comunicato stampa - anticipazione
EDITORIALE
della RIVISTA ECCLESIA DEI
rivista di teologia e storia della Chiesa
edita dal CST - Centro Studi Teologici di Milano
PERCHE’ RATZINGER TENTA LA RIVALUTAZIONE DI PIO XII E NE RIPROPONE LA BEATIFICAZIONE IN CUI IL VATICANO HA MAI SMESSO DI CREDERE: PERCHE’ E’ IN ATTO UN PROGETTO IDEOLOGICO CHE TENDE A MINIMIZZARE L’ANTISEMITISMO DELLA CHIESA CATTOLICA CHE HA PREPARATO QUELLO NAZIFASCISTA E SI VUOL NEGARE - con la revisione storica - TUTTE LE COMPLICITA’ del VATICANO CON I REGIMI DITTATORIALI, E PERCHE’ BENEDETTO XVI SI IDENTIFICA IN LUI, IL PAPA PRECONCILIARE E IL MONARCA ASSOLUTO CHE FU PACELLI NEL SECOLO SCORSO.....
si dice che anticipò i temi del Concilio Vaticano II e che aprì agli studi esegetici sulla Bibbia..
in parte è vero... ma il suo Pontificato fu monarchia assoluta in contrasto totale verso i principi fondanti del Concilio (e contro ogni ecclesiologia autentica ortodossa e orientale) e durante il suo papato vi furono purghe e processi tremendi verso teologi ed esegeti come Pierre Teillard de Chardin e Padre Ive Congar e tanti altri.....
PIO XII non è stato un Papa Santo come tanti entusiasti estimatori continuano a sbandierare secondo una loro particolare versione dei fatti: forse perchè dicevano che avesse visto il Signore Gesù Cristo quando camminava nei giardini vaticani.
Che fosse un mistico era risaputo, che avesse visioni pure...
Ma ci vuol ben altro per eserre Santi!...
Durante il suo mandato come Nunzio Apostolico prima a Monaco di Baviera e poi a Berlino, fu un solerte fautore dell’accordo del centro cattolico popolare tedesco con il nascente nazismo, e fu lui a spianare la strada all’ascesa di Hitler come cancelliere....
Divenuto poi Segretario di Stato con Pio XI favorì i patti con tutte le dittature possibili e immaginabili: quelli del ’29 firmati dal suo predecessore cardinale Gasparri e Mussolini, poi quelli del ’33 con Hitler.
La Chiesa guidata prima da Pio XI Ratti e poi da lui stesso con il nome di Pio XII (nessuna fantasia nemmeno nel cambiare o scegliere un nome! tanto era meticoloso pedissequo burocrate di corte pontificia... pignolo esecutore di ordini e pignolo nel darne) è stata collusa in tutto e per tutto con i due peggiori regimi mai sorti in Europa, quello fascista e quello nazista.
Fu lui dopo il Papa di Desio che fece un abbraccio mortale con i regimi dittatoriali che distrussero l’Europa e diede in mano la Chiesa cattolica ai due cialtroni criminali di Mussolini e Hitler ( Achille Ratti Pio XI almeno si era ricreduto sul fascismo e sul nazismo alla vigilia della morte e negli ultimi anni, quando ormai era tardi, con l’enciclica Mitt Brennender Sorge e poi con un’altra enciclica, che avrebbe dovuto condannare il nazismo e l’antisemitismo, ispirata dai gesuiti, rimasta invece segreta e non pubblicata poichè il Ratti morì l’11 febbraio del 1939 poco prima di poterla pubblicare).
Lui no, lui con la motivazione plausibile o la scusa del pericolo del comunismo bolscevico si è buttato in relazioni più che ottime con i due despoti che hanno fatto uccidere una quantità immane di uomini e di donne in Italia e nel mondo.
Lui ha dato insieme con PIO XI ogni avallo spirituale, ripeto "AVALLO SPIRITUALE" al regime fascista in Italia e nazista in Germania.
Che adesso Paolo Mieli, direttore del Corriere della Sera, scriva dalle pagine dell’Osservatore Romano che è una "leggenda nera" l’aver diffamato Pacelli perchè salvò, nel silenzio, tanti ebrei, ci stupisce non poco!
Ci pare che Mieli sia ebreo di origini, però non basta salvare un po’ di ebrei per passare da complice dei carnefici ad anima buona che salva i derelitti.
E’ una responsabilità tutta ecclesiale e politica che ci fa’ gridare NO!
Che Pacelli non fu un Papa all’altezza di quel compito che la Chiesa si prefigge e che NON fu Santo, come facilmente e strumentalmente i curiali di ogni risma continuano a propinarci, poichè non basta vestire di bianco per essere bianchi dentro.
Sono le parole chiare e i gesti chiari che fanno la verità di un uomo, e di un uomo di Chiesa pure non le messe in scena , le coreografie e le commedie: "il vostro parlare sia sì sì no no", diceva il Signore Gesù Cristo, di cui Lui diceva di essere il Vicario!
Tutto ciò che contro il monito evangelico non ha fatto....
Il suo silenzio è solo l’epilogo forse imbarazzato di gesti ben più eloquenti di contatti, relazioni diplomatiche, affari intrapresi e onorificenze e privilegi, credito e benedizioni, dati ai due despoti assassini del mondo democratico e libero.
La sua responsabilità è atroce e rimane tutta intera e non basterà a questo vivente pontefice tedesco rivalutarne a 50 anni dalla morte una figura ormai destinata oggi ad un altro silenzio siderale altrettanto pesante ma per noi tutti liberatorio.
Cosa c’entra l’aver salvato nei monasteri d’Italia un po’ di ebrei?
non ha fatto che quel che doveva...?
Ha fatto in pratica quel minimo che la sua coscienza di cristiano gli dettava di fare, ma con l’accortezza di non disturbare troppo i governanti di allora, senza intralciare i loro sogni di distruzione, dominio e morte....
Prima ha rafforzato benedicendo i regimi, poi ha salvato qualche vittima di questi regimi...
e questo si definisce essere un Santo?
Non doveva forse lanciare la sua Chiesa mondiale da subito contro questi energumeni del male, sorti sulle rovine della Prima guerra mondiale?
Non doveva predicare il Vangelo sine glossa di fronte a quelli che impugnavano una croce uncinata che non era quella certamente del Cristo ebreo ucciso?
Persino da Castel Gandolfo Pio XI durante la visita di Hitler a Roma, dove si era ritirato, aveva ammonito che la croce uncinata non era il simbolo dei cristiani e di salvezza, ma di sciagure ben diverse.
Morto Ratti, Pacelli PIO XII si limitò a radiomessaggi annacquati e generici, ritirò l’enciclica del predecessore, che doveva condannare Hitler e il suo regime, indebolì il fronte dei Vescovi antinazisti, boicottò tante iniziative contro la Germania influenzato da quella dispotica Suora tedesca Pasqualina Lehnert che (quasi fosse una sua amante nemmeno tanto segreta) si teneva alla faccia di tutti i prelati vaticani, dentro l’appartamento pontificio.... mentre preti considerati "modernisti" venivano processati e perseguitati anche solo per un sospetto concubinato...
Una Suora inquietante, questa religiosa tedesca, e il cui vero ruolo è tutto da accertare ancora, soprattutto per quanto concerne il silenzio papale sugli ebrei, che forse verrà approfondito e studiato se gli archivi potranno un giorno aprirsi... e se non interverranno le solite censure preventive e prudenziali di cui Santa Romana Chiesa è Maestra secolare.
Si diceva che la Pasqualina gli aveva salvato la vita durante gli scontri di anarco-comunisti a Monaco, entrati in nunziatura nel 1948 durante le sommosse, sicuramente però gli ha dannato l’anima, quando lo ha paralizzato e irretito di fronte ad ogni sopruso nazista della sua Germania e davanti ad ogni grido di dolore e di denuncia che arrivavano sul suo tavolo in Vaticano da varie ambasciate, nunziature e dalle Diocesi di mezzo mondo.
Neppure si affacciò da quella sua finestra la mattina che gli ebrei vicino a Borgo Pio, a due passi dal suo palazzo, vennero caricati sui camion per essere condotti al macello nei lager di Polonia e di Germania... neppure quando fu scongiurato a farlo da molti nobili aristocratici del suo rango ad agire.
Parafrasando Dante potremmo dire che Egli fu "Colui che fece per viltade il gran silenzio!" togliendo così l’immeritata infamia su un altro pontefice invece ben più evangelico e santo che è l’eremita Celestino V, Pietro Angelieri da Morrone.
Un uomo indegno del papato, che già è indegno di suo, perchè usurpazione della potestà unica e celeste di Cristo. Un uomo mediocre, un uomo ignavio, un uomo senza qualità, un uomo grigio che ha contribuito a rendere il clero pusillanime e indeciso di fronte al male che avanzava....
pochi i preti che combattevano a fianco dei partigiani, pochi gli uomini di religione che si ribellavano all’orda criminale...
molti di questi uccisi o torturati nonostante il silenzio del Papa (Padre Maximilian Kolbe per i cattolici e Dietrich Bonhoeffer per i protrestanti)
Grande solerzia invece dell’aristocratico parvenu prelato romano nel far scappare in America Latina i peggiori criminali nazisti con il passaporto dello Stato Vaticano (la sua nobiltà dovuta al Nonno paterno che fu gentiluomo di Papa PIO IX Mastai Ferretti e da questi nominato principe, poichè contribuì a far ammazzare un bel po’ di rivoltosi della breve Repubblica Romana, soffocando i moti popolari quando il Papa dovette fuggire a Gaeta, e permettendo con i francesi al pontefice di tornare sul suo oscurantista trono che tiranneggiava gli italiani e fomentava dissidi in mezza Europa).
Questo l’uomo politico Pacelli, che con la fuga dei tanti nazisti in America Latina contribuì alla nascita di quei regimi sanguinari, appoggiati poi dalla CIA americana, che sorsero a metà degli anni ’70, come quello di Videla e Massera in Argentina e quello di Augusto Pinochet in Cile, tanto per citarne due tra i più noti e feroci, gli stessi che fecero torturare e massacrare tanti giovani dissidenti e studenti, poi desaparecidos, e persino suore e frati e preti e pastori di altre Chiese cristiane (tutti accusati di comunismo e di essere rivoluzionari, soltanto perchè si ribellavano al terrore della dittatura e combattevano politicamente per la libertà).
Un Vescovo profetico mons. Carlos Duarte Costa proclamato santo dalla Chiesa nazionale del Brasile, separatasi dal Vaticano, denunciò questi misfatti operati da Papa Pacelli, l’infallibile proclamatore di dogmi, quando fece fuggire i gerarchi nazisti con i passaporti vaticani in quel continente, e fu da questo visionario mistico pontefice scomunicato.
Una scomunica con la bolla del 2 luglio 1945 (che gli impostori facitori di iniquità che stanno dentro le sacre mura delle secreterie dei palazzi vaticani tengono ben nascosta) che gli fa’ onore , dato che è stata comminata da un uomo divenuto pontefice che ha agito pressochè sempre contro l’Evangelo di Cristo Signore!
Ecco una parte di quel che ha fatto, o non ha fatto, il cosiddetto Vicario di Cristo: Eugenio Maria Giuseppe Giovanni Pacelli qui sibi nomen imposuit PIUS DUODECIMUS il 2 marzo del 1939, giorno del suo 63°compleanno (che veramente si credeva infallibile...)
Certo un uomo non fa’ tutto del male, ma si può farne tanto anche quando non si contrasta il male.... e il male trionfa quando i buoni stanno a guardare impassibili.
Lui è stato a guardare il male che avanzava, e mentre era solerte tessitore di arti diplomatiche (arti diaboliche di uno Stato che Cristo non ha mai voluto! "I CAPI DELLE NAZIONI COMANDANO SU DI ESSE E SPADRONEGGIANO, MA PER VOI MIEI DISCEPOLI NON SIA COSI’" diceva Cristo! Vero scandalo per i cristiani!) e si accompagnava a braccetto con i peggiori despoti del secolo scorso, ha taciuto sui misfatti più atroci e sullo sterminio di sei milioni di ebrei, tra i quali i bambini più inermi.
A che serve mai vestirsi di bianco?... fare radiomessaggi al mondo urbi et orbi?... benedire con ampie braccia dispiegate... e anche avere visioni di presunti Cristo che girano per i giardini vaticani, quando non si è illuminati affatto ma accecati da presunzione personale e affetti da miopia evangelica e paralizzati da mutismo ignavio?
Lui Pacelli amava l’ossequio acritico delle masse, pensava di irretirle e affascinarle ammutolendole con i suoi gesti carismatici spalancando le braccia, per pura forza di immagine, bianco o nelle sontuose vesti dorate, come una divinità antica faraonica, che si ergeva sulle teste non pensanti dei fedeli....
e di fronte a tutto il resto bastava questa devozione per santificare e per rendere buoni... (beata illusione!)
NO, sono i gesti e le parole profetiche, chiare e dirette, contro gli operatori del male, i fascisti e i nazisti, senza tacere dei comunisti (di cui spesso parlò) che dovrebbero fare grande un uomo, un papa...
il resto è mistificazione sottile....
Profezia, testimonianza, parola....
Cose che non accaddero affatto e che lo condannano al giudizio ineludibile della Storia.
Mieli e altri lo sanno, possono forse distrarci un po’ dal punto cruciale, ma esso ritorna imperterrito senza nè alibi nè giustificazioni di sorta.
FORSE CE LO METTERANNO SUGLI ALTARI, CON IL PLAUSO DEL PONTEFICE TEDESCO PIU’ IDEOLOGICO E DOTTRINARIO MAI APPARSO IN QUESTI ULTIMI SECOLI : GLI ALTARI ORMAI DA TEMPO OSPITANO VERI CRIMINALI FATTI PASSARE PER SANTI (da alcuni primi Padri della Chiesa feroci persecutori di "eretici", in Oriente e in Occidente, passando per S. Carlo Borromeo e San Roberto Bellarmino, santi cardinali inquisitori, che portano l’eredità di migliaia di vite processate, torturate e trucidate, fino al fondatore dell’Opus Dei, da poco canonizzato, colluso con il fascismo in Spagna e in America Latina...)
GLI ALTARI ORMAI PIU’ CHE PER LA PREGHIERA VERA E PER LA SANTIFICAZIONE SERVONO A PORTARE DEVOZIONI SCIOCCHE E DENARO.
Domine salva nos, perimus!
mons. + Joannes Climacos MAPELLI
Arcivescovo Primate
e i Teologi del CENTRO STUDI TEOLOGICI di MILANO
CENTRO ECUMENICO
segue
un riassunto dell’agenzia ASCA,
circa l’articolo di Paolo Mieli sull’Osservatore Romano
PIO XII: MIELI SU OSSERVATORE ROMANO, PAZZESCO AVVICINARLO A HITLER
(ASCA) - Citta’ del Vaticano, 8 ott - ’’Una cosa pazzesca!’’ che si sia ’’formato un senso comune per cui Pio XII viene visto come un Pontefice addirittura complice del Fuhrer nazista’’: alla vigilia della messa che papa Benedetto Xvi celebrera’ domani nell’ambito del Sinodo dei vescovi a 50 anni dalla morte di papa Pacelli, l’Osservatore Romano intervista il direttore del Corriere della Sera Paolo Mieli che difende l’operato del pontefice che collega la cosiddetta ’’leggenda nera’’ sulla sua figura al fatto di essere stato ’’anche - e sottolineo ’’anche’ - anticomunista’’.
’’In questi decenni di polemiche gli e’ stato spesso rimproverato di essere stato turbato da questa visione’’, spiega Mieli in riferimento ad alcuni discorsi di Pacelli nel ’37 in Francia e nel ’38 in Ungheria, in cui attaccava piu’ duramente le persecuzioni del regime comunista piuttosto che quelle del regime nazista. Mieli ricorda pero’ che ’’la tematizzazione della Shoah come noi oggi la recepiamo e’ di molti decenni successiva alla fine della seconda guerra mondiale. Negli anni Trenta pochissimi avevano l’idea di quello che poteva accadere agli ebrei’’. ’’Percio’ - prosegue - quando noi parliamo di un Papa alla fine degli anni Trenta, possiamo comprendere come fosse piu’ sensibile alle persecuzioni anticristiane in Unione Sovietica rispetto a quanto stava emergendo nel mondo nazista; questo non vuol dire che fosse un nazista camuffato’’.
Per Mieli, una interpretazione ’’maliziosa’’ del ruolo di Pio XII, nata ’’all’interno alla Chiesa stessa, contrapponeva a Pio XII la figura di Giovanni XXIII. ’’Fu un’operazione devastante - spiega il direttore del Corriere della Sera -: si e’ trattato Giovanni XXIII come un Papa che avrebbe avuto nel corso della seconda guerra mondiale quelle sensibilita’ che invece Pio XII non aveva avuto. Una tesi molto bizzarra.
E tra le righe delle invettive contro Pacelli, sembra emergere che al Pontefice sia stato presentato il conto per il suo anticomunismo. In realta’ Pio XII e’ stato un Papa in linea con la storia della Chiesa cattolica del Novecento’’.
asp/mcc/ss
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
Palatucci: è il momento di passare dal Mito alla Storia di Laura Brazzo, 29 luglio 2013 ... abbiamo chiesto a Natalia Indrimi, direttrice del Centro Primo Levi di New York e coordinatrice del pool di storici che ha condotto le ricerche
Palatucci. Ricerca storica e storie alternative(di Antonio Brusa, "Historia Ludens", 16 Luglio 2017)
FARE COME GIOVANNI XXIII E GIOVANNI PAOLO II: RESTITUIRE L’ANELLO A GIUSEPPE!!!
"ET NOS CREDIDIMUS CHARITATI..."
VISITA DI BENEDETTO XVI IN SINAGOGA. UNA TRISTE FARSA - di Gherush92
FLS
Vaticano.
Il Papa apre gli archivi su Pio XII
L’annuncio all’udienza con l’Archivio Segreto Vaticano a ottanta anni dall’elezione di Eugenio Pacelli al Soglio di Pietro. "Condusse la Chiesa in anni tristi e bui"
di Enrico Lenzi (Avvenire, lunedì 4 marzo 2019)
Ottanta anni fa - il 2 marzo 1939 - il cardinale Eugenio Pacelli veniva eletto Papa assumendo il nome di Pio XII. E in occasione di quell’anniversario, papa Francesco, uno dei suoi successori, annuncia che presto gli studiosi e i ricercatori avranno la possibilità di consultare tutti i documenti su quel pontificato, sino alla morte di Pacelli, avvenuta a Castel Gandolfo il 9 ottobre 1958.
L’annuncio è arrivato durante l’udienza concessa all’Archivio Segreto Vaticano, che sta proprio curando, su desiderio già di Benedetto XVI, la preparazione di questa immensa documentazione lungo 19 anni di regno di Pio XII, parte della quale, a dire il vero, già consultabile per volere di Paolo VI (che di Pio XII fu per molti anni strettissimo collaboratore) e di Giovanni Paolo II.
"Condusse la Chiesa in tempi difficili"
Nel suo discorso papa Francesco ricorda come Pio XII "si trovò a condurre la Barca di Pietro in un momento fra i più tristi e bui del secolo Ventesimo, agitato e in tanta parte squarciato dall’ultimo conflitto mondiale, con il conseguente periodo di riassetto delle Nazioni e la ricostruzione postbellica, questa figura è stata già indagata e studiata in tanti suoi aspetti, a volte discussa e perfino criticata (si direbbe con qualche pregiudizio o esagerazione). Oggi essa è opportunamente rivalutata e anzi posta nella giusta luce per le sue poliedriche qualità: pastorali, anzitutto, ma poi teologiche, ascetiche, diplomatiche".
Alla luce di questo la decisione di papa Francesco di rendere consultabile tutta la documentazione sul pontificato di Pio XII, "sicuro che la seria e obiettiva ricerca storica saprà valutare nella sua giusta luce, con appropriata critica, momenti di esaltazione di quel Pontefice e, senza dubbio anche momenti digravi difficoltà, di tormentate decisioni, di umana e cristiana prudenza, che a taluni poterono apparire reticenza, e che invece furono tentativi, umanamente anche molto combattuti, per tenere accesa, nei periodi di più fitto buio e di crudeltà, la fiammella delle iniziative umanitarie, della nascosta ma attiva diplomazia, della speranza in possibili buone aperture dei cuori".
"La Chiesa non ha paura della storia"
Del resto, aggiunge Francesco, "la Chiesa non ha paura della storia, anzi, la ama, e vorrebbe amarla di più e meglio, come la ama Dio! Quindi, con la stessa fiducia dei miei predecessori, apro e affido ai ricercatori questo patrimonio documentario". Ora gli studiosi e i ricercatori dovranno attendere il 2 marzo 2020, giorno che il Papa ha fissato come quello di apertura della documentazione a 81 anni dalla elezione papale di Eugenio Pacelli.
"Svolgete un lavoro nel silenzio"
L’udienza è stata anche l’occasione per ringraziare tutto il personale per il lavoro che "svolge nel silenzio e lontano dai clamori, coltiva la memorai, e in un certo senso mi pare che esso possa essere paragonato alla coltivazione di un maestoso albero, i cui rami sono protesi verso il cielo, ma le cui radici sono solidamente ancorate nella terra"
Vaticano e Alleati sordi agli appelli non salvarono gli ebrei a Ferramonti
Il campo di internamento di Ferramonti presso Tarsia (Cosenza) fu inaugurato dal regime fascista tra il giugno e il settembre 1940
di Mirella Serri (La Stampa, 28.08.2018)
Il presidente del World Jewish Congress, Stephen Wise, a fine dicembre 1942 inoltrò una lettera dal contenuto assolutamente inquietante a Myron Taylor, ambasciatore degli Stati Uniti presso la Santa Sede. Wise univa una forte e decisa personalità a una grande prudenza, cercava di non fare passi falsi ed era molto legato a personaggi illustri che lo stimavano, come Albert Einstein. Non a caso si rivolse a Taylor che, prima di assumere un ruolo diplomatico, era stato un imprenditore di enorme successo: confidava sul suo attivismo per individuare rapide soluzioni.
La lettera era un grido di dolore proveniente dallo sperduto Comune di Tarsia, in provincia di Cosenza. Nel campo di Ferramonti presso Tarsia, inaugurato dal regime fascista tra il giugno e il settembre 1940 dopo l’entrata in guerra dell’Italia, erano rinchiusi ebrei, cittadini stranieri e apolidi. Nella missiva da loro inviata al governo degli Stati Uniti e poi arrivata a Wise, gli ospiti del campo non usavano perifrasi. Non solo in quella zona malarica si diffondevano epidemie ma con il procedere del conflitto mancavano cibo e medicine, e arrivavano con dovizia di terribili dettagli le notizie sugli ebrei deportati in Polonia. I lager polacchi non erano luoghi di lavoro ma di sterminio. A Tarsia si temeva una sorte analoga e si chiedeva un permesso di transito per l’Africa o il Medio Oriente.
Lo spettro della Polonia
Attraverso vari passaggi, la proposta planò sul tavolo di Luigi Maglione, nominato da Pio XII nel 1939 cardinale Segretario di Stato. Vi fu anche una presa di posizione di Giovanni Montini: il rastrellamento e la spedizione in Polonia «sembravano imminenti», osservava il futuro papa Paolo VI. «La deportazione in Polonia degli ebrei... significa la loro condanna a morte».
Furono valutati seriamente questi disperati appelli? Per nulla. Gli Alleati e la Santa Sede non mossero un dito per passare il Rubicone e salvare la vita di migliaia e migliaia di ebrei italiani e stranieri che avevano trovato rifugio nella Penisola: lo testimonia il tourbillon di lettere e risposte, fino a oggi inedito in Italia, che Michele Sarfatti, notissimo studioso di storia della Shoah, porta alla luce nella riedizione di Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione (Einaudi).
In coincidenza con la ricorrenza degli 80 anni dall’emanazione delle leggi razziali annunciate il 18 settembre 1938 a Trieste da Benito Mussolini, il saggista nell’ampia ricerca utilizza documenti reperiti negli American Jewish Archives e presso la World Jewish Congress Collection. E offre una drammatica testimonianza sulle reazioni negative a questa prima tornata di allarmi provenienti dal Congresso mondiale ebraico: la notizia che i tedeschi si attivassero per la deportazione «è destituita di fondamento», protestava con sicumera Francesco Borgoncini Duca, nunzio apostolico in Italia.
Tutto precipita
I tempi della shoah sono rapidissimi, ricorda lo studioso, e tutto cambiò in un breve arco di tempo: prima dello sbarco alleato in Italia, gli ebrei di Ferramonti desideravano fuggire dal Sud della penisola. Ma nel luglio 1943 il rappresentante a Washington del World Jewish Congress fece un’audace proposta:
tutti gli ebrei italiani, anche quelli risiedenti al Nord, dovevano essere spostati in massa al Sud.
Era una soluzione assolutamente praticabile. Vennero mandati cablogrammi alla rappresentanza vaticana e all’ambasciatore svizzero negli Usa nei quali si diceva: quattro milioni di ebrei sono già stati uccisi. Che aspettiamo? Gli appartenenti alla comunità ebraica italiana vanno dislocati nel Mezzogiorno. Ma Berna e Washington si tirarono indietro: non c’era nulla da fare, affermarono, un intervento sul governo italiano non avrebbe nessun successo. Il 6 agosto la Santa Sede garantì che avrebbe fatto «tutto il possibile a favore degli ebrei».
Nulla fu attivato. Il maresciallo Pietro Badoglio, alla richiesta del presidente del Wjc che fosse garantito lo spostamento al Sud degli ebrei, promise che avrebbe facilitato «lo spostamento in zone che possano destare minore preoccupazione». Era una menzogna. Non voleva prendere iniziative sgradite all’alleato tedesco che stava per tradire.
«Tutti i governi sapevano dello sterminio», scrive Sarfatti. E rileva che «i tempi della diplomazia non conobbero accelerazioni particolari». Dispacci e lettere, al contrario, procedevano a passo di lumaca. Né il Vaticano né il governo statunitense «risultarono adeguati alla situazione». Per salvare la pelle al Sud però vi si trasferirono lo stesso Badoglio e la casa reale. Abbandonando i cittadini italiani e le comunità ebraiche al loro destino.
Pio XII: la santità e le bugie
risponde Furio Colombo (il Fatto, 07.03.2015)
PROPRIO in questi giorni un comitato di giovani attivisti e di anziani che hanno ancora memoria della Resistenza a Roma, hanno sollevato il caso della “Dogana”, una palazzina in zona San Lorenzo che si vuole abbattere per ragioni commerciali, e che il comitato difende come un luogo della Shoah italiana. La “Dogana” era la piccola stazione in cui venivano fatti confluire gli ebrei rastrellati a Roma e inviati ad Auschwitz, da cui quasi nessuno è tornato, un luogo appartato e bene organizzato dell’apparato di morte del nazismo e del fascismo, come il binario 21 della Stazione Centrale di Milano.
A Roma, però, risiedeva e regnava il Papa (quel Papa, Pio XII) che non ha mai detto una parola, neppure indiretta, neppure implicita, neppure camuffata da formule diplomatiche o religiose (la preghiera) contro le leggi razziali, contro la discriminazione, contro la deportazione. Per questa ragione il falso clamoroso e offensivo della stella gialla sulla veste bianca del Papa - fatto che non è accaduto e che sarebbe stato inconcepibile, come sa bene chi ascoltava voce e discorsi di quel Papa a quel tempo - diventa molto più di una negazione di fatti veramente e tristemente avvenuti (il silenzio). Il falso di quella stella vorrebbe negare il silenzio.
Ma il silenzio c’è stato. E quando è così sistematicamente osservato, da un personaggio così rilevante, finisce per evocare una vera e propria complicità. Quando si verificano fatti di immensa gravità come le “leggi razziali”, che il Parlamento italiano di allora ha approvato all’unanimità con grida e celebrazioni, e il re d’Italia (unico in Europa) ha firmato, e di fronte alle quali ha taciuto l’intera classe dirigente italiana e i suoi personaggi più famosi nel mondo, qualunque assenza e silenzio autorevole diventa complicità, perché rimuove ogni ostacolo, anche psicologico e morale, ad accettare la persecuzione.
Nonostante le documentate denunce e il celebre testo teatrale di Hochhuth, la deliberata assenza di un Papa dalla scena delle leggi razziali, delle deportazioni, delle notizie sullo sterminio (contrariamente alla opposizione esplicita di altri monarchi e anche di leader fascisti come Dimitar Peshev, presidente fascista del Parlamento bulgaro) rende la trovata della stella gialla sulla veste di Pio XII, più ancora di tutto il film, un atto grave di manipolazione della storia.
E fa apparire imbarazzante il titolo “Sfumature di verità” (tra l’altro, parodia inconsapevole di un film soft-porno). S’intende che il film probabilmente si avvale di ogni dato, cifra evento e documento sui tanti ebrei salvati dai cattolici, religiosi e laici. S’intende che questo è vero. Ma non è il tema del film.
Il tema è la presunta santità di Pio XII. Sarebbe come assolvere Mussolini per il fatto che tanti italiani (e anche alcuni fascisti) hanno trasgredito quelle ignobili leggi e hanno salvato, o tentato di salvare, concittadini ebrei. C’è un evidente errore in tutta questa operazione. Da decenni si aspettano documenti che restano segreti e sepolti in Vaticano. Ma arriva un film che tradisce la parte di verità che riguarda il Papa, a cominciare dalla indecorosa pubblicità.
Bulgaria 1943 l’olocausto sventato
23.01.1992 - Sofia
Una storia sconosciuta. Così nel Paese alleato di Hitler la mobilitazione popolare salvò gli ebrei.
[di Enrico Deaglio] *
Difficile scegliere, in questi giorni di cinquantesimo anniversario della Conferenza nazista di Wannsee, il sintomo più cupo del razzismo nell’Europa di oggi. Se la lingua tagliata di Berlino, le coltellate di Roma, le teste rasate di Vienna o il Mein Kampf, best-seller in Polonia. Spero allora che sia sollievo per i lettori apprendere la storia di un olocausto che non avvenne, semplicemente perché un popolo lo impedì.
Una storia sconosciuta, avvenuta in un Paese lontano, la Bulgaria. Tra le poche tracce che ne restano, due brevi comunicati radio.
Il primo è di Radio Berlino, che il 20 maggio 1943 annunciava, con burocratica sicurezza, l’imminente deportazione dei ventimila ebrei di Sofia, una delle tante tappe previste nella “Endoesung der Judenfrage”, la “soluzione finale del problema ebraico” decisa l’anno prima nella villa a Wannsee.
Il secondo è della Bbc. Il 24 maggio, il suo servizio internazionale informava di una manifestazione di protesta a Sofia. Migliaia di persone in piazza avevano impedito la partenza dei convogli nazisti. La deportazione non aveva avuto luogo. Una ribellione, in un Paese occupato, nell’angolo più sperduto della guerra, seguiva di un mese l’insurrezione del ghetto di Varsavia. Poi, però, non si seppe più nulla.
La Bulgaria era da due anni alleata del Reich; il suo re, Boris III, discendente di una nobile famiglia prussiana, aveva ottenuto da Hitler l’appoggio militare per una espansione territoriale, a spese di Romania, Jugoslavia e Grecia. Un caso abbastanza tipico di do ut des balcanico.
Gli avvenimenti seguirono con rapida cadenza. Il 21 gennaio 1941, il Parlamento bulgaro votò (pur fra fortissime opposizioni) una legge antisemita imposta dalla Germania. Il 3 marzo, l’“esercito fratello” entrò nel Paese. Il 2 aprile, con l’appoggio militare tedesco, i bulgari presero possesso di ampie zone della Serbia meridionale, della Macedonia e della Tracia. Ma i tedeschi si dimostrarono subito molto scontenti del loro nuovo alleato: i bulgari si rifiutavano ostinatamente di mandare i propri soldati a combattere contro l’Unione Sovietica; e per quanto riguardava il programma antisemita, le loro leggi apparivano ai funzionari nazisti del tutto ridicole.
Il servizio informazioni di Himmler comunicava a Berlino che le limitazioni di orario e di residenza imposte agli ebrei non venivano rispettate, che la stella gialla obbligatoria sui vestiti era “piccolissima” e che la ditta incaricata di fornirla aveva addirittura sospeso la fabbricazione. Un altro rapporto informava Berlino che a Sofia gli ebrei che passavano per strada con la stella gialla erano salutati “con manifestazioni di simpatia”, che il metropolita Stefan simpatizzava con loro, che a fianco degli ebrei si erano schierati molti parlamentari e associazioni di professionisti.
Gli ebrei erano presenti in Bulgaria, come in tutta la Penisola Balcanica, fin dal 1200. Poi arrivarono, a partire dal 1492, i “sefarditi” cacciati dalla Spagna, che, nei secoli, conservarono, con pochissime modifiche, la loro lingua spagnola. Elias Canetti ha definito la sua una “infanzia meravigliosa” in una città bulgara del Basso Danubio, Rustschuk, dove “in un solo giorno si potevano sentire sette o otto lingue” e si scambiavano commerci e libri tra bulgari, turchi, greci, albanesi, armeni, ebrei spagnoli. E con zingari che venivano ogni tanto ad accamparsi. E così doveva essere in tante altre cittadine. In Bulgaria gli ebrei spagnoli non conobbero mai i ghetti, fecero parte invece di un naturale “melting pot”. Non si diffusero le tendenze hassidiche, così forti in Polonia e in Russia.
A Sofia, all’inizio del secolo, una borghesia ebraica viveva nel centro della città a fianco della grande sinagoga, peraltro adiacente al tempio della Chiesa ortodossa e alla moschea musulmana. In un altro quartiere, Yuchbunar, abitavano gli ebrei artigiani, piccoli commercianti, o operai. C’erano poi i militanti del sindacato socialdemocratico, i giornali, in cirillico o in ebraico con gli apprezzamenti per Carlo Marx e per la grande rivoluzione del 1917 a Pietroburgo, quei socialisti russi che avevano sostenuto i bulgari nella guerra contro l’oppressione dell’Impero Ottomano.
Ci furono anche in Bulgaria, come nel resto d’Europa, movimenti fascisti, ma ebbero scarso seguito, confinati nell’ambiente universitario: in Bulgaria, lo stereotipo dell’“ebreo alieno” non ebbe mai successo. Nella loro maggioranza, politicamente conservatori, gli ebrei bulgari ebbero piuttosto una grande simpatia per le teorie sioniste di Theodor Herzl, da molti indicato come il Messia.
Secondo i programmi di Wannsee, gli ebrei da avviare ai mattatoi della Polonia erano 48 mila, uno su cento della popolazione bulgara. L’attuazione del piano venne affidata da Adolf Eichmann al suo vice Theodor Dannecker (già organizzatore delle deportazioni dalla Francia) e all’ambasciatore tedesco a Sofia, Adolf Beckerle.
Si decise di cominciare con i 20 mila ebrei residenti nelle zone di Serbia e Grecia appena occupate dalla Bulgaria. Il 22 febbraio del 1943 vennero rastrellati 11.450 ebrei. Le poche testimonianze parlano di uomini e donne con berretti di agnello e scialli variopinti ammassati sui carri merce, spaventati ed incapaci di comprendere quello che stava accadendo. Venivano da vallate remote dove avevano sempre vissuto in pace con i loro vicini, o da città che erano poco più che villaggi. Dal campo di sterminio di Treblinka, cui vennero avviati, ne tornarono solamente 11.
Per l’inizio di marzo venne fissata la partenza di 6 mila ebrei residenti nella stessa regione, ma in territorio della Bulgaria storica, da concentrare nella cittadina di Kustendil. Ma qui successe il primo imprevisto. Gli ebrei di Kustendil informarono i loro deputati di quello che era nell’aria e questi corsero a Sofia.
La delegazione venne ricevuta dal vicepresidente del Parlamento, Peshev, che la portò al ministro degli Interni, Grabowsky. In poche ore vennero raccolte 42 firme di deputati dei partiti della maggioranza filotedesca, che con veemenza condannavano l’operazione. Il governo comunicò ai nazisti che l’operazione doveva ritenersi “sospesa per 90 giorni”.
A maggio i nazisti tornarono alla carica. Questa volta furono indicati come obbiettivo i 20 mila ebrei di Sofia. Un editto ordinò loro di presentarsi alla stazione il 24 maggio, giorno di Cirillo e Metodio, inventori dell’alfabeto cirillico, festa nazionale.
Quel giorno, a Sofia, successe un evento unico in tutta Europa. A gruppi, gli ebrei cominciarono a manifestare. Alcuni si recarono alla grande sinagoga, altri a quella del quartiere popolare di Yuchbunar, dove il rabbino promosse una manifestazione. Venne deciso di marciare verso il palazzo reale. Partirono in poche centinaia, ma dalle case di Sofia molti cominciarono a scendere in strada. I manifestanti divennero migliaia, i gruppi comunisti clandestini tra i più attivi. La stazione venne presidiata, mentre il corteo affrontava la polizia e gli attoniti ufficiali delle SS. Ci furono 400 arresti, ma i treni rimasero vuoti. Il governo autorizzò solamente lo sfollamento degli ebrei dalla capitale verso le campagne.
In una serie di comunicati stizziti, Beckerle e Dannecker comunicarono a Himmler che “i bulgari mancano della illuminazione ideologica dei tedeschi. Vivendo da troppo tempo con armeni, greci e zingari, il popolo bulgaro non vede nell’ebreo difetti che giustifichino misure speciali contro di lui”.
Nei mesi successivi continuarono a riferire a Berlino che anche nelle campagne gli ebrei erano “ben accolti” e che “non c’era nulla da fare”. Nell’agosto del 1944, con l’avvicinarsi dell’Armata Rossa, le leggi antisemite vennero revocate: alla fine della guerra non un solo ebreo bulgaro era stato deportato.
Gli storici definiscono il “caso bulgaro” una “anomalia”. Hannah Arendt ricordò un antecedente di fierezza di quel popolo nella vicenda di Georgi Dimitrov, il comunista bulgaro accusato nel 1933 a Berlino dell’incendio del Reichstag. Portato a processo, venne interrogato da Goering, ma da accusato si trasformò in accusatore. Fu assolto. Ammirato da tutto il mondo, tanto che si disse: “In Germania oggi è rimasto un solo uomo, ed è un bulgaro”.
Ma forse gli avvenimenti di Kustendil e di Sofia furono solo un fantastico caso di normalità, di quelle che creano imbarazzo: un Parlamento decoroso, una opinione pubblica civile e coraggiosa, una Chiesa solidale con gli oppressi.
Il reporter Roberto Pistarino - giramondo con telecamera - ha ritrovato nei mesi scorsi i ricordi di questa storia a Sofia, intervistando protagonisti e testimoni. Oggi in Bulgaria vivono in tutto 2500 ebrei; gli altri emigrarono tutti in Israele: si realizzava il loro vecchio sogno sionista, mentre il comunismo applicato non prometteva niente di buono. Theodor Zivkov, il segretario del pc fino al 1989, cercò negli Anni 50 di ottenere una candidatura al Nobel per la pace, ma non riuscì mai a provare di avere avuto un ruolo preminente nel salvataggio degli ebrei di Sofia.
Per il resto non esiste molto. Due libri elogiativi dell’opera del partito comunista, un piccolo circolo ebraico - “Shalom” - e un film documentario girato nel 1987 dalla regista Ivanka Grabceva sugli avvenimenti del 1943. Venne finanziato dalla televisione di Stato, ma non andò mai in onda, perché il partito comunista non vi appare come l’unico protagonista. La regista ha però il permesso di regalarne tre cassette a visitatori stranieri che ne facciano motivata richiesta. Nella grande sinagoga di Sofia è conservato il più importante archivio delle memorie sefardite, ma è quasi impossibile poterlo consultare.
Autore: Enrico Deaglio
Fonte: La Stampa
* http://www.bulgaria-italia.com/bg/news/news/02453.asp
La lettera di protesta di Dimitar Peshev (17.03.1943) *
Egr. Sig. Primo Ministro
Il senso di grande responsabilità storica che condividiamo in questo momento con il governo, la nostra costante fedeltà alla sua politica e al regime, così come il nostro desiderio di contribuire in ogni modo al suo successo, ci danno il coraggio di rivolgerci a Lei, sperando che lo consideri un passo fatto con sincerità e in buona fede...
Alcune recenti misure adottate dalle autorità dimostrano la loro intenzione di prendere nuovi provvedimenti contro le persone di origine ebraica. Da parte dei settori responsabili non vengono fornite spiegazioni né sulla natura di questi provvedimenti, né sui criteri con cui sono stati presi, sulla loro motivazione e sul loro scopo. In una conversazione con alcuni deputati, il Ministro degli Interni ha confermato che non ci sono ragioni per adottare delle misure eccezionali contro gli ebrei dei vecchi confini. In pratica, queste misure sono state annullate.
Considerato tutto questo e in base a nuove voci, abbiamo deciso di rivolgerci a Lei, sicuri che tali misure possono essere prese solo a seguito di una decisione del Consiglio dei Ministri. La nostra unica richiesta è che vengano prese in considerazione solo quelle misure riguardanti le reali necessità dello Stato e della nazione nel momento attuale e che non vengano dimenticati gli interessi relativi al prestigio e alla posizione morale della nostra nazione.
Non vogliamo contestare alcuna misura imposta dalle ragioni di sicurezza dettate dai tempi in cui viviamo, perché sappiamo che chiunque tenti di ostacolare gli sforzi dello Stato e del popolo, direttamente o indirettamente, dovrà essere neutralizzato. Ci riferiamo a una linea politica adottata dal governo con la nostra approvazione e collaborazione, una politica alla quale siamo stati fieri di partecipare con tutto il nostro prestigio e le nostre ricchezze. L’eliminazione di ogni ostacolo al successo della sua politica è un diritto dello Stato e nessuno lo può negare, ma esiste un limite alle necessità reali e non bisogna cadere negli eccessi che si possono definire "crudeltà inutili". E questo può essere considerato il caso in cui vengano prese delle misure contro donne, vecchi e bambini, che a livello individuale non abbiano commesso alcun crimine.
Non possiamo credere che ci siano dei piani per deportare questa popolazione dalla Bulgaria, come suggeriscono alcune voci a danno del governo. Tali misure sono inammissibili, non solo perché queste persone - cittadini bulgari - non possono essere espulse dalla Bulgaria, ma anche perché ciò avrebbe serie conseguenze per il paese. Sarebbe un’indegna macchia d’infamia sull’onore della Bulgaria, che costituirebbe un grave peso morale, ma anche politico, privandole in futuro di ogni valido argomento nei rapporti internazionali.
Le piccole nazioni non possono permettersi di trascurare questi argomenti, che, qualsiasi cosa accada in futuro, costituiranno sempre un’arma potente, forse la più potente di tutte. Per noi questo è molto importante perché, come Lei forse ricorderà, in un recente passato abbiamo sofferto pesanti perdite morali e politiche, a causa delle deviazioni dalle leggi umane e morali da parte di alcuni bulgari e spesso per colpa di persone irresponsabili. Quale governo bulgaro potrebbe assumersi una simile responsabilità riguardo al nostro futuro?
L’esiguo numero di ebrei in Bulgaria e il potere dello stato, che ha a disposizione tante leggi e tanti mezzi, rendono innocuo ogni elemento pericoloso o dannoso, a qualsiasi strato sociale appartenga, al punto tale che, secondo noi, è del tutto inutile adottare nuove misure eccezionali e crudeli, che potrebbero condurre a un massacro. Una cosa del genere si ritorcerebbe soprattutto contro il governo, ma colpirebbe anche la Bulgaria. È facile prevedere le conseguenze che una simile situazione potrebbe avere ed è per questo che ciò non deve succedere.
In base a queste considerazioni non ci sentiamo di assumere alcuna responsabilità su questo punto. Un minimo livello di legalità è necessario per governare, come l’aria è necessaria alla vita. L’onore della Bulgaria e del popolo bulgaro non è solo una questione di sentimento, è soprattutto un elemento della sua politica. È un capitale politico del massimo valore ed è per questo che nessuno ha il diritto di usarlo indiscriminatamente se il popolo intero non è d’accordo.
Le inviamo i nostri più rispettosi ossequi.
Sofia, 17 marzo 1943
Seguono le firme dei 43 deputati della XXV Assemblea Nazionale. Tratto dal Fondo n. 1335, u.a. 85, Sofia Archivio Storico Nazionale.
Dimitar Peshev fu informato un suo vecchio compagno di scuola ebreo proveniente da Kjustendil che il governo, in accordo coi tedeschi, stava preparando per il giorno dopo la deportazione segreta della minoranza ebraica. I treni erano già stati predisposti nelle stazioni. La notte successiva gli ebrei dovevano essere rastrellati e caricati sui vagoni, che sarebbero partiti la mattina dopo per la Polonia.
"Era il 7 marzo del 1943. Tutto era stato deciso in gran segreto per non mettere in allarme la popolazione. Peshev, in effetti, aveva sentito circolare strane voci, ma come tutti, allora, non se n’era preoccupato. Ora, di fronte a un amico che gli chiedeva di aiutarlo, ebbe come un sussulto, un risveglio della coscienza. Si scosse dal suo torpore e agì d’istinto, con l’idea, in un primo momento, non tanto di salvare un popolo, quanto di aiutare i suoi amici di Kjustendil. Si precipitò in parlamento, radunò qualche altro deputato, piombò di sorpresa nell’ufficio del ministro degli interni Gabrovski e dopo uno scontro drammatico lo costrinse a revocare l’ordine della deportazione. Poi telefonò personalmente a tutte le prefetture per verificare che il contrordine fosse stato rispettato."
Poiché in questo modo la deportazione era stata solo sospesa, Peshev decise di lanciare un’offensiva in parlamento. Si era reso conto che in gioco non c’era soltanto la vita di qualche amico, ma la salvezza dei cinquantamila ebrei bulgari. Non c’era un minuto da perdere: stese una lettera di protesta molto dura e raccolse le firme di una quarantina di deputati per chiedere al governo e al re di non commettere un crimine così grande, che avrebbe macchiato per sempre l’onore della Bulgaria.
tratto dal libro di Gabriele Nissim - "L’uomo che fermò Hitler"
Il rabbino e il Papa, l’alleanza mancata contro il nazismo
Riemergono i diari di David Prato, che nel 1936 incontrò Pio XI per chiedergli di fare causa comune di fronte alla marea montante del “neopaganesimo”
di Maurizio Molinari (La Stampa, 13.06.2014)
L’incontro fra un esperto d’arte di Sotheby’s e l’allievo di Renzo De Felice attorno a un manoscritto inedito consente di ricostruire una pagina sorprendente della storia europea: negli Anni Trenta del Novecento i rabbini europei guardavano al Vaticano di Pio XI come possibile fonte di protezione e tutela dall’antisemitismo «pagano».
L’esperto d’arte è Angelo Piattelli, romano trapiantato a Gerusalemme, già al servizio di Sotheby’s per la Judaica in Israele ed Europa, che nel 2003, durante una visita in casa di Jonathan Prato per discutere dei diari del padre David che fu rabbino capo d’Alessandria dal 1927 al 1936 e di Roma nel 1937-38 (e dopo la guerra dal 1945 al 1951), trova casualmente una pagina manoscritta ingiallita dove in cima si legge «Capitolo XVI - La missione in Vaticano in favore degli ebrei polacchi».
Piattelli trascrive oltre mille pagine dei diari e si rivolge a Mario Toscano, docente di Storia contemporanea alla Sapienza di Roma dove fu a lungo a fianco di Renzo De Felice, invitandolo a studiarne assieme le ricostruzioni degli incontri con Mussolini, Ciano e i rapporti con il Vaticano. È proprio Toscano a riassumere ora le novità contenute nell’inedito «Capitolo XVI» in un articolo su Mondo contemporaneo che esce quasi in contemporanea con uno studio di Piattelli sulla Rassegna mensile di Israel dedicato a David Prato.
Ciò che emerge è, anzitutto, la ricostruzione della missione di Prato a Roma in favore degli ebrei polacchi. Siamo nel 1936, Adolf Hitler è al potere da tre anni in Germania, e l’atmosfera di odio antiebraico spazza il Vecchio Continente. A Varsavia il Parlamento approva una legge che vieta la macellazione religiosa ebraica del bestiame e per oltre tre milioni di ebrei polacchi significa restare senza carne. Per Prato si tratta di un’«infamia» e il 25 febbraio 1936 riceve dal rabbino di Dublino, Isaac Herzog, la richiesta di chiedere aiuto a Pio XI.
«Sforzandomi di ragionare per trovare il modo di agire», scrive Herzog a Prato, «mi è venuto in mente che, in quanto nato in Italia e scelto per assumere la cattedra rabbinica romana, avrà conoscenze influenti ed altolocate che potrebbero raggiungere persino il Vaticano, quindi la prego di rivolgersi a loro affinché dal Vaticano provenga una direttiva riservata ai capi della Chiesa cattolica polacca».
Prato interpella i maggiori rabbini italiani dell’epoca - Gustavo Castelbolognesi, Adolfo Ottolenghi e Alfredo Sabato Toaff - esprimendo la convinzione che «il Vaticano ha un’enorme influenza sul governo polacco e potrebbe agire con speranza di risultato». Un’opinione sostenuta anche da Ottolenghi: «Il Vaticano ha una grande autorità religiosa internazionale». E il 17 marzo 1936 David Prato sbarca a Roma, ottenendo 48 ore dopo udienza in Vaticano, nel giorno del calendario che coincide con san Giuseppe. Varcata la soglia della Santa Sede, Prato manifesta stupore: «Una meraviglia, uno splendore, un incanto inverosimile. All’impressione provata che colpiva il mio animo si aggiungeva per aumentare il mio imbarazzo la completa ignoranza del protocollo e del cerimoniale».
Vede il cardinale Eugenio Pacelli, che nel 1939 diventerà Pio XII, e monsignor Domenico Tardini, sottosegretario di Stato di Pio XI. «Non mi sarei mai immaginato che mi ricevessero in un giorno di festa, è stato un colloquio interessantissimo» annota Prato nel diario, aggiungendo di aver ricevuto la «promessa di intervento immediato presso l’ambasciatore polacco presso la Santa Sede». «Non potevo trovare comprensione più rapida e completa» osserva.
Così quando l’8 gennaio 1937 torna a Roma, il rabbino Prato fa recapitare un «reverente saluto a Tardini» e il 15 maggio 1938 incontra di persona Pacelli «per perorare la causa degli ebrei ungheresi» anch’essi alle prese con discriminazioni e sofferenze. Anche in questo caso Prato agisce con il consenso dei rabbini europei e italiani e parla della proibizione della macellazione rituale, come anche della normativa antisemita introdotta in Ungheria proprio in quelle settimane che introduce criteri proporzionali nella presenza ebraica nella società.
«Certo è che noi dovremmo curare i rapporti col Vaticano perché siamo in questo momento compagni di sventura» appunta Prato nel diario, individuando un terreno di convergenza di interessi con il Vaticano: «Quanto avviene nel mondo rappresenta il fallimento del Cristianesimo» a causa del «neo paganesimo che rimonta con la sua marea», e l’ebraismo «deve lottare, come già lottò, contro il paganesimo che non è affatto scomparso e che si ripresenta oggi sia pure sotto un nuovo aspetto ma sempre temibile per l’umanità».
«Questa è la nostra missione» aggiunge Prato, sottolineando la convergenza tra ebrei e Vaticano. Il canale di comunicazione tra il rabbino di Roma e la Santa Sede funziona ancora nel maggio 1938 - a pochi mesi dalla promulgazione delle leggi razziali in Italia - grazie all’attenzione del Pontefice nei confronti dell’intolleranza religiosa e «della crescita del razzismo e della statolatria».
Per Toscano «Prato coglieva nel neopaganesimo avanzante un pericolo che minacciava insieme il mondo ebraico e quello cattolico», e il 18 maggio 1938 lo spiega all’esponente sionista Moshe Waldmann, formulando la convinzione che l’aggravarsi della spinta neopagana in Germania avrebbe provocato una maggiore attenzione del Vaticano nei confronti delle «richieste ebraiche».
Ma la situazione per gli ebrei in Europa precipita, Prato nel dicembre 1938 lascia l’Italia per rifugiarsi in Palestina e il pontificato di Pio XII, succeduto a Pio XI nel ’39, si sviluppa in un clima assai mutato. Ma «il nuovo rapporto, paritario, aperto e collaborativo del Vaticano con il mondo ebraico, vagheggiato da Prato in anni drammatici e terribili», conclude Toscano, «sarebbe sorto decenni più tardi, in un contesto drammaticamente e radicalmente mutato dalla Shoah e dalla nascita di Israele».
Palatucci, il mito sfatato
di Giuseppe Galzerano (il manifesto, 02 luglio 2013)
Il monumento crolla. Costruito con l’argilla della leggenda e non con il cemento della documentazione storica, il mito di Giovanni Palatucci, l’ex poliziotto fascista irpino (era nato a Montella nel 1909), ubbidiente esecutore degli ordini e osannato salvatore di migliaia di ebrei, non ha retto alle necessarie e inevitabili verifiche della ricerca e della storia e pare addirittura che abbia contribuito alla deportazione degli ebrei.
È quanto emerge da un’accurata e lunga ricerca promossa dal Centro «Primo Levi» di New York che, sulla base della documentazione rinvenuta, approfondisce e chiarisce il divario esistente tra l’agiografia ufficiale del poliziotto santificato e la storia delle persecuzioni antiebraiche a Fiume e nel Carnaro. Un vasto gruppo interdisciplinare di ricercatori - coordinati da Natalia Indrimi, direttrice del Centro «Primo Levi» - ha raccolto, consultato, studiato e setacciato oltre seimila documenti provenienti da numerosi archivi.
La ricerca ha consentito di portare alla luce quello che potremo definire come l’imbroglio Palatucci. Tutto comincia nel 1952, sette anni dopo la sua morte per tifo nel campo di concentramento di Dachau, avvenuta il 9 o 10 febbraio 1945. È in quell’anno che lo zio Giovanni, vescovo di Campagna (Sa), inoltra una petizione al ministero degli Interni sostenendo - senza alcuna documentazione - che il nipote era meritevole di un riconoscimento per aver salvato dalla deportazione e dalla morte gli ebrei fiumani.
Il ministero degli Interni risponde nel mese di luglio con un memorandum: non esiste un qualsiasi indizio provante l’attività a favore degli ebrei da parte del vicecommissario aggiunto, aggiungendo che solo se il governo israeliano avesse fatto formale richiesta per un’indagine il ministero avrebbe preso in considerazione le informazioni presentate dal vescovo di Campagna. Il quale, nei mesi successivi, si adopera per organizzare la cerimonia di Ramat Gan, che poi è servita per tutti i successivi riconoscimenti.
La lettera da Vienna
Il Centro Primo Levi - da noi raggiunto a New York - ricostruisce come, solo dopo questa cerimonia, compaia la prima, e per quarant’anni unica e mai discussa «testimonianza»: la lettera della viennese Rosa Neumann, la cui valutazione - affermano a New York - risulta molto problematica in un confronto analitico con il suo fascicolo di polizia. In questa cerimonia gli viene attribuito il titolo di «Questore di Fiume» - non corrispondente affatto alle sue funzioni, quando il suo grado di vicecommissario aggiunto non gli permetteva nessuna autonomia - per attribuirgli poteri decisionali mai avuti. Da metà aprile all’arresto del 13 settembre 1944, per i tedeschi, Palatucci regge la questura di Fiume: i suoi due fascicoli provano che si muove sempre sotto stretto controllo dei superiori, il prefetto Temistocle Testa e il questore Vincenzo Genovese, ricevendo elogi, sostegno e promozioni, rinunciando per questo ambiguo rapporto al trasferimento, chiesto ben otto volte.
Nel sistema di terrore attuato fin dal 1938 da Testa e Genovese, Palatucci è scrupoloso nell’applicazione delle leggi razziali e attento compilatore dei censimenti che dal 1938 al 1944 vengono usati per privare gli ebrei dei diritti civili, spogliarli dei beni, arrestarli, internarli, espellerli e deportarli nei campi di sterminio.
La persecuzione degli ebrei di Fiume - stando alla documentazione - è tra le più terribili d’Italia e anche dalla corrispondenza delle associazioni di assistenza ebraiche Delasam e Joint, risulta una delle città più bisognose di aiuti per la mancanza di qualsiasi cooperazione delle autorità italiane.
La documentazione al Ministero dell’Interno Direzione Generale di Pubblica Sicurezza, Divisione III, Internamento Ebrei Stranieri contraddice l’ipotesi che Palatucci abbia ordinato il trasferimento di centinaia o migliaia (a seconda delle fonti biografiche) di ebrei nel campo di concentramento di Campagna, dove lo zio, il vescovo Giuseppe Maria Palatucci, li avrebbe assistiti. Dalla documentazione ufficiale risulta che Palatucci non ha alcun ruolo nella scelta delle località di internamento degli ebrei stranieri.
Solo quaranta ebrei fiumani, per delibera del Ministero degli Interni, vengono internati a Campagna. Nessuno di loro gode di particolari favori della questura di Fiume, che invece ha atteggiamenti fortemente persecutori nei loro confronti. A dimostrazione che non si tratta affatto di ebrei né protetti né raccomandati dai Palatucci, ben 9 (su 40) vengono deportati ad Auschwitz ed uno di loro muore per le difficoltà subite durante l’internamento.
Per le sue dimensioni il piccolo «campo» di Campagna, esclusivamente maschile, non era adatto a raccogliere le migliaia di deportati ebrei fiumani, dei quali si parla nelle biografie e nei film dedicati a Palatucci: solo nei primi mesi vi furono 370 internati e mai più di un centinaio di persone: tra il 1940 e il 1943 nell’ex caserma della cittadina salernitana vengono detenuti in totale 534 ebrei.
A New York, pur non negando che il vescovo Palatucci si sia adoperato per alleviare le sofferenze degli internati, sottolineano che non esiste alcuna prova del tentativo delle autorità italiane (politiche ed ecclesiastiche) di trasferire a scopo protettivo gli ebrei a sud e l’idea che scendere al sud rappresentasse la salvezza è puramente retrospettiva, in quanto è provato che dal luglio del 1940 alla seconda metà del 1942 gli ebrei stranieri internati in Italia cercavano in tutti i modi di essere trasferiti al nord per trovarsi più vicini alla Svizzera, dove avrebbero potuto mettersi in salvo.
Salvataggio senza fondamento
La leggenda palatucciana secondo la quale nel 1939 - quando a Fiume non vi erano nazisti per arrestare gli ebrei, ma solo un decreto delle leggi razziali promulgato dal Regno d’Italia che ne prevedeva l’espulsione entro il 12 marzo - il «questore» intercettò e salvò dall’arresto dei nazisti 800 rifugiati ebrei, aiutandoli prima a nascondersi ad Abbazia e poi ad imbarcarsi su un battello, l’Agia Zoni che li condusse secondo alcuni in Puglia e in Palestina secondo altri, è destituita di ogni fondamento storico.
La vicenda, presentata per anni come indocumentabile perché svolta in segreto dal giovane ufficiale di polizia, è possibile ricostruirla grazie al ritrovamento da parte dello storico Marco Coslovich nel 1994, presso l’Archivio di Stato, dell’epistolario completo tra la Prefettura di Fiume e la Capitaneria di Porto: è chiaramente documentato che fu un’operazione persecutoria svoltasi sotto la sorveglianza della polizia fiumana.
La recente scoperta del diario di Alfons Goldman, guida del gruppo, conferma nei dettagli la corrispondenza ufficiale e consente una ricostruzione puntuale della vicenda dell’Agia Zoni, un’operazione dell’Agenzia Ebraica di Zurigo fatta fallire dalla polizia fiumana: Palatucci svolse un ruolo marginale di esecutore degli ordini del prefetto Testa, responsabile dell’arresto di 180 profughi viennesi ad Abbazia, sottoposti a una penosa estorsione e ordinò il respingimento al confine di 600 ebrei apolidi per i quali la spedizione era stata programmata. Con il fallimento dell’operazione il porto di Fiume non verrà più usato dalle organizzazioni ebraiche di assistenza.
Durante l’occupazione tedesca di Fiume, Palatucci continuò a lavorare all’Ufficio Stranieri, aggiornando i censimenti degli ebrei, diventando poi reggente della questura. I mesi da reggente sono documentati attraverso le carte dell’attività della polizia italiana, i mattinali, gli scambi di telegrammi con la polizia tedesca e con la dirigenza di Salò a Maderno. Gli fu affidato il trasporto di circa 400 mila lire (l’equivalente di circa 20 stipendi annuali di ufficiale), i tedeschi lo sospettarono di essersi appropriato di beni confiscati a una famiglia di ebrei e, durante la reggenza, produsse dispacci e informative per la persecuzione degli ebrei.
Contrariamente a quanto sostenuto dai suoi agiografi, non vi è alcun indizio che abbia distrutto cinquemila fascicoli sugli ebrei, che invece risultano tutti regolarmente conservati nel Fondo Questura di Fiume dell’Archivio di Stato di Rijeka, così come li lasciò Giovanni Palatucci all’indomani del suo arresto. È probabile che la notizia che abbia distrutto i fascicoli ha fatto pensare che abbia sottratto gli ebrei all’arresto. Da qui i biografi affermano che a Fiume non vi fu deportazione, ma le ipotesi di salvataggio di massa avanzate dall’apologetica palatucciana sono prive di riferimenti alle fonti archivistiche.
Beatificazione sfumata
Il 13 settembre 1944 Giovanni Palatucci è arrestato dalla polizia tedesca per «intelligenza con il nemico». Dal carcere del Coroneo di Trieste, un mese dopo, con altri 11 mila soldati e diverse centinaia di ufficiali di pubblica sicurezza italiani, è deportato a Dachau, come prigioniero in custodia protettiva, la categoria riservata ai traditori. Nel mese di novembre il suo caso è sottoposto all’attenzione della segreteria personale del Duce, ma non risulta alcuna intercessione in suo favore. La morte nel campo di Dachau, a 35 anni, ha senza dubbio contribuito ad avvalorare la suggestiva tesi della sua opposizione al fascismo e al nazismo.
Ma ora, grazie alle ricerche del Centro «Primo Levi» di New York, dopo anni di culto e di speculazione, conosciamo la verità sulla vita di questo poliziotto che non rinnegò mai il fascismo, non aiutò gli ebrei e da carnefice è stato ritenuto vittima.
Però le leggende - come le bugie - hanno sempre le gambe corte. Palatucci non ha titoli per essere considerato lo «Schindler italiano», come un giusto da Israele, e martire da papa Giovanni Paolo II.
Per questo motivo, scrive il New York Times, il museo dell’Olocausto di Washington ha deciso di rimuovere il suo nome da una mostra, lo Yad Vashem di Gerusalemme e il Vaticano hanno iniziato a esaminare i documenti.
La Santa Sede, che ha in corso una causa di beatificazione, si è bloccata per gli interrogativi sollevati e ha dato incarico a uno storico di studiare la questione. Alla AntiDefamation League, l’associazione ebraica che aveva attribuito a Palatucci il suo Courage to Care Award il 18 maggio 2005, lo stesso giorno nel quale il sindaco di New York Michael Bloomberg aveva dichiarato Giovanni Palatucci Courage to Care Day, affermano: «Alla luce delle prove storiche la Adl non onorerà più la memoria del poliziotto italiano. Sappiamo adesso quel che non sapevamo allora, che cioè Palatucci non fu il salvatore in cui è stato trasformato dopo la guerra», ha detto il direttore di Adl Abraham Foxman, un sopravvissuto ai campi di sterminio, per il quale il poliziotto italiano sarebbe stato «un volenteroso esecutore delle leggi razziali».
Il caso Palatucci e la Shoah italiana
di Furio Colombo (il Fatto Quotidiano, 21 giugno 2013)
La scoperta è brutale. Viene fuori che Giovanni Palatucci, commissario con incarichi speciali all’Ufficio Stranieri della Questura di Fiume (allora città italiana e fascista) negli anni 1943-1945 non era affatto il protagonista di racconti, deposizioni, documenti, libri e film sul suo coraggio nel difendere e salvare migliaia di ebrei, per poi finire lui stesso a Dachau, dove è morto a 37 anni.
Era invece un informatore speciale degli uffici speciali di Hitler che tessevano per tempo la ragnatela di informazioni che avrebbe consentito ben poche fughe. È un colpo duro per Israele, che proprio quest’anno aveva iniziato, con il nuovo ambasciatore Naor Gilon, una speciale celebrazione dei Giusti italiani.
È un colpo duro per molte serie documentazioni esistenti. Ma è forse il momento in cui si rivela in pieno un aspetto scostante e difficile del dramma italiano: italiani come complici, non come Giusti che salvano a costo della vita. O almeno non tutti coloro finora celebrati.
Provo a raccontare. Nel 1987 un’importante casa editrice di New York, Basic Books (seguita l’anno successivo dalla Nebraska University Press) ha pubblicato il primo testo americano di livello accademico sulle leggi razziali italiane, la persecuzione, la deportazione, lo sterminio non solo ad opera dei tedeschi, ma anche dei fascisti e dei delatori italiani. L’autrice, Susan Zuccotti, era docente di Storia della Columbia University, nota per lo scrupolo della documentazione e ricerca. Il libro The Italian Holocaust, Persecution and Survival ha meritato quell’anno il National Jewish Book Award. È toccato a me scrivere l’introduzione.
In quelle pagine ho potuto dire i due problemi che hanno tormentato l’Italia (o meglio la coscienza pubblica e privata degli italiani) dopo la guerra: un lungo silenzio sulla Shoah italiana, al punto che persino i sopravvissuti hanno rinunciato a parlare per paura di non essere creduti, e in cui tutto lo spazio è stato occupato dal mito esclusivo della Resistenza.
E poi, a mano a mano che l’immenso problema emergeva, in brani di storiografia, documenti ritrovati e, finalmente nelle testimonianze raccolte, nella viva voce dei sopravvissuti, è cominciato un “riscatto” degli italiani, che in infinite storie sono apparsi come protettori, salvatori e garanti dei perseguitati. In questo modo, scrivevo, non c’era ancora stato un rendiconto della Shoah italiana.
Naturalmente tenevo conto di Primo Levi. Ma Primo Levi è diventato presto il simbolo dell’orrore concentrazionario nazista, non della persecuzione italiana. E così restava libero lo spazio per continuare a celebrare la grande umanità degli italiani.
Nasce di qui, da questo libro e da questa riflessione cominciata quando ancora, insieme con Edoardo Sanguineti, nel nostro liceo D’Azeglio di Torino abbiamo creato problemi ai nostri docenti (tutti antifascisti) perché volevamo parlare di leggi razziali prima che delle eroiche vicende della Resistenza, la mia ostinazione a istituire per legge un “Giorno della Memoria”.
La ragione è scritta nelle prime righe di introduzione alla legge: “Perché la Shoah è un delitto italiano”. Eppure anche nel libro di Susan Zuccotti, a pag. 218 e 219, la storia di Palatucci è narrata come quella di un eroe che sacrifica tutto e va a morire a Dachau per salvare dalla città di Fiume di cui è responsabile, quanti più ebrei è possibile.
Tutto falso, ci avvertono ora ricerche accurate. Dachau è la sventura di un funzionario caduto in disgrazia dopo avere servito al meglio nel compito di identificare, trovare, arrestare, consegnare cittadini ebrei, con destinazione esclusiva allo sterminio.
Alexander Stille, di questa materia studioso più che giornalista, ha indicato al New York Times tre ragioni: il desiderio cattolico di sbloccare la questione Pio XII esibendo il lavoro e l’impegno per gli ebrei di emblematiche figure di cattolici: la voglia continua e appassionata degli italiani (gli stessi della guerra d’Africa) di essere “buoni” e comunque migliori degli altri europei. E quel tipo di “pacificazione” dopo la Resistenza che ha avuto il merito di evitare la guerra civile, ma il torto di seppellire molti misfatti.
Mi sembra che Stille abbia ragione, e - conoscendo le fonti da cui ora viene accesa la luce sul mito di Palatucci - temo che la storia sia credibile. Ho detto temo perché in passato, e sulla base di ciò che sapevo, ne avevo scritto anch’io e mi piaceva l’immagine di un giovane funzionario, in questo Paese conformista e tutt’altro che anarchico, quando si tratta di stare al sicuro dalla “parte giusta”, un uomo che capisce subito e da solo che stava servendo leggi disumane e insensate.
Trovo una misera attenuante per l’ignoto funzionario Palatucci, diventato informatore speciale dei nazisti in Italia: non aveva esempi, non sentiva voci, nel senso di vere voci umane e note.
Controprova: ricorda qualcuno che mi sta leggendo o che discuterà queste note, un solo grande intellettuale o artista italiano, qualcuno con il microfono aperto e rapporti col mondo, che abbia detto una sola parola contro le leggi razziali italiane?
Temo che la caduta di Palatucci sia un colpo mortale alla celebrazione continua della grande umanità degli italiani. Esiste, certo che esiste. Ma non così come ci hanno detto.
Giovanni Palatucci se questo è un giusto
di Paolo Mastrolilli (La Stampa, 21 giugno 2013)
Ci eravamo illusi di essere diversi, migliori. Italiani brava gente, tutto sommato. Invece adesso scopriamo che anche Giovanni Palatucci, lo «Schindler italiano», era un collaboratore ligio dei nazisti, che non aveva salvato migliaia di ebrei dalla deportazione. Se la denuncia del Centro Primo Levi di New York verrà confermata, potrebbe diventare il colpo più duro alla narrativa nazionale sostenuta per ripulirci la coscienza dagli orrori della seconda guerra mondiale.
Palatucci era nato nel 1909 in provincia di Avellino, e dal 1937 al 1944 era stato funzionario di polizia a Fiume, dove si occupava del censimento degli ebrei. Alla fine del 1944 il colonnello delle SS Kappler lo aveva fatto arrestare e internare a Dachau, dove era morto poco prima della Liberazione.
Dopo la guerra, a partire dal 1952, la sua storia era stata rilanciata dallo zio, il vescovo Giuseppe Maria Palatucci, che lo aveva descritto come un difensore degli ebrei. Tra le altre cose, aveva favorito la fuga in Palestina di un nutrito gruppo di perseguitati a bordo della nave Agia Zoni, ne aveva trasferiti molti nel campo di concentramento di Campagna dove poi si erano salvati, aveva distribuito documenti falsi e distrutto gli archivi identificativi di Fiume, per impedire ai nazisti di rintracciare le loro vittime.
Tutto questo aveva creato un mito e portato una serie di riconoscimenti: la Medaglia d’oro al merito civile dello Stato italiano, la menzione come «Giusto tra le nazioni» al museo Yad Vashem, e la proclamazione di martire da parte di Giovanni Paolo II.
I numeri non tornavano, però. A Palatucci veniva attribuita la salvezza di circa 5.000 ebrei in una regione, il Carnaro, dove al massimo ne vivevano poco più di 600. L’unica testimone che aveva confermato di essere stata aiutata da lui era una donna, Elena Aschkenasy, che il funzionario aveva ricevuto nel 1940.
Il Centro Primo Levi allora ha avviato delle ricerche, che secondo la direttrice Natalia Indrimi hanno portato a questa conclusione: «Si è trattato di creazione postuma di anime». In sostanza lo zio vescovo di Palatucci aveva avviato l’operazione di riscoperta, per far avere la pensione alla sua famiglia. Poco alla volta però la storia era lievitata, perché faceva comodo un po’ a tutti: alla coscienza degli italiani, ai cattolici, agli stessi ebrei che potevano riconoscere dei giusti anche tra i gentili. Così era nato il mito, che aveva convinto tutti.
Un gruppo di storici ora ha potuto vedere circa 700 documenti originali di Fiume, che non erano stati distrutti, ma erano rimasti nascosti negli archivi jugoslavi. Ne è emerso che Palatucci non era il capo della polizia locale, ma un vice commissario incaricato proprio di compilare le liste, e aveva continuato a fare il suo lavoro anche dopo l’armistizio del 1943, giurando fedeltà alla Repubblica di Salò. La nave Agia Zoni non era partita su sua iniziativa, mentre a Campagna erano stati trasferiti solo una quarantina di ebrei, e due terzi di loro erano finiti ad Auschwitz. Il censimento, poi, dimostra che a Fiume c’erano in tutto 398 ebrei, e 245 furono deportati. Nell’intero Carnaro erano al massimo circa 600, e quindi i numeri sono sicuramente esagerati. Quanto alla fine di Palatucci, Kappler lo fece arrestare perché aveva cercato di passare agli inglesi informazioni sulla città, non perché sospettava che avesse aiutato gli ebrei a fuggire.
Non è la prima volta che questi dubbi emergono, ma stavolta sono finiti sul New York Times , perché il Centro Primo Levi li ha comunicati con una lettera allo United States Holocaust Memorial Museum di Washington, che aveva inserito una sezione dedicata a Palatucci nella sua mostra «Some Were Neighbors: Collaboration and Complicity in the Holocaust».
La sezione ora è stata tolta, e anche lo Yad Vashem sta rivedendo i documenti, per decidere se togliere l’italiano dalle persone riconosciute come giuste. Lo stesso Vaticano è informato e il direttore della Sala Stampa, padre Federico Lombardi, ha detto che uno storico è stato incaricato di riesaminare la questione.
Natalia Indrimi dice che condurre queste ricerche non è stato facile, perché «si tratta comunque di un giovane che fece una fine tragica». La direttrice esecutiva del Centro Primo Levi riconosce che «Palatucci probabilmente si trovava a disagio nella sua mansione, tanto è vero che aveva chiesto otto volte di essere trasferito». Questo però non significa che sia stato un eroe dell’assistenza agli ebrei. Il passaggio dei documenti agli inglesi «probabilmente rientra negli effetti del disfacimento della Repubblica sociale, ma la valutazione dei motivi compete agli psicologi, più che agli storici. Del resto Kappler non aveva motivo di mentire, e se l’arresto di Palatucci fosse stato davvero legato all’aiuto fornito agli ebrei, lo avrebbe detto».
La Indrimi non vuole usare queste informazioni per distruggere il mito degli italiani brava gente, che avevano fermato la mano ai nazisti: «Ognuno», dice, «è libero di credere quello che vuole. La vita intellettuale, però, è una delle colonne del nostro Stato laico, ed è importante che i fatti siano conosciuti».
Il caso
Palatucci, la ricerca continua
di Angelo Picariello (Avvenire, 25 marzo 2015)
La ricerca su Giovanni Palatucci continua. Le cifre sull’entità dei suoi salvataggi restano controverse ma della possibilità paventata dal New York Times che potesse essere rivista la sua collocazione fra i Giusti fra le Nazioni non si parla più, anzi per meglio dire lo Yad Vashem non risulta mai che abbia preso in considerazione l’ipotesi.
Il Gruppo di ricerca istituito per tentare di fare chiarezza sulla figura dell’ex commissario dell’ufficio stranieri di Fiume (poi divenuto questore reggente, dopo l’armistizio) dopo i clamorosi echi mediatici internazionali dell’indagine del New York Levi Center che era arrivato a descriverlo tendenzialmente come un delatore dei tedeschi, chiude con un sostanziale nulla di fatto i suoi lavori.
La commissione costituita presso la Fondazione Centro di documentazione Ebraica contemporanea di Milano era stata istituita su richiesta dell’Unione delle comunità ebraiche italiane, è stata coordinata dal presiedente del Cdec Michele Sarfatti. Il gruppo, insediatosi il 17 dicembre 2013, ha tenuto sei riunioni plenarie a Roma e Milano. Un anno e quattro mesi di lavori sintetizzati da uno stringato documento finale, che ha portato all’«acquisizione di nuove fonti documentarie», accanto all’esame di «documenti già noti e studi già pubblicati».
Tuttavia, «dopo molti mesi di lavoro, l’esperienza del gruppo si conclude senza la produzione di una Relazione finale». Al di là delle posizioni diverse di partenza ha pesato la «complessità dell’esame delle testimonianze orali, in particolare nel periodo 1943-1944». È stata quindi valutata la possibilità di escluderle dalla relazione finale. Ma non sarebbe stato fatto un gran servizio alla verità, visto che un’opera svolta spesso in clandestinità non poteva e non può essere ricostruita senza il decisivo apporto delle fonti orali.
«Il gruppo ha quindi dibattuto con diversità di opinioni se fosse o no giusto produrre una relazione finale priva della parte sulle testimonianze, convergendo infine sulla non opportunità di produrla per evitare ad essa critiche di parzialità o di incompletezza». Una riflessione svolta «con amarezza, essendo consapevole che il proprio lavoro di ricerca documentaria e analisi storiografica aveva raggiunto un livello importante e innovativo».
Per Roberto Malini, storico e studioso della Shoah, in questi mesi messosi a sua volta al lavoro per approfondire le ricerche sul commissario di origini irpine morto deportato a Dachau, «la posizione assunta dalla Commissione è matura ed equilibrata. Il gruppo di ricerca si riunì - ricorda - in seguito alle dichiarazioni rese al New York Times da Natalia Indrimi del Levi Center, che annunciava uno studio corredato da prove inoppugnabili contro Palatucci, studio che invece non è mai stato pubblicato. E mentre la Commissione iniziava i lavori, altri storici si sono messi al lavoro per tentare di riparare alla cattiva informazione diffusa dal quotidiano newyorkese. Le ondate di revisionismo e negazionismo, basate su considerazioni livorose e non su evidenze storiche, destano preoccupazione presso studiosi ed educatori che si impegnano quotidianamente affinché la memoria dei milioni di vittime e degli eroi che difesero la civiltà negli anni dell’orrore non venga offuscata».
Anche la famiglia ha ripreso le sue ricerche. Antonio De Simone Palatucci, avvocato montellese nipote diretto del commissario morto a Dachau, ha continuato le sue nel fondo di famiglia. Spunta un documento del 1953, un resoconto della cerimonia che portò al primo riconoscimento, in Israele, per Palatucci, con l’intestazione di una strada a Ramat Gan alla presenza dei due zii del poliziotto, il vescovo di Campagna Giuseppe Maria Palatucci e il fra’ Antonio Palatucci, superiore dei francescani. La traduzione dall’ebraico del puntuale resoconto di quella giornata su un giornale locale restituisce ora alcune curiosità. Colpisce la presenza, fra le autorità, del rabbino di Budapest Fabiano Herschkoovits, a riprova che gran parte dei salvataggi riguardarono proprio ebrei jugoslavi in fuga (il che accresce di molto il numero dei salvati da Palatucci), colpisce l’entusiasmo della gente del posto, molti testimoni diretti dei fatti risalenti a soli 8 anni prima. Colpisce infine che il sindaco Krinizi e anche l’articolista ebreo parlino per tre volte di Palatucci come un «martire». Esattamente 60 anni dopo c’è chi ha provato a ribaltare i fatti, ma a quanto pare le prove non ci sono.
Al contrario, fra le poche cose trapelate dei lavori della commissione emerge che un giovane studioso, Ivan Jelicic, ha trovato un documento in cui persino i partigiani jugoslavi presentavano Palatucci come un benefattore degli ebrei. «Ho inviato il comunicato da parte della Commissione Palatucci al professor David Cassuto e agli altri storici del Memoriale Yad Vashem con cui collaboro e so che lo leggeranno con sollievo», dice Malini.
Ora si può guardare avanti con più serenità. «È stato un lavoro fecondo - assicura Michele Sarfatti - tutti, nessuno escluso, hanno dato il loro contributo. Alcuni aspetti sono stati confutati, ma ne sono emersi di nuovi, molti e molto importanti. Il mio auspicio - conclude il presidente della commissione - è che questa opera di ricerca continui, per avvicinarsi il più possibile alla ricostruzione di una figura, ma anche di un periodo della nostra storia, fra i più complessi e difficili.
Don Sturzo, la Chiesa e la guerra civile spagnola
di Fulvio Cammarano (il Messaggero, 22 gennaio 2013)
La guerra civile spagnola è ancora oggi considerata un conflitto strettamente associato all’idea di guerra di religione. E non può essere altrimenti dato che entrambi i fronti utilizzano la religione come simbolo delle loro ragioni.
Se la Chiesa è in quegli anni interessata ad accreditare l’idea di una guerra come reazione alla persecuzione religiosa dei repubblicani, è però vero che non poche, ma comunque minoritarie, voci del cattolicesimo politico si levarono per contestare tale prospettiva.
Di una delle più rilevanti di queste voci, quella di Luigi Sturzo, ci dà oggi conto Alfonso Botti raccogliendo (in un volume dell’opera omnia di Sturzo, Luigi Sturzo e gli amici spagnoli, 572 pagine, 40 euro a cura dell’Istituto Luigi Sturzo i carteggi tra il sacerdote siciliano e 37 corrispondenti spagnoli.
Si tratta di un lavoro importante non solo perché mette un punto fermo su un tema quasi ignorato dalla storiografia, ma anche perché fornisce una plausibile interpretazione dell’atteggiamento condiscendente della Santa Sede nei confronti dei ribelli franchisti.
Per Botti, non fu il timore delle persecuzioni antireligiose repubblicane a trattenere la Chiesa dal ricoprire un ruolo di pacificatore, ma «furono la benevola e fiduciosa valutazione del fascismo e il modus vivendi trovato (e comunque, anche nei momenti di attrito, auspicato) con esso a orientare la Santa Sede verso la sopravvalutazione dell’interpretazione del conflitto spagnolo come guerra di religione. Che, quindi, fu allo stesso tempo interpretazione e alibi».
FUORI DAL CORO
Sturzo, «voce fuori dal coro», contesta apertamente questa deriva e s’impegna, negli anni della Seconda Repubblica, per evitare l’identificazione tra cattolici e destre e poi, negli anni della guerra civile, opera concretamente a favore di una pace negoziata.
Pur consapevole degli errori del governo repubblicano che «rende difficile anche ai più favorevoli» difenderlo dall’accusa di persecuzione religiosa, Sturzo conferma che il suo obiettivo rimane, come scrive nell’ottobre 1936, «quello di disimpegnare la Chiesa cattolica come tale, dalla solidarietà con gli insorti. Tale accusa ripetuta dai giornali di Sinistra, è diffusa per colpa dei giornali di destra, nazionali, clericali e fascisti che vogliono confondere la causa degl’insorti con quella della Chiesa» (p.48).
Ma perché la Chiesa è in quegli anni avversata da così tanti nemici? Anche in questo caso Sturzo rifiuta la consolatoria e radicata versione del clero come vittima passiva e, con pochi altri, ne attribuisce le responsabilità al rifiuto della gerarchia iberica «alla maturazione di un laicato cattolico autonomo e sensibile alla questione sociale. In altre parole al distacco della Chiesa dal mondo popolare» (p. CXX), una colpa questa che la trasforma da vittima a corresponsabile di quella tragedia che anticipò, da ogni punto di vista, gli orrori della II Guerra mondiale
“È una crociata della classe ricca c’è troppo odio”
di Luigi Sturzo (la Repubblica, 30 gennaio 2013)
Londra, 18 febbraio 1937 [...] Come sono afflitto per la tragedia della cara Spagna, che io ho amato fin da bambino [...]. Io non credo che la vittoria di una parte o dell’altra potrà portare la pace e far superare la crisi attuale. Troppe miserie, troppi disordini, troppe divisioni e troppi odi.
La Chiesa di Spagna, che avrebbe potuto fare opera di pace, si è schierata in maggioranza con una parte quasi dichiarando una Crociata o Guerra Santa.
Dalla stessa parte stanno i latifondi, industriali, classe ricca, che hanno le maggiori responsabilità dell’abbandono della classe operaia in mano ai sovversivi, per avere avversato ogni riforma sociale, portata in nome del Cristianesimo, degl’insegnamenti di Leone XIII e del movimento della democrazia cristiana.
Il fondo della guerra civile e sociale non religioso: lo spagnuolo è a suo modo cattolico anche quando brucia le chiese, in una guisa di protesta come fa il carrettiere bestemmiatore prendendosela con Dio perché il suo cavallo ricalcitra.
Quando, alla fine della guerra, vi saranno a centinaia di migliaia i morti delle due parti, crederà forse il vincitore di poter dominare il vinto, senza un compromesso, una composizione spirituale, prima che economico-sociale?
A mio modo di vedere, solo i cattolici e i cleri rimasti fuori del conflitto, potranno fare opera di pacificazione.
Per questo io sono assai dolente nel vedere che molti giornali e stampa cattolici esteri si sono così benevolmente impegnati per Franco, senza pensare che danno così nuovi motivi agli avversari per credere che tutta la chiesa cattolica compreso il papato sia nemica del popolo operaio spagnuolo, nemica degli stessi baschi, che difendono la loro personalità e autonomia
[...]. Purtroppo i nostri desideri non valgono contro la realtà; e questa è la tragedia [...].
IL CASO
E Pio XII ordinò: «Aiutate quegli ebrei»
di Angelo Picariello (Avvenire, 31 marzo 2011)
Quando morì, il 31 marzo1961, cinquant’anni fa, la notte di venerdì santo, gli fu trovata indosso biancheria «rattoppata da mani poco esperte, con tutta probabilità le sue», né fu possibile trovarne di nuova per l’ultima vestizione. Morì come era vissuto, monsignor Giuseppe Maria Palatucci. Francescano, compagno di seminario di padre Massimiliano Kolbe, fondatore della prestigiosa rivista Luce Serafica e poi vescovo di Campagna, nel Salernitano, si trovò a dover fronteggiare le richieste di aiuto di centinaia, migliaia di ebrei, assegnati negli anni al campo di internamento di San Bartolomeo, e ricevette, per questo, cospicui aiuti vaticani, la cui riferibilità, nero su bianco è ora attribuibile direttamente alla volontà di Pio XII.
Una precisa direttiva del Santo Padre, che si evince già da una lettera datata 20 settembre 1940 del canonico della cattedrale, don Alberto Gibboni il quale (inviato in missione a Roma dal vescovo proprio per perorare la richiesta di aiuti già inviata da qualche giorno) viene ricevuto prima dal cardinale Domenico Tardini, sostituto della Segreteria di Stato. «Per il sussidio - scrive don Gibboni al vescovo - mi ha mandato a monsignor Montini, il quale spedirà subito a lei una somma coll’istruzione per distribuirla tra gli internati. Per l’avvenire mi ha detto che ci tratterà come Genova: ogni volta che busseremo, ci aprirà». Un nuovo documento, questo, che viene alla luce dal prezioso archivio di monsignor Palatucci, comprendente ben 1276 lettere, perorazioni varie e relativi riscontri inerenti la situazione degli ebrei a Campagna. Di ben 188 documenti consta il solo carteggio con la Segreteria di Stato.
Un’opera enorme di catalogazione ancora in corso, curata da don Franco Celetta, parroco a Montella, cittadina natale del vescovo. Documenti che aprono squarci importanti sulle direttive impartite per contrastare le persecuzioni razziali. Ben 36 le lettere intercorrenti fra il vescovo e monsignor Giovan Battista Montini, con un’attenzione meticolosa, da parte di quest’ultimo, alle modalità di impiego, che lascia presupporre un vero e proprio incarico affidato al futuro Paolo VI per gestire nella Segreteria di Stato la delicatissima materia.
E suona come una conferma il riferimento, nella lettera del canonico della cattedrale, ai fondi già inviati a Genova, dove è ben nota l’opera di salvataggio che promosse il cardinale Boetto. La promessa di sussidi al vescovo di Campagna si materializza nel giro di pochi giorni. Il 2 ottobre 1940 il segretario di Stato cardinale Luigi Maglione scrive: «L’Augusto Pontefice si è degnato di accogliere l’esposto e mi ha ordinato di far pervenire a Vostra Eccellenza l’importo di lire 3.000, che le trasmetto con l’unito assegno sul Banco di Roma. Sua Santità, in omaggio all’intenzione degli offerenti, mi ha pure incaricato di FarLe noto che questo denaro è preferibilmente destinato a chi soffre per ragioni di razza».
Precisazione, questa, di assoluta rilevanza storica, da ricollegare al fatto che i campi di internamento del Sud d’Italia ospitavano anche dissidenti politici. E il vescovo non faceva mai mancare, accanto al ringraziamento per i fondi pervenuti e le dettagliate informazioni sul loro utilizzo, l’aggiunta di ulteriori richieste. Il 29 novembre 1940 Montini scrive di suo pugno la lettera che pubblichiamo qui a lato. Poi, di nuovo, il primo maggio del 1941, è il giovane sostituto della Segreteria di Stato che scrive al vescovo: «Il Santo Padre, al quale ho esposto la cosa, si è degnato destinare allo scopo da Lei esposto la somma di lire 5.000 e affida alla carità e alla prudenza dell’Eccellenza Vostra la distribuzione di quei soccorsi che, a suo giudizio, sembrano più urgenti».
Non mancano altre sette lettere intercorse con casa Savoia, per chiedere l’interessamento, su casi spinosi riguardanti singoli internati, del Principe Umberto, che aveva conosciuto nelle esercitazioni militari tenutesi sui monti dell’Irpinia, nel 1936. Nel carteggio il vescovo informa anche il Vaticano del legame operativo nell’opera di salvataggio col nipote Giovanni (commissario dell’ufficio stranieri a Fiume e poi questore reggente, fino alla deportazione a Dachau, dove morì).
E proprio nel corso di una cerimonia di commemorazione e intitolazione di una strada all’eroico commissario, che si tiene nell’aprile del 1953 a Ramat Gan, in Israele, il vescovo Palatucci ricostruisce come «a un certo punto, non potendo con le mie forze aiutarli, dando denaro, vesti, e anche, alle volte, viveri, mi rivolsi al Santo Padre gloriosamente regnante, Pio XII, perché mi mandasse dei sussidi, sicché in quegli anni, io potei aiutare gli ebrei con una somma di circa centomila lire: somma a quel tempo molto rispettabile».
Questa, dunque, la somma totale. I tedeschi in ritirata dopo lo sbarco a Salerno degli Alleati, nel settembre del ’43, si recarono a Campagna, ma ripresero la marcia a mani vuote: complici gli agenti e la popolazione, gli ebrei erano già tutti riparati nelle montagne. Il presidente Napolitano, nel 2006 ha assegnato la medaglia d’oro tanto all’eroico paese quanto al vescovo. Al pari dei fratelli francescani Antonio e Alfonso, monsignor Palatucci riposa a Montella, accanto all’altare del convento san Francesco a Folloni, sorto sul luogo dove il santo di Assisi riposò di ritorno dal pellegrinaggio alla Grotta di San Michele Arcangelo sul Gargano. Oggi, nel cinquantesimo della morte, il comune di Campagna ne commemora la figura alla presenza dell’arcivescovo di Salerno monsignor Luigi Moretti.
Angelo Picariello
HANNAH ARENDT: LA RESISTENZA NONVIOLENTA IN DANIMARCA *
La storia degli ebrei danesi e’ una storia sui generis, e il comportamento della popolazione e del governo danese non trova riscontro in nessun altro paese d’Europa, occupato o alleato dell’Asse o neutrale e indipendente che fosse. Su questa storia si dovrebbero tenere lezioni obbligatorie in tutte le universita’ ove vi sia una facolta’ di scienze politiche, per dare un’idea della potenza enorme della nonviolenza e della resistenza passiva, anche se l’avversario e’ violento e dispone di mezzi infinitamente superiori. Certo, anche altri paesi d’Europa difettavano di "comprensione per la questione ebraica", e anzi si puo’ dire che la maggioranza dei paesi europei fossero contrari alle soluzioni "radicali" e "finali". Come la Danimarca, anche la Svezia, l’Italia e la Bulgaria si rivelarono quasi immuni dall’antisemitismo, ma delle tre di queste nazioni che si trovavano sotto il tallone tedesco soltanto la danese oso’ esprimere apertamente cio’ che pensava. L’Italia e la Bulgaria sabotarono gli ordini della Germania e svolsero un complicato doppio gioco, salvando i loro ebrei con un tour de force d’ingegnosita’, ma non contestarono mai la politica antisemita in quanto tale. Era esattamente l’opposto di quello che fecero i danesi. Quando i tedeschi, con una certa cautela, li invitarono a introdurre il distintivo giallo, essi risposero che il re sarebbe stato il primo a portarlo, e i ministri danesi fecero presente che qualsiasi provvedimento antisemita avrebbe provocato le loro immediate dimissioni. Decisivo fu poi il fatto che i tedeschi non riuscirono nemmeno a imporre che si facesse una distinzione tra gli ebrei di origine danese (che erano circa seimilaquattrocento) e i millequattrocento ebrei di origine tedesca che erano riparati in Danimarca prima della guerra e che ora il governo del Reich aveva dichiarato apolidi. Il rifiuto opposto dai danesi dovette stupire enormemente i tedeschi, poiche’ ai loro occhi era quanto mai "illogico" che un governo proteggesse gente a cui pure aveva negato categoricamente la cittadinanza e anche il permesso di lavorare. (Dal punto di vista giuridico, prima della guerra la situazione dei profughi in Danimarca non era diversa da quella che c’era in Francia, con la sola differenza che la corruzione dilagante nella vita amministrativa della Terza Repubblica permetteva ad alcuni di farsi naturalizzare, grazie a mance o "aderenze", e a molti di lavorare anche senza un permesso; la Danimarca invece, come la Svizzera, non era un paese pour se debrouiller). I danesi spiegarono ai capi tedeschi che siccome i profughi, in quanto apolidi, non erano piu’ cittadini tedeschi, i nazisti non potevano pretendere la loro consegna senza il consenso danese. Fu uno dei pochi casi in cui la condizione di apolide si rivelo’ un buon pretesto, anche se naturalmente non fu per il fatto in se’ di essere apolidi che gli ebrei si salvarono, ma perche’ il governo danese aveva deciso di difenderli. Cosi’ i nazisti non poterono compiere nessuno di quei passi preliminari che erano tanto importanti nella burocrazia dello sterminio, e le operazioni furono rinviate all’autunno del 1943.
Quello che accadde allora fu veramente stupefacente; per i tedeschi, in confronto a cio’ che avveniva in altri paesi d’Europa, fu un grande scompiglio. Nell’agosto del 1943 (quando ormai l’offensiva tedesca in Russia era fallita, l’Afrika Korps si era arreso in Tunisia e gli Alleati erano sbarcati in Italia) il governo svedese annullo’ l’accordo concluso con la Germania nel 1940, in base al quale le truppe tedesche avevano il diritto di attraversare la Svezia. A questo punto i danesi decisero di accelerare un po’ le cose: nei cantieri della Danimarca ci furono sommosse, gli operai si rifiutarono di riparare le navi tedesche e scesero in sciopero. Il comandante militare tedesco proclamo’ lo stato d’emergenza e impose la legge marziale, e Himmler penso’ che fosse il momento buono per affrontare il problema ebraico, la cui "soluzione" si era fatta attendere fin troppo. Ma un fatto che Himmler trascuro’ fu che (a parte la resistenza danese) i capi tedeschi che ormai da anni vivevano in Danimarca non erano piu’ quelli di un tempo. Non solo il generale von Hannecken, il comandante militare, si rifiuto’ di mettere truppe a disposizione del dott. Werner Best, plenipotenziario del Reich; ma anche le unita’ speciali delle SS (gli Einsatzkommandos) che lavoravano in Danimarca trovarono molto da ridire sui "provvedimenti ordinati dagli uffici centrali", come disse Best nella deposizione che rese poi a Norimberga. E lo stesso Best, che veniva dalla Gestapo ed era stato consigliere di Heydrich e aveva scritto un famoso libro sulla polizia e aveva lavorato per il governo militare di Parigi con piena soddisfazione dei suoi superiori, non era piu’ una persona fidata, anche se non e’ certo che a Berlino se ne rendessero perfettamente conto. Comunque, fin dall’inizio era chiaro che le cose non sarebbero andate bene, e l’ufficio di Eichmann mando’ allora in Danimarca uno dei suoi uomini migliori, Rolf Guenther, che sicuramente nessuno poteva accusare di non avere la necessaria "durezza". Ma Guenther non fece nessuna impressione ai suoi colleghi di Copenhagen, e von Hannecken si rifiuto’ addirittura di emanare un decreto che imponesse a tutti gli ebrei di presentarsi per essere mandati a lavorare.
Best ando’ a Berlino e ottenne la promessa che tutti gli ebrei danesi sarebbero stati inviati a Theresienstadt, a qualunque categoria appartenessero - una concessione molto importante, dal punto di vista dei nazisti. Come data del loro arresto e della loro immediata deportazione (le navi erano gia’ pronte nei porti) fu fissata la notte del primo ottobre, e non potendosi fare affidamento ne’ sui danesi ne’ sugli ebrei ne’ sulle truppe tedesche di stanza in Danimarca, arrivarono dalla Germania unita’ della polizia tedesca, per effettuare una perquisizione casa per casa. Ma all’ultimo momento Best proibi’ a queste unita’ di entrare negli alloggi, perche’ c’era il rischio che la polizia danese intervenisse e, se la popolazione danese si fosse scatenata, era probabile che i tedeschi avessero la peggio. Cosi’ poterono essere catturati soltanto quegli ebrei che aprivano volontariamente la porta. I tedeschi trovarono esattamente 477 persone (su piu’ di 7.800) in casa e disposte a lasciarli entrare. Pochi giorni prima della data fatale un agente marittimo tedesco, certo Georg F. Duckwitz, probabilmente istruito dallo stesso Best, aveva rivelato tutto il piano al governo danese, che a sua volta si era affrettato a informare i capi della comunita’ ebraica. E questi, all’opposto dei capi ebraici di altri paesi, avevano comunicato apertamente la notizia ai fedeli, nelle sinagoghe, in occasione delle funzioni religiose del capodanno ebraico. Gli ebrei ebbero appena il tempo di lasciare le loro case e di nascondersi, cosa che fu molto facile perche’, come si espresse la sentenza, "tutto il popolo danese, dal re al piu’ umile cittadino", era pronto a ospitarli.
Probabilmente sarebbero dovuti rimanere nascosti per tutta la durata della guerra se la Danimarca non avesse avuto la fortuna di essere vicina alla Svezia. Si ritenne opportuno trasportare tutti gli ebrei in Svezia, e cosi’ si fece con l’aiuto della flotta da pesca danese. Le spese di trasporto per i non abbienti (circa cento dollari a persona) furono pagate in gran parte da ricchi cittadini danesi, e questa fu forse la cosa piu’ stupefacente di tutte, perche’ negli altri paesi gli ebrei pagavano da se’ le spese della propria deportazione, gli ebrei ricchi spendevano tesori per comprarsi permessi di uscita (in Olanda, Slovacchia e piu’ tardi Ungheria), o corrompendo le autorita’ locali o trattando "legalmente" con le SS, le quali accettavano soltanto valuta pregiata e, per esempio in Olanda, volevano dai cinquemila ai diecimila dollari per persona. Anche dove la popolazione simpatizzava per loro e cercava sinceramente di aiutarli, gli ebrei dovevano pagare se volevano andar via, e quindi le possibilita’ di fuggire, per i poveri, erano nulle.
Occorse quasi tutto ottobre per traghettare gli ebrei attraverso le cinque-quindici miglia di mare che separano la Danimarca dalla Svezia. Gli svedesi accolsero 5.919 profughi, di cui almeno 1.000 erano di origine tedesca, 1.310 erano mezzi ebrei e 686 erano non ebrei sposati ad ebrei. (Quasi la meta’ degli ebrei di origine danese rimase invece in Danimarca, e si salvo’ tenendosi nascosta). Gli ebrei non danesi si trovarono bene come non mai, giacche’ tutti ottennero il permesso di lavorare. Le poche centinaia di persone che la polizia tedesca era riuscita ad arrestare furono trasportate a Theresienstadt: erano persone anziane o povere, che o non erano state avvertite in tempo o non avevano capito la gravita’ della situazione. Nel ghetto godettero di privilegi come nessun altro gruppo, grazie all’incessante campagna che in Danimarca fecero su di loro le autorita’ e privati cittadini. Ne perirono quarantotto, una percentuale non molto alta, se si pensa alla loro eta’ media. Quando tutto fu finito, Eichmann si senti’ in dovere di riconoscere che "per varie ragioni" l’azione contro gli ebrei danesi era stata un "fallimento"; invece quel singolare individuo che era il dott. Best dichiaro’: "Obiettivo dell’operazione non era arrestare un gran numero di ebrei, ma ripulire la Danimarca dagli ebrei: ed ora questo obiettivo e’ stato raggiunto".
L’aspetto politicamente e psicologicamente piu’ interessante di tutta questa vicenda e’ forse costituito dal comportamento delle autorita’ tedesche insediate in Danimarca, dal loro evidente sabotaggio degli ordini che giungevano da Berlino. A quel che si sa, fu questa l’unica volta che i nazisti incontrarono una resistenza aperta, e il risultato fu a quanto pare che quelli di loro che vi si trovarono coinvolti cambiarono mentalita’. Non vedevano piu’ lo sterminio di un intero popolo come una cosa ovvia. Avevano urtato in una resistenza basata su saldi principi, e la loro "durezza" si era sciolta come ghiaccio al sole permettendo il riaffiorare, sia pur timido, di un po’ di vero coraggio. Del resto, che l’ideale della "durezza", eccezion fatta forse per qualche bruto, fosse soltanto un mito creato apposta per autoingannarsi, un mito che nascondeva uno sfrenato desiderio di irreggimentarsi a qualunque prezzo, lo si vide chiaramente al processo di Norimberga, dove gli imputati si accusarono e si tradirono a vicenda giurando e spergiurando di essere sempre stati "contrari" o sostenendo, come fece piu’ tardi anche Eichmann, che i loro superiori avevano abusato delle loro migliori qualita’. (A Gerusalemme Eichmann accuso’ "quelli al potere" di avere abusato della sua "obbedienza": "il suddito di un governo buono e’ fortunato, il suddito di un governo cattivo e’ sfortunato: io non ho avuto fortuna"). Ora avevano perduto l’altezzosita’ d’un tempo, e benche’ i piu’ di loro dovessero ben sapere che non sarebbero sfuggiti alla condanna, nessuno ebbe il fegato di difendere l’ideologia nazista.
* [Da Hannah Arendt, La banalita’ del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, Milano 1964, 1993, alle pp. 177-182. E’ un brano che abbiamo gia’ altre volte riprodotto su questo foglio.
Hannah Arendt e’ nata ad Hannover da famiglia ebraica nel 1906, fu allieva di Husserl, Heidegger e Jaspers; l’ascesa del nazismo la costringe all’esilio, dapprima e’ profuga in Francia, poi esule in America; e’ tra le massime pensatrici politiche del Novecento; docente, scrittrice, intervenne ripetutamente sulle questioni di attualita’ da un punto di vista rigorosamente libertario e in difesa dei diritti umani; mori’ a New York nel 1975. Opere di Hannah Arendt: tra i suoi lavori fondamentali (quasi tutti tradotti in italiano e spesso ristampati, per cui qui di seguito non diamo l’anno di pubblicazione dell’edizione italiana, ma solo l’anno dell’edizione originale) ci sono Le origini del totalitarismo (prima edizione 1951), Comunita’, Milano; Vita Activa (1958), Bompiani, Milano; Rahel Varnhagen (1959), Il Saggiatore, Milano; Tra passato e futuro (1961), Garzanti, Milano; La banalita’ del male. Eichmann a Gerusalemme (1963), Feltrinelli, Milano; Sulla rivoluzione (1963), Comunita’, Milano; postumo e incompiuto e’ apparso La vita della mente (1978), Il Mulino, Bologna. Una raccolta di brevi saggi di intervento politico e’ Politica e menzogna, Sugarco, Milano, 1985. Molto interessanti i carteggi con Karl Jaspers (Carteggio 1926-1969. Filosofia e politica, Feltrinelli, Milano 1989) e con Mary McCarthy (Tra amiche. La corrispondenza di Hannah Arendt e Mary McCarthy 1949-1975, Sellerio, Palermo 1999). Una recente raccolta di scritti vari e’ Archivio Arendt. 1. 1930-1948, Feltrinelli, Milano 2001; Archivio Arendt 2. 1950-1954, Feltrinelli, Milano 2003; cfr. anche la raccolta Responsabilita’ e giudizio, Einaudi, Torino 2004; la recente Antologia, Feltrinelli, Milano 2006; i recentemente pubblicati Quaderni e diari, Neri Pozza, 2007. Opere su Hannah Arendt: fondamentale e’ la biografia di Elisabeth Young-Bruehl, Hannah Arendt, Bollati Boringhieri, Torino 1994; tra gli studi critici: Laura Boella, Hannah Arendt, Feltrinelli, Milano 1995; Roberto Esposito, L’origine della politica: Hannah Arendt o Simone Weil?, Donzelli, Roma 1996; Paolo Flores d’Arcais, Hannah Arendt, Donzelli, Roma 1995; Simona Forti, Vita della mente e tempo della polis, Franco Angeli, Milano 1996; Simona Forti (a cura di), Hannah Arendt, Milano 1999; Augusto Illuminati, Esercizi politici: quattro sguardi su Hannah Arendt, Manifestolibri, Roma 1994; Friedrich G. Friedmann, Hannah Arendt, Giuntina, Firenze 2001; Julia Kristeva, Hannah Arendt, Donzelli, Roma 2005; Alois Prinz, Io, Hannah Arendt, Donzelli, Roma 1999, 2009. Per chi legge il tedesco due piacevoli monografie divulgative-introduttive (con ricco apparato iconografico) sono: Wolfgang Heuer, Hannah Arendt, Rowohlt, Reinbek bei Hamburg 1987, 1999; Ingeborg Gleichauf, Hannah Arendt, Dtv, Muenchen 2000]
* TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO Numero 395 del 5 dicembre 2010
Telegrammi della nonviolenza in cammino proposti dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it
GATTEGNA NON PARLI A NOME DEGLI EBREI !
di Gherush92 (2010-11-17)
Passi per qualche storico compiacente, passi pure per qualche appello di un intellettuale voltagabbana, ma, quando si tratta della Memoria delle persecuzioni, quando si tratta di Antisemitismo, il Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane deve stare attento a quel che dice e, soprattutto, non deve parlare a nome degli Ebrei; egli, infatti, non rappresenta tutti gli Ebrei perché eletto con una manciata di voti. Se Gattegna vuole collaborare con l’Osservatore Romano deve farlo a titolo personale.
Sull’Osservatore Romano a proposito del film “Sotto il cielo di Roma” Gattegna scrive: “Sulla causa di beatificazione [di Pio XII], procedura interna della Chiesa cattolica, gli ebrei non vogliono intervenire”. Egli parla a nome di tutti gli ebrei, favorevoli e contrari, su questioni che non sono di sua competenza. Non è vero che la beatificazione di Pio XII è solo affare interno della chiesa. La beatificazione implica il giudizio sulle virtù di papa Pacelli e ha, come ricaduta, l’obnubilazione della Memoria e la diffusione della propaganda cristiana in ogni ambiente, religioso e laico. Quanti, ad esempio, studiando Agostino (padre, dottore e santo della chiesa), ricordano che egli ha scritto il “Trattato contro i Giudei”? E quanti, approfondendo Pio XII (pontefice e beato), ricordano che egli si schierò a favore delle leggi razziali?
Gattegna auspica di rimandare la valutazione sull’atteggiamento del papa nella shoà al giudizio degli storici: “Sarebbe di fondamentale importanza proseguire e completare il lungo e difficile lavoro di ricerca negli archivi, di studio e di valutazione che certamente non può essere svolto in tempi brevi.” Egli non è competente su questioni di tale rilievo e, almeno, avrebbe dovuto evidenziare che esiste, e sono molti, chi non pensa come lui. I fatti e gli eventi di Pio XII, il papa della Shoah, sono tutti tristemente noti. Non esistono storici e accademici che possono dare risposta, non esiste un consiglio che possa pronunciarsi, non esistono specialisti esperti, archivi o documenti. Specialisti e competenti sono le vittime e il giudizio rimane agli ebrei insieme ai rom, agli omosessuali, alle donne e ai dissidenti che morirono o persero i loro familiari nei campi. Il giudizio rimane ai sopravvissuti, ai discendenti dello sterminio, ai milioni di morti. La testimonianza delle persecuzioni non può certo venir mortificata da faccende mondane come la necessità opportunistica di lodare le qualità artistiche di uno sceneggiato televisivo di infima qualità. La testimonianza delle persecuzioni è un dovere e non può essere limitata o confinata in ristretti ambiti, quali ad esempio archivi storici o commissioni, giudizi e interpretazioni storiche, questioni scientifiche, artistiche, religiose o politiche. Le vittime non devono svendere la Memoria per acquiescenza ai persecutori.
Gattegna è persino ridicolo quando lancia la supplica incondizionata per “una aperta dichiarazione di rinuncia da parte della Chiesa a qualsiasi manifestazione di intento rivolto alla conversione degli ebrei, accompagnata dall’eliminazione di questo auspicio dalla liturgia del Venerdì che precede la Pasqua”. Se da una parte vanta i progressi del dialogo interreligioso, egli è costretto ad ammettere che i risultati sono smentiti dal costante tentativo della chiesa di demolire l’ebraismo con la conversione e l’annichilimento culturale, e di deviarlo dalla propria dimensione metastorica per ricondurlo nella trappola del revisionismo, dove hanno vita solo vittime, senza carnefici. L’implorazione inviata all’Osservatore Romano è segno tangibile che l’essere questuanti sudditi di Papa Re, e non cittadini liberi della repubblica, sembra l’unica scelta possibile per ottenere protezione e sostegno che, di fatto, non esistono.
Non si accetti di condividere la responsabilità del processo di dialogo interreligioso che, negli ultimi anni, ha portato la cristianità a burlarsi degli Ebrei e ha tentato di ricondurli in un ghetto culturale. Non si accetti di delegare al protagonismo propagandistico e islamofobico di “Fattori” e “Presidenti” (che tutto mediano ma nulla ottengono) che accolgono, a nome di tutti, il processo di beatificazione Pio XII e il giudizio definitivo che ne deriva. Chiediamo ampio e duraturo dibattito pubblico che coinvolga l’ebraismo mondiale e le voci di tutte le vittime.
DIMISSIONI DEL PRESIDENTE DELL’UNIONE DELLE COMUNITA’EBRAICHE ITALIANE
NO ALLA BEATIFICAZIONE DI PIO XII
NO AL DIALOGO INTERRELIGIOSO
Berlino 1921 qui si prepara la Shoah
di Andrea Cortellessa *
Non sempre gli atti di un convegno sono riservati agli specialisti. Lo dimostra Leggi del 1938 e cultura del razzismo. Storia, memoria, rimozione, appena uscito da Viella (a cura di Marina Beer, Anna Foa e Isabella Iannuzzi, pp. 223, € 23), soprattutto rivolto ai giovani, prime vittime delle campagne neo-razziste oggi sfrontatamente proposte da certi media. Ci appaiono talmente folli, i paradigmi razzisti, che fatichiamo ad accorgerci di come facciano breccia nella cultura di massa (basti pensare agli slogan delle tifoserie calcistiche).
Il libro mostra come l’episodio più nefando della nostra storia recente - appunto le Leggi razziali con le quali il Fascismo privò dei loro diritti gli ebrei italiani - sia stato a lungo «rimosso» dalla nostra cultura (gli ultimi dispositivi correlati sono stati abrogati solo nel 1987!): dando così vita a un mito, quello del «buon italiano», che ci impedisce di fare i conti con le pagine più buie della nostra storia.
Fra i contributi spicca quello di Giorgio Fabre su Giulio De Benedetti: nel dopoguerra per due decenni mitico direttore della Stampa, ma già brillante columnist durante il Ventennio. Prima vezzeggiato poi malvisto dai gerarchi (si iscrive al Fascio nel 1927), cade definitivamente in disgrazia - com’è ovvio - con le Leggi razziali.
Ma in tempi non sospetti fu il primo giornalista ad avvisare dell’orrore antisemita che si andava preparando (fu anche tra i primi, in Europa, a intervistare il giovane Adolf Hitler, tuttavia sottovalutandolo). Fabre riporta una sua corrispondenza dalla Germania, uscita sulla Gazzetta del Popolo il 10 luglio 1921 con il titolo «La croce uncinata», che fa venire i brividi. Specie quando il leader antisemita di allora serenamente contempla, per gli ebrei, la prospettiva della «morte, del massacro, dell’espulsione e della confisca dei beni».
*** * ***
Berlino 1921
I tedeschi cercano un capro espiatorio
di Giulio De Benedetti
Così il futuro direttore della Stampa, in anticipo sui tempi, denunciava i pericoli dell’escalation antisemita.
La Germania, dopo la rivoluzione, è diventata il centro del movimento antisemita. Da Berlino e da Monaco non si organizzano naturalmente i progroms [così nel testo, ndr] in Galizia e in Ucraina, ma si dirige questo movimento spirituale che ha millenni di storia e nell’interno del paese si è scatenata contemporaneamente una bassa e volgare agitazione come non ha esempio in nessun paese civile.
[...] La Germania ha perduto la guerra sui campi di battaglia. [...] Ciò non impedisce che vi siano diecine di quotidiani ed alcuni milioni di tedeschi sicuri che la sconfitta, il crollo dell’Impero, la rivoluzione e la pace di Versailles siano stati un’opera degli ebrei. Considerati questi principii, si comprende quali sono le basi del movimento politico antisemita che si svolge attualmente in Germania. [...]
Il conte Reventlow, uno dei capi riconosciuti di questo movimento, mi diceva giorni or sono in un lungo colloquio che ha avuto la cortesia di accordarmi: «Il nostro problema giudaico non rappresenta che una parte di quello mondiale. Esso non può trovare una soluzione radicale che in forma internazionale». Come risolverlo però il conte Reventlow non sa: la morte, il massacro, l’espulsione e la confisca dei beni sono misure di cui comprende le difficoltà. Spera in un miracolo: « [...] Innanzi tutto propagandare l’idea, poi, quanto ai mezzi, si vedrà». [...]
Nell’attesa di misure più energiche egli si accontenterebbe che si ponesse un limite alla loro attività riapplicando quella serie di misure restrittive che il soffio di libertà della seconda metà del secolo scorso aveva abbattuto in tutti i Paesi civili. Il conte Reventlow, sicuro di fare parte di una crociata per la liberazione del mondo, non vuole riconoscere insomma la legge morale che impone di giudicare ogni individuo per quello che è, per quello che fa e non dalla sua origine o dal luogo di nascita dei suoi antenati.
A fianco della lotta politica [...], si è scatenata in Germania una campagna brutale ed incosciente contro una minoranza. Vi sono diecine di quotidiani che eccitano i più bassi istinti della popolazione contro la razza semita, vi è una serie di giornali che non hanno altro programma di questa propaganda; si sono formate delle società, si pubblicano libri, opuscoli, riviste, settimanali che dimostrano come tutte le turpitudini, tutte le vergogne di questa disgraziata generazione ricadono sugli ebrei. [...] Si crea così nel Paese uno stato d’animo da progroms, malgrado il carattere civile del popolo tedesco faccia escludere questa possibilità, ma non è raro il caso di trovare tutta una strada segnata colla croce uncinata (incontrate quotidianamente centinaia di persone per le vie di Berlino che portano questo simbolo della lotta antisemita), o che gli ebrei siano assaliti nelle vie da studenti nazionalisti o da membri delle organizzazioni militari ora disciolte e quotidianamente si legge che in Università od in Scuole superiori si impedisce agli insegnanti israeliti di parlare. [...]
Ieri ancora la Deutsche Zeitung definiva il prof. Einstein, il creatore della teoria della relatività, come il più grande ciarlatano del secolo; un settimanale invitava anzi apertamente ad assassinarlo ed il direttore fu condannato a mille marchi di multa per eccitazione a delinquere. (Un esempio ancora tra i molti: in una scuola una maestra domanda ad una ragazza di tredici anni perché non è battezzata: «Mio padre è ebreo, mia madre è cristiana». Risposta della maestra: «Così la patria ha perduto una madre ed una figlia e fisicamente questo matrimonio può essere paragonato all’unione tra un Bulldog ed un S. Bernardo»).
Il tedesco è antisemita oggi come lo è sempre stato, ma nei periodi della miseria, come dimostra la sua storia, cerca più che mai un capro espiatorio alla sua collera impotente: perché è un popolo questo che manca di tolleranza, di fantasia e soprattutto ignora - non bisogna mai dimenticarlo - cosa sia la bontà.
* La Stampa, 22 marzo 2010
Le virtù eroiche di Pio XII
di Bruno Gravagnuolo (l’Unità, 03 febbraio 2010)
Dunque Pio XII conosceva benissimo la realtà delle camere a gas. E non ignorava la differenza
specifica tra altri possibili crimini in corso nel 1944 - come quelli attribuiti ai Russi nei paesi baltici
e lo sterminio di massa degli ebrei. Inoltre, a fine 1943, Pacelli si preoccupava non delle razzie
naziste nella Capitale, bensì dell’eventuale trasformarsi di Roma in campo di battaglia, con l’arrivo
degli Alleati. Nonché della presenza di «piccole bande comuniste», che avrebbero potuto
commettere violenze al momento dell’evacuazione tedesca.
Già, sono rivelazioni inquietanti quelle che ci vengono dagli archivi londinesi di Kew Garden, per merito di Mario J. Chiereghino e Giuseppe Casarrubea (e di cui ci dà notizia sul Corsera di ieri l’altro Antonio Cairoti). In particolare inquieta il fatto che il giorno dopo la partenza dei vagoni piombati per Aushwitz da Roma, con i 10024 ebrei presi al ghetto e altrove, Pio XII non accennasse affatto al tragico evento, con l’ambasciatore Usa Tittmann.
Né d’altra parte la Santa Sede, tra il16 ottobre e il 18, cercò di fermare la deportazione degli ebrei, stipati prima al Collegio Militare della Lungara e poi nei vagoni alla Stazione Tiburtina. Due giorni e mezzo di tempo, tra rastrellamento e partenza. E nessun passo ufficiale, né sottotraccia!
A parte (sembra) una larvata «minaccia» di protesta, mai attuata. Come è possibile? E come è possibile che Pacelli, sollecitato nel novembre 1944 dall’Ambasciatore inglese D’Arcy Osborne a fermare la deportazione degli ebrei d’Ungheria, abbia invece sollevato il tema dei crimini russi? Consentendo peraltro sulla incomparabilità dei crimini in questione: «su questo il Papa ha concordato», dice D’Arcy Osborne. Risultato: nessuna denuncia, nessun intervento. Silenzio.
Davvero intervenire sarebbe stato inutile e dannoso? Non ci si poteva provare? E il vero pericolo erano le «piccole bande comuniste» e i comunisti? No, è insostenibile. Ma ancor più insostenibile è che si voglia far beato e santo questo Papa per «virtù eroiche». Proprio così. Eroiche...
27 GENNAIO GIORNO DELLA MEMORIA
Data: 2010-01-26
Autore: Gherush92
Il Giorno della Memoria non può essere solo una ripetitiva rappresentazione delle vittime cui vene richiesto di spiegare il motivo della loro perscuzione.
Il Giorno della Memoria dovrebbe essere soprattutto lo studio e il ricordo dei persecutori e delle loro motivazioni e teorie storiche, fino ad oggi. Per questo Gherush92 intende lanciare una campagna dal titolo "dalla Croce alla Shoah" per la raccolta di documenti e informazioni sulle persecuzioni del razzismo cristiano contro ebrei, rom, popoli indigeni, omosessuali, disabili, donne, dissidenti ed eretici.
Eccovi un esempio.
Angelo Roncalli, nunzio apostolico di Pio XII a Istanbul, il 4 settembre 1943, in piena occupazione nazista, a proposito delle domande che giungevano sempre più pressanti al Vaticano affinché si adoperasse per facilitare l’uscita degli ebrei dal territorio italiano, scriveva al cardinal Maglione, Segretario di Stato, la terribile lettera riportata che rappresentò la condanna a morte per molti ebrei. La storia ci ricorda che la carità della Santa Sede non costituì alcuna speranza per gli ebrei europei e in particolare per quelli del ghetto di Roma che ad un mese dalla lettera di Roncalli furono deportati per finire nei forni crematori nazisti.
Sulla base di questo ed altri documenti dovrà essere valutata la responsabilità diretta e indiretta di Roncalli, nunzio apostolico in Turchia, del Cardinale Maglione, Segretario di Stato del Vaticano, e di papa Pacelli detto Pio XII Pontefice e Capo del Vaticano in attività di crimini contro l’umanità per aver condiviso la responsabilità della deportazione degli ebrei.
Fonte del documento sotto riportato: ACTES ET DOCUMENTS DU SAINT SIỀGE RELATIFS Ầ LA SECONDE GUERRE MONDIALE Vol. 9 n.324.
324. Le délégué apostolique à Istanbul Roncalli au cardinal Maglione
Rap. Nr. 4344 (A.E.S. 6077/43. orig.)
Instanbul, 4 septembre 1943
Demande d’une démarche en faveur des Juifs Italiens; doutes du Délégué sur l’utilité d’une immigration en Palestine.
Faccio seguito al mio devoto rapporto n. 4332 in data 20 agosto u.s. trasmettendo altre domande che mi vengono sottoposte a favore di israeliti.
La seconda di queste intende ad ottenere l’intervento della Santa Sede perché sia facilitata l’uscita di numerosi ebrei dal territorio italiano: e modifica le altre già fatte nelle mie note precedenti ai numeri 1, 3, 4, 5.
Confesso che questo convogliare, proprio la Santa Sede, gli ebrei verso la Palestina, quasi alla ricostruzione del regno ebraico, incominciando al farli uscire d’Italia, mi suscita qualche incertezza nello spirito.
Che ciò facciano i loro connazionali ed i loro amici politici lo si comprende. Ma non mi pare di buon gusto che proprio l’esercizio semplice ed elevato della carità della Santa Sede possa offrire l’occasione o la parvenza a che si riconosca in esso una tal quale cooperazione almeno iniziale e indiretta, alla realizzazione del sogno messianico.
Tutto questo però non è forse che uno scrupolo mio personale che basta aver confessato perché sia disperso. Tanto e tanto è ben certo che la ricostruzione del regno di Giuda e di Israele non è che un’utopia.
Da: ACTES ET DOCUMENTS DU SAINT SIỀGE RELATIFS Ầ LA SECONDE GUERRE MONDIALE Vol. 9 n.324, nel database G92db di Gherush92.
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Oltre a Pio XII, tacquero anche la Signora di Fatima, e il Signore
di Francesca Ribeiro *
Il 2 dicembre del 1940, suor Maria Lucia, la veggente di Fatima, scriveva a Pio XII: «Vengo, Santo Padre, a rinnovare una domanda, che fu già portata varie volte presso Vostra Santità...Nel 1929 Nostra Signora mediante un’altra apparizione domandò la Consacrazione della Russia al suo Cuore Immacolato...In varie comunicazioni intime Nostro Signore non ha cessato di insistere in questa domanda...la Consacrazione del mondo all’Immacolato Cuore di Maria con menzione speciale della Russia...».".
Il 27 aprile del 2000, la veggente, assieme al vescovo di Leiria - Fatima, incontra Mons. Tarcisio Bertone, e "condivide l’interpretazione secondo cui la terza parte del «segreto» consiste in una visione profetica...Essa ribadisce la sua convinzione che la visione di Fatima riguarda soprattutto la lotta del comunismo ateo contro la Chiesa e i cristiani" (Joseph Card. Ratzinger - Il Messaggio di Fatima - Elledici).
La rivelazione del «segreto» sarebbe avvenuta nel 1917. Sin da allora, prima la Signora di Fatima, e poi Nostro Signore, si sarebbero preoccupati delle vittime cristiane del comunismo, senza fare un minimo cenno alla vittime ebree del nazionalsocialismo. Una consacrazione della Germania al Cuore Immacolato di Maria, non sarebbe stata più che opportuna?
Ma forse il Signore, e la Signora di Fatima temevano di irritare Hitler, il quale ad un gruppo strettissimo dei suoi collaboratori nella cancelleria del Reich, ebbe a dichiarare: «Il fascismo può fare, se vuole, in nome di Dio la sua pace con la chiesa. La farei anch’io, e perché no? Ciò non m’impedirà tuttavia di sradicare ogni forma di cristianesimo dalla Germania. O si è cristiani o si è tedeschi. Non si può essere l’uno e l’altro!» (Fr. Zipfel, Kirchenkampf in Deutschland, 1933 - 1945, Berlino 1965,9). E forse lo stesso timore indusse Pio XII al silenzio.
Francesca Ribeiro
*Il Dialogo, Venerdì 29 Gennaio,2010
Ma così si riaprono antiche ferite
di Sergio Luzzatto (Il Sole 24 Ore, 22 dicembre 2009)
La contemporaneità delle due notizie è da ritenersi casuale, ma colpisce ugualmente. In Polonia, alcuni criminali rubano da Auschwitz la scritta-simbolo della Soluzione finale, «Arbeit macht frei». In Vaticano, Papa Ratzinger firma il decreto che avvia Pio XII sulla strada della beatificazione. Un increscioso affronto simbolico alla memoria della Shoah coincide con un clamoroso riconoscimento canonico delle "virtù eroiche" di chi era pontefice durante lo sterminio degli ebrei
Nei giorni scorsi, le due notizie hanno provocato reazioni differenti. Il furto compiuto in Polonia ha suscitato l’unanime riprovazione dell’opinione pubblica internazionale, che ha tirato un grande sospiro di sollievo quando si è saputo che l’insegna era stata ritrovata. Il decreto firmato in Vaticano ha invece diviso. Da una parte gli apologeti di Pio XII, fieri che Ratzinger abbia rotto gli indugi e fiduciosi di vedere Pacelli elevato presto agli altari. Dall’altra parte i critici di Pio XII, inquieti che la decisione vaticana offenda le comunità ebraiche e penalizzi il dialogo interreligioso. In realtà, la doppia notizia di questi giorni andrebbe sottratta sia al tempo troppo rapido delle news, sia al riflesso quasi pavloviano delle contrapposte appartenenze. Andrebbe consegnata a un’analisi più distesa, a una riflessione più storica. Si scoprirebbe forse, a quel punto, che non tutto il male viene per nuocere.
Lo sciagurato furto di Auschwitz ha offerto una testimonianza straordinaria di come la Polonia stia cambiando. Nelle quarantotto ore intercorse fra il trafugamento dell’insegna e il suo ritrovamento, il paese natale di papa Wojtyla - amico vero degli ebrei - è stato colpito da un trauma collettivo. Di là dalla mobilitazione poliziesca per identificare e arrestare i responsabili del furto (a quanto sembra, non immediatamente legati a circoli neonazisti), la Polonia si è dimostrata compatta nel vivere l’episodio criminale come un terribile memento dei suoi trascorsi di nazione antisemita
Pochi anni fa, la pubblicazione di un libro di storia che sottolineava il volenteroso contributo dei polacchi alla Soluzione finale del problema ebraico (Jan T. Gross, I carnefici della porta accanto, Mondadori 2002) aveva suscitato reazioni piccate e scomposte nella Polonia dei fratelli Kaczynski e di Radio Maryia. Oggi, l’antisemitismo che tuttora alligna in alcuni settori della società polacca ha dovuto inchinarsi alle passioni e alle ragioni di una nazione altrimenti matura e civile. Quanto alla prospettiva di un’elevazione agli altari di Papa Pacelli, non c’è dubbio che si tratti di una faccenda carica d’implicazioni gravi. Lo attestano i segnali di protesta che si vanno levando - oltreché dalle comunità ebraiche - dagli ambienti cattolici più impegnati sul fronte dell’ecumenismo. La decisione di Joseph Ratzinger minaccia di riaprire ferite che ci si poteva augurare rimarginate per sempre grazie all’impegno di Karol Wojtyla.
Eppure, anche nel caso del decreto vaticano su Pio XII non tutto il male viene per nuocere. Perché qualunque cosa la Chiesa cattolica voglia decidere riguardo alla beatificazione di un papa, la collettività intera ha ancora bisogno di studiare, di ragionare, di sapere intorno alla questione del rapporto fra carnefici, vittime e spettatori della Shoah.
La storia guadagna poco da un approccio di tipo giudiziario, da una dialettica secca colpevole/innocente. E tanto meno guadagna la storia della Shoah, che tra il bianco e il nero conobbe infinite gradazioni di grigio. Pio XII non va trasformato nell’unico responsabile di quella che fu l’indifferenza diplomatica - o, peggio, il calcolo politico -anche delle maggiori potenze impegnate nella guerra contro il nazismo. Dal 1941 al ’45, il silenzio di Churchill e di Roosevelt (per tacere di Stalin) fu altrettanto assordante del silenzio di Papa Pacelli
Ciò detto, il Vaticano potrebbe ben guardare alla vicenda di cattolici i quali, durante la Soluzione finale, mostrarono di possedere "virtù eroiche" assai più sviluppate che quelle di Pio XII. Uno per tutti: Jan Karski, eccezionale figura di messaggero della Resistenza polacca presso i governi alleati. In un giorno d’agosto del 1942, questo giovane uomo vide lo spettacolo inenarrabile del ghetto di Varsavia, e da allora ebbe una sola idea fissa: far sapere al mondo che gli ebrei venivano sterminati. Le torture dei nazisti non lo fermarono. Fra il ’43 e i1 ’44 Karski fu a Londra, fu a Washington, bussò a tutte le porte di tutti i potenti della coalizione antihitleriana. Non fu creduto, ma non smise di battersi per salvare - se non la vita degli ebrei - almeno la coscienza del mondo. Lui sì che andrebbe fatto santo, santo subito. Sergio Luzzatto insegna storia moderna all’Università degli studi di Torino
Il papa dei troppi silenzi
di Marco Politi (il Fatto Quotidiano, 22 dicembre 2009)
Santo no. Anche se appare un leader importante della Chiesa del Novecento. Pio XII, che papa Ratzinger sta portando sugli altari, resta una figura controversa. Difficile presentarlo come simbolo e modello da seguire. È bastato che Benedetto XVI firmasse il decreto sulle “virtù eroiche” di Eugenio Pacelli (ultimo passo, oltre al riconoscimento di un miracolo, prima della beatificazione ufficiale) perché esplodesse nuovamente la crisi fra Ratzinger e il mondo ebraico. Il Papa dovrebbe recarsi in visita alla Sinagoga il 17 gennaio, ma ora tutto è in forse. Già l’anno scorso, proprio a causa dell’esaltazione di Pio XII fatta da Ratzinger, l’assemblea rabbinica italiana aveva cancellato la tradizionale giornata d’incontro cattolico-ebraica.
Faticosamente si era riallacciato il dialogo e adesso arriva la nuova gelata. Dietro le quinte sono in corso negoziati molto tesi perché il Vaticano garantisca che la beatificazione di Pacelli non abbia luogo almeno nel 2010 assieme a quella di Karol Wojtyla.
Continua a pesare su Pio XII l’atteggiamento di diplomatica prudenza di fronte all’Olocausto, quel “silenzio” che gli fu rimproverato dal drammaturgo Rolf Hochhuth nell’opera teatrale “Il Vicario”, che nel 1963 si conquistò risonanza mondiale. Ancora oggi i maggiori rappresentanti dell’ebraismo gli rimproverano di non avere detto una parola quando i nazisti rastrellarono a Roma, quasi sotto le finestre del Palazzo apostolico, e oltre mille ebrei che vennero deportati ad Auschwitz il 16 ottobre 1943.
Negli ultimi vent’anni l’immagine di papa Pacelli è rimasta schiacciata sulle vicende della Shoah, paradossalmente dopo che nell’immediato dopoguerra esponenti ebraici di primo piano come il premier israeliano Golda Meir lo avevano elogiato come difensore delle vittime dell’Olocausto. In effetti immaginare Pio XII tollerante verso il nazismo o peggio suo complice - secondo la tesi adombrata nel titolo del libro “Hitler’s Pope - Il Papa di Hitler” dello scrittore britannico John Cornwell - è una falsità. Pacelli aveva orrore di Hitler e dell’ideologia neopagana e razzista del nazismo. Negli archivi sono state trovate anche tracce di un suo cauto, ma convinto appoggio ai tentativi di circoli dell’establishment tedesco di eliminare il Führer. Né si può dimenticare l’impulso da lui dato a istituzioni e conventi cattolici per salvare in ogni modo un numero grandissimo di ebrei.
E tuttavia, nella stagione cruciale del duello mortale ingaggiato tra il nazifascismo e lo schieramento antifascista, divenuto poi in guerra il fronte degli alleati, Eugenio Pacelli è rimasto vittima di una concezione tutta politica e diplomatica della sua missione. Era preoccupato di salvaguardare per la Santa Sede una posizione al di sopra delle parti nel conflitto mondiale, preoccupato di garantire i diritti della Chiesa cattolica tedesca attraverso il Concordato offertogli da Hitler, preoccupato di mantenere per la Germania una funzione di baluardo nei confronti del bolscevismo, convinto di scegliere il male minore non chiamando per nome la bestiale persecuzione degli ebrei nell’intento di salvarli dietro le quinte.
Così Pio XII non ha saputo essere all’altezza del momento storico. Quanto più negli ultimi cinquant’anni è cresciuta la consapevolezza internazionale del carattere radicalmente disumano della Shoah tanto più appare chiaro che Pio XII ha mancato nel ruolo profetico che dovrebbe svolgere un “vicario di Cristo”. Ci sono tappe precise che testimoniano dei fallimenti di papa Pacelli, non riscattati dalla sincerità delle sue intime angosce. Come segretario di Stato vaticano Pacelli preme nel 1933 sul partito cattolico tedesco Zentrum affinché voti i pieni poteri a Hitler, prologo della dittatura organica. A Pacelli interessava ottenere il concordato con il Terzo Reich. Eppure i cattolici del Zentrum e i socialdemocratici avevano voti abbastanza per impedire l’approvazione della legge, ma Pacelli, diffidente della democrazia e avverso ai socialdemocratici, volle altrimenti. Subito dopo la conferenza episcopale tedesca fu costretta ad abrogare i suoi precedenti pronunciamenti antinazisti. E quando si verificò il gigantesco pogrom antiebraico della Notte dei Cristalli, la Chiesa stette in silenzio.
Appena eletto pontefice Pacelli mise nel cassetto il progetto di un’enciclica contro l’antisemitismo, progettata dal suo predecessore Pio XI. Non condannò decisamente la violazione della neutralità di Belgio e Olanda da parte delle truppe tedesche. Suscitò amarezza nei cattolici polacchi, che non si sentirono abbastanza difesi. Non denunciò apertamente lo sterminio degli ebrei, pur mandando messaggi chiari di simpatia e solidarietà al popolo ebraico usando un linguaggio allusivo. È in questo quadro che si situa il tragico silenzio sul rastrellamento dei 1021 ebrei romani nel 1943. Silenzio osservato, nella sua ottica, per aiutare le vittime.
Papa Wojtyla, nel suo viaggio in Germania nel 1996, elogiò i vescovi olandesi che avevano protestato pubblicamente contro le persecuzioni antisemite. La reazione nazista fu spietata, ma la citazione di Giovanni Paolo II rivelò eloquentemente che il pontefice polacco riteneva che dinanzi all’“Anticristo” non bisognasse fermarsi a fare di conto tra profitti e perdite.
Pio XII stesso sapeva che il suo silenzio sarebbe stato giudicato. Lo documenta l’interessante biografia di Andrea Tornielli (Mondadori). Tormentato, ne parlò già nell’ottobre del 1941 con l’allora nunzio Angelo Roncalli, futuro Giovanni XXIII. E appelli a levare profeticamente la sua voce gli vennero da personalità cattoliche francesi come Mounier e Mauriac, da Edith Stein, dal gesuita tedesco Friedrich Muckermann che già negli anni ‘30 si chiedeva perché la Chiesa si fermasse alla “tattica” e non denunciasse il nazismo con la stessa forza con cui combatteva il bolscevismo.
E così i silenzi di Pacelli hanno finito per oscurare anche il suo ruolo rilevante all’interno della Chiesa dopo la guerra. A studiarlo attentamente, il suo pontificato mostra importanti aperture nell’incoraggiare gli studi di esegesi biblica. È lui a dare un primo placet alle teorie evoluzioniste di Darwin come “ipotesi” accettabili. È lui ad autorizzare nei paesi del nord le messe nelle lingue nazionali. Lui a occuparsi per primo della regolamentazione delle nascite attraverso l’osservanza dei periodi fecondi e infecondi della donna. Lui, persino, a progettare un Concilio che mai si terrà. Poi c’è il capitolo della politica italiana, ma questa - come direbbe Kipling - è un’altra storia.
intervista a Daniele Menozzi a cura di Luca Kocci (il manifesto, 22 dicembre 2009)
Tre giorni dopo il riconoscimento delle "virtù eroiche" di papa Pio XII, preambolo alla beatificazione, da parte di papa Ratzinger, il mondo ebraico manifesta a gran voce la sua contrarietà alla santificazione di un pontefice da più parti accusato di aver taciuto di fronte alla tragedia della Shoah. Anche se ieri Benedetto XVI, nel discorso alla Curia romana, ha detto che l’Olocausto «ha cacciato dal mondo anche Dio», non si placano le polemiche. «La beatificazione di Pio XII è inopportuna e prematura, sino a quando i suoi archivi del periodo 1939-1945 resteranno chiusi e non si saranno chiarite le sue azioni, o inazioni, sulla persecuzione di milioni di ebrei durante l’Olocausto», dichiara Ronald Lauder, presidente del World Jewish Congress. E gli ebrei italiani, il presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane Renzo Gattegna e il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni, che il prossimo 17 gennaio accoglierà papa Ratzinger in visita alla sinagoga della capitale, pur non volendo «interferire su decisioni interne della Chiesa», ribadiscono che se la decisione vaticana significasse «un giudizio definitivo e unilaterale sull’operato storico di Pio XII, la nostra valutazione rimane critica».
«La ricerca storica ha dimostrato che Pio XII è intervenuto solo a livello diplomatico, facendo presente al governo di Hitler che la Santa Sede non condivideva le persecuzioni contro gli ebrei», spiega Daniele Menozzi, docente di Storia contemporanea alla Scuola normale superiore di Pisa ed esperto del papato novecentesco. «Ma papa Pacelli - prosegue - non ha mai assunto una posizione pubblica di condanna durante la guerra. E questo è dimostrato anche dal fatto che nel magistero pontificio del periodo bellico la parola ebrei non viene mai usata. Pio XII la pronuncerà solo molti anni dopo, a guerra finita, per dire che non si poteva fare nulla di più di quello che è stato fatto, in una sorta di autoassoluzione».
Alcuni storici vicini alla Santa Sede sostengono che il silenzio di Pio XII fosse tattico, per consentire alla Chiesa di poter aiutare gli ebrei in segreto, per esempio nascondendoli nei conventi. Cosa ne pensa?
Istituzioni ecclesiastiche e singoli cattolici hanno sicuramente offerto una via di scampo a molti ebrei, ma il punto non è questo. La ricerca non può assumere le categorie con cui gli attori giustificano i loro comportamenti, perché il giudizio storico può tenere conto delle intenzioni ma deve basarsi sui fatti e sui risultati. E i risultati sono che i silenzi di Pio XII non hanno evitato lo sterminio degli ebrei, anzi hanno fatto parte del contesto in cui esso si è verificato. Aggiungo tuttavia che constatare il silenzio di Pacelli sulla Shoah non vuol dire che non ne fosse intimamente inorridito, né che non la condannasse e nemmeno che non cercasse di limitarne, tramite la via politico-diplomatica, le spaventose conseguenze. Significa solo che non prese pubblica posizione su di essa.
Insieme a Pio XII, papa Ratzinger ha riconosciuto anche le "virtù eroiche" di Giovanni Paolo II, dicendo che "i santi non sono rappresentanti del passato ma costituiscono presente e futuro della nostra società". Esiste una sorta di "politica" vaticana delle canonizzazioni?
Per secoli la Chiesa di Roma non ha santificato dei papi. Poi, a partire dalla seconda metà del ’900, proprio con Pio XII, si è iniziato a canonizzare pontefici, soprattutto quelli del XX secolo, avviando una prassi, interrotta solo da Giovanni XXIII e Paolo VI, per cui i papi vengono fatti santi. C’è una spiegazione: un papato che si sente in difficoltà in una società contemporanea che sfugge al suo controllo tende a rafforzarsi santificando se stesso.
La decisione di affiancare Pio XII e papa Wojtyla è casuale?
Non credo. Mi sembra che si voglia ripetere quanto venne fatto da Giovanni Paolo II nel 2000 beatificando Pio IX, ovvero un papa molto controverso, insieme con Giovanni XXIII, un papa al contrario molto popolare. E anche oggi si mettono insieme il discusso Pio XII con il popolarissimo Wojtyla. Ma le difficoltà mi sembrano maggiori perché il rapporto di Pacelli con il mondo ebraico è una ferita ancora aperta.
Il pentimento indispensabile
di Marek Halter (la Repubblica, 30.1.09)
In Polonia, nella grande sala dell’Università Cattolica di Lublino, la folla è numerosa. Il clero occupa le prime file per la Giornata del giudaismo istituita dalla Chiesa polacca. Io sono l’ospite d’onore ed è la prima volta che torno nel mio Paese natale. Emozione. Ritrovo la lingua. Parlo della storia che accomuna ebrei e polacchi da mille anni, da quando nacque il regno di Polonia.
Racconto la vita di questa minoranza ebraica che prima della guerra rappresentava l’11 per cento della popolazione, una percentuale comparabile a quella dei neri negli Stati Uniti odierni. Chiedo di immaginare New York, Los Angeles, Chicago o Baltimora senza afroamericani. Quel grande Paese non sarebbe più lo stesso: e nemmeno il suo cinema, la sua musica, la sua letteratura, i suoi balli, il ritmo delle sue strade. La Polonia senza ebrei mi fa lo stesso effetto. Noi siamo, dico, come una coppia molto anziana. Una coppia che si amava, si odiava, si affascinava, arrivava addirittura ad augurarsi che l’altro scomparisse, ma quando l’altro non c’è più chi resta si ritrova vedovo.
Lublino non aveva mai sentito un discorso simile. Io sognavo di fare di questa Giornata del giudaismo una Giornata del pentimento. Tre milioni e mezzo di ebrei assassinati lo giustificavano ampiamente. Certo, non sono stati propriamente i polacchi ad ucciderli, ma la maggioranza tra loro, come ricordava il polacco Czeslaw Milosz, premio Nobel della letteratura 1980, non li ha nemmeno granché aiutati. Il pentimento mi sembra assolutamente indispensabile: come potrebbero altrimenti i polacchi riappropriarsi finalmente della loro storia, di tutta la loro storia, compresa la parte ebraica del loro passato?
Come una saracinesca è caduto un silenzio sulle mie ultime parole. Neanche un applauso: la freddezza del metallo. Quando l’arcivescovo di Lublino, monsignor Jozef Zycinski, ha chiesto se c’erano domande, si è alzato un uomo. Mi ha fatto cortesemente le sue congratulazioni. Poi mi ha chiesto perché non avevo invitato i russi a dare mostra di pentimento. Precisando: quei russi che hanno massacrato centinaia di migliaia di polacchi «con la complicità dei comunisti ebrei». Allora, soltanto allora, la sala, unanimemente, si è alzata in piedi applaudendo entusiasticamente. È andata avanti per dieci minuti buoni. L’arcivescovo, visibilmente imbarazzato, ha alzato le braccia al cielo: «Smettetela! Offendete il vostro pastore!». La sua collera era sincera. La reazione della folla anche.
Sotto l’influenza di Giovanni Paolo II, il papa polacco che ho avuto l’onore di conoscere bene, la gerarchia cattolica si era riavvicinata agli ebrei. Non erano, citando le sue stesse parole, i «fratelli maggiori della Chiesa»? Le accuse di "popolo deicida" cominciarono a scomparire dalla liturgia e l’espressione "perfidi giudei" sparì dalla preghiera del Venerdì Santo. Giovanni Paolo II era un papa di resistenza. Per cominciare, si era opposto al totalitarismo sovietico. Questa resistenza l’aveva portata avanti, già prima della guerra, al fianco degli ebrei di Wodowice, il paesino dov’era nato; dopo la guerra contro il comunismo importato che soffocava il suo Paese.
Il cardinale Ratzinger, il suo successore col nome di Benedetto XVI, è, invece, un papa di guerra. Il ritorno della religione, fenomeno che avrebbe segnato il nuovo secolo secondo le tesi da lui stesso sostenute, non va solo a vantaggio della Chiesa, tutt’altro. Altre religioni, in particolare l’Islam, ne traggono profitto. Ieri era il comunismo che si ergeva contro il cristianesimo, oggi è la moschea che si erge contro la chiesa. In questi ultimi anni, i cristiani sono stati scacciati dall’Iraq. In Egitto, in Indonesia e in India sono perseguitati, a volte assassinati. Ecco perché, in un discorso a Ratisbona il 12 settembre del 2006, Benedetto XVI ha appellato l’Islam alla Ragione. Ha ripetuto queste affermazioni due mesi fa di fronte a dei responsabili musulmani invitati in Vaticano.
Più vicino a Urbano II, che lanciò la prima crociata nel 1095, che a Giulio II, che commissionò gli affreschi della Cappella Sistina a Michelangelo nel 1512, Benedetto XVI sa che per opporsi all’Islam ha bisogno di tutte le forze della Chiesa, comprese le più dure e reazionarie fra di esse. Ed ecco che ha tolto la scomunica che colpiva, dai tempi di Giovanni Paolo II i vescovi integralisti, tra cui il negazionista monsignor Williamson. Aprendo le porte della Chiesa ai vescovi ordinati illegalmente da monsignor Marcel Lefebvre, contestatore delle decisioni del concilio Vaticano II (1962-1965), Benedetto XVI tenta di adunare gli estremisti della Fraternità sacerdotale San Pio X, valutati in centocinquantamila fedeli in tutto il mondo.
Nella sua strategia figura anche la riabilitazione di Pio XII, quel papa che i suoi avversari chiamavano "il papa di Hitler". Eletto il 2 marzo 1939, l’anno in cui le truppe naziste entrarono a Varsavia, Pio XII inviò una lettera personale al Führer: «Desideriamo restare legati al popolo tedesco affidato alle vostre cure, attraverso un’intima benevolenza».
Dopo la guerra, il suo silenzio in quegli anni di morte fu abbondantemente commentato e criticato. L’Osservatore Romano, di cui suo nonno Marcantonio Pacelli fu uno dei fondatori, prese le sue difese: «Di fronte all’Olocausto, il papa Pio XII non è stato né silenzioso né antisemita, ma prudente». Che sarebbe successo il papa fosse stato meno prudente, se avesse chiamato tutti i cristiani, e innanzitutto i suoi, i cattolici, a salvare gli ebrei? La Shoah avrebbe preso un’altra piega? Il drammaturgo tedesco Rolf Hochhuth pose questa domanda con clamore nella sua opera Il vicario, realizzata a Berlino Ovest il 20 agosto 1963: la pièce fece scalpore in tutto il mondo. Nel 2002 Costa Gavras ne ricavò un film, Amen.
La storica italiana Emma Fattorini torna sull’argomento in un libro di recente pubblicazione, Pio XII, Hitler e Mussolini. Basandosi su un documento trovato negli archivi del Vaticano, la Fattorini assicura che Pio XI, predecessore di Pio XII, aveva convocato l’11 febbraio 1939 l’insieme dei vescovi italiani per il decimo anniversario degli accordi del Laterano tra la Chiesa e Mussolini. In quell’occasione avrebbe condannato il regime fascista e quello nazista. Ma Pio XI morì la notte del 10 febbraio 1939. C’è chi sostiene, senza poterlo dimostrare, che sarebbe morto per avvelenamento.
Il papa all’epoca aveva ottantadue anni. Invece, secondo il documento citato dalla Fattorini, il suo segretario di Stato, il cardinale Eugenio Pacelli, futuro Pio XII, si mostrò fautore di un atteggiamento più diplomatico verso i fascisti e avrebbe fatto distruggere sia le bozze che i piombi di quel discorso mai pronunciato.
I difensori di Pio XII, soprattutto quelli che si battono per la sua beatificazione, come il tedesco Gumpel e un’ampia fascia conservatrice della Chiesa, negano il suo antigiudaismo. Per l’attuale pontefice, Joseph Ratzinger, «la causa della beatificazione del servitore di Dio proseguirà felicemente».
Il ritorno del fantasma di Pio XII ha provocato commozione e collera in Israele e nelle comunità ebraiche di tutto il mondo: era veramente antisemita? Non necessariamente. Se non rispose alla lettera del 14 giugno 1942 dell’arcivescovo di Friburgo, monsignor Conrad Gröber, che lo allertava sulla determinazione del regime nazista a distruggere il giudaismo, è perché quell’argomento, ahimé, non lo interessava affatto. Per Pio XII, il pericolo principale non era il fascismo, ma la Russia comunista, regime ateo. Preferì dunque tenersi buona la Germania, perfino quando invase la Polonia, condannando invece la Russia quando questa attaccò la Finlandia. La crociata contro il comunismo lo condurrà a sostenere Franco contro la Repubblica spagnola e a rallegrarsi con l’ambasciatore tedesco presso la Santa Sede per i successi militari della Wehrmacht sul fronte russo.
Il destino dell’uomo è tragico: unico tra gli esseri viventi a essere a conoscenza del limite della sua esistenza. Esistenza difficile, che sopravvive solo grazie alla speranza. In Francia, i laici sono riusciti a imporre, con Aristide Briand, il 9 dicembre 1905, la legge sulla separazione tra le Chiese e lo Stato, perché erano in grado di offrire ai francesi speranze universali diverse da quelle delle religioni. Di fronte alle confessioni allora rappresentate, la cattolica, la protestante, la luterana, la riformata e l’israelita, la Storia ha schierato il socialismo, il comunismo, il fascismo e il liberalismo, ideologie che hanno poi fallito. Da allora, sempre incapaci di vivere senza speranza, gli uomini tornano alla religione. Insomma, con Nietzsche abbiamo creduto che Dio era morto, ma ci siamo sbagliati. Un giorno su un muro di Berlino ho visto una scritta: «Nietzsche è morto»; era firmata Dio. Ma le vie del Signore, sempre impenetrabili, sono veramente quelle di Ratzinger?
Traduzione di Fabio Galimberti
Gherush92 Comitato per i Diritti Umani
CONGRATULAZIONI AI MAESTRI DI PERSUASIONE!
(per chi ancora ci vuole credere)
Abili, ingegnosi, geniali, spiazzanti, perspicaci e intraprendenti.
Ogni gesto è piena dimostrazione e prova della capacità di convincere e persuadere. Sono protagonisti, interpreti geniali, artisti incommensurabili. Creano e disfano, tessono e intrecciano, montano e ricompongono una storia lunga 20 secoli.
Ogni volta la manovra è calcolata: l’azione, le reazioni, le conclusioni finali. Onore ai persecutori. Sono innumerevoli gli esempi, citiamo solo l’ultimo per rendere chiaro il procedimento, lo svolgersi delle cause e delle conseguenze del gesto.
A due giorni dalla Giornata della Memoria assistiamo alla revoca della scomunica dei vescovi lefrebvriani. Fra questi l’antisemita Williamson, noto negazionista della Shoah, coadiuvato da “padre” Floriano Abrahamowicz. Questa azione provoca ad arte indignazione in tutto il mondo. Alla ovvia richiesta di una presa di posizione chiara e netta la risposta non è la cancellazione dell’azione “involontariamente” (il papa non sapeva del negazionismo di Williamson, sostengono scioccamente alcuni) intrapresa con un’altra equivalente e contraria (per es. il ritiro della revoca), bensì una dichiarazione generica di fratellanza che nasconde le responsabilità, dirette o indirette, del cristianesimo nella Shoah e nell’antisemitismo.
Dalla dichiarazione di fratellanza emerge tutto e il contrario di tutto: dall’ antisemitismo al “fratelli maggiori”, dal negazionismo al riconoscimento della Shoah. Non è altro che l’arte di manipolare le genti con un guazzabuglio di cose dette e non dette, che spinge verso l’inquinamento delle prove e la ricerca continua della conversione. Il tutto senza assumere mai una responsabilità diretta.
Ci si accontenta, dunque, di una generica indignazione, di una generica dichiarazione di fratellanza simulata per un gesto di misericordia verso i vescovi lefrebvriani, e questo mette tutto a posto, fino al prossimo passo, la prossima manovra. Né l’indignazione né l’irritazione scalfiscono infatti il significato e la portata manipolatrice ed evangelizzatrice dell’intera operazione.
Ci sembra evidente che tale metodo mistificatorio, che prevede un’azione offensiva e una successiva dichiarazione paternalistica rassicurante, non potrà nascondere la portata antisemita della beatificazione di Pio XII, il papa della Shoah.
In tutto ciò dov’è il dialogo tanto osannato e ricercato fino all’umiliazione ?
Il negazionismo e la sua riabilitazione non sono dialogo, non sono generici atti di fratellanza, non sono una semplice opinione. Il negazionismo e la sua riabilitazione sono una teoria scientifica, ben articolata, radicata in ambienti cattolici e cristiani, sempre in espansione. L’indignazione del momento, pur comprensibile, non risolve il problema, non ne dà una valutazione organica e risolutiva e non ha conseguenze sulle decisioni prese, che conservano sempre un carattere di irreversibilità.
Al di là di tutto l’azione di riabilitare un antisemita rimane un’azione antisemita. Le chiacchiere di contorno non servono, in particolare non servono a cancellare l’azione antisemita.
Noi chiediamo che l’atto di riabilitazione di Williamson, rappresentante antisemita del cristianesimo, venga ritirato senz’altro. Questo è l’unico modo per confrontarsi in modo corretto e fattivo. In alternativa, che la polemica non si esaurisca nello squallore del cosiddetto dialogo.
Questa azione può avere come conseguenza la riduzione della sicurezza dei cittadini ebrei in Europa. Noi riteniamo, pertanto, che in questa azione si possa ravvisare apologia di reato e di violazione di diritti umani e che debba essere denunciata al Consiglio per i Diritti Umani dell’ONU e della UE.
Gherush92 Comitato per i Diritti Umani
gherush92@gherush92.com
Archivi
Nuovi documenti provano le compiacenze della Santa Sede verso la politica di Mussolini in Etiopia
Pio XI e quel razzismo d’Africa
Nel ’37 appoggiò la legge che vietava i rapporti fra italiani e «faccette nere»
di Sergio Luzzatto (Corriere della Sera, 5.11.2008)
La «Giornata della Fede» è rimasta a lungo iscritta non soltanto nelle memorie, ma anche sui corpi (sulle mani) degli italiani. Il 18 dicembre 1935, in risposta alle sanzioni decretate contro il regime di Mussolini dalla Società delle Nazioni per l’invasione dell’Etiopia, le coppie d’Italia furono chiamate a sostenere lo sforzo bellico del fascismo donando «oro alla patria»: contribuendo alle spese di guerra attraverso l’offerta degli anelli nuziali. Fu un gigantesco rituale di massa, celebrato a Roma come nel più minuscolo comune del Regno. Nella sola capitale, oltre centomila fedi d’oro vennero deposte sull’Altare della Patria da brave donne italiane - per prime, la regina Elena e donna Rachele - che orgogliosamente si misero al dito, in cambio, fedi d’acciaio.
La Chiesa cattolica collaborò attivamente alla raccolta dell’oro. Con lettere pastorali, omelie, fogli diocesani, gran parte del clero fece propri gli slogan della pubblicistica di regime. Già il 4 dicembre, con due settimane di anticipo sulla Giornata della Fede, Mussolini poté ordinare ai prefetti di esprimere ai vescovi di ogni provincia la piena soddisfazione del governo fascista. Il sostegno della Chiesa riuscì allora tanto più utile al regime in quanto la vera nuziale, per la maggioranza degli italiani, era anzitutto un segnacolo religioso: valeva da promemoria del patto matrimoniale stretto dalla coppia presso un altare, era il materico simbolo di un sacramento.
Se il mondo cattolico poté aderire massicciamente alla guerra di Mussolini in Africa, fu anche perché l’impresa d’Etiopia traduceva il mito fascista della romanità nei codici di una cultura missionaria. I soldati del Littorio promettevano di consegnare la fede romana a popoli semibarbari: la «crociata» in Abissinia veniva combattuta affinché trionfassero, insieme, le ragioni imperiali del fascismo e quelle universali del cattolicesimo. Nondimeno, gli storici più avvertiti hanno iniziato da qualche tempo - sulla scorta dei documenti d’archivio relativi al papato di Pio XI, accessibili dal 2006 - a sfumare l’immagine troppo nitida e netta di una Chiesa compattamente schierata dietro le legioni del Duce. In particolare gli studi di Lucia Ceci, docente di Storia contemporanea all’università di Roma Tor Vergata, hanno documentato sforzi notevoli della Santa Sede, e di Pio XI in persona, per fermare la macchina bellica di Mussolini.
Alla vigilia della dichiarazione di guerra, Pio XI aveva preparato una lettera privata per il Duce dove gli chiedeva, in sostanza, di rinunciare all’invasione dell’Etiopia. Papa Ratti aveva poi deciso di non inoltrare la missiva, ma fino all’ultimo aveva fatto pressioni su Mussolini «per non mettere l’Italia in stato di peccato mortale». Né le gerarchie vaticane tacquero del tutto a mobilitazione avvenuta, dopo il fatidico discorso mussoliniano del 2 ottobre 1935. Estensore materiale della bozza di lettera di Pio XI al Duce, monsignor Domenico Tardini affidò a un documento riservato per il papa l’espressione del proprio disgusto nei confronti del «clero esaltato e guerrafondaio». Mentre la Segreteria di Stato diffuse, il 30 novembre, precise istruzioni «da impartire verbalmente ai vescovi d’Italia»: durante la Giornata della Fede, si limitassero i vescovi al campo della preghiera, badando di «non esprimere giudizi sul diritto e la giustizia dell’impresa abissina».
Ora che conosciamo meglio il travaglio della Chiesa di Pio XI a fronte dell’avventura imperiale di Mussolini, a maggior ragione restiamo colpiti da nuovi documenti inediti che Lucia Ceci ha rinvenuto nell’Archivio segreto vaticano e che saranno da lei presentati, in questi giorni, a un convegno della Fondazione Salvatorelli. Sono materiali più tardi, relativi all’estate del 1937: quando ormai da un anno si è consumata la presa militare di Addis Abeba, ed è stato proclamato un impero del quale Pio XI (a dispetto delle tormentate sue iniziative diplomatiche del ’35) ha creduto bene di rallegrarsi pubblicamente. Dopo il disordine della guerra, in Africa orientale italiana è venuto il momento di fare ordine. Ed è venuto il momento di farlo a partire dalle alcove, dove troppi soldati e troppi coloni si consolano della distanza da casa fra le braccia amorevoli di qualche «faccetta nera». In Africa orientale italiana è suonata, insomma, l’ora di una legislazione sulla razza.
Dietro impulso del ministro delle Colonie, Alessandro Lessona, il regime ha appena introdotto la «legge sul madamato», che punisce con la reclusione da uno a cinque anni il concubinato di un cittadino italiano con «una persona suddita dell’Africa orientale». Adesso - siamo ai primi d’agosto del ’37 - il ministro Lessona sta chiedendo al nunzio vaticano in Italia, Francesco Borgongini Duca, un appoggio diretto della Santa Sede alla legislazione razziale, per scongiurare il rischio concreto di una proliferazione dei meticci. Infatti, «disgraziatamente », i figli nati dall’amplesso di uomini bianchi con donne nere «portano sommati i difetti e non i pregi delle due razze ». Perciò l’Italia fascista invoca il contributo della Chiesa cattolica nel «dissuadere unioni tra persone di diversa razza»: «appunto per evitare le nascite dei mulatti, che sono dei degenerati».
Risalendo per via gerarchica, la richiesta di Lessona approda sulla scrivania di Pio XI, che sollecita un avviso del cardinale Domenico Jorio, prefetto della Congregazione dei sacramenti. E il 24 agosto 1937, il cardinale Jorio mette per iscritto, all’attenzione di Papa Ratti, un parere sconcertante rispetto al senso comune della morale cattolica. Sì, «a mezzo dei Missionari», la Chiesa avrebbe effettivamente potuto, anzi avrebbe dovuto collaborare - «nei giusti limiti» del diritto canonico - alla campagna per la «sanità della razza». Le «ibride unioni» andavano impedite «per i saggi motivi igienico- sociali intesi dallo Stato»: «la sconvenienza di un coniugio fra un bianco e un negro», e «le accresciute deficienze morali nel carattere della prole nascitura». Segue l’approvazione papale del documento firmato dal cardinale Jorio, trasmesso alla nunziatura d’Italia già il 31 agosto di quel 1937: per la gioia del ministro Lessona, «lieto delle sagge disposizioni della Santa Sede». Spolverata dagli archivi vaticani grazie alle fondamentali ricerche di Lucia Ceci, questa non è che una pagina fra le tante, nell’alterna vicenda del rapporto fra il Vaticano degli anni Trenta e i regimi razzisti. Ma è una pagina che avremmo preferito non leggere.
I critici di Fini ignorano la Storia
di Mario Pirani (la Repubblica, 29.12.2008
Ho trovato abbastanza spudorate le polemiche contro Gianfranco Fini per la chiamata di correo, limpida e coraggiosa, da lui avanzata in occasione del 70° anniversario delle leggi razziali che, come ha ricordato il presidente della Camera, se bollarono di ignominia il regime fascista, non assolsero certamente il silenzio della stragrande maggioranza dell’opinione pubblica, né tanto meno della Chiesa cattolica. Torno sull’argomento perché una rassegna stampa conclusiva mi ha indotto a riflettere sugli automatismi di certe prese di posizione, spiegabili in base ai calcoli politici attuali ma non certo preoccupate dalla verifica della realtà storica.
Quanto al primo aspetto, è pur vero che molti italiani non nutrivano particolari antipatie per gli ebrei e individualmente lo manifestarono. Resta, però, l’assenza di ogni dissonanza collettiva, mentre fu evidente la caccia ai posti lasciati liberi dagli ebrei nelle università, nelle scuole, negli ospedali, nell’amministrazione pubblica, nell’esercito, nelle accademie, nei giornali, negli istituti di cultura, nelle assicurazioni, nelle banche, negli studi professionali, nelle case editrici a cui nessuno dei prescelti si sottrasse.
Quanto all’atteggiamento della Chiesa torno a premettere che il comportamento di tanti presuli e di semplici sacerdoti, dal 1938 fino al ’43-’45, fornì la prova che cominciava a prevalere lo spirito di solidarietà sull’intolleranza dei secolari anatemi contro i «perfidi giudei». Di questa svolta conservo qualche personale memoria. Ciò non cancella il valore della dichiarazione, ricordata da Luigi Accattoli sul Corriere, che il segretario della Cei per l’ecumenismo, l’arcivescovo Giuseppe Chiaretti, rivolse dieci anni orsono alla Comunità ebraica, rievocando «la pagina oscura della storia religiosa durante la quale la comunità ecclesiale, anche per lunga acritica coltivazione di «interpretazioni erronee e ingiuste della Scrittura» (Giovanni Paolo II), non seppe esprimere energie capaci di denunciare e contrastare con la necessaria forza e tempestività l’iniquità che vi colpiva».
Per parte mia voglio citare in proposito un testo di accertata obiettività dello storico cattolico, Renato Moro, su "La Chiesa e lo sterminio degli ebrei" (Il Mulino 2002) in cui ricostruisce, tra l’altro, i contrasti che divisero la Curia al momento delle leggi razziali, tanto che un’allocuzione di Pio XI a un gruppo di pellegrini belgi in cui papa Ratti affermava verbalmente: «L’antisemitismo è inammissibile. Noi siamo spiritualmente dei semiti», non venne pubblicata dall’Osservatore Romano, mentre, al contempo, la diplomazia vaticana, diretta dal cardinal Pacelli, siglava un accordo col regime in base al quale, preso atto che nei confronti degli ebrei il governo italiano intendeva applicare «onesti criteri discriminatori», si manifestava la opportunità che la stampa cattolica, i predicatori, i conferenzieri e via dicendo si astenessero «dal trattare in pubblico questo argomento».
Il papa, tuttavia, non parve fermarsi e il professor Moro analizza la complessa vicenda della preparazione dell’enciclica Humani Generis Unitas rivolta alla condanna del nazismo e dell’antisemitismo razziale. Il testo venne completato, tradotto in latino e consegnato, perché lo sottoponesse al pontefice, al generale dei Gesuiti, padre Lédochowski, ma questi assunse una linea dilatoria, convinto che il pericolo vero per il cattolicesimo fosse il comunismo e non Hitler e che occorresse evitare l’acuirsi di eventuali dissidi tra la Chiesa e le potenze dell’Asse.
Il Papa fece allora inviare dal sostituto della Segreteria di Stato, monsignor Tardini, una dura nota al generale dei Gesuiti e questi dovette cedere. L’Enciclica giunse in Vaticano il 21 gennaio e il papa prese ad esaminarla nei giorni successivi. Troppo tardi. Il documento fu trovato sul suo tavolo al momento della morte, nella notte tra il 9 e il 10 febbraio del 1939.
A Pio XI successe il cardinale Pacelli, accolto da molte speranze che andarono presto deluse. Pio XII, infatti, reputò dannoso, alla vigilia di un conflitto ormai certo, il "rigore" dell’enciclica del suo predecessore e la fece archiviare. Inviò, invece, una lettera a Hitler in cui gli esprimeva la speranza in rapporti migliori fra le due parti. Uno dei primi atti del pontificato fu poi la riconciliazione con l’Action Francaise, movimento cattolico dell’estrema destra antiebraica francese, condannato da papa Ratti. Una erronea e catastrofica visione diplomatica prevalse in quell’epoca sull’afflato ecumenico che il mondo attendeva. Come dar torto a Fini?
Il dittatore pensava di poter contare sulla tradizione cristiana
Hitler, la chiesa e l’antisemitismo
La rarità di pubbliche voci di dissenso ecclesiastico verso la politica antiebraica confermavano ai nazisti che non ci sarebbe stata opposizione dell’episcopato
di Giovanni Miccoli (la Repubblica, 28.11.2008)
Il resoconto che monsignor Berning, vescovo di Osnabreck, scrisse per i suoi confratelli su ciò che Hitler aveva detto della «questione ebraica» nel corso di un incontro con una delegazione episcopale il 26 aprile 1933, attesta una sorta di sintonia di fondo con settori non irrilevanti del mondo cattolico (...):
«Hitler parlò con calore e calma, qua e là pieno di fervore. Contro la Chiesa non una parola, solo apprezzamento per i vescovi. Sono stato attaccato per il mio modo di trattare la questione ebraica. Per 1.500 anni la Chiesa ha considerato gli ebrei come esseri nocivi, li ha esiliati nel ghetto eccetera, in quanto ha riconosciuto ciò che gli ebrei sono. Al tempo del liberalismo non si è più visto questo pericolo. Io risalgo nel tempo e faccio ciò che si è fatto per 1.500 anni. Io non metto la razza al di sopra della religione, ma vedo nei membri di questa razza esseri nocivi per lo Stato e la Chiesa, e forse fornisco così al cristianesimo il più grande servizio; da qui il loro allontanamento dall’insegnamento e dagli impieghi statali».
Hitler non mentiva ma era solo reticente quando affermava di non mettere la razza al di sopra della religione: ne faceva infatti una componente costitutiva di essa, pur ironizzando sulle fumisterie dell’ideologia völkisch. Né aveva difficoltà a richiamarsi alla tradizione ecclesiastica per le misure adottate contro gli ebrei. (...) Non a caso Karl Lueger e le agitazioni di massa promosse contro gli ebrei a Vienna dai cristiano-sociali figurano nel Mein Kampf tra i suoi modelli, anche se il loro limite restava per lui di aver fondato il loro antisemitismo non sulla razza ma su una visione religiosa. E probabile che egli pensasse davvero di poter in qualche modo contare, nella lotta contro gli ebrei, sulla tradizione antiebraica cristiana. (...)
Il calcolo, entro certi limiti, non era sbagliato. Non è privo di significato il fatto che monsignor Berning non trovò difficoltà né avanzò obiezioni di fronte alle affermazioni e ai propositi di Hitler. (...) quei propositi non erano certo tali da poterlo particolarmente inquietare: per decenni voci autorevoli della pubblicistica cattolica avevano avanzato proposte non dissimili.
La rarità di pubbliche ed esplicite voci di dissenso da parte della Chiesa nei confronti della politica antiebraica (...) non potevano non confermare Hitler e i dirigenti nazisti nell’opinione che, su tali questioni, nessuna seria opposizione sarebbe venuta loro dall’episcopato. In quei primi mesi del potere nazista la Santa Sede e la Chiesa cattolica tedesca si mostrarono dunque concentrate soprattutto a tutelare la propria condizione in Germania.
(...) Non va dimenticato il ripetuto, esplicito riconoscimento espresso da Pio XI nei confronti di Hitler dopo la sua nomina a cancelliere il 30 gennaio 1933 e già prima della vittoria elettorale del 5 marzo: «Hitler è il primo e unico uomo di Stato che parla pubblicamente contro i bolscevichi. Finora era stato unicamente il papa». Meriterebbe da questo punto di vista analizzare con cura le informazioni contraddittorie sul nazionalsocialismo e le sue imprese che nei primissimi anni Trenta e anche dopo la sua conquista del potere pervenivano alla segreteria di Stato e di cui la documentazione vaticana offre ricca testimonianza. (...)
Spiaceva che con gli ebrei e l’ebraismo si colpissero e si rifiutassero capisaldi della tradizione cristiana come il Vecchio Testamento, spiacevano certi metodi di lotta, spiaceva soprattutto che le misure adottate si fondassero su premesse ideologiche che si ispiravano ad un razzismo estremo, sostanzialmente incompatibile con il credo cristiano. Nelle famose prediche dell’Avvento del 1933 il cardinale Faulhaber scese perciò in campo a difesa del Vecchio Testamento e della tradizione cristiana, Rosenberg e il suo Mythus des XX. Jahrhunderts, così come i maestri del neopaganesimo germanico, divennero il bersaglio di molta pubblicistica cattolica. Ma ci si guardò bene dal coinvolgere nella polemica e nella condanna l’antisemitismo.
Non erano del resto pochi a ritenere che, se vi era un antisemitismo razzistico vietato ai cattolici, ne esisteva un altro, spirituale ed etico («geistiger und ethischer»), che era «stretto dovere di coscienza di ogni cristiano consapevole», come scrisse il vescovo di Linz, monsignor Gfvllner, nel gennaio 1933, in una pastorale che ebbe larga diffusione negli ambienti cattolici europei.
A San Pietro la recita dell’Angelus
Il Papa sulla Shoah: ’’Mai più simili orrori’’
Benedetto XVI ricorda il 70esimo anniversario della Notte dei Cristalli con la quale i nazisti avviarono la persecuzione degli ebrei: ’’Provo ancora oggi dolore per quanto accadde in quella circostanza’’
Città del Vaticano, 9 nov. (Adnkronos/Ign) - Un appello per un forte impegno contro ogni forma di antisemitismo e discriminazione è venuto oggi da Benedetto XVI che, nel ricordare il 70esimo anniversario della Notte dei Cristalli, con la quale i nazisti avviarono la persecuzione degli ebrei, ha auspicato che ’’simili orrori non si verifichino mai più’’.
Nella notte fra il 9 e il 10 novembre 1938, ha detto, ’’furono attaccati e distrutti negozi, uffici, abitazioni e sinagoghe, furono anche uccise numerose persone, dando inizio alla sistematica e violenta persecuzione degli ebrei tedeschi, che si concluse nella Shoah’’. ’’Ancora oggi - ha aggiunto il Pontefice - provo dolore per quanto accadde in quella circostanza, la cui memoria deve servire a far sì che simili orrori non si ripetano mai più e che ci si impegni, a tutti i livelli, contro ogni forma di antisemitismo e di discriminazione, educando soprattutto le giovani generazioni al rispetto e all’accoglienza reciproca’’.
In una Piazza San Pietro gremita di pellegrini e fedeli Ratzinger ha poi ricordato che ’’si celebra oggi in Italia la Giornata del Ringraziamento, che quest’anno ha per tema: ’Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare’’’, ha posto l’accento sul ’’grave e complesso problema della fame, reso più drammatico dall’aumento dei prezzi di alcuni alimenti di base’’. ’’La Chiesa - ha detto Benedetto XVI-, mentre ripropone il principio etico fondamentale della destinazione universale dei beni, lo mette in pratica, sull’esempio del Signore Gesù, con molteplici iniziative di condivisione. Prego per il mondo rurale, specialmente per i piccoli coltivatori dei Paesi in via di sviluppo. Incoraggio e benedico quanti si impegnano perché a nessuno manchi un’alimentazione sana e adeguata: chi soccorre il povero soccorre Cristo stesso’’.
Infine nel corso dell’Angelus, ha pregato affinché ogni comunità custodisca con cura i propri edifici sacri. ’’La festa odierna celebra un mistero sempre attuale: che cioè Dio vuole edificarsi nel mondo un tempio spirituale, una comunità che lo adori in spirito e verità -ha detto - Ma questa ricorrenza ci ricorda anche l’importanza degli edifici materiali, in cui le comunità si raccolgono per celebrare le lodi di Dio. Ogni comunità ha pertanto il dovere di custodire con cura i propri edifici sacri, che costituiscono un prezioso patrimonio religioso e storico’’. Poi il Papa ha concluso invocando ’’l’intercessione di Maria Santissima, affinche’ ci aiuti a diventare, come Lei, "casa di Dio", tempio vivo del suo amore’’.
Il Santo Padre torna sulle polemiche su Pio XII e la Shoa
"Su di lui un’attenzione eccessiva e anche unilaterale"
Benedetto XVI difende papa Pacelli
"Basta polemiche, fu un grande pontefice"
ROMA - "Papa Pacelli è stato per la Chiesa un eccezionale dono di Dio". Su di lui c’è stata un’attenzione "eccessiva" e "piuttosto unilaterale". Benedetto XVI torna così sui presunti silenzi di papa Pacelli sulla Shaoh e sul controverso ruolo del Vaticano nella difesa degli ebrei dalle persecuzioni naziste. Accuse e polemiche che si sono ripresentate puntualmente anche nelle ultime settimane. A cui Ratzinger, adesso, oppone un secco altolà.
"Negli ultimi anni - afferma Benedetto XVI - quando si è parlato di Pio XII, l’attenzione si è concentrata in modo eccessivo su una sola problematica, trattata per di più in maniera piuttosto unilaterale. A parte ogni altra considerazione, ciò ha impedito un approccio adeguato ad una figura di grande spessore storico-teologico qual è quella del Papa Pio XII".
"Prova eloquente" di tale spessore, secondo Benedetto XVI, sono invece, "l’insieme della imponente attività svolta da questo Pontefice e, in modo del tutto speciale, il suo magistero" che "si qualifica per la vasta e benefica ampiezza, come anche per la sua eccezionale qualità, così che può ben dirsi che esso costituisca una preziosa eredità di cui la Chiesa ha fatto e continua a fare tesoro".
* la Repubblica, 8 novembre 2008
IL PAPA DELLE POLEMICHE
«Pio XII è stato un dono di Dio»
Ratzinger in campo: «Figura di grande spessore storico-teologico, basta unilateralismi»
ROMA - Papa Benedetto XVI, concludendo un importante convegno vaticano su Pio XII, ha detto che papa Pacelli è stato per la Chiesa un eccezionale dono di Dio, e ha denunciato l’ attenzione «eccessiva» e «piuttosto unilaterale» sul suo operato. «Ciò ha impedito un approccio adeguato ad una figura di grande spessore storico-teologico», ha detto riferendosi, senza citarle esplicitamente, alle polemiche sul presunto silenzio del suo predecessore davanti alla Shoah. «Prova eloquente» del suo spessore, secondo Benedetto XVI, sono invece, «l’insieme della imponente attività svolta da questo Pontefice e, in modo del tutto speciale, il suo magistero» che «si qualifica per la vasta e benefica ampiezza, come anche per la sua eccezionale qualità, così che può ben dirsi che esso costituisca una preziosa eredità di cui la Chiesa ha fatto e continua a fare tesoro».
IL RUOLO NEL CONCILIO VATICANO II - Ratzinger ha ricordato, tra l’altro, l’importanza di Pio XII nel Concilio Vaticano II. Fu citato oltre mille volte dai padri conciliari, «secondo solo alle Sacre Scritture» , ma anche la sua «straordinaria lungimiranza» sul ruolo dei laici nella Chiesa, come anche i suoi ammonimenti profetici contro la costruzione di armi micidiali che avrebbero potuto distruggere l’umanità. «Aborriva - ha sottolineato Ratzinger - le sterili polemiche ed era profondamente diffidente nei confronti del fanatismo e del sentimentalismo».
* Corrire della sera, 08 novembre 2008
Pacelli è accusato di non aver condannato pubblicamente la Shoa
’’Papa potrebbe congelare la beatificazione di Pio XII’’
Lo riferisce il Rabbino David Rosen, presidente dell’International Jewish Committee for Interreligious Consultations che ha incontrato oggi Benedetto XVI. Ratzinger starebbe ’’valutando seriamente’’ la richiesta di sospensione del processo di canonizzazione fino all’apertura degli archivi storici vaticani
Gerusalemme, 30 ott. (Adnkronos) - Il Papa sta "seriamente considerando" il congelamento del processo di canonizzazione di Pio XII (nella foto) fino a quando non saranno aperti gli archivi storici vaticani, si legge sul sito del quotidiano israeliano Haaretz.
A riferire le parole di Benedetto XVI è stato il Rabbino David Rosen, presidente dell’International Jewish Committee for Interreligious Consultations (IJCIC), una cui delgazione ha incontrato oggi il Papa.
"Un membro della nostra delegazione ha detto al Papa: ’Per favore non procedete con la beatificazione di PIo XII prima che gli archivi del Vaticano siano resi accessibili ad una obiettiva analisi storica’. E il Papa ha risposto: ’’Lo sto valutando. Lo sto considerando seriamente".
Il portavoce vaticano, padre Federico Lombardi, ha affermato oggi che gli archivi relativi al pontificato di Pio XII non potranno essere aperti prima di sei o sette anni. L’apertura è stata chiesta da diversi studiosi, ebrei e non, per chiarire il ruolo svolto da Papa Pacelli, accusato di non aver condannato pubblicamente la Shoa
Durissime dichiarazioni di Isaac Herzog, ministro degli Affari
Sociali
responsabile dei rapporti con le comunità cristiane
Pio XII, il governo di Israele
"Inaccettabile la beatificazione"
"Durante l’Olocausto sapeva molto bene ciò che stava accadendo ma rimase in silenzio"
GERUSALEMME - "Il tentativo di far diventare santo Pio XII è inaccettabile". E’ fermo il no di Isaac Herzog, ministro degli Affari Sociali di Israele, alla beatificazione di Papa Pacelli. "Durante il periodo dell’Olocausto il Vaticano sapeva molto bene quello che stava accadendo in Europa", ha detto Herzog in un’intervista ad Haaret’z ed ha poi spiegato: "Non vi è alcuna prova, per ora, di alcun provvedimento preso dal Papa come avrebbe richiesto lo status della Santa Sede".
Quindi il ministro, che è anche responsabile degli affari della Diaspora e dei rapporti con le comunità cristiane, ha affermato: "Il tentativo di far diventare santo Pio XII è una forma di "sfruttamento dell’oblio" rispetto a quei fatti e testimonia "una assenza di consapevolezza". "Invece di essere coerente con il verso biblico nel quale si afferma ’Tu non permetterai che si versi il sangue del vicino’ - ha detto ancora il ministro - il Papa rimase in silenzio e forse fece anche peggio".
Si alza, quindi, il livello della polemica: le durissime parole non sono pronunciate questa volta da un esponente di una qualche organizzazione ebraica o da un rabbino, ma da un rappresentante del governo in carica di Israele. Le affermazioni di Herzog arrivano dopo settimane di tensione riguardo alla figura di Pio XII e ai ripetuti interventi del Papa e del Segretario di stato vaticano in difesa di Pacelli e del suo operato durante la seconda guerra mondiale.
Oltre alla presa di posizione pubblica di Benedetto XVI in favore di papa Pacelli, ha destato scalpore l’ipotesi che il pontefice non andasse in visita in Israele a causa della didascalia contenuta al memoriale della Shoah di Gersualemme, lo Yad Vashem, nella quale si leggono parole fortemente critiche verso Pio XII e il suo comportamento nel secondo conflitto mondiale.
La Santa Sede, attraverso il direttore della Sala stampa vaticana, padre Federico Lombardi, ha cercato di spegnere le polemiche specificando che Benedetto XVI ha deciso di approfondire ulteriormente l’analisi su Pio XII - rimandando quindi la beatificazione - e osservando che la didascalia allo Yad Vashem, pur assolutamente non condivisa dalla Santa Sede, non poteva considerarsi un ostacolo al viaggio del Papa.
* la Repubblica, 23 ottobre 2008.
Il Papa in silenzio
di Furio Colombo *
Una proposta sorprendente è stata avanzata da Papa Benedetto XVI come ragione importante per la beatificazione di Pio XII: il silenzio. Di fronte al dilagare delle leggi razziali in Europa e all’evidente gravità di quelle leggi prima ancora che arresti e deportazioni svelassero il progetto di distruzione completa di un popolo, Pio XII, capo della più vasta e potente organizzazione religiosa di un mondo che allora era centrato sull’Europa, ha ritenuto di tacere, di tacere anche quando, con l’occupazione tedesca di due terzi della penisola, Roma inclusa, dopo l’armistizio e il tentativo italiano di uscire dalla guerra, forze armate tedesche e fasciste erano attive, e aggressive, e vendicative nel tentativo di catturare quanti più ebrei, individui e famiglie fosse possibile, intimando la pena di morte a chi avesse aiutato i ricercati e compensando ogni delazione italiana (ce ne sono state a migliaia) con lire cinquemila.
La principale ragione per apprezzare come utile e virtuoso quel silenzio è che in tal modo il Papa ha reso possibile una vasta rete di aiuto e sostegno in Vaticano, in chiese e in conventi italiani per salvare, ospitare, nascondere moltissimi italiani ricercati per razzismo e per ragioni politiche. Si è trattato della più estesa e attiva rete di rifugio e di soccorso, ben documentata dalla Storia e di cui migliaia di sopravvissuti, in Italia e nel mondo, hanno dato atto e gratitudine al Vaticano. Ci sono però due grandi obiezioni, una nel mondo dei fatti, l’altra a livello dei principi.
I fatti ci dicono che l’Italia ha avuto un ruolo molto grande nell’orrore delle persecuzioni razziali che hanno insanguinato e marcato come indimenticabile vergogna tutta l’Europa. L’Italia cristiana, cattolica, legata con un Concordato alla Chiesa di Roma. È importante ricordare tutto ciò, oggi, alla vigilia del 16 ottobre. Quella notte del 1943 mille e diciassette cittadini ebrei romani - dai neonati ai vecchi ai malati - sono stati arrestati nelle loro case del Ghetto di Roma da unità militari tedesche munite di nomi e indirizzi da parte dei fascisti italiani. Tutti i rastrellati sono stati tenuti prigionieri per giorni presso il Collegio militare di Roma sotto la sorveglianza di militi fascisti, e poi deportati ad Aushwitz da dove quasi nessuno è tornato.
Dunque ciò che è accaduto a Roma il 16 ottobre non è stato il blitz di un terribile istante ma una lunga, meticolosa operazione nazista e fascista durata per giorni nel silenzio di Roma. L’Italia era l’altra grande potenza che ha invaso e occupato, insieme ai tedeschi. Il ruolo che l’auto-narrazione italiana si è attribuito dopo il disastro e la sconfitta fascista, è quello di uno Stato buono, sgangherato e debole dove i soldati combattevano con le scarpe di cartone. Era vero, nell’esperienza disperata dei soldati di allora, ma persino mentre il disastro italiano si compiva, l’Italia dalla Francia ai Balcani alla Russia, era l’altro grande Paese invasore, oppressore, occupante.
Non tutti i diplomatici e i generali italiani ubbidivano, anzi ci sono state clamorose dissociazioni di fatto (che vuol dire cauta ma ferma disobbedienza) dalle leggi razziali. Ma l’Italia era l’altro persecutore, le leggi razziali erano state firmate dal re italiano, unico caso in Europa. Ma il re Savoia era imparentato con metà delle monarchie europee del tempo, l’esercito sabaudo era collegato con l’attivismo nazista antisemita attraverso gerarchi, ufficiali, agenti della milizia fascista, che facevano comunque del loro meglio per terrorizzare le popolazioni locali e spingere al peggio i “Gaulatier” e i governi fantoccio. Erano impegnati a terrorizzare tutte le popolazioni, a sostenere tutti i fascismi locali più sanguinosi, ad accumulare, contro l’Italia, un odio che dura ancora. Ma sopratutto erano attivissimi nella collaborazione all’immensa rete di delitti che oggi chiamiamo Shoah. Il diario di un uomo giusto come Giorgio Perlasca che, da solo, in Ungheria, ha salvato migliaia di cittadini ebrei dalla deportazione fingendosi diplomatico spagnolo testimonia del frenetico lavoro della persecuzione in regioni e Paesi di un’Europa cristiana e in gran parte cattolica. O comunque sensibilissima all’autorità della Chiesa cattolica, che riguardava anche una parte non irrilevante di soldati e ufficiali tedeschi. E che certo condizionava il fascismo.
E qui entra in campo la questione di principio. Ciò che è accaduto in Italia, sopratutto l’assenza quasi totale di voci italiane contro le leggi razziali, allo stesso tempo spaventose e folli (folli in modo evidente, a cominciare dalle enunciazioni di principio, dai presunti fondamenti storici e logici, dal titolo stesso di “leggi in difesa della razza”) è reso più inspiegabile e difficile da giustificare a causa del comportamento del Parlamento filo-fascista bulgaro. Quel Parlamento, sotto la guida del presidente Dimitar Peshev (cito da libro di Gabriele Nissim «L’uomo che fermò Hitler», Mondadori), rifiutò e respinse le leggi razziali preparate sull’odioso modello italiano. E impedì in tutto il Paese occupato “dai camerati tedeschi” qualsiasi atto contro i cittadini bulgari ebrei.
Dunque dire di no da parte di chi aveva autorità era pericoloso ma possibile. Imbarazza la memoria italiana anche il ben noto gesto del re di Danimarca che, pur privo di forza militare e di qualunque strumento di resistenza, si oppose, senza cedere mai, all’imposizione della stella gialla come identificazione dei suoi cittadini ebrei.
Sono leggende, ormai, brandelli di un onore perduto. Sono tentativi di recupero di un minimo rispetto per un’Europa colta e orgogliosa della sua identità in cui è dilagato il peggior delitto della Storia. Ma quel delitto è dilagato nel silenzio. Ed è stato - poche volte - fermato dal coraggio, raro, drammatico, ma, come si vede, efficace di rompere il silenzio. Tutto dimostra che i nazisti avevano bisogno del silenzio e contavano sulla cancellazione della memoria.
C’è un rapporto fra il silenzio che ha consentito a una organizzazione non sospetta e intatta (a causa del silenzio) come la Chiesa cattolica e la salvezza di migliaia di ebrei? Certo, c’è. Ma è lo stesso silenzio che ha consentito la deportazione e lo sterminio di milioni di ebrei d’Europa. Era possibile parlare? Rispondono alcune voci che, in alcuni luoghi, hanno cambiato la Storia. Era pericoloso? Lo era. Ma era anche un ostacolo grave e imbarazzante, se è vero che le radici d’Europa sono - dunque erano - cristiane e cattoliche.
Infine: si ricorda un esempio, nella lunga storia cattolica di martiri e santi, di qualcuno portato all’onore degli altari per avere taciuto? Uno solo?
* l’Unità, Pubblicato il: 15.10.08, Modificato il: 15.10.08 alle ore 8.14
Pio XII nell’ottobre ’43, tedeschi corretti con S.Sede
di Paolo Cucchiarelli
ROMA - C’è un nuovo tassello da inserire nel cangiante e spesso contraddittorio mosaico del rapporto tra Pio XII e gli ebrei nell’autunno del 1943, quando le Ss di Herbert Kappler arrestarono poco più di mille romani nel ghetto e nei quartieri della "città aperta" e li spedirono ad Auschwitz.
Si tratta di documenti che arrivano dagli archivi inglesi e americani, visto che quelli vaticani sono tuttora inaccessibili. Uno di questi illustra l’incontro avvenuto due giorni dopo la retata nel ghetto, il 18 ottobre ’43, tra il Papa e l’inviato straordinario della Gran Bretagna presso la Santa Sede: in quella occasione Pio XII tace sulla retata e il diplomatico gli chiede di interpretare con maggior determinazione il suo ruolo. In quel contesto Pacelli afferma che i tedeschi si sono comportati "correttamente" con il Vaticano.
In quelle ore il treno con gli ebrei romani sta per partire verso Auschwitz. Due mesi dopo la deportazione degli ebrei romani il Papa, il 13 dicembre del ’43, conversando con l’ambasciatore tedesco Ernest von Weiszaecker, che aveva cercato di opporsi alla deportazione, aveva illustrato la sua posizione sugli sviluppi della guerra. Il diplomatico aveva riassunto il tutto in un rapporto che è stato rintracciato durante alcune ricerche dagli studiosi Mario J. Cereghino e Giuseppe Casarrubea che le pubblicheranno in un prossimo volume.
"Il Papa si augura - afferma il rapporto fatto avere ai servizi americani da Fritz Kolpe, la più importante ’talpa’ che gli Usa avevano all’ interno del ministero degli Esteri tedesco - che i nazisti mantengano le posizioni militari sul fronte russo e spera che la pace arrivi il prima possibile. In caso contrario, il comunismo sarà l’unico vincitore in grado di emergere dalla devastazione bellica. Egli sogna l’unione delle antiche Nazioni civilizzate dell’Occidente per isolare il bolscevismo ad Oriente. Così come fece Papa Innocenzo XI, che unificò il continente (l’Europa) contro i musulmani e liberò Budapest e Vienna".
Proveniente dagli archivi inglesi è invece il resoconto dell’incontro del 18 ottobre del ’43 tra l’inviato straordinario inglese Sir D’Arcy Osborne e il Papa. Da due giorni gli ebrei romani sono stati prelevati dalle loro case; lo stesso giorno, alle 14, partiranno dalla stazione Tiburtina verso il campo di concentramento. Nulla il Papa dice di quanto è avvenuto in quelle ore. Pio XII parla della difficile situazione alimentare a Roma che potrebbe portare a tumulti e della sua volontà di non abbandonare la città a meno di non essere "rimosso con la forza".
L’ambasciatore è colpito dall’atteggiamento del Papa che gli dice di non avere elementi per lamentarsi del generale Von Stahel, comandante della piazza militare di Roma, e degli uomini della polizia tedesca "che finora hanno rispettato la neutralità" della Santa Sede. "Io ho replicato - scrive il diplomatico nel rapporto indirizzato al ministro degli Esteri Eden - di aver capito che quando il Vaticano parlava di preservare ’Roma citta’ apertà, si riferisse alle operazioni militari. A parte il fatto che la denominazione ’Citta’ apertà è una farsa, l’Urbe è alla mercé dei tedeschi che sistematicamente la privano di tutti i rifornimenti e della manodopera, che arrestano ufficiali italiani, giovani e carabinieri e che applicano metodi spietati nella persecuzione degli ebrei. (...)".
Il diplomatico cerca di far uscire Pio XII dal suo atteggiamento. "Io ho affermato che Egli dovrebbe fare tutto il possibile per salvaguardare lo Stato della Città del Vaticano e i suoi diritti alla neutralità. Egli ha replicato che in tal senso e fino a questo momento, i tedeschi si sono comportati correttamente", aggiunge nuovamente il diplomatico. Una affermazione fatta mentre la città è ancora sotto choc per la retata arrivata dopo il ricatto dei 50, inutili, kg di oro chiesti agli ebrei per evitare la deportazione. "A mio parere - scrive ancora il rappresentante inglese - molta gente ritiene che Egli sottostimi la Sua autorità morale e il rispetto riluttante di cui Egli è oggetto da parte dei nazisti, dal momento che la popolazione tedesca è cattolica. Ho aggiunto di essere incline a condividere questa opinione e l’ho esortato a tenerlo bene in mente nel corso dei futuri avvenimenti, nel caso emergesse una situazione in cui fosse necessario applicare una linea forte".
"Mettendo a raffronto i due documenti - commentano gli studiosi - risulta chiaro che Pacelli si sente a suo agio con l’ambasciatore tedesco. Con il rappresentante inglese assume un atteggiamento freddo, facendo leva su un giudizio del tutto formale tanto da suscitare la inusitata reazione del diplomatico". I due studiosi, già autori di un volume sulla guerra al comunismo in Italia tra il ’43 e il ’46, "Tango connection", sottolineano la difficoltà di raccogliere in Italia elementi documentali sulla questione ebrei-Vaticano: "Tuttavia migliaia di documenti sulla situazione della Santa Sede negli anni della seconda guerra mondiale sono da tempo disponibili negli Archivi di College Park negli Stati Uniti e di Kew Gardens in Gran Bretagna. Sono carte provenienti dai fondi dei servizi segreti angloamericani, del Dipartimento di Stato Usa e del Foreign Office britannico", spiegano. "Il nostro archivio ww.casarrubea.wordpress.com), conserva rapporti dei Servizi Usa sulle pesanti ingerenze esercitate dalla Santa Sede e in particolare da Pio XII e da Montini, il futuro Paolo VI, nella formazione del primo governo De Gasperi".
Il religioso di Haifa: "Ratzinger lo celebra? Se lo sapevo non venivo al Sinodo non siamo
contenti dei tentativi nella Chiesa di dimenticare questo triste capitolo"
Il rabbino: no a Pio XII beato
non fece nulla per salvare gli ebrei
di MARCO POLITI *
CITTÀ DEL VATICANO - Parte con uno schiaffo a papa Ratzinger il Sinodo dei vescovi di tutto il mondo. Benedetto XVI ha appena respinto pochi giorni fa le accuse sul "silenzio" di papa Pacelli, proclamando la necessità di riconoscere l’impegno di Pio XII "a favore degli ebrei perseguitati", ed ecco che l’esponente ebraico invitato al Sinodo per la primissima volta, il rabbino capo di Haifa Shear Yesuv Cohen, afferma apertamente: "Crediamo che non dovrebbe essere beatificato o preso a modello, perché ha mancato di salvarci o di levare la sua voce, anche se ha cercato segretamente di aiutare".
Non sono parole pronunciate nell’aula sinodale, dove Cohen ha descritto la sua presenza come un segnale di speranza e di "amore, coesistenza e pace per le nostre generazioni e per quelle future". Ma benché pronunciate all’uscita, conversando con i giornalisti, costituiscono un duro attacco. "Non siamo contenti - ha detto - dei tentativi nella Chiesa di dimenticare questo triste capitolo nella vita di un grande papa, che sentiamo di non poter perdonare e che non può essere perdonato".
Proprio dopodomani papa Ratzinger celebrerà nell’ambito del Sinodo una messa solenne per celebrare il 50° anniversario della morte di Pio XII. All’agenzia Reuters Cohen ha dichiarato che se lo avesse saputo, forse avrebbe rinunciato a venire a parlare in Vaticano. "Ecco perché mi sono astenuto dal fare il suo nome durante il Sinodo". In aula il rabbino capo ha colto invece l’occasione per un appello politico. Evocando le "terribili e brutali" minacce di Ahmadinejad contro Israele, Cohen ha auspicato che non si ripeta mai più la minaccia dell’Olocausto e ha chiesto l’aiuto dei vescovi per difendere Israele.
Il Sinodo appena iniziato si preannuncia come un giro di vite nei confronti dei teologi che studiano la Bibbia, ma soprattutto i Vangeli, con il metodo storico-critico. La prima giornata è stata un crescendo di polemiche nei confronti degli studiosi cattolici che negli ultimi decenni hanno portato alla luce le contraddizioni e gli interrogativi non risolti della vita di Cristo, della sua auto-comprensione e del formarsi delle prime comunità cristiane.
Ha cominciato uno dei presidenti dell’assemblea, il cardinale William Levada, prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede, scagliandosi contro ogni tipo di "interpretazione soggettiva o puramente esperienziale o frutto di una analisi unilaterale". Ha proseguito, alla presenza del Papa che ascoltava attentamente, il relatore generale cardinale Marc Ouellet del Quebec, denunciando un "clima di tensione, spesso malsano, tra teologia universitaria e Magistero ecclesiale". Secondo il porporato, invece di un’interpretazione spirituale della Sacra Scrittura si è affermato un modello interpretativo "spesso polemico sotto l’influenza di errori da combattere e di scoperte storiche, filosofiche e scientifiche". Putroppo, ha incalzato, non è stato bloccato l’impatto negativo dell’esegesi razionalista".
La posta in gioco - si è capito da queste prime battute - è l’interpretazione storica e scientifica della costruzione dei Vangeli. Dopo avere imposto il silenzio nel ventennio trascorso ai teologi della liberazione e ai teologi, che si occupano di questioni etiche riguardanti la sessualità e la concezione della natura nel senso più ampio, il papato vuole mettere in riga gli specialisti dell’indagine biblica. Infatti, rispetto alla tradizione apologetica, per cui era oro colato ogni rigo della Scrittura, l’ultimo secolo di studi ha demitizzato i testi biblici ed anche evangelici attraverso un lavoro scientifico, che non è annullabile.
Papa Ratzinger, pubblicando il suo libro "Gesù di Nazareth", è partito con il progetto di dimostrare definitivamente l’unità tra il Gesù storico e il Gesù dei Vangeli. E benché lui non abbia voluto presentare il libro come documento dell’autorità papale, ieri è già iniziata la manovra per farne il testo supremo di riferimento. Il Gesù, come l’ha scritto Ratzinger, ha affermato il cardinale Ouellet è un "faro che protegge dagli scogli e dai naufragi". Un potente antidoto anche per dissipare la "confusione propagata da alcuni fenomeni mediatici", ha soggiunto il porporato citando il bestseller "Codice da Vinci" dello scrittore Dan Brown. Anticipando uno degli esiti possibili del Sinodo, Ouellet ha ipotizzato un’enciclica sull’interpretazione della Bibbia. Al tempo stesso ha ammesso che fra i cattolici c’è grande ignoranza della Scrittura e una "fuga" dalle brutte prediche dei preti.
* la Repubblica, 7 ottobre 2008
Pio XII, ancora polemiche *
DOPO E CONTRO LA LEZIONE DI PAPA WOJTYLA (DI ORIGINI EBRAICHE),
IL REVISIONISMO NOSTALGICO DI RATZINGER.
Caro Marco *
solo due brevi appunti a margine della discussione e del problema:
--- 1) IL CATTOLICESIMO CON LA CROCE UNCINATA. L’apertura degli archivi del vescovo filonazista Alois Hudal, rettore per decenni del Collegio pangermanico di Santa Maria dell’Anima a Roma ripropone la necessità di una analisi in profondità dei rapporti tra la gerarchia cattolica e l’ideologia hitleriana;
M. cordiali saluti, Federico La Sala
scritto da Federico La Sala 13/10/2008 0:35
A un Papa (Pio XII)
di Pierpaolo Pasolini:
".... Non ti chiedevo di perdonare Marx! Un’onda/ immensa che si rifrange da millenni di vita/ ti separava da lui, dalla sua religione:/ ma nella tua religione non si parla di pietà?/ Migliaia di uomini sotto il tuo pontificato,/ davanti ai tuoi occhi, son vissuti in stabbi e porcili./ Lo sapevi, peccare non significa fare il male:/ non fare il bene ,questo significa peccare./ Quanto bene tu potevi fare! E non l’ hai fatto:/ non c’è stato un peccatore più grande di te." da La Religione del Mio Tempo (1961).
scritto da Gardini G 12/10/2008 23:51
L’annuncio di padre Gumpel, postulatore della causa di beatificazione di Papa Pacelli
"Benedetto XVI vorrebbe andare, ma quella didascalia è un falso storico"
"Niente visita di Ratzinger in Israele se il museo non rimuove la targa su Pio XII"
Il testo al centro dello scontro è allo Yad Vashem di Gerusalemme e accusa Pacelli di indifferenza all’Olocausto
ROMA - Un gesto di buona volontà per ottenere da parte ebraica un profondo ripensamento del giudizio storico su Papa Pio XII. E’ in questa chiave che va interpretata la decisione di Benedetto XVI di tenere momentaneamente ferma la procedura di beatificazione di Papa Pacelli. Il Pontefice fa capire quindi di non voler forzare il processo, ma offre questa disponibilità in cambio di una rivalutazione dei meriti di Pio XII da parte della storiografia israeliana, rivalutazione che dovrebbe passare innanzitutto attraverso la rimozione della didascalia che campeggi attualmente al museo dello Yad Vashem sotto la fotografia di Pio XII.
A illustrare questa posizione di Benedetto XVI è stato stamane padre Peter Gumpel, il postulatore della causa di beatificazione di Papa Pacelli, rivelando che il Pontefice, pur desiderandolo, non intende recarsi in visita in Israele fin quando il problema non sarà risolto. Un suo viaggio, ha chiarito Gumpel, è "impossibile fino a quando la didascalia sotto la fotografia di Pio XII al museo dello Yad Vashem, evidente falsificazione storica non sarà rimossa".
Il testo al centro del contenzioso tra Santa Sede e Stato Ebraico è composta da una decina di righe. Racconta che "eletto nel 1939, il Papa mise da parte una lettera contro l’antisemitismo e il razzismo preparata dal suo predecessore. Anche quando i resoconti sulle stragi degli ebrei raggiunsero il Vaticano, non reagì con proteste scritte o verbali. Nel 1942, non si associò alla condanna espressa dagli Alleati per l’uccisione degli ebrei. Quando vennero deportati da Roma ad Auschwitz, Pio XII non intervenne".
"Finchè quella didascalia, di cui persino lo studioso ebreo Sir Martin Gilbert, massimo storico della Shoah, ha chiesto la rimozione, rimane nel museo - ha aggiunto Gumpel - Benedetto XVI non si può recare in Israele perché sarebbe uno scandalo per i cattolici". padre Gumpel ha osservato quindi che "la Chiesa cattolica fa tutto il possibile per avere buoni rapporti con Israele, ma rapporti amichevoli si possono costruire solo se c’è reciprocità".
E il Pontefice è convinto di aver fatto il primo passo in questa direzione mettendo momentaneamente in "standby" la causa di beatificazione di Papa Pacelli. "La causa di beatificazione di Pio XII ormai conclusa e su cui manca solo la firma di Benedetto XVI - ha spiegato ancora Gumpel - non si sblocca perché il Papa vuole avere buoni rapporti con gli ebrei".
La affermazioni di padre Gumpel arrivano a pochi giorni dalle parole del rabbino capo di Haifa Shear Yesuv Cohen, che all’uscita dal Sinodo dei vescovi, la settimana scorsa, aveva detto: "Crediamo che Pio XII non dovrebbe essere beatificato o preso a modello, perché ha mancato di salvarci o di levare la sua voce, anche se ha cercato segretamente di aiutare".
Allo Yad Vashem: «Quell’uomo per noi non ha mosso un dito»
I commenti al Museo dell’Olocausto di Gerusalemme.
Una ferita aperta e gli inviti alla prudenza verso la Santa Sede
«Mise da parte una lettera contro antisemitismo e razzismo preparata dal suo predecessore»
Shear Yesuv Cohen: «Crediamo che non dovrebbe essere beatificato o preso
a modello»
di Umberto De Giovannangeli (l’Unità, 19.10.2008)
I RAGAZZI e le ragazze in divisa militare visitano attenti, in silenzio, le sale dello Yad Vashem, il Museo dell’Olocausto nel cuore della Gerusalemme ebraica. Mi affianco al gruppo, che si ferma a leggere la didascalia che accompagna la foto di Pio XII. Un ragazzo occhialuto dice alla bionda ragazza in divisa: «Quell’uomo poteva salvare tanti ebrei, ma non ha mosso un dito...». E’ una testimonianza diretta. Che dà conto di un sentire comune che unisce molti dei sopravvissuti dai lager nazisti con le giovani generazioni di Israele: il giudizio negativo sul comportamento di Papa Pio XII. Un sentimento profondamente radicato, tanto da influenzare la stessa diplomazia dello stato ebraico nei confronti della Santa Sede. Israele ambirebbe alla visita ufficiale di Benedetto XVI ma non al prezzo della rimozione di quella didascalia che recita: «Eletto nel 1939, il Papa (Pio XII) mise da parte una lettera contro l’antisemitismo e il razzismo preparata dal suo predecessore. Anche quando i resoconti sulle stragi degli ebrei raggiunsero il Vaticano, non reagì con proteste scritte o verbali. Nel 1942, non si associò alla condanna espressa dagli Alleati per l’uccisione degli ebrei. Quando vennero deportati da Roma ad Auschwitz, Pio XII non intervenne». Una decina di righe: più che una didascalia, quelle righe hanno il contenuto e il tono di una requisitoria. Per Israele, Pio XII resta il «Papa dei silenzi».
Silenzi pesanti. Pesanti come la morte. Come pesante è stato il silenzio del governo di Gerusalemme, e della direzione dello Yad Vashem, di fronte alla dichiarata volontà di Papa Ratzinger di avviare il processo di beatificazione di Papa Pacelli. A parlare, in quell’occasione è stato il direttore per gli Affari interreligiosi dell’American Jewish Committee, rabbino David Rosen, che ha invitato il Vaticano a tener conto delle "sensibilità" dei sopravvissuti alla deportazione e a "rinviare" qualsiasi decisione almeno fino all’apertura degli archivi ufficiali, tra cinque anni. Più dure le parole pronunciate dal rabbino capo di Haifa, Shear Yesuv Cohen, in occasione del recente Sinodo dei vescovi: «Crediamo che non dovrebbe essere beatificato o preso a modello, perché ha mancato di salvarci o di levare la sua voce, anche se ha cercato segretamente di aiutare». Affermazioni tanto più significative per il contesto e l’occasione in cui sono state svolte: era la primissima volta che un esponente ebraico veniva invitato al Sinodo dei vescovi.
«Ratzinger lo celebra? Se lo sapevo non venivo al Sinodo. Non siamo contenti dei tentativi nella Chiesa di dimenticare questo triste capitolo», aveva sottolineato il rabbino Cohen. «La verità storica non può essere piegata alle ragioni della diplomazia», dice a l’Unità una fonte autorevole vicina alla direzione dello Yad Vashem. In un Paese che fa della memoria della Shoah un elemento fondante della propria identità nazionale, la beatificazione di Pio XII verrebbe vista come un affronto. Peggio: come un oltraggio alla memoria dei milioni di ebrei sterminati nei lager nazisti. Per questo sarà molto difficile che quella didascalia venga rimossa. Perché Israele non può, non vuole dimenticare i silenzi di un Papa.
Un rapporto segreto del britannico Osborne su Pio XII
L’ambasciatore scrisse "Ho visto il pontefice parla bene dei tedeschi"
Il diplomatico nazista "Il Papa si augura che manteniamo le posizioni in Urss contro i comunisti"
di Francesco Bei (la Repubblica, 19.10.2008)
ROMA - Sarà pure, come dice padre Gumpel (il gesuita che lo vorrebbe beato), tutta «una montatura». Ma certo i nuovi documenti su Pio XII, scoperti dagli studiosi Giuseppe Casarrubea e Mario J. Cereghino negli archivi americani e inglesi, non solo sembrano confermare i giudizi degli ebrei sul Pontefice ma ci restituiscono un Pacelli schierato con i nazisti in funzione anticomunista. Si tratta in particolare di due documenti segreti, che saranno pubblicati dai ricercatori in un volume di prossima uscita presso Bompiani. Il primo dà conto dell’incontro tra Pio XII e Sir d’Arcy Osborne, inviato straordinario inglese, che si svolge in Vaticano due giorni dopo il brutale rastrellamento di mille ebrei romani. I due si vedono il 18 ottobre, mentre alla stazione Tiburtina le SS stanno ancora facendo salire gli ebrei sui carri bestiame, destinazione Auschwitz. L’inviato della Gran Bretagna, che trasmetterà poi a Londra il resoconto dell’udienza, fa notare al Papa come Roma sia «alla mercé dei tedeschi, che sistematicamente la privano di tutti i rifornimenti e della manodopera, che arrestano ufficiali italiani, giovani e carabinieri e che applicano metodi spietati nella persecuzione degli ebrei. (...) Io ho affermato che Egli dovrebbe fare tutto il possibile per salvaguardare lo Stato del Vaticano e i suoi diritti alla neutralità. Egli ha replicato che, in tal senso e fino a questo momento, i tedeschi si sono sempre comportati correttamente». Insomma, dal documento inglese sembra che il Papa sorvoli sul rastrellamento del ghetto, sottolineando invece la «correttezza» dei tedeschi con la Chiesa. L’altro rapporto segreto è quello che l’ambasciatore tedesco presso il Vaticano, von Weiszaecker, invia a Berlino il 13 dicembre del �43. «Il Papa - scrive il diplomatico a Ribbentrop - si augura che i nazisti mantengano le posizioni militari sul fronte russo e spera che la pace arrivi il prima possibile. In caso contrario il comunismo sarà l’unico vincitore in grado di emergere dalla devastazione bellica. Egli sogna l’unione delle antiche nazioni civilizzate dell’Occidente per isolare il bolscevismo a Oriente. Così come fece papa Innocenzo XI, che unificò l’Europa contro i Musulmani».
Cereghino, il ricercatore d’archivio che ha trovato queste carte e le ha lette in originale, è convinto della loro importanza: «Sono un atto d’accusa non indifferente del quale non si potrà non tener conto in futuro. I documenti confermano i dubbi che gli ebrei, soprattutto quelli italiani, hanno sempre avuto su Pio XII».
Pio XII? Non vide l’orrore nazista e fascista
di Luigi Cancrini (l’Unità, 20.10.2008)
Beatificare Pio XII? Perché? Papa Ratzinger ha giustificato questa proposta, autorevolmente da lui avallata, dicendo che Pio XII ha difeso gli ebrei dalla persecuzione nazista e fascista. Lei che ne pensa?
Lettera firmata
«Questo è un libro anticlericale, scrive Ernesto Rossi presentando Il sillabo e dopo (Kaos edizioni, aprile 2000), lo hanno scritto otto pontefici». Io, per rispondere, seguirò il suo esempio. Citerò solo Pio XII che parla in qualità di pontefice aggiungendo un breve commento e chiedendo a chi legge di dare una risposta al suo quesito.
Chiesa e nazismo d’accordo con vantaggio delle due parti (lettera personale ad Hitler del 6 maggio 1939). «Desideriamo, fin dall’inizio del nostro pontificato, rimanere legati da intima benevolenza al popolo tedesco affidato alle sue cure, e invocargli paternamente da Dio Onnipotente quella vera felicità a cui provengono dalla religione nutrimento e forza. In spirito di pronta collaborazione a vantaggio delle due parti (Chiesa e Stato) indirizziamo al raggiungimento di tale scopo l’ardente aspirazione che la responsabilità del nostro ufficio ci conferiscono e rendono possibile» (pagg.95,96).
Quando questa lettera fu scritta, nota Rossi, «Hitler aveva già da un pezzo programmato la “religione del sangue” contro la religione di Cristo, aveva dichiarato l’incompatibilità fra l’appartenenza alle organizzazioni cattoliche e l’appartenenza alle organizzazioni naziste, aveva sciolto le organizzazioni dei giovani esploratori cattolici, aveva inviato nei campi di concentramento parecchi esponenti del clero che non si adeguavano alle posizioni dei nazisti, aveva proibito i matrimoni dei cattolici con gli ebrei e, soprattutto, aveva iniziato la più spietata campagna contro gli ebrei, rinchiudendoli nei ghetti, obbligandoli a portare sugli abiti un distintivo, sequestrando i loro beni, facendo incendiare e devastare le sinagoghe e negozi ebraici, scatenando i pogroms e inviando a morire di stenti e sotto le torture decine di migliaia di innocenti. Di tutte queste criminali efferatezze e di queste aperte violazioni del Concordato non si trova alcun cenno nella lettera riportata nel testo» (nota n.6, pag 96).
La pace di Cristo restituita all’Italia (Encliclica Summi pontificatus, 20 ottobre 1939). «A particolare letizia si eleva il nostro cuore nel potere in questa prima Enciclica, indirizzata a tutto il popolo cristiano sparso nel mondo, porre in tal novero la diletta Italia, fecondo giardino della fede piantata dai Prìncipi degli Apostoli, la quale, mercé la provvidenza operata dei Patti Lateranensi, occupa ora un posto d’onore nel rango degli stati ufficialmente rappresentati presso la Sede Apostolica. Da quei patti ebbe felice inizio la “pace di Cristo restituita all’Italia”» (pagg 96, 97).
I nobilissimi sentimenti cristiani di Franco (Radio messaggio alla Spagna, 16 aprile 1939). «I disegni della Provvidenza, amatissimi figlioli, si sono manifestati una volta ancora sopra l’eroica Spagna. La Nazione eletta da Dio come principale istrumento di evangelizzazione del Nuovo Mondo e come baluardo inespugnabile della fede cattolica, ha testé dato ai proseliti dell’ateismo materialista del nostro secolo la più elevata prova che, al di sopra di ogni cosa, stanno i valori eterni della religione e dello spirito. Esortiamo pertanto i Governanti e i Pastori della cattolica Spagna ad illuminare la mente di coloro che sono stati ingannati, additando loro con amore le radici del materialismo e del laicismo. Non dubitiamo che ciò avverrà, e di questa nostra ferma speranza sono garanti nobilissimi i sentimenti cristiani di cui hanno dato sicure prove il Capo dello Stato e tanti suoi fedeli collaboratori» (pagg. 97,98) .
Proprio in quei giorni, nota Rossi, «i “nobilissimi sentimenti cristiani” del gen. Franco e dei suoi collaboratori sono messi bene in luce da Galeazzo Ciano che scrive a Mussolini (19 Luglio 1939): i detenuti politici sono ancora 200.000 ma i processi si “svolgono ogni giorno con rapidità che può ben dirsi sommaria e le fucilazioni sono ancora numerosissime. Nella sola Madrid dalle 200 alle 250 al giorno, a Barcellona 150 e 80 a Siviglia, città che non fu mai nelle mani dei rossi”» (nota n. 7 pagg 98,99).
Sono esempi, mi pare, del tutto chiari. In essi il papa di cui oggi si propone la beatificazione dimostra di dare un riconoscimento e un appoggio entusiasta ai tre regimi, alle tre dittature fasciste che stanno insanguinando l’Europa e l’Africa. Lo fa, per di più, parlando ex cathedra, non a titolo personale, con messaggi pubblici che chiedono ai cattolici di riconoscersi, esaltandoli, in personaggi di cui la storia propone oggi la pochezza un po’ ridicola e avallando di fatto scelte di cui la storia definitivamente ha riconosciuto l’assurdità, la brutalità, la totale irrazionalità.
Quelle che fanno da (tragica) contrapposizione a questa amicizia empatica e mostruosa di papa Pio XII per tre dittatori senza scrupoli sono a questo punto due considerazioni semplici di cui forse l’opinione pubblica (e la riflessione dei cattolici) dovrebbero tenere conto. Vi era una coscienza diffusa, allora, in tutto il mondo del carattere espansionista e profondamente antidemocratico della politica nazista e fascista del disastro cui questa politica stava irreparabilmente portando il mondo. Pio XII non se ne accorgeva (lo Spirito Santo allora non lo illuminò) e non prese posizione in nessun modo contro questi tre grandi paesi di cui sperava forse che avrebbero sconfitto il comunismo «ateo» e imposto a tutto il mondo, se avessero vinto, una religione in cui la Chiesa di Roma avrebbe avuto la possibilità di contare: moltissimo in Spagna e in Italia, molto nel Reich tedesco.
Nessuna preoccupazione e nessuna reazione destarono, d’altra parte, in Vaticano le leggi razziste che in quegli anni erano state promulgate in Germania ed in Italia: leggi orribili per tutti oggi ed a cui andarono invece, allora, gli elogi di esponenti importanti della Chiesa (un esempio per tutti è quello di Agostino Gemelli) che nella persecuzione degli ebrei avevano la stoltezza (la crudeltà, il sadismo vendicativo e cretino della persona malata) di riconoscere la mano e il volere di un Dio che di Mussolini e Hitler si sarebbe servito per vendicare la morte di Gesù. Una stoltezza (una crudeltà, un sadismo vendicativo e cretino di persona malata) evidentemente avallata allora dal silenzio del Papa che oggi si propone di beatificare.
Israele gela la Santa Sede: su Pio XII nessuna marcia indietro Gerusalemme ribadisce l’invito a Benedetto XVI a visitare lo Stato ebraico ma chiede che siano finalmente aperti gli archivi segreti vaticani
di Umberto De Giovannangeli (l’Unità, 20.10.2008)
ISRAELE tiene il punto. Papa Ratzinger resta «un ospite gradito ed amato» ma su Papa Pacelli, lo Stato ebraico non fa marcia indietro. A ribadirlo è il portavoce del ministero degli Esteri israeliano: «Non si possono chiudere gli occhi di fronte al controverso ruolo storico di papa Pio XII ed al suo comportamento nei giorni in cui migliaia di ebrei venivano quotidianamente mandati al massacro». Sulla questione della rimozione da parte dello Yad Vashem della targa (fortemente critica verso Pio XII) contestata dalla Santa Sede, il portavoce glissa limitandosi ad osservare che «lo Stato d’Israele non commenta le dichiarazioni di persone (il postulatore della causa di beatificazione di Papa Pacelli, padre Peter Gumpel, ndr.) che non sono state autorizzate a parlare a nome di papa Benedetto XVI». Interpellato dalla radio israeliana padre David Jaegger, un rappresentante del Vaticano in Israele, ha dichiarato: «Padre Gumpel non rappresenta il Papa e quest’ultimo deciderà sovranamente la data del suo arrivo» in Terrasanta.
«L’invito rivolto a papa Benedetto XVI a venire (in Israele) è stato rinnovato e vale sempre (...). Le divergenze (sulla beatificazione) possono essere ridotte, ma la data di questa visita non è ancora stata fissata», puntualizza l’ambasciatore dello Stato ebraico presso la Santa Sede, Motti Levy, ma resta una frase del portavoce del ministero degli Esteri israeliano che più di tante disegna la sensibilità e la prudenza di Israele sul tema: «Fintanto che gli archivi del Vaticano non saranno aperti per i ricercatori, la questione storica (su Pio XII, ndr.) resta aperta e dolorosa». Un concetto, quello dell’apertura degli archivi segreti del Vaticano, su cui ieri ha insistito la direzione dello Yad Vashem.
In una nota fatta pervenire alla sede di Gerusalemme dell’agenzia Ansa, la direzione del Museo dell’Olocausto, si è detta sicuro che l’apertura degli archivi segreti del Vaticano relativi al periodo della Seconda Guerra mondiale sarebbe il modo migliore per fare luce e chiarezza su una questione così importante e delicata come il ruolo di papa Pio XII. Nella nota, fatta pervenire all’Ansa attraverso la portavoce del Museo e centro di documentazione sull’Olocausto, Estee Yaari, riguardo a una possibile visita di papa Ratzinger in Israele, si afferma anche che «una visita del papa Benedetto XVI riveste carattere politico e, come tale, non riguarda come istituzione lo Yad Vashem».
In serata, sul tema interviene Shimon Peres. Il presidente israeliano è entrato in gioco nella polemica tra esponenti religiosi cattolici e alcune istituzioni ebraiche, tra le quali lo Yad Vashem di Gerusalemme, il Museo-memoriale della Shoah, ribadendo che i rapporti fra lo Stato ebraico e la Santa Sede sono buoni e che «una visita di Papa Benedetto XVI in Israele sarebbe assai gradita». Vari giornali israeliani nelle rispettive edizioni online hanno riferito ieri sera una frase dell’anziano capo di Stato, secondo il quale la targa dello Yad Vashem riguardante il ruolo di Papa Pio XII nei confronti dell’Olocausto non dovrebbe impedire un viaggio di Benedetto XVI in Israele. «Non vedo alcun legame tra la questione su Pio XII e la visita» di Ratzinger, ha detto Peres, che ha ricordato di avere già incontrato in varie occasioni l’attuale pontefice di Roma, precisando di avere per lui «una stima particolare»