche gli studenti non sono da meno. Anzi posso dire che sono tra i migliori che ho incontrato nella mia lunga carriera. Se devo fare un paragone devo ricordare quelli del Sessantotto milanese. Ero quasi sempre in disaccordo, ma le discussioni che ho avuto con loro sono state tra le più stimolanti che ho avuto».
Incontrare Alessandro Pizzorno è come ripercorrere le tappe che hanno segnato il Novecento delle scienze sociali e, al tempo stesso, riavvolgere il filo della storia repubblicana d’Italia. Ricorda la Milano del dopoguerra e il clima pregno di speranze per una sprovincializzazione della cultura italiana. La sua presenza alla Casa della Cultura, dove comunisti, socialisti e cattolici si incontravano per discutere cosa c’era di sbagliato nell’Italia reale e cosa andava fatto per costruirne un’altra di migliore. Ma evoca anche i suoi studi a Parigi, il lavoro di ricerca al centro studi dell’Olivetti, l’insegnamento a Urbino, Theran, Oxford, Harvard. Anni di passione civile durante i quali scrive alcuni saggi che lo fanno conoscere molto più all’estero che non nel nostro paese. Quando Alessandro Pizzorno lascia l’Italia per Harvard è già considerato un decano della sociologia. Il suo recente ritorno in Italia è segnato da alcuni saggi dedicati a quella crisi della democrazia delle società capitalistiche che Pizzorno mai definirebbe crisi, quanto fenomemi da studiare per comprendere appieno come funziona la società. Il suo ultimo lavoro - Il velo della diversità (Feltrinelli, pp. 411, euro 30) - può tuttavia essere considerato il consuntivo della sua riflessione attorno allo statuto delle scienze sociali. E l’intervista, avvenuta nelle stanze protettive dell’Istituto universitario europeo di Fiesole, parte dai compagni di viaggio che Pizzorno ha avuto nella sua attività di studioso.
Lei dedica critiche durissime all’individualismo metodologic. Uno dei compagni di strada di questa critica è Albert Hirshman e la sua tassonomia dell’azione sociale (la defezione, la protesta, la lealtà)...
Hirshman è senza dubbio un autore importante perché la sua riflessione non partiva dalla convinzione che la realtà sociale potesse essere spiegata partendo dalle strategie individuali di massimizzare i propri interessi. Ne abbiamo parlato molte volte negli incontri che abbiamo avuto. Siamo stati sempre in sintonia sul carattere «sociale» del comportamento umano rispetto a quelle spiegazioni che privilegiavano le intenzionalità, le passioni, gli interessi individuali. Poi abbiamo preso strade diverse e ci siamo, come si dice, persi di vista. In questa mia esplorazione dell’azione sociale mi sono imbattuto in autori, come ad esempio il filosofo Donald Davidson, secondo i quali c’è razionalità in un’azione sociale quanto essa è coerente con le intenzioni degli attori sociali. Una spiegazione seducente certo, che pone tuttavia un problema: siamo così sicuri di sapere appieno quali siano le intenzioni, i desideri, insomma la ratio degli attori coinvolti in un’azione? Ne dubito. Noi sappiamo solo ciò che vediamo. Dunque, un ricercatore deve recepire un’azione e al stesso tempo situarla. Deve cioè interpretarla.
Lei sostiene che società può essere una parola fuorviante se non adeguatamente qualificata. Infatti, lei preferisce parlare di «cerchia di riconoscimento», quasi che le relazioni di prossimità spieghino il perché e il come delle relazioni sociali. Solo in base a questa preliminare interpretazione si possono arricchire di specificazioni successive....
La cerchia di riconoscimento non coincide solo con le realzioni di prossimità. Può indicare anche un partito, un sindacato, un’impresa, una nazione. Vorrei però introdurre un altro concetto, quello di «reidentificazione». Quando io voglio spiegare un fatto o un evento, come si dice nella nostra contemporaneità, mi trovo di fronte a una situazione in cui è stata attribuità una identità alle persone. Il ricercatore deve tuttavia compiere un’operazione preliminare: deve reidentificare la persona alla luce di quanto accaduto nella realtà in seguito all’azione che compie. Prendiamo una ragazza di religione musulmana che decide di indossare il velo quando va a scuola in Francia o in Italia, dove indossare un velo è segnato da un disvalore: ma cosa accade quando lo indossa? come modifica i comportamenti degli altri? La risposta a queste domande svela la razionalità dell’azione e al tempo stesso svolge appunto un lavoro di reidentificazione, perché la ragazza stessa è modificata da quell’azione. La chiave di tutto per me sta proprio nel riconoscimento: si compiono delle azioni perché vogliamo essere riconosciuti, cioè vogliamo la stima, la fiducia e acquisire visibilità nel nostro gruppo di riferimento.
Sono stato spesso accomunato al filosofo tedesco Alex Honneth, ma mentre lui intende il riconoscimento come rispetto degli altri, io preferisco rifarmi a quanto sostiene Hegel a proprosito del servo e del padrone: diventano l’uno servo, l’altro padrone, quando c’è riconoscimento reciproco. Da questo punto di vista aderisco totalmente a una certa ortodossia sociologica che privilegia le relazioni sociali alle intenzioni degli individui. Dunque Max Weber di quando faceva ricerca, Emile Durkheim studioso della società, Karl Marx e la centralità dei rapporti sociali. Il mio è solo un contributo per uscire fuori dalla condiszione disastrosa in cui siamo caduti a causa dell’egemonia dei teorici della scelta razionale e della intenzionalità come motore dell’azione.
Lei parla spesso parla di capitale sociale in termini polemici con la concezione economicista che spesso accompagna questo concetto.....
È un concetto che ha una lunga storia. Ci sono le reti sociali ampiamente studiate da Mark Granovetter. C’è poi Robert Putnam, ma che recentemente ne dà una lettura minimalista, quasi che il capitale sociale sia espressione di una generica tendenza ad avere rapporti di buon vicinato Allo stesso tempo, Pierre Boudieu ha parlato di capitale sociale in relazione al possesso di alcune risorse (relazionali, di know how). Dal mio punto di vista il capitale sociale non si rifereisce a relazioni di scambio, né al semplice incontro casuale tra persone. Non si può parlare di capitale sociale quando ci troviamo di fronte a relazioni di ostilità, conflittuali o di sfruttamento. Possiamo dunque parlare di capitale sociale solo in presenza di relazioni continuative nel tempo, segnate da solidarietà e reciprocità e in cui è possibile che le identità dei partecipanti siano riconosciute.
Lei parla di identità sempre all’interno di una relazione duale: io e l’altro. Mi sembra invece che la tematica della identità debba introdurre un’altra figura che va a comporre un triangolo. Possiamo chiamarla uditorio, oppure dell’intervento esterno del ricercatore. In altri termini, si può parlare di identità solo in un rapporto triangolare, dove il terzo partecipante alla relazione «certifichi» l’identità di entrambi di partecipanti alla relazione. Lei che ne pensa?
Non avevo mai pensato a una terza figura che attesta il riconoscimento. Ci devo pensare, ma se analizziamo il riconoscimento dell’identità effettivamente c’è bisogno di una terza figura, che potremmo chiamare il «certificatore», che attesta le identità delle persone coinvolte nella relazione. Ripeto: non so se sono d’accordo con questo schema, ma è uno schema a prima vista convincente..
La maschera è una costante nella sua riflessione. Possiamo però pensare all’identità come una maschera.....
Certo, l’identità è una maschera che posso indossare per presentarmi come nordafricano, nero, musulmano, cioè in base a tipologie e tassonomie di persone e gruppi umani che vogliono presentarsi con alcune caratteristiche immutate nel tempo. Sappiamo, però, che non è così, perché l’’identità si definisce in una relazione, sia all’interno di uno stesso gruppo che al di fuori del gruppo. Soltanto che si pone un primo problema: se la mia identità di nordafricano, nero, musulmano non viene accettata dagli altri, cosa faccio? Posso lavorare a quelli che Alain Touraine chiama i meccanismi di integrazione. Ma questo aggiustamento della maschera è un tradimento dell’identità «certificata». La stessa rivendicazione di una identità originaria è tuttavia un tradimento, perché, ripeto, c’è identità all’interno di relazione sociale. Dunque la maschera consente di presentarmi alla relazione con l’altro, ma così facendo accetto il fatto di doverla continuamente modificare all’interno di questa relazione.
Sul tema identità e globalizzazione è stato scritto molto. Una cosa però è certa: l’identità, in un mondo globale, è sia un riparo attraverso il quale possiamo essere riconosciuti. Ma anche il manufatto per entrare a forza nella cerchia di riferimento che è la società globale.
Si, è un riparo dietro il quale ci difendiamo dai fattori «destabilizzanti» della globalizzazione. Ma anche lo strumento attraverso il quale possiamo essere riconosciuti. Indossiamo quindi la maschera e poi la modifichiamo per poter essere riconosciuti anche quando viene la usiamo per criticare i meccanismi di integrazione della globalizzazione. Oscilliamo cioè tra integrazione e rifiuto.
Lei dunque tende ad escludere che un’identità possa essere inventata, meglio immaginata, per parafrasare il libro di Benedict Anderson «Le comunità immaginarie»?
Non escludo questo, ma aggiungo solamente che una volta inventata o immaginata deve essere riconosciuta, altrimenti torniamo a spiegare la società in base alle intenzioni dei singolii. È solo nel riconoscimento che un singolo o un gruppo sociale può esercitare la voice, l’exit o la loyalty. Il riconoscimento è infatti indispensabile, perché garantisce visibilità, reputazione, dignità.
Mi viene spesso obiettato che in passato non c’erano solo lotte per il riconoscimento, ma anche lotte di classe. Dal mio punto di vista anche quelle degli operai o dei proletari se preferisce erano lotte per il riconoscimento. Non si lotta solo per avere dei vantaggi, ma sopratutto per essere riconosciuti. Certo entriamo in un terreno ambiguo, perché accanto all’identità emerge il suo corollario, la diversità. Il riconoscimento non è mai indolore. E infatti può essere l’esito di relazioni molto conflittuali, perché all’interno di ogni relazione è sempre presente la minaccia di andarsene e dimostrare che non hai bisogno dell’altro. È come nel rapporto amoroso, che è sempre una relazione conflittuale perché è latente la possibilità che uno dei due partner renda operativa la minanccia di andarsene, abbandonando così l’amato o l’amata.
In passato ho molto studiato i conflitti di lavoro e mi sono trovato di fronte delle situazioni paradossali, specialmente negli Stati Uniti. Poteva esserci un imprenditore che offriva 200 dollari in più per un determinanto tipo di lavoro e gli operai rifiutavano perché quel lavoro avrebbe comportato il tradimento della propria identità e dell’apparato di riconoscimento che avevano contribuito a costruire. Può sembrare un assurdo un comportamento così «disinteressato», visto che dalla mattina alla sera c’è sempre qualcuno che sentenzia sulla tendenza innata dei singoli a massimizzare i propri interessi. Eppure accade il contrario, perché il riconoscimento vuol dire solidarietà, reciprocità, comunanza.
Le parole chiave per accedere all’azione sociale
Dal centro studi dell’Olivetti a Harvard, il percorso di un ricercatore
Alessandro Pizzorno è considerato una delle figure di spicco delle scienze sociali non solo in Italia. Laureato in Italia ha compiuto la «specializzazione» in Francia. È di quel periodo la stesura di un saggio sulla «maschera» che costituisce, sotto molti aspetti, uno dei fili rossi della sua riflessione. Dopo aver lavorato al centro studi della Olivetti, comincia ad insegnare all’Università di Urbino. Parlando di quegli anni, Pizzorno parla dell’entusiasmo con cui una schiera di giovani studiosi tenta di far entrare nel panorama culturale italiano le scienze sociali, considerate fino ad allora niente altro che «rumore di fondo». Dopo Urbino, insegna a Oxford, per poi approdare momentaneamente a Milano, dove rimane per alcuni anni. per poi trasferirsi a Harvard. Attualmente è docente emerito all’«Istituto universitario europeo» di Fiesole.
Oltre a decine di contributi dedicati a vari temi, vanno ricordati i saggi «Le classi sociali» (Il Mulino, 1959), «Comunità e razionalizzazione» (Einaudi, 1960), «I soggetti del pluralismo: classi partiti sindacati» (Einaudi, 1960), «Le radici della politica assoluta» (Feltrinelli, 1993), «Il potere dei giudici. Stato democratico e controllo della virtù» (Laterza, 1998). Il suo ultimo libro - «Il velo della diversità» (Feltrinelli) - propone la riflessione che Pizzorno ha dedicato alla critica dell’individualismo metodologico e alle parole chiave necessarie per svelare l’arcano dell’azione sociale: il riconoscimento, l’identità (e il suo contraltare, la diversità), il capitale sociale.
All’accusa di far «relativismo culturale», Pizzorno risponde che il relativismo può essere un buon viatico alla comprensione dei fenomeni sociali. «Noi sappiamo solo ciò che vediamo», ama ripetere, non nascondendo il fatto che un’azione sociale viene continuamente interpretata e che il ricercatore non è uno scienziato che deve trovare le leggi di funzionamento della società, ma solo interpretare dei fatti.
* il manifesto, 09.10.2007
Non esiste un io al di fuori del noi
Natura umana. L’anima del linguaggio sta nel riconoscimento reciproco. E il di più che ci differenzia da una scimma parlante sta nel fatto che il dire porta con sé l’esperienza del significato. Un libro di Daniele Gambarara titolato Bipede implume
di FELICE CIMATTI (il manifesto, 27.03.2005)
Quanto fa uno più uno? In aritmetica è facile, due. Nelle relazioni umane un po’ più di uno ma un po’ meno di due. È questa la tesi paradossale di Daniele Gambarara nel suo Bipede implume, appena pubblicato da Bonanno. Più di uno, perché la mente individuale non è tale nel senso di privata, chiusa e autonoma, e la soggettività umana non si definisce in isolamento dalle altre menti; ma anche meno di due, perché quella stessa mente non è nemmeno doppia, se non si trova racchiusa in qualche inattingibile interiorità non la possiamo ritrovare nemmeno fuori di essa. Lo spazio della mente è peculiare, non è uno spazio fisico, di cui si possano tracciare le coordinate. È uno spazio logico, che vive solo nel mondo della semiosi, ed è da essa inseparabile.
La riflessione di Daniele Gambarara è tutta dentro questo luogo paradossale, perché appunto non è un luogo, sebbene si voglia provare a delinearne i confini. Comprendere la natura di questo spazio significa comprendere la mente umana, impostare una possibile descrizione, contemporaneamente semiotica e biologica (e forse i due aggettivi sono, in realtà, sinonimi), della nostra natura. Perché la domanda che Gambarara insegue in questi testi è una domanda radicale, nel senso di fondamentale ma anche non ulteriormente scomponibile: chi è che parla, quando parla, e a chi ?
«La caratteristica dei sistemi semiologici è precisamente quella di non essere interamente spiegabili né in termini cognitivi individuali né in termini sociali». Più di uno, meno di due, appunto. Il nostro spazio, quello paradossale e non misurabile che si apre fra i nostri corpi e i nostri soggettivi pensieri, è uno spazio che non è già lì, come una qualsiasi entità materiale, bensì sorge, di colpo, senza mediazioni, senza passato evolutivo, quando si istituisce la trama arbitraria dei segni. Si istituisce: l’espressione va presa alla lettera: in realtà lo spazio oggettivo (perché non privato, non soggettivo) e pubblico sorge così come emerge una configurazione innovativa e imprevista dall’interazione di agenti individuali distinti; come si formano, ad esempio, le complesse e bellissime forme dinamiche che assumono, nel cielo, certi stormi di uccelli.
Ogni storno vola per conto suo, e anzi tiene le distanze da chi gli sta vicino, e per farlo deve volare nella sua direzione, proprio per evitare di scontrarsi con gli altri. Bastano queste due semplicissime regole, e noi vediamo quelle bizzarre e punteggiate figure muoversi plasticamente nel cielo: la coordinazione degli storni è impersonale, sorge da sé. Il termine tecnico per indicare questo processo, che sembra magico ed è invece affatto naturale, è proprietà emergente. Lo spazio pubblico del linguaggio, e quindi della società umana, è una proprietà emergente che nasce dall’interazione delle menti individuali e private. Lo spazio pubblico della semiosi ha allora una consistenza peculiare, non è mai, propriamente, dato, assodato. Una volta istituitosi deve ogni volta di nuovo essere re-istituito, proprio perché non ha, di suo, uno scheletro materiale su cui riposare, così come la figura che lo stormo assume nel volo non esiste più quando gli storni tornano sugli alberi.
Più di uno, meno di due. Come si ricrea questo processo, e chi vi partecipa? «Ciò che necessariamente compie il linguaggio verbale, indipendentemente dal contenuto di ogni singolo atto, è dichiarare la presenza di un soggetto umano che si rivolge ad un altro come tale, che a preferenza di mezzi immediatamente efficaci di agire su di lui, lo interpella, e gli chiede accordo e collaborazione nella sfera del simbolico». C’è stato, per ogni sapiens, un tempo in cui questo era l’unico mondo di esperienza. L’atto originario dell’antropogenesi è quello in cui quel piccolo sapiens viene accolto all’interno della comunità (atto che comincia prima ancora della nascita, ché prima ancora che ci sia un corpo può esserci un nome per quel corpo che si spera verrà).
All’inizio c’è allora un noi che tira dentro di sé quel corpo che non è, ancora, un io. Vale lo stesso, ancora una volta, per ognuno dei nostri storni: uno storno isolato, che voli discosto dagli altri, non partecipa in alcun modo alla figura che il resto degli storni sta dinamicamente costruendo. Non è nemmeno una individualità, in senso pieno, perché si può parlare di individualità solo in relazione ad una collettività da cui si distingue. Qui lo storno è solo e soltanto un «passero solitario». Poi entra nello stormo. Solo ora diventa, propriamente, una individualità (un io), e lo diventa proprio perché fa parte di un noi.
Torniamo allo spazio pubblico della semiosi. Il piccolo sapiens viene riconosciuto da chi già si trova al suo interno, da quel noi che a questo punto può cognitivamente individuare, perché gli è possibile confrontarsi-differenziarsi da esso: ora, appunto, è un io, ora nasce un io. Ma l’operazione non è a senso unico, c’è anche il verso contrario, dall’io al noi: «in quanto luogo di riconoscimento reciproco e di autocoscienza, il linguaggio per gli uomini è non soltanto utile, bensì indispensabile. Anzi comprendiamo ora il perché esso non sia, non possa essere immediatamente efficace: per raggiungere questa sua superiore ma mediata efficacia, deve rinunciare a quella prima, e porre in quella dimensione i suoi atti come gratuiti».
Il riconoscimento reciproco è, in senso tecnico (aristotelico), l’anima del linguaggio, che rende possibile il fatto che quella forma acquisti di volta in volta vita, e diventi prassi. O meglio, il corpo del linguaggio consiste nell’«assunzione volontaria da parte dei corpi viventi e agenti di norme che li trascendono, eppure non hanno altra sostanza che quella dei corpi che ne sono i portatori. Gli abiti sono l’anima razionale dei corpi: essi sono gli insiemi di azioni possibili che eccedono le potenzialità del corpo in quanto corpo naturale. Quest’anima razionale non può nascere che dalle passioni.» È un punto molto importante, quest’ultimo, sul quale Gambarara insiste a ragione. Quando il piccolo sapiens diventa un io, all’interno del noi del linguaggio, ossia all’interno dello spazio pubblico che lo precede (cronologicamente ma soprattutto logicamente), in quel momento cambia tutta la sua corporeità. L’animale dotato di linguaggio non è semplicemente una scimmia che parla, perché parlare, cioè vivere l’esperienza del significato - e quindi del possibile, della menzogna, dell’errore - riguarda tutta la sua vita, tutto il suo essere, tutto il suo corpo.
Una passione può venire provata solo da chi vive, nella propria stessa carne (la carne simbolica di cui siamo impastati), la consapevolezza della morte, la coscienza del desiderio che non si può mai esaudire (proprio perché dietro ogni desiderio esaudito c’è sempre il possibile, ossia una diversa e imprevedibile deriva semiosica), la sensazione dolorosa che quella trama di sensi non la si potrà mai, per principio, percorrere tutta: «le passioni» presentano «la strutturazione dialogica fondamentale della comunicazione, anche senza, o prima del linguaggio verbale». Ma «la comunicazione stessa» ha anche «la natura fondamentale di una passione, la passione di essere creduti».
L’esperienza della morte in vita
«Tortura» di Donatella Di Cesare, per Bollati Boringhieri
Quando il dominio sul corpo del nemico si fa simbolo dell’esercizio del potere
di Mauro Palma (il manifesto, 15.12.2016)
Pronunciare la parola indicibile è già operazione di chiarezza. Invita a indagarne il significato, a vedere se o meno corrisponda a situazioni, pratiche, fatti che conosciamo, che sappiamo esistere; li rende presenti con tutti gli interrogativi che tale presenza determina.
È quindi positivo che la parola tortura sia tornata a essere detta. Ma, seppure tolta dall’imbarazzo linguistico, non di meno la tortura continua a essere negata dagli apparati di potere che la praticano. Poiché «nessun regime neppure quello dittatoriale, ammetterà mai il ricorso alla tortura perché significherebbe ammettere la propria illegittimità». Sono le parole dello psicoanalista Miguel Benasayag, torturato durante la dittatura del generale Videla in Argentina, che ricorda come i suoi torturatori, che pur realizzavano una sorta di prossimità feroce tra il loro corpo e il suo che martoriavano, si guardavano dall’essere identificati come funzionari dello Stato; non affermavano la visibilità del potere assoluto, ma si celavano dietro una fantasiosa appartenenza a corpi separati, civili.
L’EPISODIO LO RIPORTA Donatella Di Cesare, che dal duplice punto di vista della filosofia teoretica e dell’analisi storico-critica, ripercorre la persistenza della tortura, il suo consolidarsi anche in termini dialogici nel presente e la continuità del tratto indelebile che lascia nella vittima, come «propria morte esperita in vita» (Donatella Di Cesare, Tortura, Bollati Boringhieri, pp. 217, euro 11).
Molte pagine del suo libro sono dedicate al dibattito sorto dopo il settembre 2001, in larga parte oltre Atlantico, ma per taluni aspetti anche nel vecchio continente. Un dibattito che non ha superato il tabù della negazione, ma lo ha aggirato, attraverso locuzioni contorte che ruotano attorno a concetti di eccezionalità, necessità, utilità dando a essi sinistri significati.
DI CESARE NE TROVA le premesse già nella posizione assunta da Thomas Nagel, più di quaranta anni fa nel periodo della guerra in Vietnam, circa il dilemma morale tra teorie assolutiste e teorie utilitariste, le prime che danno priorità a ciò che si fa, agli schemi valoriali di riferimento, le seconde centrate invece su ciò che accadrà, sulle conseguenze in gioco. Nessun problema per Nagel nel sostenere queste ultime, liquidando l’assolutismo - e quindi il divieto assoluto della tortura nelle Dichiarazioni e Convenzioni dal secondo dopoguerra - come un ideale regolativo insensatamente astratto e provvidenzialmente irrealizzabile.
Anche se il contesto dell’analisi del filosofo analitico è quello bellico, la sua posizione apre alla possibilità di considerare comunque la tortura una opzione eventuale. Tema, questo che da una prospettiva diversa verrà ripreso da Michel Walzer nell’affermazione della necessità per chi ha responsabilità politica di misurarsi anche con le «mani sporche», quasi «nobilitando» la scelta di accettare il fardello morale di un crimine, non reso meno da grave da considerazioni apparentemente necessitanti. Per giungere così al dibattito degli ultimi quindici anni, alla posizione di Alan Dershowitz che Di Cesare sintetizza in una intrigante parola chiave: accountability. Intrigante perché si è abituati a declinarla nel suo significato positivo, di assunzione di responsabilità. Giacché la tortura persiste - ragiona il penalista americano, che si era abituati a collocare nel fronte democratico - ne regoliamo la pratica, la rendiamo trasparente e limitata.
SCRIVE IN PROPOSITO l’autrice: «Al torturatore nobile Dershowitz preferisce l’esperto che mentre conferisce di volta in volta il mandato, autorizzando la tortura, si impegna anche a far luce garantendo la trasparenza, consentendo quella accountability, senza la quale non sarebbe immaginabile la democrazia». Questa pretesa di «portare il diritto nelle stanze oscure degli interrogatori» ha in parte lambito la discussione in alcuni Stati europei che, a metà del primo decennio di questo secolo, hanno proposto di limitare l’assolutezza del divieto di tortura enunciato nella Convenzione europea per i diritti umani, bilanciandolo con le esigenze di sicurezza, quale altro bene da tutelare in modo assoluto.
Una posizione, questa, respinta, ma che ritorna di tanto in tanto quando l’uso legale della forza, il diritto e l’esercizio di giustizia vengono declinati come strumenti di lotta verso un presunto nemico, sia esso un singolo, una organizzazione, un gruppo sociale il cui stesso esistere viene assunto come potenziale aggressore di chi ha la responsabilità di agire in nome della collettività. Lo schema relazionale che si stabilisce diviene allora un derivato della dinamica di guerra e il dominio sul corpo del nemico diviene simbolo e concretezza dell’esercizio di potere.
IL LIBRO SPAZIA lungo gli esempi negli anni recenti che rimandano a questa torsione (l’etimo è lo stesso della parola tortura), dalla tortura politica latino-americana agli episodi europei, inclusi quelli che hanno riguardato l’Italia: gli interrogatori in occasione del sequestro Dozier, le morti purtroppo ormai famose di giovani fermati e privati della libertà, l’epifania della violenza del potere nei giorni di Genova. Tutti casi in cui la parola negata, tortura, è stata scritta in sentenze; anche per dire che non vi è ancora nel nostro codice la possibilità di riconoscerla, chiamarla con il proprio nome e punirla adeguatamente.
Ma, anche casi ripresi per ricordare che la previsione del reato, assolutamente essenziale, non risolve del tutto il nostro rapporto con la tortura, con la corporeità perversa che essa rappresenta, con il suo intrinseco rifiuto del limite necessario. Ancora una volta il diritto non basta; ancora una volta - ci ricorda l’autrice - occorre interrogarci più in profondità.