DIO, MONDO, UOMO - OLTRE!!! BASTA CON LE ROBINSONATE.
Sul Logos (che non è un “logo”), i monoteismi (che non sono il monoteismo) e l’esportazione della democrazia (che non è la democrazia). Una nota su due “gaffe” (di Giovanni Sartori e Gian Maria Vian)
di Federico La Sala *
1.
Esportare la Democrazia è possibile, ma l’ostacolo è il monoteismo. Questo il titolo di presentazione del Corriere della Sera (3.4.2007), in anteprima, di una pagina della nuova edizione del saggio di Giovanni Sartori, Democrazia. Cosa è?. E questo è l’avvio del discorso:
"Al quesito se la democrazia sia esportabile, si può obiettare che la democrazia è nata un po’ dappertutto, e quindi che gli occidentali peccano di arroganza quando ne parlano come di una loro invenzione e vedono il problema in termini di esportazione. Questa tesi è stata illustrata in un recente libriccino (tale in tutti i sensi) intitolato La democrazia degli altri dell’acclamatissimo premio Nobel Amartya Sen. A dispetto di Sen e del suo terzomondismo, la democrazia - e più esattamente la liberaldemocrazia - è una creazione della cultura e della civiltà occidentale. La democrazia degli altri non c’è e non è mai esistita, salvo che per piccoli gruppi operanti faccia a faccia, che non sono per nulla equivalenti alla democrazia come Stato ’in grande’. Pertanto il quesito se la democrazia sia esportabile è un quesito corretto. Al quale si può obiettare che questa esportazione sottintende un imperialismo culturale e l’imposizione di un modello eurocentrico. Ma se è così, è così. Le cose buone io le prendo da ovunque provengano. Per esempio, io sono lietissimo di adoperare i numeri arabi. Li dovrei respingere perché sono arabi? Allora la democrazia è esportabile? Rispondo: in misura abbastanza sorprendente, sì; ma non dappertutto e non sempre. E il punto preliminare è in quale delle sue parti costitutive sia esportabile, o più esportabile". (...) “Ricapitolando, non è vero che la democrazia costituzionale, specialmente nella sua essenza di sistema di demoprotezione, non sia esportabile/importabile al di fuori del contesto della cultura occidentale. Però il suo accoglimento si può imbattere nell’ostacolo delle religioni monoteistiche. Il problema va inquadrato storicamente così".
2.
Gian Maria Vian - in una nota apparsa sull’Avvenire (4.4.2007), dal titolo Monoteismi e democrazie: che gaffe! - commenta e, contro la semplificazione di Sartori (innanzitutto, e dello stesso Corriere), sollecita a riflettere con minore superficialità e a non semplificare la complessità della questione: "Adombrando una squalificazione dei monoteismi tanto diffusa quanto storicamente debole, la tesi dimentica che la culla della democrazia è la tradizione occidentale, secolarizzata quanto si vuole ma storicamente cristiana, e cioè, fino a prova contraria, monoteista. Non si può poi dimenticare che Israele, radicato in una tradizione culturale altrettanto monoteista, è da oltre mezzo secolo un modello di democrazia nel vicino Oriente (dove democratico era fino a un trentennio fa anche il Libano, certo non politeista). Infine, come essere sicuri che i problematici rapporti tra islamismo e democrazia siano dovuti al suo monoteismo? Il punto insomma non è questo, e se tanti sono gli ostacoli della democrazia tra questi certo non vi sono le religioni monoteistiche".
3.
Ora, se è vero - come è vero - che la democrazia si fonda sull’idea di autonomia dell’uomo (dell’uomo e della donna!) e che la premessa della modernità è l’autonomia (dell’uomo e della donna!), non è ancora e affatto altrettanto chiaro cosa significa quell’"auto" premesso a "nomia". E, se non vogliamo perdere quanto conquistato, non possiamo ripetere all’infinito sempre lo stesso ritornello: illuminismo, illuminismo!!! La conoscenza di sé ("auto") non è finita e non è affatto e ancora ben de-finita: "La più utile e meno progredita di tutte le conoscenze umane mi sembra quella dell’uomo" (J.J. Rousseau, Discorso sulle scienze e sulle arti, Prefazione). E, necessariamente, non possiamo non riprendere l’interrogazione e il cammino: "Chi siamo noi, in realtà?" (Nietzsche) e "Sapere aude!".
Locke e Rousseau, come Kant, hanno fatto un grande lavoro, ma - se non vogliamo smettere di pensare e porre davvero fine all’avventura umana - dobbiamo continuare a portarlo innanzi. C’è un nodo non sciolto al fondo del loro pensiero ed è proprio il nodo di "dio". Vogliamo chiarircelo o no?!
"Se la Divinità non esiste, solo il cattivo ragiona, il buono non è altro che un insensato" (Emilio). J.J. Rousseau è il primo grande maestro del sospetto (dopo vengono Marx, Nietzsche, e Freud - e grazie a lui!): "Non concediamo nulla ai diritti della nascita e all’autorità dei padri e dei pastori, ma richiamiamo all’esame della coscienza e della ragione tutto quello che loro ci hanno insegnato fin dall’infanzia"(Emilio).
Locke polemizza con il cattolicesimo e l’ateismo quali "religioni" incompatibili con l’orizzonte democratico; Rousseau - pur polemizzando anch’egli duramente con il cristianesimo storico come una religione altrettanto incompatibile con una società democratica e tentando di pensare meglio la democrazia dei moderni - sottolinea tuttavia con forza la grande differenza tra Socrate e Gesù: "Quali pregiudizi, quale cecità (quale malafede) non bisogna avere per osar paragonare il figlio di Sofronisco col figlio di Maria! Che distanza c’è dall’uno all’altro!"(Emilio).
Ma "la religione di preti" riesce ad accecarlo, e a non fargli vedere la connessione tra l’altro "mondo possibile" a cui egli stesso pensa e quello del messaggio evangelico: "Gesù Cristo, il cui regno non era di questo mondo, non ha mai pensato a dare un pollice di terra a nessuno, e non ne possedette mai lui stesso; ma il suo umile vicario, dopo essersi impadronito del territorio di Cesare, cominciò a distribuire il comando del mondo ai servitori di Dio" (Frammenti politici). Rousseau cerca in tutti i modi di impostare bene il "trattato le cui condizioni siano eque" (Virgilio, Eneide, XI), ma perde il filo e, alla fine, si ritrova a riproporre la religione dei romani - la "religione civile", contro la "religione romana", cattolica! Senza volerlo, prepara la strada "cattolico-romana" a Fichte, a Hegel, a Marx, a Gentile e a Lenin.
Kant reimposta il problema e riparte, bene: "tutto proviene dall’esperienza, ma non tutto si risolve nell’esperienza" o, diversamente, tutto viene dalla natura ma non tutto si risolve nella natura; alla fine egli non riesce a sciogliere il nodo e resta in trappola. Al di là del mare di nebbia non può andare e - per non distruggere i risultati della sua esplorazione - si accampa lì dove è riuscito ad arrivare e decide: Io voglio che Dio esista.
Per Kant, Rousseau e Newton, come Locke, non sono stati affatto cattive guide per il suo viaggio. Il suo cammino è stato lungo, fruttuoso e coraggioso: la Legge morale dentro di me, il Cielo stellato sopra di me! E, onestamente, rilancia di nuovo la domanda antropologica, quella fondamentale: "Che cosa è l’uomo?". Teniamone conto.
Ciò che essi cercavano di capire e quindi di sciogliere era proprio il nodo che lega il problema "religioso", il legame "sociale", il problema di "Dio", il problema della Legge, non quello o quella dei Faraoni e quella di una Terra concepita come un "campo recintato" o assoggettata alla "Moira" di Orfeo e alla Necessità.
Filosoficamente, è il problema dell’inizio ... e, con esso, dell’origine e dei fondamenti della disuguaglianza tra gli esseri umani. Il problema J.J. Rousseau, dunque: No King, no Bishop! Il problema della Legge - e della Lingua: il problema stesso del principio di ogni parola, la Langue, Essai sur l’origine des langues! Da dove il Logos e la Legge?! E, con queste domande, siamo già all’oggi, agli inizi del ’900: Ferdinand de Saussure!
Ma ritorniamo al problema politico, della Legge della Polis o, come scrive Rousseau, della Cité. La questione è decisiva ed epocale: ed è al contempo questione antropologica, politica, e "teologica". In generale è la questione del rapporto Uno-Molti - una questione lasciata in eredità da Platone, e riproposta da Rousseau, nei termini del rapporto volontà generale - volontà di tutti o del cosiddetto "uno frazionario", e risolta ancor oggi nell’orizzonte moderno (cartesiano) - dopo Cristo, come dopo Dante, Rousseau e Kant - in modo greco, platonico-aristotelico. Una tragedia, e non solo quella di Nietzsche. In tutti i sensi.
Se continuiamo a truccare le carte e confondiamo l’Uno al numeratore con un "uno" degli "uno" o delle "uno" al denominatore finiremo per cadere sempre nella trappola della dittatura, e nel dominio del "grande fratello". E non riusciremo mai a distinguere tra "Dio" Amore, e "Dio" Mammona - tra la "volontà generale" dell’Uno e la "volontà generale" di "uno", camuffato da "Uno". Liberare il cielo, pensare l’ "edipo completo" - come da progetto di Freud.
Vedere solo i molti (gli individui, meglio gli uomini e donne in carne ed ossa, le persone) che agiscono, discutono e lottano, e non vedere l’Uno, che è il Rapporto e il Fondamento di tutti e il Rapporto dell’Uno stesso con tutti i vari sotto-rapporti (economici, politici, religiosi, giuridici, pedagogici, familiari, e, persino, di amicizia) dei molti e tra i molti ... non porta da nessuna parte, se non alla guerra e alla morte. In tale orizzonte (relativistico, scettico e nichilistico), chi vuole guidare chi, che cosa può fare, che cosa può insegnare, che cosa può produrre ... se non il suo stesso "uno" - allo specchio? Un narcisismo personale e istituzionale, imperialistico e ... desertificante!
È elementare, ma è così - come scriveva l’oscuro di Efeso, Eraclito: "bisogna seguire ciò che è comune: e ciò che è comune è il Logos" - la Costituzione, prima di ogni calcolo, per ragionare bene. La Costituzione è il fondamento, il principio, e la bilancia!!! Questo è il problema: la cima dell’iceberg davanti ai nostri occhi, e il punto più profondo sotto i nostri stessi piedi!!! E se non vogliamo permanere nella "preistoria" e, anzi, vogliamo uscirne, dobbiamo stare attenti e attente e ripensare tutto da capo, dalla radice (Kant, Marx), dalle radici: gli uomini e le donne, i molti, e il Rapporto-Fondamento che li collega e li porta - al di là della natura - nella società, e li fa essere ed esseri umani - dopo il lavoro in generale, il rapporto sociale di produzione in generale è la questione all’ordine del giorno nostro, oggi.
Riprendiamo. Allora, come si passa dalla "solitudine" naturale alla "solidarietà" sociale, e cosa svela questa a quella? Vediamo. "Se dunque si esclude dal patto sociale ciò che ad esso non è essenziale, ci si accorgerà che si riduce ai seguenti termini [...] al posto della singola persona di ciascun contraente, quest’atto di associazione dà vita a un corpo morale e collettivo, composto di tenti membri quanti sono i voti dell’assemblea; da questo stesso atto tale corpo riceve la sua unità, il suo io comune, la sua vita e la sua volontà. Questa persona pubblica, che si forma così mediante l’unione di tutte le altre, assumeva in altri tempi il nome di Cité, e prende ora quello di repubblica [...]"(Contratto Sociale).
Cosa sta cercando di pensare Rousseau? Cerca di chiarirsi e di chiarirci il passaggio dal naturale "stato" di tanti "uno" (1.....1) al "nuovo stato" realizzato dal patto stesso - quello di UNO/molti, UNO/1+1...+1+1+1. Questo è il nuovo "soggetto" e questo il nuovo "fondamento" - la misura di tutte le cose, di quelle che esistono e di quelle che non esistono. E questo Uno non è mai un "uno", ma è il Rapporto Sociale che dà sostanza e fondamento a tutti gli "uno".
Basta con le robinsonate! Se è vero che "questa Terra è un’isola"(Kant), non è affatto e altrettanto vero che l’uomo si fa da solo (self made man)! Noi siamo sempre in relazione - dalla nascita alla morte, e in tutti gli ambiti: esseri umani, solo in società - né dio né bestia, già Aristotele.
Che cosa svela il "patto di alleanza"? Svela che "Dio esiste", che "solo Dio è sapiente"(Socrate), "solo Dio è buono" (Gesù), e che noi stessi siamo i figli e le figlie di "Dio!!! Che i soggetti che fanno Uno sono due (1+1) e, nel momento in cui fanno Uno, avviene la loro "trasmutazione" (da "padri" e "madri" in "figli" e "figlie" del loro stesso "Figlio" ... che è il loro stesso "Padre" che li ha generati) e, così, il ri-conoscimento della loro differenza e della loro identità. E come 1 e 1, che hanno superato la loro ideologica e naturalistica isolatezza e sono diventati Uno (1+1....+1), aprono gli occhi sulla "natura" e "dio" e - "faccia a faccia" - vedono "Dio" stesso! “Vere duo in carne una”: un’altra "scienza della logica" e un’altra "logica della scienza".
In democrazia, e nella democrazia non borghese, non vale più la logica dell’amico-nemico (la logica dialettica del padrone-servo), ma la logica dell’amico-amico, una logica chiasmatica e accogliente, nel rispetto reciproco della propria e della comune sovranità, concessaci dal nostro stesso rapporto, patto di alleanza - di fuoco di vita, non di distruzione e di morte infernale!
4.
Italia. Non confondiamo i livelli... e cerchiamo di non perdere la bussola della nostra sana e robusta Costituzione. Pensare e pensare, ma pensiamo democraticamente e correttamente. "Forza Italia": Non è possibile e non è accettabile! È necessario continuare a tentare, continuare a cercare (cercate ancora: come ha detto, scritto e ricordato poco tempo fa, il ‘vecchio’, indomabile, libero e fiero Pietro Ingrao in onore di Luigi e di Giaime Pintor, ma anche di Claudio Napoleoni, che amava questa indicazione immortale). Non facciamo i furbi e le furbe, e soprattutto non accechiamoci reciprocamente né accechiamo gli altri e le altre che hanno i piedi e il cuore sulla base del nostro stesso Fondamento e la vita nell’orizzonte della nostra stessa Alleanza.
In giro già ci sono tanti pifferai ciechi, con strumenti sempre più sofisticati, pronti a farlo. Per questo, quale indicazione? Chi si vuole porre fuori dal patto dell’Alleanza costituzionale, è libero di farlo ma non si metta sulla strada di Epimenide il Cretese, non si venda al mentitore e non faccia apologia di Baal-ismo!
L’"io voglio che Dio esista" di Kant - non dimentichiamolo - è da coniugare con la negazione della validità della “prova ontologica” e non ha nulla a che fare con tutti gli idealismi platonici o cartesiani ed hegeliani e marxisti, e porta alla conciliazione dell’"uno" con l’altro "uno" e di "Dio" con il mondo.
Ma, a questo punto, con Kant come con Dante (Gioacchino da Fiore e Marx e Nietzsche e Freud ed Enzo Paci), siamo al di là di Hegel e dell’imperialismo logico-romano - alla Fenomenologia dello Spirito ... dei Due Soli. Sulla Terra, nell’oceano cosmico (Keplero, Bruno). La "rivoluzione copernicana" è ... appena agli inizi: Plus ultra (Bacone), "Sapere aude!"(Kant) - a tutti i livelli. Ed è "una seconda rivoluzione copernicana" (Th. W. Adorno).
* Intellettuali/Storia, Il punto la critica, 21.04.2007
Sui temi qui accennati, mi sia lecito, si cfr. i seguenti lavori:
La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica di Federico La Sala, pubblicato nel 1991 da Antonio Pellicani Editore, Roma.
Della terra, il brillante colore. Note sul “Poema” rinascimentale di un ignoto Parmenide Carmelitano (ritrovato a Contursi Terme nel 1989) di Federico La Sala, pubblicato nel 1996 da Ripostes Edizioni, Roma-Salerno.
L’enigma della sfinge e il segreto della piramide. Considerazioni attuali sulla fine della preistoria in forma di lettera aperta di Federico La Sala, pubblicato nel 2001 da Ripostes Edizioni, Roma-Salerno.
ITALIA SENZA NAZIONE
di Antonio Montefusco (Le parole e le cose, 24 giugno 2019)
Il libro Italia senza nazione ha l’ambizione di indagare, seppure parzialmente, il «non filosofico» che, secondo la ricostruzione di Roberto Esposito, costituisce il proprium dell’indagine filosofica della tradizione italiana: una «propensione» che è sentita come «singolare», quindi costitutiva di tale tradizione. L’origine di questa pratica di estroflessione del pensiero italiano deriva da due elementi: la connessione tra vita, politica e storia, da una parte e l’esigenza insopprimibile di evocare un’origine in ogni discorso sull’attualità, dall’altra. (Esposito 2010) Si può dire, dunque, che essa abbia una naturale e specifica vocazione alla genealogia; e che in questa genealogia, nei suoi gangli più o meno pieni, più o meno mancanti, essa cerchi naturalmente i caratteri principali, non filosofici appunto, della sua estroflessione. [...] Mario Tronti ha icasticamente riassunto che l’Italian Thought si identifica con “un pensiero che si è radicato in questo Paese, in questa ‘forma-nazione’, ancor prima che diventasse una vera e propria nazione o uno Stato.” (Lisciani-Petrini - Strummiello 2017, p. 41) Questa specificità del pensiero italiano, del suo quadro, diciamo così, debolmente istituzionale, imprime già una direzione precisa alla nostra indagine, perché, a guardare allo specifico della storia italiana, è facile, a tutta prima, sottolineare come, in assenza di istituzioni politiche forti e consolidate, sia stato il discorso linguistico e letterario a costruire, immaginare, depositare elementi di identità ben prima che un processo, più culturale che politico-sociale come il Risorgimento (Banti 1991), portasse alla formazione di quella particolare comunità immaginata (Anderson 1991) che è stata chiamata “nazione italiana”. Se un libro-fondatore questa immaginata nazione può rivendicare, questo è un libro di letteratura: o meglio, di storia della letteratura. Ed è la Storia della letteratura italiana di Francesco De Sanctis (1996). Ne consegue, dunque, abbastanza chiaramente che sia il “letterario” a poter rivendicare un primato, un certo tipo di primato, se non come oggetto, certamente come spazio di esercizio della estroflessione dell’Italian Thought. Con delle avvertenze, tuttavia, e più d’una.
«Dante che dovea essere il principio di tutta una letteratura, ne fu la fine». Questa frase di De Sanctis rappresenta il carattere paradossale di un diagramma che si pretende ascendente - dalla fondazione di un canone linguistico-letterario con le “tre corone” alla creazione di uno stato - ma che è intimamente mosso da una decadenza e da un continuo chiaroscuro dovuta a scissioni molteplici. Gli storici della letteratura più acuti ne hanno assunto questo dato in senso letteralmente progressivo, e a ragione. Uno per tutti: Alberto Asor Rosa, che, introducendo l’impresa einaudiana della Letteratura italiana, affermava:
Per non dire di Carlo Dionisotti, che in un articolo d’avanguardia (del 1951!) mise in discussione, di quel diagramma, anche l’unico centro linguistico-culturale, e cioè la Toscana, proponendo prima un paradigma doppio, in cui il primato toscano risultava in conflitto con centri antagonisti (uno alla volta: Dionisotti 1967); optando pochi anni dopo (nel 1971) per un sistema ancora più complesso, che
I due nomi - Carlo Dionisotti e Alberto Asor Rosa - di due critici letterari valgano come particolarmente esemplari anche di una traiettoria critica e di un punto di vista originali: il primo formulato a distanza, dall’estero, perché Dionisotti lasciò l’Italia e sviluppò la sua carriera perlopiù a Londra; il secondo tipicamente operaista, quindi coscientemente estraneo all’eredità gramsciana (passata al vaglio della vulgata togliattiana) e storicista. Vale la pena di ricordare questi elementi di biografia intellettuale e politica perché ci servono anche a misurare l’innovazione che soprattutto Esposito ha dato alla direzione del dibattito. In Dionisotti e Asor Rosa il riconoscimento dell’eccezione italiana giunge nella fase matura di un percorso che tendeva a vedere quei caratteri come fortemente regressivi se comparati alle grandi tradizioni nazionali, soprattutto francese e inglese. Il caso di Scrittori e popolo di Asor Rosa, pubblicato poco più di 50 anni fa, è particolarmente significativo: la letteratura contemporanea italiana era travolta quasi interamente da un vizio d’origine, il “populismo”, la cui ombra si dilungava dai grandi risorgimentali a Gramsci. La provocazione verso un’intera generazione di intellettuali cresciuti all’ombra della “via italiana al socialismo” con il suo corollario gramsciano, più malinteso che reale, del nazional-popolare, era evidente. Esposito sposta evidentemente l’ago della bilancia del ragionamento, quando riassume:
In altri termini, l’Italian thought non contribuisce a definire o irrigidire una identità italiana. E questo non solo perché, come è stato ampiamento chiarito (Esposito 2016) esso non può risolversi in un tutto che neutralizza le differenze al suo interno; per non dire, che, se così fosse, saremmo di fronte a una dogmatica più che a una theory, che invece si deve caratterizzare per una programmatica deterritorializzazione. Il motivo principale sta nel fatto che questa tendenza all’estroflessione e al “fuori” non possono che disfare un discorso di identità (italiana o altra che sia). L’Italian Thought, come theory in lingua italiana, si ritaglia uno spazio differente sia dalla brandizzazione dell’italianità (con il Made in Italy) sia dal ripiegamento identitario: entrambi processi risultanti, evidentemente, dalla globalizzazione, alla quale il pensiero italiano si presenta costitutivamente alternativo.
Ne risulta un sistema simbolico in tensione, in cui confliggono in maniera eclatante l’auto-percezione negativa che deriva dall’immagine del paese «mancato», maggioritario nel discorso più o meno pubblico nonché nella storiografia letteraria, e una costruzione positiva, al limite dell’apologetico, diffusa fuori dei confini nazionali. Di tale contrasto paradossale è “figura” - in senso biblico - il personaggio del «cervello in fuga», dell’intellettuale esiliato ed apolide che trova fuori d’Italia lo spazio per sviluppare il proprio talento, illuminando a ritroso il capitale culturale di partenza, che risulta impossibile da contenere nello spazio del paese, essenzialmente in ragione delle conseguenze di quello «sviluppo senza progresso» mostrato da Pasolini all’alba di quello che, un tempo, si era chiamato «neocapitalismo». [...]
Nel suo andirivieni, tra ricezione fuori d’Italia e sua rielaborazione all’interno dei confini nazionali, l’Italian Thought supera questa dicotomia, assume l’oscillazione continua di questo sistema simbolico tra origine e storia, mettendo continuamente in discussione il presente e assumendo un’ottica di contestazione; Daniele Balicco ha recentemente trascinato questa oscillazione sul lato più scivoloso, se si vuole, ragionando sul Made in Italy con spregiudicatezza, sottraendolo all’univocità della già ricordata brandizzazione neoliberale e infine mostrandone la potenziale narrazione contro-egemonica che si sottrae alla performatività con la godibilità (Balicco 2016). [...]
Nel libro, si è interrogato questo sistema simbolico in tensione rinunciando programmaticamente a dare centralità agli autori “maggiori”, non solo perché essi (in special modo Dante e Leopardi) sono stati già scandagliati in questo senso; si è voluto, piuttosto, verificare e dare spessore a linee convergenti di contestazione che sono la cifra caratteristica sia del momento genetico della tradizione letteraria, nell’età di Dante, sia della sua vicenda specificamente moderna e contemporanea. In tutte queste indagini, emerge il nodo che evocavo all’inizio: quella predisposizione alla genealogia che, nell’Italian Thought, si intreccia in maniera fortissima con quella persistenza del mito nella storia, dell’arcaicità che destruttura l’attualità; questa genealogia qui finalmente si allarga: Machiavelli, che è quasi un problematico “fondatore”, non solo qui è assente, ma la genealogia si confonde forzosamente con la ricerca di un’origine, o meglio di una genesi.
Ci porta a questo la scelta di un fuori letterario, che esige soprattutto il definirsi di uno spazio linguistico autonomo, che i filologi chiamano “volgare”, che sarà l’italiano. In questo senso, sullo sfondo del volume, resta sottinteso, ma fortemente presente, il nesso con la tormentata “questione della lingua”, sempre legata, per richiamare di nuovo Gramsci, alla “formazione e l’allargamento della classe dirigente, la necessità di stabilire rapporti più intimi e sicuri tra i gruppi dirigenti e la massa popolare-nazionale, cioè di riorganizzare l’egemonia culturale” (Gramsci 1975, 2346). Si tratta di un paesaggio esso stesso tipicamente in tensione, di tipo spiccatamente italianistico e che dà conto dello svolgersi delle peculiarità dell’Italian Thought: dallo sforzo di teorizzazione di Dante alla discussione sulla lingua cortigiana in Machiavelli, l’ossessione dello scrittore è meno l’italiano e più chi lo possa misurare, permettere, sviluppare. Più del linguistico, conta il politico. Non sorprenderà, dunque, che lo stesso concetto di italiano in senso moderno si trovi usato, per la prima volta, da Brunetto Latini (nella generazione precedente a Dante) in francese, in particolare per intendere la politica “selonc les usages as Ytaliens” (“secondo gli usi degli italiani”.) Siamo negli anni ’60 del ‘200: a significare anche che, se spazio per l’Italian Thought ci può essere, esso debba essere concepito anzitutto in maniera linguistica all’italiana, cioè in senso ospitale e plurilingue (Montefusco 2016).
Riferimenti bibliografici
Anderson, Benedict
1991, Comunità immaginate. Origine e diffusione dei nazionalismi, Roma-Bari, Laterza.
Asor Rosa, Alberto
1982, Letteratura italiana, I. Il letterato e le istituzioni, Torino, Einaudi.
2015 Scrittori e popolo 1965. Scrittori e massa 2015, Torino, Einaudi.
Balicco, Daniele
2016 Made in Italy e cultura. Indagine sull’identità italiana contemporanea, Palumbo, Palermo.
Banti, Aldo Maria
2011 Nel nome dell’Italia, Rome-Bari, Laterza.
De Sanctis, Francesco
1996 Storia della letteratura italiana, a cura di N. Gallo, intr. di G. Ficara, Torino, Einaudi-Gallimard.
Dionisotti, Carlo
1967 Geografia e storia della letteratura italiana, Torino, Einaudi.
2009, Scritti di storia della letteratura italiana. II 1963-1971, éd. par T. Basile, V. Fera, S. Villari, Rome, Edizioni di Storia e Letteratura.
Esposito, Roberto
2010 Pensiero vivente. Origine e attualità della filosofia italiana, Einaudi, Torino.
2016 Da fuori. Una filosofia per l’Europa, Torino, Einaudi.
Foucault, Michel
1977 Microfisica del potere, Einaudi, Torino.
Gentili, Dario
2012 Italian Theory. Dall’operaismo alla biopolitica, il Mulino, Bologna.
Gentili, Dario - Stimilli, Elettra (a cura di)
2015 Differenze italiane, Roma, DeriveApprodi.
Gramsci, Antonio
1975, Quaderni dal carcere, Torino, Einaudi
Montefusco, Antonio
2016 Dal plurilinguismo all’ospitalità. Appunti sull’italiano (neo-epico e no), in “Nuova Rivista Letteraria”, vol. 4, pp. 43-49.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
SPIRITO CRITICO E TEOLOGIA POLITICA DEL "MENTITORE". PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO, CHE GIA’ DANTE SOLLECITAVA ...
IL "DUE" DI SAUSSURE VINCE IL "DUE" DI ROBERTO ESPOSITO.
Federico La Sala
DIO, MONDO, UOMO - OLTRE!!! BASTA CON LE ROBINSONATE.... *
Il negativo è il limite che attraversa la vita
Storia delle idee. «Politica e negazione. Per una filosofia affermativa» di Roberto Esposito, pubblicato da Einaudi. Il filosofo si interroga su un’inarrestabile deriva nichilista e esplora le radici dell’alternativa di un pensiero affermativo. Una riflessione che porta la vita alla sua massima espansione senza sottrarsi a nessun conflitto. La scoperta di Spinoza per il quale la sapienza è una meditazione sulla vita, non un pensiero sulla morte. Quello del filosofo non è incauto ottimismo, né cieco volontarismo. Conosce la potenza che ci abita
di Roberto Ciccarelli (il manifesto, 28.02.2018)
In giorni oscuri torniamo a interrogarci sulla negazione. L’avevamo rimossa, avevano detto che la storia era finita e avremmo vissuto in un eterno presente pacificato. Ci siamo risvegliati in una specie di guerra civile mondiale dove la negazione è intesa come distruzione della vita: il terrorismo jihadista che rivendica il potere di dare la morte in maniera indiscriminata. Oppure lo stragismo fascista e razzista contro gli immigrati, rovescio diabolico di una risposta uguale e terribile.
ABBIAMO PERSO il contatto con l’idea per cui il negativo sia l’anima del reale, ciò che lo spinge a rovesciare la contraddizione e affermare la vita. Il negativo è invece inteso come una negazione senza rimedio. Oltre il suo «non» c’è il niente. Il «negare» ritrova la sua lontana origine latina: «necare», uccidere. Tutto sembra essere stato assorbito da un dominio di un potere assoluto che non salva, ma uccide anch’esso. Sfumano così le distinzioni che hanno costruito la politica moderna: quella tra guerra e pace, tra il militare e il civile, tra il criminale e il nemico. Anche davanti a fenomeni meno estremi - il lutto, l’afasia, il dolore, la precarietà, la contraddizione più acuta - sembriamo incapaci di afferrare il negativo con categorie diverse dalla distruzione della differenza che abita l’essere.
SIAMO IN UN’«INARRESTABILE deriva nichilista di una negazione sfuggita di mano a chi l’ha teorizzata - scrive Roberto Esposito nel suo ultimo libro Politica e negazione. Per una filosofia affermativa (Einaudi, pp. 207, euro 22) - La logica del nichilismo si traduce in un’ontologia dell’inimicizia». E «l’annientamento diventa auto-annientamento». L’altro va distrutto per affermare un’identità tanto autentica, quanto fittizia e mortifera: l’identità nazionale e «sovrana», oppure la proprietà e la concorrenza tra individui atomici e disperati.
C’E’ STATO UN TEMPO in cui si è ritenuto che il nemico fosse chiaro, almeno dal punto di vista della razionalità politica. Questa logica, in realtà, non era così ferrea, tanto è vero che lo stesso Carl Schmitt in Teoria del partigiano ne ha indicato i limiti. Se a Lenin è stata riconosciuta una superiorità politica per avere trasformato il Capitale da «vero nemico» in «nemico assoluto» (ricambiato dall’altra parte), la deriva nichilistica dell’annientamento non è stata fermata. Anzi, si è intensificata.
POLITICA E NEGAZIONE è alla ricerca di un’alternativa. Esposito riparte dal significato di «negazione» e conduce un corpo a corpo con Hegel, il grande pensatore di questa categoria. Non c’è dubbio che il negativo sia l’essere altro da sé, il superamento verso qualcosa che non ritorna all’identico. Il punto è che non è l’espressione di una negatività di fondo dell’essere, un divenire privo di determinazioni che non siano quelle rispetto a se stesso. Il negativo fa parte della vita: è la sua necessità. Per questo va contestualizzato, non generalizzato. È una forma dell’affermazione, non l’elemento originario che annulla l’essere.
IL NEGATIVO RIGUARDA anche l’azione, il modo in cui concepiamo le relazioni e la politica. Non è un ostacolo o una forza contraria che si oppone alla libera volontà di chi vuole affermare qualcosa. Il «non» - ovvero il conflitto, la contraddizione - non è esterno al soggetto, ma è interno ad esso. Il negativo è il limite che attraversa la vita costretta tra necessità e finitezza. E tuttavia non è la fine di qualcosa, ma l’indice di ciò che potrebbe essere. Non è l’annichilimento della vita, ma «il punto vuoto che spinge il presente oltre se stesso», scrive Esposito. Lo scopo di questo approfondimento vertiginoso è modificare la nostra disposizione verso la vita. Se la vita è imprigionata nel negativo, allora è immobile povera e paranoica. Se invece è un momento determinato di un divenire storico che si sporge oltre se stesso, allora diventa una pratica.
PER AFFRONTARE questa impresa Esposito si è rivolto a Spinoza, l’unico filosofo che ha dato una definizione affermativa della negazione. Spinoza, il grande eretico aggredito da Hegel e sistematicamente travisato dai suoi posteri. Per lui la sapienza è una meditazione sulla vita, non un pensiero sulla morte. È una meditazione su ciò che può fare una vita, non su ciò a cui deve rinunciare per sopravvivere. Questa è ancora oggi la sua gloria: avere una grande fiducia nella vita e denunciare tutti i fantasmi del negativo.
OGGI POSSIAMO INTUIRE quanto contro-corrente possa essere un simile atteggiamento. Ma questa è la vocazione «inattuale» del filosofo. Il suo non è incauto ottimismo, né cieco volontarismo. Conosce la potenza che ci abita, a dispetto del negativo che ci circonda. Ha fiducia nelle potenzialità della vita, come nell’amore per il mondo e per chi lo vive.
L’APPRODO ALLO SPINOZISMO di un filosofo importante come Esposito non è improvvisato. Già in passato aveva parlato di «biopolitica affermativa». Oggi parla di «filosofia dell’affermazione». Una definizione rilevante in un panorama culturale come quello italiano dove prevale un «pensiero del negativo» che porta ad esiti impolitici, elitari o addirittura teologici. Il pensiero affermativo non è un positivismo del fatto compiuto, né una stanca decostruzione. Indica la strada per una nuova forma di materialismo, istanza che sembrava remota, o riservata a poco, fino a poco tempo fa.
SUL PIANO POLITICO questa filosofia mette in discussione la «sovranità», il fantasma di tutti i dibattiti politici o economici. Con «sovranità» si allude a uno Stato che nega l’inimicizia degli uomini e impone il monopolio della violenza. Esiste, invece, un’altra concezione dello «Stato» che incanala la potenza istituzioni capaci di salvaguardarne l’esistenza. In questo modo «il governo degli uomini non passa per una denaturazione della vita», ma da una forma immanente di auto-governo che mira al raggiungimento del «punto massimo della propria espansione». È la differenza che passa tra una politica sulla vita e una politica della vita, per usare le categorie di Esposito.
UNA «FILOSOFIA DELL’AFFERMAZIONE» non nega l’esistenza del conflitto - il negativo - né allude a una pacificazione come fa la retromania che devasta il dibattito pubblico attuale. Il conflitto è un elemento della relazione, oltre che della creazione di nuove istituzioni. Per renderla concreta è necessaria una politica dell’amicizia.
NELLA POLITICA novecentesca l’amicizia è stata considerata una categoria parassitaria dell’inimicizia. O amici, non ci sono amici in questo mondo. E così il mondo si scopre popolato solo da nemici. Davanti a questo paradosso va sperimentata una prassi politica che metta insieme corpo e intelletto, materia e spirito, vita e forma, e non rifugga ma abbracci il conflitto. Una politica dell’amicizia consiste nel costruire opere comuni, nel saperle difendere e nell’affermarle.
LA SOLIDARIETA’ E LA FRATELLANZA vanno riscoperti come strumenti affermativi, non come mezzi per attaccare il diverso. Creano legami, non impongono vincoli. Se intesi come strumenti del conflitto servono a liberarsi da ciò che impedisce di godere insieme di quello che abbiamo: la carne, la nascita, il corpo, la differenza e, più in generale, l’idea che la norma (giuridica, politica, sociale) nasca dalla vita in comune. L’amicizia è capace di affermare qualcosa che è in potenza e a disposizione di tutti. È tempo di imparare a coglierne i frutti.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
DIO, MONDO, UOMO - OLTRE!!! BASTA CON LE ROBINSONATE. A partire da due, e non da uno!!! Una nota su una polemica tra "esportatori di democrazia" e di "libertà" (Giovanni Sartori e Gian Maria Vian) e la proposta di una Fenomenologia dello Spirito di "Due Soli". Con Rousseau, Kant, Marx, Freud e Dante, oltre Hegel, per una seconda rivoluzione copernicana.
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. MARX, IL "LAVORO - IN GENERALE", E IL "RAPPORTO SOCIALE DI PRODUZIONE - IN GENERALE".
Federico La Sala
IL MITO DELL’AUTONOMIA INTELLETTUALE, ROBINSON, E LE ROBINSONATE ....
DOPO 170 ANNI DALLA BRILLANTISSIMA “Introduzione del ’57”, ove Marx scrive parole assolute e definitive (“La produzione dell’individuo isolato al di fuori della società è una rarità che può capitare ad un uomo civile sbattuto per caso in una contrada selvaggia, il quale già possiede in sé potenzialmente le capacità sociali - è un tale assurdo quanto lo è lo sviluppo di una lingua senza individui che vivano insieme e parlino tra loro”), è più che lodevole ricordare ai cittadini e alle cittadine della Repubblica non solo quello che Marx, nel 18 Brumaio e ne L’ideologia tedesca, chiama “il processo di putrefazione dello spirito assoluto”, e, quello che Lukàcs, sulle orme di Marx, chiama “la prassi dell’individuo isolato” (cfr. Mimmo Cangiano, Il mito dell’autonomia intellettuale, "Le parole e le cose", 28.11.2017), ma anche quello che gli intellettuali di "la Repubblica" si preparano a fare per festeggiare il fatto che “Robinson compie un anno (: hai tutti i numeri? Mandaci una foto della tua collezione. Domenica 10 dicembre inviteremo uno dei lettori a visitare l’Arena Robinson, lo stand del nostro settimanale a "Più libri più liberi"”).
Federico La Sala
di Edgar Morin e Mauro Ceruti (l’Unità, 13 settembre 2012)
La nostra crisi è una crisi di civiltà, dei suoi valori e delle sue credenze. Ma è soprattutto una transizione fra un mondo antico e un mondo nuovo. Le vecchie visioni della politica, dell’economia, della società ci hanno resi ciechi, e oggi dobbiamo costruire nuove visioni. Ogni riforma politica, economica e sociale è indissociabile da una riforma di civiltà, da una riforma di vita, da una riforma di pensiero, da una rinascita spirituale.
La riuscita materiale della nostra civiltà è stata formidabile, ma ha anche prodotto un drammatico insuccesso morale, nuove povertà, il degrado di antiche solidarietà, il dilagare degli egocentrismi, malesseri psichici diffusi e indefiniti. Oggi si impone una vigorosa reazione atta a ricercare nuove convivialità, a ricreare uno spirito di solidarietà, a intessere nuovi legami sociali, a fare affiorare dalla nostra e dalle altre civiltà quelle fonti spirituali che sono state soffocate. Questa sfida deve essere integrata nella politica, che deve porsi il compito di rigenerarsi in una politica di civiltà.
Le visioni della politica e dell’economia si sono basate sull’idea, che risale al settecento e all’ottocento, del progresso come legge ineluttabile della Storia. Questa idea è fallita. Soprattutto, è fallita l’idea che il progresso segua automaticamente la locomotiva tecno- economica. È fallita l’idea che il progresso sia assimilabile alla crescita, in una concezione puramente quantitativa delle realtà umane. Negli ultimi decenni la storia non va verso il progresso garantito, ma verso una straordinaria incertezza. Così oggi il progresso ci appare non come un fatto inevitabile, ma come una sfida e una conquista, come un prodotto delle nostre scelte, della nostra volontà e della nostra consapevolezza.
vedi alla voce sviluppo
Altrettanto discutibile è la nozione tradizionale di sviluppo, definita in una prospettiva unilateralmente tecno-economica, ritenuta quantitativamente misurabile con gli indicatori di crescita e di reddito. Ha assunto come modello universale la condizione dei Paesi detti appunto «sviluppati», in particolare occidentali, alla quale si dovrebbero ispirare tutti gli altri Paesi del mondo (detti perciò «sotto-sviluppati» o «in via di sviluppo »). Così si è arrivati a credere che lo stato attuale delle società occidentali costituisca lo sbocco e la finalità della storia umana stessa, trascurando i tanti problemi drammatici, le tante miserie, i tanti sotto-sviluppi, non solo materiali, provocati dal perseguimento degli obiettivi di una crescita tecno-economica fine a se stessa. Ma le soluzioni che volevamo proporre agli altri sono diventate problemi per noi stessi.
L’iperspecializzazione disciplinare ha frammentato il tessuto complesso dei fenomeni e ha modellato una scienza economica che non riesce a concepire e a comprendere tutto ciò che non è calcolabile e quantificabile: passioni, emozioni, gioie, infelicità, credenze, miserie, paure, speranze, che sono il corpo stesso dell’esperienza e dell’esistenza umana.
Oggi siamo chiamati a respingere quello che continua a essere in primo piano: la potenza della quantificazione contro la qualità, la dissoluzione della pluralità di dimensioni dell’esistenza umana a poche variabili, la razionalizzazione che è l’opposto della razionalità critica e che è il tentativo cieco di rifiutare tutto ciò che le sfugge e che non riesce a comprendere a prima vista. Uno dei tratti più nocivi di questi ultimi decenni è l’esasperazione della competitività, che conduce le imprese a sostituire i lavoratori con le macchine e, ove questo non accada, ad aumentare i vincoli sulla loro attività lavorativa. Allo sfruttamento economico, contro il quale hanno sempre lottato i sindacati, oggi si aggiunge un’ulteriore alienazione in nome della produttività e dell’efficienza. Abbiamo urgente bisogno di una politica di umanizzazione di quella che è ormai un’economia disumanizzata.
cambiare strada
Se si vogliono seriamente realizzare gli obiettivi di «sostenibilità» e di «umanizzazione », non basta spianare la via con qualche levigatura: bisogna cambiare via. La necessità di cambiare via, naturalmente, non ci impone di ripartire da zero. Anzi, ci spinge a integrare tutti gli aspetti positivi che sono stati acquisiti nel nostro difficile cammino, anche e soprattutto nei Paesi occidentali, a cui dobbiamo i diritti umani, le autonomie individuali, la cultura umanistica, la democrazia. E tuttavia la necessità di cambiare via diventa sempre più urgente, nel momento in cui il dogma della crescita all’infinito viene messo drasticamente in discussione dal perdurare della crisi economica europea e mondiale, dai pericoli prodotti di certo sviluppo tecnico e scientifico, dagli eccessi della civiltà dei consumi che rendono infelici gli individui e la collettività.
Certamente, la crescita deve essere misurata in termini diversi da quelli puramente quantitativi del Pil, mettendo in gioco gli indicatori dello sviluppo umano. Ma la cosa più importante è superare la stessa alternativa crescita/decrescita, che è del tutto sterile. Si deve promuovere la crescita dell’economia verde, dell’economia sociale e solidale. Un imperativo ineludibile dei prossimi decenni è l’accelerazione della transizione dal dominio quasi assoluto delle energie fossili a un sempre maggiore sviluppo delle energie rinnovabili. Anche questa transizione impone di cambiare via, paradigma: dall’attuale paradigma imperniato su un sostanziale monismo energetico (le fonti di energia fossile) a un paradigma imperniato su un pluralismo energetico, nella cui prospettiva si deve sostenere simultaneamente la crescita di molteplici fonti rinnovabili di energia (solare, eolico, biogas, idroelettrico, geotermico...), che possono avere un valore non solo additivo ma moltiplicativo, se messe in rete e se condivise da ambiti internazionali sempre più ampi.
In questo senso, la realizzazione di un pluralismo energetico è indissociabile dalla realizzazione di una democrazia energetica: la condivisione energetica risulta un valore fondante delle politiche internazionali, su scala continentale come su scala globale. Nello stesso tempo si deve sostenere la decrescita dei prodotti inutili dagli effetti illusori tanto decantati dalla pubblicità, la decrescita dei prodotti che generano rifiuti ingombranti e non riciclabili, la decrescita dei prodotti di corta durata e a obsolescenza programmata. Si deve promuovere la crescita di un’economia basata sulla filiera corta, e promuovere la decrescita delle predazioni di tutti quegli intermediari che impongono prezzi bassi ai produttori e prezzi alti ai consumatori. E per imboccare una via nuova bisogna concepire una nuova politica economica che possa contrastare l’onnipotenza della finanza speculativa e mantenere nello stesso tempo il carattere concorrenziale del mercato.
Nello stesso tempo, si rivela sterile anche l’alternativa globalizzazione/deglobalizzazione. Dobbiamo globalizzare e deglobalizzare in uno stesso tempo. Dobbiamo valorizzare tutti gli aspetti della globalizzazione che producono cooperazioni, scambi fecondi, intreccio di culture, presa di coscienza di un destino comune. Ma dobbiamo anche salvare le specificità territoriali, salvaguardare le loro conoscenze e i loro prodotti, rivitalizzare i legami fra agricoltura e cultura. Questo andrebbe di pari passo con una nuova politica nei confronti delle aree rurali, volta a contrastare l’agricoltura e l’allevamento iperindustrializzati, ormai divenuti nocivi per i suoli, per le acque, per gli stessi consumatori, e a favorire invece l’agricoltura biologica basata su stretti legami con il territorio.
Certo, quando parliamo dell’attuale fase della globalizzazione, non possiamo certo sottovalutare il fatto che Paesi solo poco tempo fa definiti sottosviluppati abbiano decisamente migliorato i loro livelli di vita: sotto questo aspetto le delocalizzazioni della produzione hanno sicuramente svolto un ruolo importante. Ma dinanzi all’eccesso di queste delocalizzazioni, e di conseguenza all’annientamento dell’industria europea, dobbiamo certamente prevedere interventi protettivi.
Per quanto riguarda il destino particolare dell’Europa nell’età della globalizzazione, è decisivo il fatto che tutte le nazioni siano oggi diventate multiculturali. L’Italia stessa è entrata appieno in questo processo, anche se con un certo ritardo rispetto ad altre nazioni storicamente più ricche di legami con il mondo intero: Francia, Gran Bretagna, Olanda, Germania... Le nuove diversità conseguenti alla globalizzazione si sono aggiunte alle diversità etniche e regionali tradizionalmente costitutive dei nostri paesi.
Oggi non basta dire che la Repubblica è una e indivisibile, bisogna anche dire che è multiculturale. Concepire insieme unità, indivisibilità e multiculturalità significa far sì che l’unità eviti il ripiegamento delle singole culture su se stesse e nello stesso tempo riconoscere la diversità feconda di tutte le culture. Anche in questo caso dobbiamo superare le alternative rigide.
Dobbiamo superare l’alternativa fra l’omologazione che ignora le diversità, che è stata la politica prevalente negli stati nazionali europei degli ultimi due secoli, e una visione del multiculturalismo come semplice giustapposizione delle culture. Per evitare la disgregazione delle nostre società abbiamo bisogno di riconoscere nell’altro sia la sua differenza sia la sua somiglianza con noi stessi. Rendere le diversità interne non un ostacolo, ma una ricchezza per la nazione: questo è un compito essenziale per la ricostruzione civile dell’Italia e di tutte le nazioni europee, nel momento in cui le sfide globali possono essere affrontate solo da società che siano nello stesso tempo aperte e coese.
un nuovo pensiero
Oggi il pensiero politico deve riformularsi sulla base di una diagnosi pertinente del momento storico dell’era planetaria che stiamo vivendo, deve concepire una via di civiltà, e deve di conseguenza trovare un percorso coerente sul piano nazionale, europeo, mondiale. Attualmente, siamo in una situazione contraddittoria: c’è un mondo che vuole nascere e che non riesce a nascere, e nel contempo questa nascita incipiente è accompagnata da uno scatenamento di forze di distruzione.
Questa situazione contradditoria ci impone di superare anche un’altra falsa alternativa classica, basata sulla contrapposizione fra conservazione e rivoluzione. Dobbiamo fare nostra l’idea di metamorfosi, combinando insieme conservazione e rivoluzione. Questa metamorfosi ci appare ancora improbabile, anzi quasi inconcepibile. Ma questa constatazione a prima vista disperante comporta un principio di speranza, motivato dalla consapevolezza che ci viene dalla conoscenza delle grandi soglie della storia e dell’evoluzione umana. Sappiamo che le grandi mutazioni sono invisibili e logicamente impossibili prima della loro attuazione; sappiamo anche che esse compaiono quando i mezzi dei quali un sistema dispone sono divenuti incapaci di risolvere i suoi problemi all’interno del sistema stesso. Così siamo inclini a sperare che, pur ancora improbabile e inconcepibile, la metamorfosi non sia impossibile.
Quella materia informe nelle mani del Principe
In un volume le lezioni di Louis Althusser su Niccolò Machiavelli e dell’uso creativo che ne ha fatto Marx. Un percorso di ricerca tutt’ora fertile per pensare una politica della trasformazione
di Fabio Raimondi (il manifesto, 04.08.2007)
Va dato merito a François Matheron d’aver raccolto in Politique et Histoire, de Machiavel à Marx (Seuil, pp. 394, euro 23) le lezioni tenute da Louis Althusser tra il 1955 e il 1972. L’attenzione per i classici del pensiero politico moderno, durante l’elaborazione dei suoi scritti più noti, da Pour Marx ai saggi di Lire le Capital (1965) fino agli Éléments d’autocritique (1972-74), è testimoniata dal corpo a corpo con le filosofie della storia (da Montesquieu a Marx) nel corso del 1955-56, con Machiavelli (nel corso del 1962), autore che l’ha affascinato molto più di Marx; e, infine, con Rousseau, nel corso del 1965-66, vagliato attraverso il confronto con Hobbes e Locke.
Il divenire della storia
L’interesse di Althusser per il «continente storia» aperto da Marx si mostra innanzitutto, in aperta polemica con Sartre e con tutto lo storicismo, nell’analisi delle filosofie della storia, nate nel XVII secolo in seguito alla progressiva ascesa della borghesia e costruite attorno a un’unità di senso (il progresso, la ragione, l’interesse o la libertà), che consentiva la ricostruzione apologetica del processo di affermazione dell’economia di mercato. Anche il giovane Marx, legato a una «filosofia della storia, fondata sull’idea filosofica dell’essenza umana» alienata e da emancipare, comprenderà solo poi che il paradosso delle filosofie della storia sta nel fatto che «hanno per oggetto e contenuto la stessa materia storica, ma la comprensione della materia storica non emerge dalla storia». Ragione per cui «la storia non è conosciuta attraverso se stessa», ma attraverso una norma «trans-storica» (Dio, Provvidenza, Essenza umana), anche se poi «questa norma si rivela profondamente legata alla storia», perché «è essa stessa un elemento, un avvenimento, un fatto storico. Il vizio filosofico della filosofia della storia dipende dal fatto che il filosofo della storia fa della propria coscienza presente la norma trascendente in nome della quale giudica la storia».
Per Althusser questa è dunque la premessa da cui Marx parte per «distruggere la filosofia della storia» riportando «la norma, che essa impone alla storia, alla storia stessa». Si dà scienza della storia, anche se la norma stessa è storica, perché Marx non mette in relazione solo le «condizioni sociali» (lo «Stato») e l’«ideologia» (la «coscienza») della storia, ma anche le sue «condizioni economiche» (le «forze di produzione»). In questo modo il materialismo storico scopre «che la totalità di una società storica determinata comprende in sé il principio stesso del proprio divenire e della propria trasformazione: la contraddizione tra forze di produzione e rapporti di produzione». Il «marxismo (materialismo storico), dunque, non è un sapere assoluto ma una scienza aperta», perché continuamente determinata dall’esito della lotta di classe.
È a questo punto che la riflessione di e su Machiavelli interviene a precisare l’ipotesi marxiana. Il suo «anti-utopismo», infatti, consiste nell’affermare che uno stato «nuovo» può essere costruito solo per l’intervento di una forza esterna su una «materia» (politica) inerte. Uno stato corrotto non si cura da sé, ma necessita di una forza esterna che lo destrutturi e poi gli ridia forma. Ma, proprio perché esterno, il tempo di questo «avvenimento» è imprevedibile, legato a una «contingenza radicale».
L’intollerabile virtù
n queste circostanze coesistono «l’impossibilità di mostrare il legame tra la necessità che annuncia il Principe nuovo e la contingenza radicale della sua nascita. Colui che deve fondare l’ordine è richiesto da una necessità storica, ma è anche colui che deve immettere, nel disordine dei tempi, nel puro negativo della fortuna, il positivo e l’ordine della necessità che produrrà la sua virtù».
Non vi è alcun luogo in cui un soggetto esista in forma potenziale o inconsapevole (l’Italia, il proletariato, la moltitudine), ma solo un vuoto ontologico radicale, dove non esiste nemmeno la «natura umana». Machiavelli pensa la politica senza ricorrere all’ontologia e quindi all’antropologia, differenziandosi sia da Spinoza sia da Hobbes. Un gesto ripreso solo dal Marx maturo, visto che nella Questione ebraica la carica rivoluzionaria del proletariato sta nel fatto che la contraddizione tra «essenza umana e inumanità della sua esistenza» è «ontologicamente intollerabile». Un gesto che molto marxismo non ha mai compreso, ma che anche molte alternative a esso continuano a praticare nell’illusione di poter fondare nell’ontologia l’andamento delle lotte.
Nessuna filosofia della storia è dunque pensabile, perché come nessuna «natura umana» fonda la politica, così nessuna teoria del cambiamento può fondare la storia. Per questo i «concetti» machiavelliani sono diversi da quelli del pensiero politico moderno e per questo la sua riflessione continua a essere un punto di riferimento per tutti coloro che vogliano provare a pensare un «inizio radicale» non politicamente derivabile dalle condizioni presenti. L’«assolutamente Nuovo» non è dunque la repubblica né alcun tipo di principato o altro che già esista, ma «l’accadimento di una forma politica non prefigurata nella realtà. Un avvenimento non concettualizzabile sotto una qualunque forma, antica o moderna». Machiavelli pare così arrestarsi di fronte alla regola prudenziale che afferma la necessità di prepararsi a cogliere l’occasione, che si manifesterà come un evento (incontro o rottura) imprevisto.
Solo Jean-Jacques Rousseau prima di Marx ha seguito Machiavelli nell’esporre l’aleatorietà del processo politico, perché pensa la storia non come continuum temporale, ma sulla base di una serie di rotture (ora naturali ora umane), cioè di «salti» che introducono ciascuno una regola contingente facendola diventare necessaria; dato che «la struttura dei salti è diversa per ciascuno» e «ogni salto è specifico di ogni tappa», allora «una legge specifica governa ciascuna delle fasi ed è la legge della loro struttura».
In Rousseau Althusser vede dunque la possibilità di pensare una storia differenziale, cioè una storia priva di un piano trascendentale, formata da una pluralità di storie, mosse ognuna da una propria regola, e interagenti con altre storie in modo contingente ossia senza seguire il percorso preordinato di uno sviluppo unico e necessario.
L’inaspettato miracolo
Ogni storia, dunque, ha in sé la propria regola e non c’è nessun tempo (ideologico) unico e universale e quindi nessuna storia universale, ma solo specifiche strutture di storicità, che vanno di volta in volta individuate e portate alla luce esaminandone, come ad esempio ha fatto Michel Foucault nel caso della follia o della clinica, lo sviluppo. Quest’ipotesi fa saltare l’ideologia delle «magnifiche sorti e progressive» del movimento operaio internazionale e costa ad Althusser l’accusa di non essere marxista, per quanto egli abbia sempre cercato di spiegare come proprio questa concezione della storia sia quella inaugurata - benché non svolta - da Marx a partire dal Capitale.
Anche per Rousseau la società nasce dal suo vuoto (lo stato di natura), in cui non c’è alcuna necessità e teleologia, a causa di un incontro improvviso e inaspettato: quello di un uomo con un altro. La storia, segnata da continue ma imprevedibili rotture è posta sotto il segno della «precarietà» e della continua trasformazione, tanto che mantenere l’unità (del popolo ad esempio) «sembra un miracolo». Necessità di forma e sua impossibilità caratterizzano dunque, per Althusser, l’agire politico dell’uomo, ma solo affrontando quest’insanabile conflitto si apre lo spazio della soggettivazione.
MAGISTERO ECCLESIASTICO E VANGELO
Se qualche critica è stata rivolta all’ingerenza ecclesiastica nella sfera politica, stranamente nessuna voce si è levata per mettere in discussione il ruolo stesso del magistero, quasi si trattasse di una verità contestabile forse da qualche miscredente ma certo indiscutibile per chi vuole essere un buon cattolico.
di Elio Rindone *
Che si parli di unioni di fatto o di testamento biologico, la Conferenza episcopale italiana ribadisce senza sosta il diritto e il dovere del magistero di illuminare le coscienze dei fedeli riguardo ai valori fondati sulla natura e quindi sottratti a un lecito pluralismo. Reazioni?
Se qualche critica è stata rivolta all’ingerenza ecclesiastica nella sfera politica, stranamente nessuna voce si è levata per mettere in discussione il ruolo stesso del magistero, quasi si trattasse di una verità contestabile forse da qualche miscredente ma certo indiscutibile per chi vuole essere un buon cattolico.
Il fatto è sorprendente perché invece riempiono ormai intere biblioteche gli scritti degli studiosi cattolici che nel corso degli ultimi decenni, grazie ai margini di libertà di cui era possibile fruire nel periodo del concilio Vaticano II, hanno dimostrato l’infondatezza dell’esegesi biblica e dell’ecclesiologia su cui poggiano le rivendicazioni vaticane.
Per constatare, infatti, quanto il sistema ecclesiastico attuale sia lontano dal messaggio biblico originario basterebbe leggere, per esempio, il volume (che riporta un’ampia bibliografia, consultabile da chi fosse interessato al tema) di Xabier Pikaza, Sistema, libertà, chiesa. Istituzioni del Nuovo Testamento, Borla, Roma 2002, (traduzione di Marco Zappella, che ritocco leggermente).
Basandosi su una rigorosa lettura critica dei testi, l’autore - prima professore di Storia delle religioni e Teodicea presso l’Università pontificia di Salamanca e poi professore di Sacra Scrittura all’Università di Cantabria - dimostra che la Scrittura non attribuisce a Gesù l’intenzione di fondare una struttura ecclesiastica caratterizzata: (a) da un ordine sacerdotale modellato su quello ebraico, (b) da una gerarchia istituita per proseguire le funzioni degli apostoli e (c) da un magistero abilitato a insegnare la verità ai fedeli.
a) Nella storia del popolo ebraico, almeno in alcuni periodi, il sacerdozio ha certo avuto un ruolo notevole, e tuttavia “l’identità della religione ebraica e il suo contributo all’insieme della storia non sono legati ai sacerdoti”(p 95). Anzi, il Gesù dei vangeli non solo é estraneo al mondo sacerdotale ma é un suo avversario: Gesù “fu un laico e non volle purificare l’istituzione sacerdotale (come tentarono alcuni separati di Qumran) ma ne proclamò la rovina: Dio non ha bisogno né di templi né di sacerdoti, ma si rivela in modo immediato, messianico, guarendo i malati, perdonando gli esclusi del sistema. [... Perciò] nella chiesa non deve esserci un ordine sacerdotale distinto, proprio di alcuni eletti, nella linea dei sacerdoti e leviti di Israele”(ivi).
I vangeli, in effetti, descrivendo gli inizi della predicazione di Gesù, lo presentano come l’annunciatore del Regno di Dio, un mondo rinnovato nella giustizia e nella fratellanza al di fuori di ogni schema sacrale: “Gesù e i suoi primi seguaci non hanno voluto creare un’altra religione e una società sacra, ma un movimento carismatico del Regno”(p 257). Stando a Marco 3, 31-35, attorno a Gesù si é riunito un gruppo di uomini e donne che vogliono fare la volontà di Dio in un clima di fraternità, liberi dal peso opprimente delle autorità tradizionali: “I seguaci di Gesù sono una famiglia allargata e condividono vita, speranza e comunione personale: cento madri/figli, fratelli/sorelle”(p 173). Stranamente Marco non parla di ‘padri’, e ciò è sintomatico per una società in cui, come in genere in quelle antiche, l’autorità patriarcale era indiscussa: la chiesa attuale, quando esalta la paternità spirituale dei suoi sacerdoti, non sembra rinnegare quella gioiosa comunità paritaria?
Basta rileggere, in effetti, la bella parabola del seminatore (Marco 4, 13-20) per accorgersi che Gesù ha affidato il suo messaggio non a degli specialisti ma a tutti coloro che vogliono accoglierlo con animo aperto e disponibile. Dunque niente scribi o sacerdoti “che amministrano la Parola dall’alto, perché [questa] é di tutti. [...] La Parola é principio di comunione universale, e tutti possono comprenderla, accoglierla, condividerla in libertà, senza intermediari sacrali”(pp 161-162).
E la comunità a cui é rivolta la parola di Gesù è non solo egualitaria ma anche inclusiva. Accoglie i peccatori e non discrimina le donne, sicché una distinzione di funzioni - la parola é degli uomini, il servizio é delle donne - risulta estranea al vangelo. Affermando l’inferiorità della donna, per secoli la chiesa si è adattata alla mentalità del tempo. Ora finalmente la società è cambiata, ma la chiesa è rimasta vergognosamente indietro: “Oggi, a duemila anni di distanza, una cecità di questo tipo é incomprensibile”(pp 191-192).
Una società che mette radicalmente in discussione le gerarchie costituite, che non si comporta “secondo la tradizione degli antichi”(Marco 7,5), declassata a deposito di dottrine opinabili, che segue Gesù anche quando le sue critiche alle autorità religiose diventano sempre più esplicite è qualcosa di rivoluzionario. La rottura con la religiosità ufficiale è assoluta, tanto che Marco (14, 58) attribuisce a Gesù, giunto alla fine della sua avventura, l’idea che la religione incentrata sul culto del tempio non possa essere riformata ma vada semplicemente distrutta: il “messaggio del Regno implicava il rifiuto dell’autorità sacrale del tempio: la comunità sacrificale, diretta come teocrazia o governo di Dio grazie ai sacerdoti, é arrivata alla sua fine. [...] Per volontà di Dio, affinché la salvezza si apra ai poveri, questo sistema sacrale incentrato sul tempio deve finire [...]: va distrutto (cfr. Mc 11,15)”(pp 216-217). Non c’è dubbio che i vangeli, se letti senza pregiudizi, sono libri terribilmente anticlericali: non suggeriscono forse l’idea che anche oggi, perchè possa venire tra gli uomini il regno di Dio, è necessario battersi contro la ricostituzione di una casta sacerdotale che attribuisce a se stessa il monopolio del vangelo?
Credo che l’autore interpreti davvero il sentire di tanti credenti quando scrive, a proposito di una chiesa di tipo patriarcale, fondata su una gerarchia di maschi celibi, che “molti di noi ritengono che questo sistema ecclesiale sia ormai inutile: si trova vuoto d’acqua, risulta anti-evangelico; ha assolto una funzione, ma ha dato il massimo ed é diventato un fossile; non alimenta più la fede e la contemplazione dei credenti, né serve per animare la vita delle comunità; sopravvivrà per inerzia, per un tempo non molto lungo, e alla fine crollerà da solo, eccetto che cambi e si rinnovi a partire dal vangelo”(p 470, nota 1).
b) Nella comunità primitiva di cui parlano gli Atti degli Apostoli (15, 22-29), poi, le decisioni non sono assunte da una suprema autorità ma scaturiscono dal libero confronto. La chiesa “é un’assemblea partecipativa: Dio parla nel dialogo fraterno. Questo é il modello cristiano di governo, in una chiesa strutturata e in cui sorgono dei problemi. Essa non può risolverli in modo magico, né richiamarsi a un’istanza esteriore (oracolo di Dio, rivelazione privata o decisione particolare di un dignitario). [...] Perciò non può esserci nella chiesa una gerarchia, con poteri particolari”(p 287 e nota 47).
In effetti, secondo Matteo 18, 19-20, Gesù é presente dove due o tre persone sono riunite nel suo nome: “Perciò, il vicario di Cristo non é un’autorità isolata (papa, vescovo, presbitero), ma la stessa comunità riunita, in una sinfonia di preghiera e azione fraterna.”(p 357). Una chiesa in cui la gerarchia, cedendo alla tentazione del potere, si imponesse ai fedeli trasformandoli in ricettori passivi di decisioni che cadono dall’alto sarebbe poco evangelica: anzi, scrive senza mezzi termini Pikaza, una comunità “governata in modo impeccabile da autorità superiori (senza che i suoi membri siano responsabili), diventerebbe satanica”(p 358). Proprio contro questo pericolo mette in guardia Matteo 23, 8-10 esortando i credenti a rifiutare ruoli di potere e titoli onorifici: non è sempre attuale “il rischio di una chiesa che comincia a edificarsi su schemi di autorità gerarchica, perché alcuni all’interno di essa tentano di farsi chiamare padre, rabbino o maestro”(p 359)?
Chi ricorda la dottrina tradizionale, a questo punto farà osservare che la chiesa è fondata sui dodici apostoli e che i vescovi cattolici sono i loro successori. Ora, è vero che Marco 3, 12-14 presenta Gesù che costituisce il gruppo dei Dodici, però questi non sono dignitari ecclesiastici ma uomini del popolo, semplici galilei inviati a predicare il vangelo, mentre “una tradizione posteriore li ha resi garanti del ‘collegio episcopale’, come se fossero stati i primi dodici vescovi della chiesa. Ma essi non lo sono stati, e la loro missione é stata trasmessa non a una gerarchia particolare ma all’insieme della comunità”(p 204).
L’idea di una struttura gerarchica della chiesa fondata sulla successione apostolica non ha una base evangelica ma é una costruzione che comincia ad affermarsi solo alla fine del II secolo: “Al contrario di Ireneo, gli storici attuali sanno che non si può parlare di una successione stretta partendo dagli apostoli (i Dodici) fino ai vescovi propriamente detti [...]: i vescovi monarchici, nel senso posteriore del termine, sono sorti nella chiesa nel corso del secolo II d.C. [...] Nel corso di un intero secolo (a partire dal 50 fino al 150-160 d.C.) Roma non ebbe vescovi (e meno ancora papi) nel senso successivo del termine, mantenendosi e crescendo, tuttavia, come chiesa esemplare, molto ben organizzata, sotto la guida di presbiteri. Essa accettò l’episcopato soltanto due o tre decenni prima di Ireneo”(p 460).
In effetti, è storicamente accertato che le prime comunità cristiane sono state animate da gruppi di anziani o presbiteri, impegnati come Paolo a suscitare e tener viva la fede dei credenti e non a esigere la loro obbedienza. Una visione gerarchica della società non potrebbe richiamarsi a Gesù né a Paolo (cfr. I Cor. 12, 12-27) ma esprimerebbe piuttosto l’impostazione propria della Repubblica platonica o dell’impero romano: sulla scia dell’esperienza di Gesù, “convinto che l’ordine del mondo é stato superato, Paolo espone e difende un anti-ordine di gratuità radicale, dove i più importanti sono i meno onorati [...]. Un mondo al rovescio, questo é sembrato il vangelo ai ‘buoni romani’. [...] Quando la chiesa posteriore si consolida affermando l’unità del corpo a partire da una gerarchia sacra, di tipo episcopale o presbiterale [...] potrà essere platonica o romana, ma non paolina e nemmeno cristiana”(pp 306-307).
Proprio per essere fedeli al vangelo è perciò urgente secondo Pikaza mettere in discussione una struttura ecclesiastica autoritaria: occorre superare “il sistema imperiale (romano), che si é imposto fin dall’antichità e ha trasformato le comunità in una sola chiesa romana, dove tutte le questioni importanti si risolvono a partire da un vertice amministrativo e sacrale che avrebbe ricevuto da Dio il potere adeguato per fare ciò. [...] Quell’impero politico é caduto, ma é stato copiato e ricreato sotto forme sacrali dalla chiesa di Roma [...]. Ebbene, il ciclo di questa chiesa-sistema é terminato e dobbiamo tornare alla verità del vangelo [...]. Osiamo dire che la prassi attuale della chiesa, dove la partecipazione dei credenti é quasi nulla, ci sembra contraria al vangelo e deve finire, oggi meglio che domani”(pp 486-487).
c) Se non é possibile attribuire a Gesù l’istituzione di un ordine sacerdotale e di un’autorità fondata sulla successione apostolica, non ci può essere posto, in una comunità che si richiami a lui, per un magistero che pretenda di insegnare la verità, privando i fedeli del diritto di esprimere le proprie opinioni. La chiesa primitiva conosceva le divergenze di idee e persino Pietro, come ricorda Paolo (Galati 2, 11-14), veniva criticato in pubblico, senza che il dissenso venisse soffocato. Il disaccordo tra Pietro e Paolo mostra che il pluralismo delle scelte é un fatto assolutamente naturale; inaccettabile, al contrario, sarebbe un’uniformità frutto di imposizione autoritaria. Una società viva non può evitare la molteplicità delle esperienze e dei punti di vista, che sono una ricchezza e non un pericolo, e vanno perciò accolti senza spezzare la fraternità.
Per secoli, invece, si é seguita la via opposta: la chiesa romana ha cominciato ad attribuire a se stessa un ruolo magisteriale sempre più invadente e nel 1870 é arrivata a proclamarsi addirittura infallibile. Ma la pretesa, accentuatasi negli ultimi decenni, di dire su ogni questione una parola definitiva e vincolante, pur non contestata esplicitamente, é avvertita con crescente fastidio da molti credenti: “l’immensa maggioranza dei documenti della curia vaticana (a partire da molte encicliche) non é necessaria o é divenuta controproducente, perché dà l’impressione che soltanto quelli della curia sappiano pensare e dire ciò che é cristiano, usurpando un compito che é proprio delle comunità”(p 509).
Nel mondo occidentale, infatti, l’uomo ha oggi acquisito la consapevolezza della propria dignità di persona adulta, responsabile delle proprie idee e delle proprie scelte, mentre la chiesa romana continua a trattare i credenti come eterni minorenni, incapaci di trovare da sé il modo di vivere il vangelo e perciò sempre bisognosi di essere guidati dall’autorità: sembra fidarsi poco “dei suoi fedeli, inclusi i suoi ministri. Essa dovrebbe lasciare da parte le proprie certezze, il proprio desiderio di esprimere un’opinione in ognuno dei campi in discussione, [... invece non fa che imporre leggi a uomini e donne] come se pensasse che essi (soprattutto le donne) sono minorenni e che deve aiutarli, affinché trovino la sicurezza che da sé non troverebbero”(p 477).
Ancora una volta sul modello dello stato platonico, in cui i sapienti guidano gli inferiori, noi cattolici, scrive Pikaza, “abbiamo costruito una religione impositiva, ricordando agli altri quello che devono fare (evidentemente per il loro bene). Il vangelo ha proclamato che amiamo i nemici, cioè i diversi, [...] affinché così possano vivere a modo loro, come diversi [...]. Invece molte volte ci siamo sentiti padroni della verità e abbiamo voluto esigere da loro che siano come noi decidiamo (e non come essi vogliono).”(p 476).
Sarebbe dunque auspicabile un cambiamento di mentalità che, in consonanza con il vangelo, attribuisse alle guide della comunità il compito non di soffocare il pluralismo ma di far convivere le differenze. Solo in questa prospettiva sarebbe accettabile il ministero petrino, se si concepisse cioè “il compito di Pietro (= del papa), come segno di fedeltà e apertura creativa, in dialogo con le diverse tendenze ecclesiali: non un compito di uniformità, né di imposizione sulle chiese, autonome e diverse, ma di comunione e libertà tra tutte queste”(p 539).
Se tale é il senso del ruolo che Matteo 16, 18 assegna a Pietro come fondamento della comunità cristiana, é chiaro che “la chiesa romana come piccolo stato, con il suo potere e la sua pompa, i suoi ambasciatori (nunzi), la sua amministrazione e gerarchia sacrale (dai monsignori ai cardinali), risulta contraria al vangelo”(p 513). Essa si regge ancora per il sostegno che riceve da forze politiche, che a loro volta se ne servono per i loro giochi di potere, ma non è più credibile quando pretende di imporsi col suo centralismo organizzativo e col suo magistero universale ai cattolici sparsi in tutto il mondo
Se l’attuale struttura della chiesa non ha dunque un fondamento evangelico, come si spiega il fatto che, almeno in Italia, sia ancora comunemente accettato il suo ruolo magisteriale? Senza dimenticare il potere che deriva alla Conferenza episcopale italiana dal generoso finanziamento accordato dal sistema dell’8 per mille e dall’alleanza con le forze politiche più reazionarie del nostro Paese, mi pare che la risposta possibile sia una sola: la formazione religiosa degli italiani, praticanti o meno, é spesso ferma alle nozioni apprese alle lezioni di catechismo o alle prediche del parroco. Di conseguenza, non abituati alla libera ricerca teologica, neanche i credenti più impegnati sono di solito in condizione di mettere in dubbio una struttura ecclesiastica che è frutto solo di contingenze storiche!
La Congregazione per la Dottrina della Fede, inoltre, ormai da diversi anni ha ricominciato a lavorare a pieno ritmo per ridurre al silenzio le voci critiche, e i risultati sono innegabili: la fede del popolo cristiano, tornato a una supina obbedienza all’autorità sotto la guida dei ripetitori del verbo vaticano, si nutre ormai solo di devozione a padre Pio, pellegrinaggi ai santuari mariani e megaraduni pontifici. Impedita la divulgazione delle tesi, da tempo acquisite a livello degli specialisti, che mettono in discussione il potere della gerarchia, aumenta ovviamente il conformismo e diminuisce il numero dei credenti che utilizzano i contributi degli studiosi più qualificati per riscoprire l’autentico messaggio evangelico e liberare così la propria fede da incrostazioni plurisecolari. È a motivo dell’autoritarismo vaticano, dunque, che non viene messa in discussione l’idea che spetti al magistero il compito di illuminare il gregge dei fedeli: idea, questa, pericolosa non solo per l’autonomia della politica ma anche per l’autenticità della fede.
L’impegno per liberare il messaggio evangelico dalla gabbia in cui lo rinchiude l’autorità ecclesiastica credo che sia perciò, soprattutto per i credenti, una delle urgenze dell’attuale momento storico. Impegno doppiamente necessario: occorre, infatti, difendere la laicità dello stato e al contempo evitare che il vangelo appaia come un relitto del passato, adatto a un popolo di minorenni. Una radicale riforma della struttura ecclesiastica è ormai inderogabile, e non può certo prodursi, come opportunamente scrive Pikaza, su iniziativa di chi oggi detiene il potere ma solo ad opera di cristiani maturi che vivono liberamente la loro fede senza preoccuparsi dei diktat vaticani: “non m’attendo che i cambiamenti vengano dalla ‘cupola’ clericale, ma dalla radice del vangelo, a partire dal ricordo di Gesù e delle prime comunità cristiane, secondo la fede del popolo”(p 479).
Fonte: ITALIA LAICA, 9-7-2007
Lo spirito dell’illuminismo, appassionato pamphlet di Tzvetan Todorov
Quei Lumi che devono guidarci
di Umberto Galimberti (la repubblica, 05.05.2007)
Dopo la morte di Dio e dopo il crollo delle ideologie che hanno innescato la tragedie del XIX secolo, quale puo’ essere il fondamento intellettuale e morale della nostra societa’? Per Tzvetan Todorov, uno degli intellettuali europei piu’ autorevoli e piu’ ascoltati, la risposta non puo’ trovarsi se non ritornando all’Illuminismo, qui inteso non tanto come una corrente di pensiero o un compendio di dottrine filosofiche, quanto come una condotta, una pratica di vita, un esercizio del pensiero, da cui l’umanita’, se non vuole abdicare a se stessa, non puo’ esonerarsi.
Quindi l’Illuminismo, non come teoria ma come prassi, come azione capace di ispirarsi a quelli che per Todorov sono i cinque cardini dell’Illuminismo.
Autonomia
L’autonomia del pensiero, innanzitutto, capace di garantire a tutti la liberta’ di analizzare, discutere, criticare, dubitare, al di la’ delle fedi, dei dogmi e delle istituzioni intoccabili. E questo perche’, ce lo ricorda Kant: "L’illuminismo e’ l’uscita dell’uomo da una condizione di minorita’ di cui egli stesso e’ responsabile, dove per minorita’ si deve intendere l’incapacita’ di servirsi del proprio intelletto senza la guida di altri".
Laicita’
La laicita’, che deve essere garantita a tutti i settori della societa’ anche da parte degli individui che aderiscono a una fede, perche’ senza laicita’ la stessa autonomia del pensiero non e’ piu’ garantita e la democrazia rischia di rifluire in quel suo antecedente che e’ la teocrazia da cui l’illuminismo ha emancipato noi occidentali.
Verita’
La verita’ non puo’ essere appannaggio della fede, ma della ricerca scientifica, di cui l’Enciclopedia illuminista ha segnato il primo avvio.
Tra fede e verita’ non c’’e’ infatti compatibilita’, perche’ se una cosa la "so" non la "credo", e se la credo vuol dire che non la so. Inoltre la verita’ scientifica e’ congetturale, ipotetica e disponibile a essere superata da ipotesi piu’ esplicative. Quindi nessuna verita’ assoluta, ma confronto tra verita’ relative che si lasciano sottoporre a verifica.
Umanita’
L’umanita’ puo’ vivere in concordia solo se nessuno pretende di essere il depositario della verita’ assoluta, e quindi la tolleranza che antepone la concordia degli uomini, che provengono dalle piu’ disparate tradizioni, alla difesa delle proprie consuetudini. Sotto questo profilo anche il messaggio cristiano puo’ essere accolto la’ dove con San Paolo dice: "Chi ama il prossimo ha adempiuto la Legge". Motivo questo ripreso da Franklin secondo il quale: "Il culto piu’ gradito a Dio e’ fare del bene agli uomini".
Universalita’
L’universalita’, il cui primato va rivendicato rispetto all’appartenenza all’una o all’altra societa’, trova la sua applicazione nella proclamazione dei "diritti dell’uomo" che sanciscono una rigorosa uguaglianza di fronte alla legge e una chiara distinzione tra diritto e morale perche’, come scrive Beccaria: "I giudici non sono vindici della sensibilita’ degli uomini, ma dei patti che li legano tra loro".
Per effetto del primato della legge non e’ consentito l’uso della forza fuori dall’ordinamento legislativo. E questo sia nel caso dei singoli che non devono essere torturati o messi a morte, sia nel caso della nazioni che non devono essere aggredite per pura espansione del proprio potere.
Da questi brevi spunti si capisce quanto l’Illuminismo non sia tanto la filosofia di un’epoca storica, quanto una pratica di vita e un compito etico, da cui nessuno, che tenga in qualche conto la dignita’ dell’uomo, puo’ sentirsi esonerato.
L’invito di Todorov e’ allora quello di "ricominciare tutti i giorni questa impresa, ben sapendo che non vedra’ mai la fine", perche’ come rispondeva Kant a chi gli chiedeva se eravamo gia’ nell’eta’ dell’illuminismo: "No, bensi’ in un eta’ in via di illuminazione".
Il presidente Usa: "Lo scudo spaziale non è una minaccia contro Mosca
è solo un sistema di sicurezza". "Il sistema politico di Pechino troppo chiuso"
Bush a Praga contro Russia e Cina "Hanno deragliato dalla democrazia" *
PRAGA - Prima ha teso la mano a Putin, ricordando che "la guerra fredda è finita" e assicurando che lo scudo spaziale è un sistema di difesa contro i paesi canaglia, non certo contro la Russia. Poi però, nel pomeriggio, il presidente americano George W. Bush è tornato ad attaccare il leader russo, accusandolo di aver fatto "deragliare" a Mosca le riforme democratiche.
Nel suo primo giorno di visita in Europa stamane Bush ha lanciato dal Castello di Praga un messaggio di distensione alla Russia sullo spinoso tema dello scudo spaziale. "La guerra fredda è finita - ha detto intervenendo dopo il presidente della Repubblica Ceca Vaclav Klaus e rivolgendosi innanzitutto ai padroni di casa - il popolo ceco non deve scegliere se allearsi con noi o con la Russia, può allearsi con entrambi. La Russia non è un nemico per noi, i nemici sono gli stati canaglia, gli estremisti che minacciano la libertà".
Quindi il capo della Casa Bianca ha rimarcato che "lo scudo spaziale è una difesa contro le minacce esterne, non è certo contro la Russia". E ha anticipato quello che dirà al leader del Cremlino: "Il mio messaggio al presidente russo, quando lo incontrerò, sarà che lo scudo spaziale è solo un sistema di sicurezza, al quale la Russia potrebbe cooperare. Noi vogliamo cooperare con tutti per diffondere la libertà e la democrazia".
Tuttavia nel pomeriggio, nella conferenza tenuta sul tema ’Democrazia e Sicurezza’ sui progressi della libertà e della democrazia nel mondo, alla presenza di personalità come l’ex dissidente Natan Sharansky e l’ex presidente ceco Vaclav Havel, Bush ha attaccato il presidente russo, sostenendo che con Putin in Russia le riforme democratiche sono "deragliate". E ha criticato anche le autorità di Pechino per la loro resistenza alle aperture politiche.
’’In Russia, hanno fatto deragliare le riforme che promettevano di dare il potere al popolo, con conseguenze preoccupanti per l’evoluzione democratica’’, ha detto Bush. Ma anche nei confronti della Cina il presidente Usa è stato molto critico: ’’I leader cinesi credono di poter continuare ad aprire l’economia del loro Paese senza aprire anche il sistema politico’’, ha aggiunto.
Il programma anti-missile americano è uno dei temi centrali del viaggio del presidente americano in Europa e del G8 che si terrà da mercoledì a venerdì nella piccola località tedesca di Heiligendamm. Il progetto prevede la creazione di una stazione radar a 50 chilometri da Praga mentre una seconda base in Polonia ospiterà dieci missili intercettori.
Lo scudo spaziale, da tempo motivo di attrito con Mosca, è diventato ancora più dirompente dopo la recente minaccia del presidente russo Vladimir Putin di puntare i suoi missili anche contro l’Europa. Una minaccia che ha reso ancora più delicati i colloqui odierni tra Bush e i dirigenti della Repubblica Ceca, che sono alle prese a loro volta con una popolazione ancora in maggioranza contraria ad accogliere la base e con una opposizione che vede nella questione un modo per mettere il difficoltà il premier Topolanek.
In coincidenza con la visita di Bush, Greenpeace ha tenuto a Praga una manifestazione di protesta. A bordo di imbarcazioni sulla Moldava, gli ambientalisti hanno richiamato l’attenzione sul riscaldamento globale e su quello che hanno definito il tentativo dell’amministrazione americana di giustificare le sue decisioni con la minaccia di attacchi missilistici iraniani. "Warm climat and Cold war?" ("Riscaldamento del clima e guerra fredda?"), era la scritta che campeggiava su uno striscione.
Ieri sera centinaia di persone avevano dimostrato davanti al Castello di Praga contro la politica di Bush e lo scudo spaziale. Tutte le proteste si sono svolte senza incidenti, mentre alcune persone sono state controllate e interrogate.
Il presidente Usa si trasferirà in serata in Germania per il G8. A margine al summit Bush avrà un incontro faccia a faccia con Putin (in programma ancora prima che esplodesse la polemica sullo scudo spaziale). Altri incontri bilaterali sono previsti con il cancelliere tedesco Angela Merkel, il premier britannico Tony Blair e il nuovo presidente francese Nicolas Sarkozy.
Dopo la Germania Bush visiterà la Polonia e sabato sarà a Roma, ultima tappa del viaggio in Europa.
* la Repubblica, 5 giugno 2007
In onore di Francesco e Chiara d’Assisi, dei Francescani (Dante Alighieri, compreso!) ... e di Leonard Boff
IGNOTI A SE’ STESSI ...ED ESPORTATORI DI ’CRISTIANESIMO’ E DI ’DEMOCRAZIA’!!!
di Federico La Sala *
La ’lezione’ (di Nietzsche e) di un aborigeno canadese ai ’registi’ della politica ’cattolica’ (e ’laica’).
Credo che ormai siamo proprio e davvero al capolinea - nella totale ignoranza di se stessi i componenti della Gerarchia della Chiesa ’cattolica’ si agitano ... alla ’grande’!!! Non hanno proprio più nulla da dire, evidentemente! Sono scesi in campo ... ma contro Chi?!, contro che cosa?! Contro lo spirito francescano!!!
In segno di solidarietà, qui ed ora - 2005 dopo Cristo, con i francescani in carne ed ossa, oggetto di un richiamo, con un Motu proprio, da parte dell’ex- prefetto ’kantiano’ Ratzinger, il papa Benedetto sedicesimo, forse non è inutile un breve commento a margine... per cercare di stare svegli e di svegliarci, possibilmente - tutti e tutte!
Dennis McPherson, un aborigeno (che ormai "ci" conosce bene, evidentemente!) canadese, ecco cosa (sapientemente e sorprendentemente - per noi, occidentali!!!), alla domanda - “qual è l’essenza dell’essere umano? E’ una creatura speciale con una missione speciale?” - di un’antropologa-intervistatrice, ha risposto:
“ Ha mai sentito parlare di Emanuele Kant? Certo che sì! Sa qual è l’asserzione più importante di Kant? E’ che non può: Kant = can’t (gioco linguistico tra il nome del filosofo e il verbo inglese, che hanno lo stesso suono). Questo sta cercando di fare lei. Sa perché? Perché sta cercando di capire la cultura aborigena! Siete lontano migliaia di anni, siete nell’età dell’oscurantismo”(Rita Melillo, Tutuch (Uccello tuono). A colloquio con gli aborigeni del Canada, Presentazione di D. A. Conci, Mephite s.r.l., Atripalda (AV) 2004, p. 211 e p. 217).
Se teniamo presente le famose parole “De nobis ipsis silemus [...]”(di Francesco Bacone), messe da Kant sopra (come una pietra tombale) e prima di iniziare il suo discorso della e nella Critica della ragion pura, si può dire che il ’nostro’ aborigeno ha capito e visto più che bene - e meglio di tutti i filosofi e teologi dell’Occide[re]nte!!! E ’ce’ lo ha detto in faccia - ’papale’, ’papale’: basta!!!
Noi che non conosciamo ancora noi stessi (Nietzsche) .... e che navighiamo nel più grande “oscurantismo” - quello (più importante!!!) relativo a noi stessi, vogliamo pure dare lezioni ed esportare ’cristianesimo’ e ’democrazia’ in tutto il mondo!? “Mi”!?, e “Mah”!!!?
Federico La Sala
* www.ildialogo.org/filosofia, Martedì, 22 novembre 2005
EDUCAZIONE ALLA DEMOCRAZIA
di Gustavo Zagrebelsky *
Tutti i regimi politici hanno sempre curato l’educazione politica dei propri soggetti o gruppi dirigenti. Si pensi, per la trattatistica monarchica, alla Ciropedia di Senofonte; per quella repubblicana classica, al De officiis ciceroniano; per il despota rinascimentale, al Principe di Machiavelli; per il signor cortese, al Cortegiano di Baldesar Castiglione; per la monarchia controriformista del Seicento, alla Politica estratta dalle proprie parole della Sacra Scrittura di Bossuet. Montesquieu dedica un libro intero dello Spirito delle leggi, il quarto, all’educazione secondo le diverse forme di governo, compresa la democrazia.
Le élite politiche, poi, da sempre hanno le loro scuole e i loro maestri separati, a iniziare dai sofisti greci: scuole speciali, anche oggi in grande voga ed espansione per la formazione di oligarchie, spesso familiari, della cultura, della tecnica, del danaro. La democrazia è il regime dove il governo è aperto a tutti e anche la democrazia ha avuto la sua pedagogia.
Ricordiamo i Catechismi costituzionali e i popolari Manuali dei diritti e dei doveri dei cittadini dell’epoca giacobina. Dopo quei tentativi, che oggi appaiono di un razionalismo semplicistico disarmante, un’autentica pedagogia democratica, tuttavia, è mancata. Le scuole di educazione popolare promosse nell’Ottocento dal movimento socialista e cattolico, a parte la loro limitata diffusione, erano strumenti di emancipazione delle classi subalterne; dunque altra cosa, anche se concorrevano ad allargare le basi della vita politica. Né l’educazione civica, a parte la sua emarginazione de facto dall’insegnamento della nostra scuola, ha mai preteso di essere molto di più che un’informazione sulle istituzioni e, dove ha tentato di andare oltre, in appoggio della democrazia, è stata più un’apologetica e una propaganda che non una pedagogia.
Hanno dilagato invece politologi e costituzionalisti, ma non bastano. Il loro compito è studiare e spiegare regole fredde ma ciò che qui importa, e manca, è il fattore spirituale che loro normalmente sfugge. Nel momento della massima diffusione della democrazia, si potrebbe dire della sua vittoria su ogni altro tipo di sistema di governo, sembra dunque essere venuta meno l’esigenza di insegnarne lo spirito. Che spiegazione dare?
È pur vero che, negli anni successivi alla Seconda guerra mondiale, la scienza politica americana si è occupata di qualcosa come l’educazione alla cittadinanza, ma non pare aver lasciato traccia, almeno da noi. Doveva essere strumento di affermazione e consolidamento della democrazia nei Paesi che si erano messi nelle mani di dittature totalitarie col consenso della maggioranza della popolazione, abituata a tenere atteggiamenti di passiva e acritica sottomissione (in Germania) o di scettica sfiducia (in Italia), nei confronti dello Stato.
In generale, nella migliore delle ipotesi, è prevalso un topos dell’ideologia democratica: che sia necessario e sufficiente diffondere i diritti di partecipazione democratica, i diritti politici e, innanzitutto, il diritto di voto, affinché lo spirito democratico si radichi, si alimenti e si diffonda da sé. In altre parole la virtù democratica, che nella sua essenza consiste in amore per la cosa pubblica e disponibilità a dedicarvi le proprie energie e a mettere in comune una parte delle proprie risorse, si svilupperebbe da sola, causa ed effetto della democrazia stessa: tanto più la democrazia cresce, tanto più lo spirito democratico si sviluppa e questo sviluppo fa ulteriormente crescere la democrazia.
Questa sua meravigliosa caratteristica circolare farebbe della democrazia una forma di governo diversa da tutte le altre, perché, essa sola, sarebbe perfettamente autosufficiente, rispetto a ciò che Montesquieu denominava il suo principio o ressort, la sua molla spirituale. Questa fede era alimentata dall’idea che esseri umani per lungo tempo esclusi dalla partecipazione alla vita politica, costretti a una visione dell’esistenza esclusivamente ripiegata su se stessa e limitata ai concreti e impellenti bisogni personali o familiari della vita quotidiana, come erano coloro che formavano le masse operaie e contadine, avrebbero tratto motivo di innalzamento civile dal coinvolgimento in procedure (come quella elettorale: da cui la richiesta del suffragio universale) e, oggi diremmo, in contesti comunicativi, idonei a promuovere il senso di responsabilità verso gli altri e capaci di far loro altamente apprezzare l’importanza della dimensione politica dell’esistenza. In breve: la credenza era che la democrazia avrebbe per propria intrinseca virtù trasformato i sudditi in cittadini e così si sarebbe essa stessa immunizzata dai pericoli di involuzioni antidemocratiche. L’espressione corrente: “la democrazia in pericolo si difende con più democrazia” è una delle convinzioni che derivano da quella premessa e da quella fede.
Tuttavia, la diffusione crescente dell’indifferenza
politica nelle nostre democrazie mature
ha indotto a una nuova riflessione. Si è
parlato di “democrazia per assuefazione” e
l’assuefazione può portare alla noia e perfino
alla nausea e al rigetto, tanto più in quanto
compaia qualcuno - e qualcuno compare
sempre a riempire un vuoto di iniziativa politica
che promette di più, più facilmente e
rapidamente di quanto non possa ottenersi
tramite le complesse e faticose regole della
democrazia. Un’opinione pubblica consapevole
svolge una funzione essenziale in democrazia. A differenza
di tutte le altre forme di governo, le quali non solo possono
ma devono farne a meno, in democrazia, essa è una conditio
sine qua non.
La domanda è se si possa insegnare non la democrazia ma l’adesione alla democrazia: se si possa insegnare non che cosa è la democrazia ma ad essere democratici, cioè ad assumere nella propria condotta la democrazia come ideale, come virtù da onorare e tradurre in pratica. In breve, si tratta di sapere se gli ideali, le virtù, e in particolare la virtù politica, si possano insegnare oppure no.
Inoltre, qualsiasi altro sistema di governo, ma non la democrazia, può far uso di propaganda. In ogni propaganda è implicita una pressione, una violenza alla libertà delle altrui convinzioni. La democrazia è dialogo paritario e il dialogo paritario si fa deponendo ogni strumento di pressione: innanzitutto di pressione materiale, quella che viene dalla violenza, dalle armi e dalla corruzione del denaro, ma anche di pressione morale, come quella che può essere esercitata nel rapporto asimmetrico di autorità-soggezione che si trova talora, quando degenera in autoritarismo, tra padre e figli, maestro e allievo; un rapporto che manca di rispetto e contraddice la libertà senza la quale non c’è democrazia.
Ogni società ha un modo di governarsi e ogni modo di governarsi ha un suo ethos che deve informare lo spirito degli individui che governano, senza il quale è destinato a corrompersi e a scomparire. Il problema dell’insegnamento della democrazia è qui, nell’identificazione e nella specificazione dell’ethos che le corrisponde e che deve essere diffuso tra tutti, conformemente all’ideale democratico di una comunità di individui politicamente attivi.
Pensando e ripensando, per promuovere l’adesione alla democrazia, non se ne trova altro fondamento che questo: il rispetto di sé. La democrazia è l’unica forma di reggimento politico che rispetta la mia dignità, mi riconosce capace di discutere e decidere sulla vita pubblica. Tutti gli altri regimi non mi prestano questo riconoscimento, mi considerano indegno di autonomia fuori dalla cerchia delle mie relazioni puramente private e familiari. La democrazia è, tra tutti, l’unico regime che si basa sulla mia dignità in questa sfera più ampia. Ma non basta il rispetto di sé, occorre anche il rispetto, negli altri, della dignità che riconosciamo in noi. Il motto della democrazia dovrebbe essere: “Rispetta il prossimo tuo come te stesso”. Infatti, il rispetto solo di se stessi e il disprezzo degli altri porterebbero non alla democrazia ma alla lotta per l’affermazione della propria autocrazia, onde evitare la necessità e la limitazione del coordinamento reciproco.
* Fonte: L’arte di fotografare il dolore degli altri di Gustavo Zagrebelsky (La domenica di Repubblica, 06.05.2007, pp.38-39)
L’editore Utet pubblica un’imponente opera dedicata al tema dei diritti umani L’impresa, affidata alla direzione di Marcello Flores, si articola in cinque moduli: un Dizionario in due volumi, di 1.500 pagine complessive (dal quale è tratta la voce Educazione alla democrazia di Gustavo Zagrebelsky che pubblichiamo in queste pagine); un Atlante, pure in due volumi; un libro di documenti e letture; un modulo multimediale costituito da due dvd e un cd-rom; infine un’antologia completa della fotografia impegnata intitolata I Custodi dei Fratelli e realizzata da Contrasto, a cura di Alessandra Mauro (320 pagine, 45 euro, in libreria dal 24 maggio), dalla quale sono tratte tutte le foto pubblicate in queste pagine. L’opera si può acquistare nelle Agenzie Utet . Sabato 12 maggio a partire dalle 17,30 alla Fiera del libro di Torino si terrà una tavola rotonda sui diritti umani. Per informazioni: www.dirittiumani.utet.it
INTERVISTA
Il massmediologo francese mette in guardia: «Necessario è il verbo, mettiamo un freno al dilagare dell’immagine, altrimenti il domani sarà segnato da paure, da nuovi totalitarismi. E anche l’arte e l’estetica moriranno» Virilio: ritornare alla parola
di Antonio Giorgi (Avvenire, 23.05.2007)
«Torniamo al verbo, alla parola. Mettiamo un freno al dilagare e al predominio asfissiante dell’immagine, altrimenti il domani sarà segnato da paure incontrollabili, dal rischio di nuovi totalitarismi, dalla prospettiva di sanguinose guerre civili». Conversare con Paul Virilio è sempre uno stimolante esercizio di approfondimento e verifica della realtà che circonda l’uomo metropolitano di oggi. Filosofo, politologo, urbanista e mass-mediologo lo studioso francese è oggi uno dei più raffinati interpreti della cultura transalpina moderna; nel suo buen retiro della Rochelle, ai bordi dell’Atlantico, dove si è appartato al termine di una intesa carriera parigina, si è dato l’impegno di vivere da cittadino del mondo indifferente alle lusinghe anche sotterranee del nazionalismo, consapevole che la globalizzazione «va vissuta con i suoi rischi ma anche con le sue speranze». Scrive molto, Virilio. Il suo ultimo saggio L’Art à perte de vue (pubblicato in Italia da Raffaello Cortina con il titolo L’arte dell’accecamento, pagine 104, euro 8,50) è una articolata denuncia dei mali indotti dalla ricorrente sovraesposizione mass-mediatica, dove il sensibile è diventato il fotosensibile, l’obiettività una teleobiettività. «È accaduto - lamenta l’autore del pamphlet - ciò che era inevitabile, abbiamo disappreso l’arte di vedere».
Affermazione paradossale, la sua. Non è questa la stagione dell’immagine? Non viviamo sommersi dalla realtà fotografica e da quella catodica?
«Appunto. Anneghiamo nelle immagini della tv, ma la parallela restrizione del campo ottico al solo teleschermo induce una perdita della lateralità. È come se avessimo il glaucoma, ci manca la percezione della sconfinata realtà che sta a lato del televisore, o anche del telescopio, o del telefonino, o del computer. Lo schermo rimpiazza l’orizzonte, e per contro il nostro orizzonte è limitato allo schermo. Ci illudiamo di vedere tutto, invece l’occhio non scorge quasi nulla».
Con quali conseguenze, dirette e indirette?
«Si parla sempre di obiettività, nel campo dell’informazione la si invoca a proposito e a sproposito, ma ormai stiamo transitando dall’obiettività alla teleobiettività, nel senso che la visione lontana nasconde quella vicina con imponenti ricadute sulla intersoggettività. La prospettiva del tempo reale presentata dallo schermo tv domina e vela la prospettiva dello spazio reale della vita, che ha fondato l’arte contemporanea. Intendiamoci, questa dominanza non coinvolge solo la rappresentazione artistica, non è unicamente un fatto estetico. Ne viene coinvolta la natura. Ne è toccata perfino la politica. Non ci rendiamo conto che la politica di questi anni è sempre più interconnessa al fattore paura?»
Nel senso che il potere nelle sue articolazioni sfrutta paure private e collettive per liberarsi dai lacci del controllo democratico e agire con mano libera?
«Anche. Infatti siamo passati dall’epoca della dissuasione militare - che si reggeva sull’equilibrio del terrore degli ultimi decenni del secolo scorso - alla stagione della dissuasione civile che trae alimento da infinite paure, non solo quella terroristica dopo l’11 settembre. Pensiamo alla paura di perdere il lavoro in epoca di globalizzazione, alla paura dell’emigrazione (io sono figlio di emigrati italiani, tengo a dirlo) e a tutti gli altri timori e incubi che agitano i nostri sonni. La paura è diventata il cuore del politico, cioè di tutto quanto è politico. Non è più un fatto individuale, perché allora puoi reagire con il coraggio. La paura si è fatta collettiva, e puoi solo subirla come la subivo io quando ero ragazzo durante la guerra. Ha svariati nomi: globalizzazione, delocalizzazione produttiva, disoccupazione, perdita della casa, inflazione, arrivo massiccio degli stranieri... Tutte le paure però convergono, sicché agli incubi della guerra fredda sono subentrate le angosce di una condizione generalizzata che definisco di panico freddo».
In questo orizzonte fosco riesce a cogliere elementi capaci di alimentare la speranza di un futuro migliore? Oppure l’avvenire dell’umanità è segnato?
«Alla disperazione non bisogna mai cedere. Trovo molto bella quell’affermazione di Churchill che dipingeva l’ottimista come un uomo che sa vedere una opportunità in ogni calamità. Io sono cristiano praticante, fervente, convertito da adulto; si figuri se posso vivere senza speranza. La stessa globalizzazione ne racchiude vari alcuni germi, non neghiamolo».
Quale vuol essere allora il messaggio autentico che proporre il suo saggio sull’accecamento massmediatico della società contemporanea?
«Mentre l’arte di vedere è diventata una vittima della modernità non posso non sottolineare che vedere e sapere erano i principi attorno ai quali si articolava la ricerca scientifica e la speculazione culturale dopo il secolo dei lumi. Vedere e potere assumono identica valenza nel XXI secolo, ora che siamo passati dal telescopio di Galileo e di Newton alla tele-percezione politica. Non dimentichiamo che se le società totalitarie hanno tentato di imporre politiche pan-ottiche, di per sé massificanti, anche la società globale che si annuncia possiede i mezzi audio e televisivi che possono indurla a ripetere errori costati cari all’umanità. Dunque il problema non è la gestione più o meno centralizzata della visione planetaria in chiave di Weltanschaung, ma l’affermazione di una nuova filosofia della tele-visione del mondo capace - grazie alla corretta interpretazione della realtà vicina e lontana - di far sopravvivere la democrazia e ricostruire un clima generale di pace civile. Dietro la più parte delle paure c’è la minaccia della guerra. Civile, non tradizionale. Civile, e pertanto più tragica».
La scuola, l’università, la cultura che apporto possono offrire al superamento della cecità provocata dal dilagare dell’immagine?
«Questi tre soggetti devono battersi per il ritorno al verbo, alla parola. La politica, "il politico" è fondato sulla parola, sul verbo, sulla scrittura. È sempre stato così, dalla polis greca al mondo contemporaneo. Quando, come rischia di accadere oggi, l’immagine istantanea trionfa sul verbo, è la tirannide. Tirannide del tempo reale, tirannide mediatica, dell’ubiquità, dell’immediatezza cronologica. La democrazia soffoca e si impone la babele, confusione di lingue e di immagini. Mentre l’immagine domina e la fa da padrona assoluta, la parola cade in una condizione di sudditanza e nascono i guai. Tocca a noi far vincere il verbo».
A colloquio con il filosofo Roberto Esposito di cui esce ora "Terza persona"
L’importanza di essere nessuno
Al neutro si sono dedicati studiosi come Weil e Kojève
La categoria di persona nella cultura occidentale
"Tutti coloro che si sono richiamati all’impersonale lo hanno fatto in nome della vita"
"Essere impersonali significa mostrarsi al di sopra di interessi privati"
di ANTONIO GNOLI *
Siamo tutti persone. Perbene e "permale". Distinte e opache. Intelligenti e ottuse. Siamo persone e perciò indossiamo una maschera. L’etimo di persona è appunto maschera. La persona vanta diritti, esprime identità. Siamo persone, oltre che corpi, individui, o soggetti. Se vogliamo distinguerci da una cosa o da un animale, diciamo persona. Usiamo una categoria che da lungo tempo è entrata nel lessico della politica, in quello della teologia, e soprattutto del diritto. Sia la sfera laica che quella religiosa (si pensi al cristianesimo) hanno fornito all’idea di persona un rilievo e un’importanza notevoli. Il problema per i laici e i cattolici - limitando la questione all’Italia - non è la persona, ma quando un’entità la diviene. Sembra insomma una nozione acquisita, tanto più certa in quanto alla persona sono riconducibili la ragionevolezza, la libertà, il buon senso. Che cosa è uno schiavo se non un individuo deprivato della sua persona? E un folle, non è stato spesso lasciato fuori dalla sfera della persona?
«Vede», mi dice Roberto Esposito, «se ci limitassimo all’aspetto edificante del concetto di persona, non capiremmo come mai, nonostante tutti gli sforzi argomentativi per difenderlo, non si sia venuti a capo della violazione dei diritti umani, delle guerre, delle illibertà e le insensatezze che avvolgono la vita umana». È anche su questa insoddisfazione che ha costruito un libretto denso e acuto dal titolo eloquente: Terza persona (Einaudi, pagg. 184, Euro 17).
Tra i filosofi che si dedicano alla riflessione sulla politica, Esposito si è scelto un osservatorio che a prima vista può apparire marginale, ma proprio per questo in grado di cogliere le novità che il discorso di idee può oggi offrire a chi non si accontenti della tradizionale nomenclatura concettuale. Si tratta di un percorso più che decennale che partiva dall’esigenza di un ripensamento radicale delle categorie politiche moderne in una fase in cui esse avevano perso ogni presa analitica sulla realtà. Parole come "democrazia", "rappresentanza", "destra e sinistra", "totalitarismo" - per indicare solo alcuni esempi del lessico politico - che avevano orientato il dibattito sulla politica hanno finito col mostrare inadeguatezza interpretativa e stanchezza concettuale. Di qui l’allargamento del discorso al concetto di impolitico e di communitas e infine l’approdo ai temi della biopolitica e della immunitas.
Si tratta di un percorso intellettuale non semplice e non del tutto evidente nelle conseguenze, ma che trova in questo nuovo lavoro sull’impersonale un significativo approdo. «L’uso che ho fatto della parola "impersonale" non è in opposizione a persona, non ne è la negazione frontale, come sarebbe in una filosofia dell’antipersona».
Impersonale di norma rimanda ad asettico, oggettivo, al controllo delle passioni o al di sopra dei singoli punti di vista. L’impersonale è imparziale. Un tifoso che si pronuncia sulla propria squadra, un genitore che dà un giudizio sul proprio figlio, o un politico che spiega l’operato del proprio partito, difficilmente saranno impersonali. Essere impersonali significa mostrare quell’imperturbabilità che spoglia il soggetto dell’interesse privato; significa innalzare l’individuo a una posizione in cui non è più parte in un conflitto di interessi. La figura che viene in mente è quella del giudice e con essa la possibilità di tradurre il diritto in giustizia, ossia in qualcosa che implica il concetto di "terza persona".
«Terza persona allude all’impersonale, come nell’espressione "piove". Il grande linguista Emile Benveniste ha spiegato che la terza persona, in quanto "non persona", è irriducibile alle prime due, le quali sono logicamente e grammaticalmente legate tra loro nell’interlocuzione». Insomma c’è un "io" e c’è un "tu" e poi c’è un "egli". L’io ha bisogno del tu e viceversa. Mi devo pur rivolgermi a un tu se voglio dialogare. E l’egli fintantoché resterà un lui distante, non coinvolto da questa dialettica, conserverà la sua forza impersonale.
«La terza persona - precisa Esposito - è l’unica a poter essere singolare e insieme plurale. Non ha vincoli come può averli l’io che si rivolge sempre, implicitamente o esplicitamente, a un tu, così come il tu presuppone sempre un io che lo designi. Il due è per forza di cose inscritto nella logica dell’uno, così come l’uno tende sempre a sdoppiarsi in due per potersi specchiare e riconoscere nel proprio interlocutore umano o divino».
Quando si dice che tre è il numero perfetto è in riferimento al suo carattere di indipendenza, di non compromissione, di neutralità che la "perfezione" va riferita. Ma l’impersonale, cui allude Esposito, non è soltanto la soglia da cui intravediamo l’imperturbabile, è qualcosa che riconosciamo in alcuni tratti del Novecento, a cominciare da certe esperienze dell’arte contemporanea tesa a "sfigurare" l’autore, il soggetto, la figura in tutte le sue declinazioni, per finire con alcuni esiti della politica.
«Impersonale non significa l’annientamento della persona. Quest’ultimo fu l’esito di quella linea biopolitica cui pervenne il nazismo che in nome della razza schiacciò l’essere umano sul suo nudo supporto corporeo. E poteva farlo perché, nella sua aberrazione, il nazismo presupponeva un’idea di persona da negare. Lo stesso meccanismo - anche se di segno opposto - lo hanno innescato quelle filosofie che salvano la persona e negano il corpo. Non si sfugge a questa alternativa: o si sottomette la razionalità all’animalità, come fecero i nazisti, oppure la "parte animale" a quella razionale o spirituale, come fanno i personalisti. In che modo uscirne? Il mio ricorso all’impersonale è in funzione della rottura di questa macchina dualistica che ha caratterizzato l’intera cultura occidentale, interrompendo così la distinzione presupposta tra persona, animale e cosa».
Quando Esposito indica l’intero Occidente non lo fa in nome di una esagerazione retorica, ma ricostruendo il lungo cammino che nella cultura giuridico-politica ha coperto la categoria di persona: «Essa, fin dalla sua origine romana e cristiana, e in forma sempre diversa, riarticola continuamente la separazione all’interno dell’uomo tra una dimensione propriamente umana, razionale, spirituale, ed una falda preumana assimilata all’animale o alla cosa su cui la prima deve esercitare un diritto sovrano di vita e di morte».
Si può dire che questo schema concettuale è anche il punto di contatto tra i laici e i cattolici? «Pur divergendo sulla identificazione del momento e della modalità dell’ingresso dell’essere vivente nella dimensione della persona, sia i laici che i cattolici assegnano a questa un primato assoluto sulla vita impersonale. Solo se può fornire le credenziali della persona, la vita umana acquista pieno diritto all’intoccabilità».
Dal ragionamento di Esposito affiora non tanto la condanna dell’idea di persona, ma la critica al suo fondamentalismo: «Pensi alla retorica sui diritti umani letti in chiave di riproposizione del concetto di persona». Apparentemente ineccepibile, in realtà largamente fallimentare: «Basta uno sguardo al quadro internazionale per accorgersi che il diritto oggi di gran lunga più disatteso è proprio quello alla vita. Non che in passato fosse meglio. Ma adesso, in relazione ai mezzi tecnici a disposizione dell’uomo, la sproporzione tra la parte di vita umana garantita ed anzi potenziata ben al di là dei suoi bisogni e la parte di vita umana condannata a morte per fame, malattia, guerra, è insostenibile, e ciò quando la bandiera della persona è issata all’unisono da tutta la cultura filosofica, giuridica, politica occidentale».
Assisteremmo dunque a un fallimento dei diritti umani la cui causa è nell’insistito richiamo al concetto di persona. Di qui, secondo Esposito, il passaggio a un fronte categoriale nuovo che metta al centro l’idea di impersonalità. Del resto è a questa sponda che, in modi differenti, sono approdati pensatori come Simone Weil, Alexandre Kojève, Michel Foucault, Maurice Blanchot e Gilles Deleuze. Ciascuno con una propria cifra ha lavorato sulla nozione di neutro. Per farne cosa? Per approdare a quale risultato? Per aprire quale prospettiva? «Sebbene gli esiti siano stati differenti resta il fatto che più o meno tutti coloro che si sono richiamati all’impersonale lo hanno fatto in nome e per conto della parola vita». Si torna al problema della biopolitica e al modo in cui essa declina l’esistenza umana. C’è una vita impersonale? Una vita che non sia soltanto il sottofondo biologico su cui si innesta tutto il resto? Foucault volse il suo sguardo a quanto di anonimo la vita stessa contiene. Vite infami, ovvero vite senza fama, è un suo testo che oggi andrebbe riletto: «Vite», spiega Esposito, «che non avendo mai giocato un ruolo soggettivo di primo piano, sfuggendo per così dire alle maglie della storia e perdendosi nell’anonimato dell’esistenza, non ci parlano mai in prima persona, non pronunciamo mai il pronome "io", né si rivolgono mai a un "tu". Non sono altro che dei fatti, o degli eventi, in terza persona». C’è da chiedersi se dopo tanto protagonismo si stia facendo strada una nuova concezione dell’anonimato.
* la Repubblica, 25.05. 2007, p. 51
DIBATTITO La postmodernità ha posto l’esigenza di riportare la fede nel discorso pubblico Come ha dimostrato l’ultima discussione tra Jürgen Habermas e Joseph Ratzinger. I due concordano sulla necessità di scommettere sulla religione perché nelle attuali società secolarizzate essa può far crescere coscienza normativa e solidarietà civile
Processo all’Illuminismo
Ma sul futuro pesa la «razionalità plurale» espressa da Rorty e Vattimo e simbolizzata dal labirinto (Eco e Borges) e dal rizoma
di Rosino Gibellini (Avvenire, 12.07.2007)
Alle origini della postmodernità vi è l’annuncio della «morte di Dio» di Nietzsche, che toglie il fondamento ultimo alla realtà; i «sentieri interrotti» di Heidegger nei confronti di una teoria generale dell’essere; e la svolta verso il pluralismo del linguaggio di Wittgenstein. La concettualità della postmodernità è stata introdotta in filosofia dal filosofo francese Jean-François Lyotard con La condizione postmoderna (1979), caratterizzata come fine dei grands récits, dei megaracconti del progresso e delle mete finali del divenire storico; e ha inoltre i suoi filosofi in Jacques Derrida con il «decostruzionismo» e con il pensiero della «differenza»; in Gianni Vattimo con il «pensiero debole»; in Richard Rorty con il «neopragmatismo». La postmodernità come ricerca di una razionalità plurale ha i suoi simboli nel rizoma (Deleuze e Guattari), nel labirinto (Borges e Eco), e nella rete senza centro.
Un esempio illuminante di questo percorso è il dibattito, avvenuto in Europa in anni recenti, sul futuro dell’illuminismo. Subito dopo il secondo conflitto mondiale Adorno e Horkheimer pubblicavano la Dialettica dell’illuminismo (1947), nella quale i due filosofi francofortesi mostravano come il processo storico dell’illuminismo si era mutato nel suo contrario, in una universale alienazione in quanto la ragione storica si è fatta ratio del dominio sull’uomo e sulla natura.
A quarant’anni (1947-1987) dalla pubblicazione di quell’opera, che poneva in termini nuovi il dibattito sull’illuminismo e sulla sua storia degli effetti, un gruppo di eminenti studiosi ha voluto ripercorrere la «dialettica dell’illuminismo» nell’opera Il futuro dell’illuminismo (1988). Per Habermas, si tratta di individuare il «nucleo razionale» dell’illuminismo, al di là delle ambiguità storiche: questo nucleo razionale è un lascito da conservare e da sviluppare per affrontare in nuovi problemi, «che, semmai, possono esser risolti solo alla luce del sole, solo con la cooperazione, solo con le ultime gocce di una solidarietà pressoché dissanguata». Nell’ambito di questa revisione critica hanno portato il loro contributo anche i teologi Metz e Moltmann, i principali rappresentanti della teologia politica europea. Per Moltmann, la cultura dell’illuminismo «non è minacciata dall’esterno, ad esempio, dalla "sindrome conservatrice", o dalle "controrivoluzioni religiose", o dalle profezie della "fine dell’epoca moderna", o dal "postmoderno", o dalla New Age, bensì dalle contraddizioni dello stesso illuminismo».
Le «tre grandi contraddizioni» sono: a) il contrasto strutturale tra il progresso del Primo Mondo e la miseria e povertà del Terzo Mondo: «O riesce alla cultura dell’illuminismo di portare i popoli del Terzo Mondo alla libertà politica, alla giustizia sociale e all’autonomia culturale, oppure essa distrugge i due terzi dell’umanità. Per questo essa deve per così dire saltare se stessa, ossia la sua forma europea»; b) il sistema del terrore nucleare, per cui l’epoca moderna, minaccia di capovolgersi in in epoca della fine; c) la crisi ecologica, in cui è andata a sbattere la civiltà tecnico-scientifica dell’illuminismo, che rischia di portare al collasso della natura. Scrive Moltmann: «La cultura dell’illuminismo potrà conservare i suoi ideali e adempiere alle sue promesse in alleanza con il cristianesimo».
Si va dunque delineando un nuovo rapporto tra ragione e fede e può essere emblematica la discussione intervenuta tra il teologo Joseph Ratzinger e il filosofo Jürgen Habermas nel gennaio 2004, che ha avuto vasta eco internazionale, soprattutto dopo l’elezione del cardinal Ratzinger a Papa con il nome di Benedetto XVI. Nel suo discorso di Monaco di Baviera, e nella sua analisi, Habermas ripropone la questione già posta dal filosofo Böckenförde, che in un saggio del 1967 constatava che lo Stato liberale e secolarizzato si nutre di premesse normative che esso, da solo, non può garantire.
Habermas riprende questo tema, che ora, in filosofia della politica, va sotto il nome di «teorema Böckenförde». È una previsione che aveva, in altra forma, già espresso Romano Guardini in La fine dell’epoca moderna (1950): «Il non-credente deve uscire dalle nebbie della laicizzazione. Deve rinunciare all’"usufrutto" che, pur negando la Rivelazione, si appropria dei valori e delle forze che essa ha elaborato». Secondo Habermas, una società democratica per mantenersi ha bisogno della solidarietà del cittadino, ma tale solidarietà potrebbe esaurirsi «a causa di una secolarizzazione destabilizzante della società». Sorge allora la questione, evocata da Böckenförde: dove può attingere la società democratica secolare, che fonda autonomamente se stessa da se stessa, ispirazione e forza per mantenere questo indispensabile tessuto connettivo?
C’è un fatto visibile, che si impone all’attenzione: la religione persiste; e per Habermas, essa deve essere assunta come una «sfida cognitiva». Non si tratta solo, da parte della filosofia politica, di prendere atto del fatto di questa persistenza, ma di assumerlo positivamente come «sfida cognitiva», in quanto la religione e le religioni hanno la capacità di «alimentare la coscienza normativa e la solidarietà dei cittadini». Ma è necessaria un’operazione di traduzione dei «contenuti di significato» della religione in termini universalmente comprensibili e recepibili nel discorso pubblico, per incorporarli nel discorso pubblico al servizio della società.
La società democratica è secolare, e rimane tale, ma può attingere linfa dalla religione; non subordina a sè la religione, non la passa in eredità (come nel caso di Bloch), la rispetta nella sua alterità di sapere rilevato, ma attinge da essa ciò che è traducibile in linguaggio pubblico, uninversalmente comprensibile. Un esempio di questa traducibilità è l’affermazione biblica secondo la quale l’uomo è stato creato a immagine di Dio, che Kant ha tradotto nel linguaggio filosof ico a tutti comprensibile, della dignità dell’essere umano, da considerare sempre come fine e mai come mezzo.
Habermas, come si era espresso nel grande discorso di Francoforte 2001, dal titolo di risonanze hegeliane, Fede e sapere, all’indomani dell’abbattimento delle Twin Towers, è preoccupato per una «secolarizzazione distruttiva»; per una «secolarizzazione che deraglia»; per «l’entropia delle scarse risorse» concettuali e spirituali; e, insieme, per le previsioni di «scontro di civiltà» come esito del confronto nel pluralismo di culture e religioni. E avanza questa proposta nell’intento di mediare tra la tesi del fondamentalismo e dell’integralismo, che nega la società secolare; e la tesi del secolarismo (Blumenberg, Löwith), che, nella tolleranza, relega la religione nella sfera del privato.
La proposta di Habermas riconosce alla religione una funzione pubblica: «La frontiera di quello che la religione può portare nella vita sociale del nostro tempo è una frontiera da esplorare nel dialogo a due».
Il cardinale Ratzinger, nel suo discorso di Monaco di Baviera (2004), manifesta un «forte accordo con quanto ha esposto Habermas su una società «post-secolare», sulla disponibilità ad apprendere e sull’autolimitazione da entrambi i lati, e avanza la proposta di «una necessaria correlatività tra ragione e fede, ragione e religione, che sono chiamate alla reciproca purificazione e al mutuo risanamento, e che hanno bisogno l’una dell’altra e devono riconoscersi l’una l’altra».
La proposta di Ratzinger, certo, va oltre la proposta di Habermas della «sfida cognitiva». Ma entrambe le proposte convergono nella valorizzazione della religione per la sfera pubblica nel nuovo contesto della società post-secolare.
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Teologia
La riflessione su Dio nel XX secolo
Pubblichiamo in questa pagina ampi stralci della nuova Appendice, «Il passo del Duemila in teologia», in margine al volume di Rosino Gibellini «La teologia del XX secolo» (Queriniana, pagine 752, euro 39,00). Quest’opera propone una ricostruzione globale della storia del pensiero cristiano del Novecento nei suoi momenti più significativi, nelle sue tematiche più impegnative, nei testi essenziali che ne scandiscono il percorso. Rosino Gibellini (nella foto), teologo e filosofo, è fondatore e direttore della Biblioteca di teologia contemporanea dell’Editrice Queriniana.
IDEE
Il filosofo Spaemann mette in guardia da chi accusa le religioni di fomentare l’odio e il terrore: all’origine dei tre monoteismi vi è una divinità che si rivolge all’uomo attraverso il «logos». La ragione, dunque, appartiene al credente in quanto relazione con l’altro. Chi rifiuta questa dimensione dialogica apre la strada alla conflittualità
Ma Dio non è violenza
«Troppo spesso ancora nel mondo musulmano vince la via sanguinaria. Anche l’islam deve intraprendere la strada del dialogo comune»
di Robert Spaemann (Avvenire, 18.07.2007)
Non è un caso che il discorso di Regensburg abbia aperto un controverso dialogo con l’Islam. Senza il colpo di avvertimento costituito dalla citazione di un imperatore bizantino, più di trenta famosi professori islamici forse non avrebbero mai pensato di accettare l’invito al dialogo, di prenderlo sul serio, di rispondere gentilmente e di cominciare subito ad avanzare delle critiche invece dei soliti scambi di cortesie. Che altri musulmani abbiano reagito con un atto di violenza sanguinaria conferma che la questione del rapporto fra fede e violenza resta per l’Islam un problema aperto. Il Papa ha facilitato l’apertura di un dialogo serio ammettendo senza infingimenti apologetici che anche la cristianità ha avuto questo problema per tanto tempo e che spera che l’Islam compia lo stesso processo di apprendimento che ha compiuto la Chiesa. Oggetto di tale dialogo sarà verificare se il Corano favorisca un tale processo allo stesso modo del Nuovo Testamento. Metterlo inizialmente in dubbio fa parte di un onesto inizio di dialogo.
Ci si potrebbe chiedere perché bisogna discuterne e forse scontrarsi. Se i musulmani avessero un altro Dio rispetto ai cristiani un tale scontro sarebbe privo di senso. I cristiani potrebbero solo ribadire che non credono all’esistenza di quel Dio. In effetti tanti cristiani ritengono che Allah sia un altro Dio rispetto a quello dei cristiani. Se fosse così non avrebbe alcun senso scontrarsi rispettosamente su come si debba pensare e parlare correttamente di Dio. Ma in conformità col suo grande predecessore medievale Gregorio VII e col Concilio Vaticano II, Benedetto XVI parte dal presupposto che gli ebrei, i cristiani e i musulmani pregano lo stesso Dio uno e unico.
La lezione magistrale di Regensburg parla soprattutto della differenza che nel mondo di oggi salta agli occhi. Essa riguarda il tema «Dio e violenza». Ricollegandosi alle riflessioni di un imperatore bizantino, il Papa collega questo all’altro tema: «Dio e ragio ne». La ragione è quello step beyond ourselves la cui possibilità la modernità nega. Ho cercato, riferendomi a Nietzsche, di mostrare che questa possibilità dipende dall’esistenza di Dio e proprio di un Dio che nella sua essenza è luce. La ragione dunque non è uno strumento di sopravvivenza dell’homo sapiens, ma partecipazione alla luce divina e un vedere il mondo in questa «luce che illumina ogni uomo che viene in questo mondo» (Gv 1,9). Questa luce, come dice Platone, fa vedere il bene come il koinon, «ciò che è comune a tutti» (cfr. Platone, Fedone). Non a caso Eraclito parla a questo riguardo del logos, e logos significa anche «parola».
Soltanto attraverso la parola, soltanto attraverso la lingua, attraverso il parlare con gli altri, noi ragioniamo. La violenza però è l’esatto contrario del parlare con gli altri. Lo scopo del discorso è l’intesa tramite la comune sottomissione al criterio del vero, lo scopo della violenza è la sottomissione dell’altro alla volontà di colui che si dimostra fisicamente più forte. Michel Foucault, che nega l’intelligibilità del mondo, deve di conseguenza minimizzare la differenza tra dialogo e violenza. Siccome non esiste un qualcosa che sia verità, anche nel dialogo può trattarsi solo di misurare le forze nella lotta per il potere. Così già pensavano d’altronde i sofisti con i quali si scontrò Socrate. Soltanto quando si dà verità come koinon si dà un’alternativa alla violenza. Il criterio della forza fisica non ha nulla a che fare con quello della verità. E la vittoria nello scontro violento solo per caso può anche essere la vittoria del migliore. C’è la forza legittima dello Stato, la cui ragione risiede nell’impedire la violenza tra gli individui, c’è la forza legittima del potere statale per la difesa contro la violenza di un’ingiusta aggressione. Ma lo scatenarsi della violenza, la trasformazione del dialogo in violenza è semp re il fallimento della ragione, e la probabilità che una situazione violenta possa essere migliorata con la violenza è scarsa.
Ma è soprattutto la violenza nel nome di Dio che è condannata inequivocabilmente da Benedetto XVI. Dio come Signore della storia agisce attraverso tutto ciò che succede e anche la violenza dei violenti alla fine dovrà servire al Suo scopo. Ma lo serve solo come tutto ciò che è malvagio. La Sua volontà è fatta sempre e dappertutto. Non deve chiedere il permesso. Ma non dappertutto sulla terra succede come in cielo, e cioè attraverso il conformarsi della volontà degli angeli e degli uomini alla volontà di Dio. Mefistofele, nel Faust di Goethe, confessa di essere parte «di quella Forza che sempre vuole il male e sempre il bene crea». Noi preghiamo affinché la volontà di Dio non sia fatta sulla terra così, ma «come in cielo», e questo significa anche: non tramite la violenza. Anche il popolo di Israele, a questo riguardo, ha compiuto un processo di apprendimento che si conclude soltanto con Gesù. E nonostante questa conclusione, la cristianità nel Medioevo ha creduto ancora di dover punire con pene temporali fino alla condanna a morte almeno l’apostasia e l’eresia: un punto di vista che vige ancora oggi nei Paesi islamici.
Ma non si può costringere a rimanere nella luce con i mezzi delle tenebre. Laddove dei cristiani vengono perseguitati in quanto cristiani, essi, seguendo il loro Signore, rinunciano a restituire la violenza. Dove dei cristiani, d’altronde, difendono legittimamente la civitas terrena in qualità di cittadini di essa, sanno che il processo della violenza, nei suoi esiti, è indifferente alla giustizia e all’ingiustizia. Non si presenteranno dunque in nome di Dio e in nome del bene per punire i cattivi e terranno l’odio che avvelena l’anima fuori dallo scontro. Dove vige la violenza, la ragione tace e l’unica forma della sua perdurante presenza può essere soltanto quel rispetto dei nemici che anticipa già la riconciliazione.
Non sempre possiamo decidere se avere o no nemici. A volte può essere giusto smitizzare l’idea del nemico, a volte no. Dobbiamo verificare l’idea che abbiamo del nemico confrontandola con la realtà. Ma ciò che invece possiamo decidere è di chiedere la forza di amare i nemici. Tale forza trasforma lo status della violenza che si oppone a Dio ed è il suo modo supremo con cui la luce può illuminare le tenebre, la luce della ragione e dell’amore, il cui massimo testimone è nel nostro tempo Papa Benedetto XVI.
IL DIBATTITO
Dopo Ratisbona, quale dialogo tra le fedi?
Il richiamo alla ragione che Benedetto XVI ha fatto nel discorso di Ratisbona ha suscitato un dibattito molteplice e anche incomprensioni forzate, sebbene il discorso del Papa fosse incentrato sulla necessità di un dialogo che abbia come riferimento il criterio della verità. Su questo ora prendono la parola cinque intellettuali nel volume «Dio salvi la ragione», edito da Cantagalli, che, oltre al testo di Benedetto XVI, presenta gli interventi di Wael Farouq, André Glucksmann, Sari Nusseibeh, Robert Spaemann e Joseph H.H. Weiler. Dal volume, pubblichiamo alcuni stralci del saggio del filosofo Robert Spaemann (nella foto), incentrati sulla questione del presunto rapporto fra religione e violenza.
Crusoe alla deriva nella «natura» dell’asservimento
Riproposto un saggio di Alfonso Iacono che indaga le immagini dell’uomo isolato in Defoe, Turgot e Adam Smith. Nella solitudine dello stato di natura Robinson sopravvive grazie ai suoi utensili, eredità storica e lavoro cristallizzato della società europea. E grazie al fucile l’incontro tra il «borghese» e il «selvaggio» avviene sotto l’egida del dominio
di SANDRO CHIGNOLA (il manifesto, 7.04.2004)
Nel discorso sul sociale, o del sociale, è spesso implicito un residuo naturalista. Si tratti dell’apologetica sulle dinamiche di autoregolazione del mercato, delle retoriche della società civile o della supposta autoconsistenza del soggetto che la moderna teoria erige al centro dei processi di socializzazione politica, ciò che viene implicitamente assunto è che esista una sorta di «natura» della società e che quest’ultima sia prefigurata negli individui che in essa portano a esecuzione un’innata predisposizione sociale. Viene con ciò rimosso l’effetto di realtà con il quale categorie e concetti della scienza politica, discipline dell’economia, saperi del diritto, costruiscono il rapporto tra gli uomini, stabilizzano i loro comportamenti, rendono lineari e neutri aspettative e bisogni, esorcizzano in via preventiva la possibilità stessa del conflitto tra di loro. Quella che il teorico identifica come la «natura» del sociale, rappresenta piuttosto il prodotto di una specifica immaginazione dell’uomo e dei rapporti che esso appare in grado di intessere con i suoi simili. Deve essere pensata come il prodotto di una messa in prospettiva storicamente determinata della verità. Quanto vale per i saperi e gli apparati categoriali del sociale - e cioè che concetti e quadri disciplinari del diritto, dell’economia e della politica debbano essere pensati in termini storici per poterne cogliere determinatezza e produttività in relazione all’organizzazione e alla stabilizzazione dei processi che essi contribuiscono ad innescare e a tenere in tensione -, vale anche per l’antropologia, assunta quale fondamento delle scienze umane.
Il tema dell’«uomo isolato» (Robinson il naufrago, il selvaggio allo stato naturale, l’individuo immaginato nel «rozzo stadio» della società che precede l’ingresso nella storia e che fornisce a filosofi e moralisti del secolo XVIII il paradigma sul quale basarsi per immaginare evoluzione e forme del rapporto sociale) svolge esattamente la cifra di questa ambivalenza. Da un lato presupposto per l’analisi di una condizione che si vuole naturale ed universale. Dall’altro effetto di una costruzione che universalizza di fatto una specifica immaginazione di che cosa l’uomo sia e di quali siano le sue priorità.
Alle concezioni filosofiche e ideologiche che restano implicite nell’immagine dell’uomo isolato e che di quest’ultima rappresentano, piuttosto, il non detto, e a come il tema venga di volta in volta declinandosi in Defoe, Turgot ed Adam Smith, Alfonso M. Iacono ha dedicato qualche anno fa un libro, che viene ora nuovamente messo a disposizione dei lettori (Il borghese e il selvaggio. L’immagine dell’uomo isolato nei paradigmi di Defoe, Turgot e Adam Smith, ETS, € 13).
Ciò che «robinsonate» e descrizioni di stati primitivi hanno in comune, è l’idea che l’astrazione in grado di isolare l’individuo rappresenti il modo migliore per analizzare i tratti fondamentali dei dispositivi di socializzazione che la scienza economica o la filosofia politica indagano nella sfera della cooperazione e dello scambio o che definiscono come «società». Far naufragare Robinson significa decostruire le prospettiva che assume come naturali le condizioni di socialità, isolare l’individuo come portatore di interessi e di bisogni e opporre a quest’ultimo la società come semplice strumento per la soddisfazione dei suoi fini privati. Significa, come per motivi diversi riconosceranno Rousseau e Böhm Bawerk, semplificare sino al loro grado minimo il rapporto tra uomini e cose per rendere esplicite le dinamiche del meccanismo che si tratta di ricostruire a partire dagli «istinti» naturali e dalle predisposizioni che è possibile rinvenire nell’individuo.
Una più attenta lettura del racconto di Defoe non dovrebbe tuttavia autorizzare una così drastica semplificazione. Ciò che permette infatti a Robinson di sopravvivere sull’isola (e di imporre il proprio dominio a Venerdì) è il lavoro sociale cristallizzato negli utensili che egli recupera dopo il naufragio. Fucile, munizioni, tenda e quant’altro Robinson può adoperare per rendersi più facile la vita non sono il prodotto dell’abilità imprenditoriale di un isolato free rider, ma rappresentano piuttosto ciò che egli eredita da un transito sociale già avvenuto e che risulta integralmente incorporato nelle condizioni che presiedono alla rappresentazione complessiva del suo isolamento e della sua solitudine.
La differenza tra le «robinsonate» degli economisti e di Rousseau e il Robinson di Defoe sta tutta dentro questa anticipazione. Per i primi, l’individuo isolato è la precondizione di un’uguaglianza formale tra coloro che sono implicati nello scambio e nella divisione del lavoro. Per Defoe invece il soggetto viene inevitabilmente pensato sulla base di un implicito che riverbera nel rapporto di puro dominio con il terrorizzato Venerdì e che la potenza dello scambio si trova a conoscere nella forma asimmetrica (e coloniale) dell’esplosione del primo colpo di fucile.
E’ questo asservimento, la dinamica di un riconoscimento permeato di rapporti di cooperazione e di forza che precedono l’incontro tra Robinson e Venerdì e che strutturano l’antropologia proprietaria dello stesso individuo postulato come isolato, il non detto implicito nella rappresentazione settecentesca dello stato di natura. La «naturalizzazione» dei rapporti tra gli individui muove da una immaginazione che introietta nel dispositivo dello scambio il tema dell’alterità, identificandola senza resto al ruolo di strumento per il perseguimento degli scopi privati del singolo e che universalizza la forma di sfruttamento propria al modo di produzione capitalista.
Questa naturalizzazione e questa universalizzazione di un modello antropologico costruito sul primato della produzione e dello scambio di merci e che privilegia la dimensione strumentale del rapporto di pura utilità tra uomini e cose, determinano anche il quadro di una specifica visione della storia e della sua evoluzione. In Turgot e in Adam Smith il «rozzo stadio dell’umanità» definisce il presupposto per una rappresentazione in termini stadiali del progresso storico che tende a postulare retrospettivamente come necessario, e come assiologicamente connotato in termini comparativisticamente positivi, il sistema di rapporti e di valori propri alla borghesia europea in ascesa.
La definizione del cominciamento della storia in uno stato selvaggio che l’Europa ha da tempo abbandonato e che consente di aprire uno spazio comparativo con civiltà altre, il cui presente disegna, per riprendere un tema blochiano che torna non soltanto in Reinhart Koselleck, autore citato da Iacono, ma anche in un teorico del postcolonialismo come Dipesh Chakrabarty, la contemporaneità del non contemporaneo, rappresenta la retroproiezione di un’idea orientata di sviluppo che agisce sul modo in cui viene interpretata la naturale predisposizione dell’individuo a rapporti improntati allo scambio e all’accumulazione e che permette di «primitivizzare», aggiogandole con ciò alla dipendenza da un unico decorso storico, forme sociali e civiltà percepite come esotiche o come differenti. Questa differenza viene così pensata come effetto di una lacuna, di un ritardo, entro la linea ininterrotta di un progresso che viene definito a partire dal presente normativo della società occidentale, il cui successo viene identificato con il sistema di rapporti evolutosi attraverso la divisione del lavoro e l’appropriazione della natura. E il non contemporaneo, il primitivo, diventano quello che la comparazione restituisce come subalterno, dominato e dominabile.
La finzione retorica di un «rozzo stadio della società» permette di rendere visibile in Adam Smith e Turgot ciò che l’intelligenza borghese tende di per sé a tacere: il fatto che la condizione sociale, omologata alla divisione del lavoro, venga supposta come il semplice mezzo attraverso il quale il singolo perviene alla realizzazione degli scopi privati di un’azione che incontra gli altri solo come entità utilizzabili. Che il soggetto maschio, bianco ed europeo, immagini se stesso come l’unica espressione possibile dell’individualità in tutti i sistemi sociali.
Sono queste specificazioni, riflesso di una struttura del dominio che attraversa l’intero spettro della storia, il rimosso dello stato di natura. Il moderno soggetto di diritto viene pensato a partire da un lavoro di astrazione, che suppone di rendere trasparenti i meccanismi e le dinamiche che spingono naturalmente il processo di socializzazione. E che pensa il soggetto a partire da una formalizzazione in grado di mettere a tacere il semplice fatto che quella che viene universalizzata come la condizione naturale dell’uomo viene invece totalitaristicamente pensata muovendo da quadri categoriali e concettuali che si sono storicamente evoluti come puri rapporti di forza. Quegli stessi rapporti di sfruttamento e di dominio che striano l’apparente levigatezza dello spazio globale.