Gandhi, il Mansueto
di Primo Mazzolari *
Ho conosciuto e voluto bene a Gandhi, non attraverso i giornali, ma attraverso il bene che gli portava una mirabile suora francescana, che ebbe la fortuna di incontrarlo in India e di averlo ospite in Italia. Nella «grande anima» aveva trovato qualche cosa del Serafico. Poi, vennero anche per lui gli interminabili giorni dell’iracondia, e il mio bene per lui crebbe a dismisura, poiché la sua maniera di resistere al Maligno, pur umiliandomi nel confronto, mi rassicurava come cristiano.
L’umiliazione, quando è sincera, invece di chiudere il cuore, lo fa docile, e a scuola d’ognuno, anche dell’«ultima», anche dell’«infedele», anche dell’«incirconciso». Lo Spirito è come il vento, e soffia dove vuole e fa sorgere ovunque profeti o testimoni di quella Verità, la quale pur essendo costruita come una «Città», non ha mura né verso Oriente né verso Occidente. La Grazia, per strade che solo l’Amore conosce, arriva dove neanche arriva il nostro sogno che come ogni cosa nostra conosce il limite e la misura: (mentre lo Spirito è l’infinito ed è Carità anche più caritativa, se ci scontenta quando le vogliamo porre un limite.
Volevo bene a Gandhi perchè sentivo che il Mansueto l’aveva scelto per testimoniare di Lui, come aveva scelto Giovanni di Zebedeo, Francesco di Bernardone: per fare, più che per dire la Parola. Il Regno dei Cieli, appartiene a coloro che fanno: e se uno poi fa, senza aver visto, egli è ancora più beato, al par di colui che crede senza vedere. Dunque, anche lui è un discepolo ed è stato trattato come il Maestro. «Forse che il Discepolo è da più del Maestro? Come hanno trattato il Maestro sarà trattato il Discepolo». Gli uomini pagano alla pari «il legno verde e il legno secco».
Ci voleva questo sigillo, anche se nel dirlo il cuore mi trema. Se no, si sarebbe potuto pensare a un’incompiutezza del suo messaggio e della sua testimonianza. Una benevolenza o una accondiscendenza da parte degli uomini che non sono usi a sopportare la bontà, avrebbe diminuito la somiglianza e indotto a pensare che, in una cornice diversa, il Discepolo potrebbe anche essere tollerato.
Gandhi, al pari di un vero cristiano, ha creduto nella cosa più folle a darsi e più difficile a farsi: ha creduto nella Carità. «Et nos credidimus Charitati...». Gli stessi pagani hanno intravveduto l’irresistibilità dell’amore, e il loro assenso conferma l’accordo sostanziale tra la Verità che discende dal cielo e la Verità che sale dal cuore, che è un cielo capovolto. Fanno pure coro con noi tanti che stanno ai margini o fuori dalla cristianità. Poi, la fretta di vedere prima di chiudere gli occhi, ci fa dimenticare che l’Amore a guisa del seme, anche se cade in terra buona porta frutto con pazienza. Fare senza vedere, credere senza vedere è un assurdo: logico, ma condizione e prova della nostra fedeltà allo Spirito.
Gandhi ha saputo attendere, confermando la chiamata. Chi gli ha stroncato l’attesa, non gli ha portato via la fede, che venne confermata col sangue, «Fidem firmavit sanguine». Quando Gandhi viveva sotto gli Inglesi e stava tra i suoi e gli Inglesi, e non sempre la sua opera, riusciva gradita ai «signoni dell’Occidentee». Si pensava da qualcuno: un giorno verrà tolto di mezzo.
Gli inglesi sono freddi, scettici, educati, ma pur con molto riguardo, hanno fatto capire spesso che il Mahatma, il quale voleva l’indipendenza della sua terra e l’unità del suo popolo, li infastidiva. Però, non gli vollero mai male. Capivano che se era il solo indiano che poteva resistere all’Occidente, era anche il solo indiano che poteva resistere all’Oriente. Stava contro il male dei suoi e degli altri: capiva il torto degli inglesi e degli indiani: il bene e la ragione di entrambi. Per questo, gli Inglesi, che pur non sono gente di predica, sopportavano il Profeta che, invece di condannare, aiutava i suoi e gli altri a non farsi del male.
L’India ebbe per tanti anni il più strano ambasciatore presso la corte di S. Giacomo: e l’Inghilterra il suo più grande benefattore presso l’India. Impedire di fare il male a chi lo può fare senza dar conto a nessuno, è la più grande opera di misericordia. Non dico che l’impero inglese non abbia torti verso l’India; ma se non ci fosse stato Gandhi, l’Inghilterra avrebbe un conto più grosso. Per merito di Gandhi gli inglesi hanno oggi una coscienza meno onerata. Il loro spirito di potenza non li ha accecati, cosi da non avvertire la potenza dello Spirito, che parlava attraverso l’impotenza del Profeta.
Forono «i suoi che non l’h’anno ricevuto» (una nuova somiglianza del discepolo col Maestro) furono quei di casa sua, con i quali spartiva il pane e la sofferenza, non l’illusione di una India onnipotente, che gli si son levati contro, continuando gli Scribi e i Farisei. Quegli indiani, che vogliono soltanto un’India forte, sentivano che Gandhi non avrebbe mai potuto essere dei loro, e l’hanno tolto di mezzo, come un ingombro "Tolle eum". E l’hanno tolto di mezzo in quel modo che ha inorridito il mondo intero, almeno il mondo che non crede nella violenza. E anche quello che vi crede, da qualche giorno quando parla di lui, parla come se non ci credesse più. La spudoratezza del male, anche oggi, ha i suoi limiti, «Venne tra i suoi e i suoi non l’hanno ricevuto...».
L’imperialismo inglese ormai stanco, non ha capito interamente Gandhi, ma lo sopportava: il sorgente imperialismo indiano non poté sopportarlo. La novità ha fretta e levò l’ingombro. Chi insegnava voler bene e a perdonare, è contro quella falsa grandezza: la mina alle radici. E fu tolto di mezzo. Ora egli è un vinto. Il discepolo non può essere che un vinto, quando vive e quando muore. Però, il mondo ebbe un fremito all’annuncio della sua morte: Qualche cosa s’è spaccato, come a Gerusalemme in quel pomeriggio di Parasceve. Direi che il colpo è stato avvertito più di quanto si poteva immaginare. Poi è intervenuta la retorica e ora si fa fatica a distinguere chi parla col cuore e chi il cuore non ce l’ha. Vi dico che preferirei sentire parlare di Gandhi, della sua opera e della sua fine, secondo il sentimento e la regola morale di ognuno. Chi «è contro le nostre opere non può essere esaltato».
Questo presidio di sentimenti, c’impedisce di vedere come siamo ci umilia. Vorrei che i giornali dicessero di lui ciò che dicono tutti i giorni della, fede che è la sua fede, ciò che dicono sullo stesso foglio, in seconda, in terza, in quarta pagina. Il guadagno della sincerità! Lasciatemi dire che anche questa ipocrisia non è senza utile; prova che il bene è un’insegna di poco conto, ma costa ammainarla. Pacificare i suoi: far pace con gli altri, inglesi, maomettani. Si è messo di mezzo per fare l’unità. E veniva da una «parte» anche lui! E non l’ha rinnegata. Per congiungere gli uomini non è necessario rinnegare la Patria, la razza, la religione. Per fare la patria dell’uomo basta un grande cuore.
«Cosa succederà ora laggiù?». Quando uccidono un «grande della terra», c’è da temere: quando uccidono una «grande anima» non c’è nulla da temere. Il discepolo non può che ripetere la Parola: «Padre perdona loro che non sanno.».
30 gennaio 1948
Primo Mazzolari
http://www.padrebergamaschi.com/
* IL DIALOGO, Martedì, 29 gennaio 2008
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"ADESSO". Una lettera a don Primo Mazzolari...
"Deus caritas est". Sul Vaticano, in Piazza San Pietro, il "Logo" del Grande Mercante ....
UN PROGRAMMA DI STERMINIO DELL’ECUMENISMO...
MEMORIA DI FRANCESCO DI ASSISI
"L’ANTIBARBARIE. lA CONCEZIONE ETICO-POLITICA DI GANDHI E IL XXI SECOLO".
Cosa significa Gesù per me
di Mohandas Karamchand Gandhi *
Benché io abbia dedicato gran parte della mia vita allo studio della religione e alla discussione con i capi religiosi di tutte le fedi, riconosco molto bene di non poter non sembrare presuntuoso nel momento in cui mi accingo a scrivere di Gesù Cristo e a cercare di spiegare ciò che Lui significa per me. (...)
... Egli è stato sicuramente il più alto esempio di chi ha desiderato di dare tutto senza chiedere in cambio niente e senza interessarsi a quale sarebbe stato il credo che avrebbe professato il ricevente. Sono sicuro che se Lui in questo momento vivesse tra gli uomini, Egli benedirebbe le vite di molti di coloro che forse non hanno mai sentito il Suo nome, se soltanto le loro vite incarnassero le virtù delle quali Lui è stato l’esempio vivente sulla terra, la virtù di amare il prossimo come se stessi e del fare del bene e della carità tra i propri simili. Allora, cosa può significare per me Gesù? Per me Egli è stato uno dei più grandi maestri che l’umanità abbia mai conosciuto. Secondo i Suoi credenti Egli è stato l’Unigenito Figlio di Dio. Ma il fatto che io accetti o meno questa convinzione può far sì che Gesù abbia maggiore o minore influenza nella mia vita? È forse che tutta la grandezza dei Suoi insegnamenti e della Sua dottrina devono essermi vietati? Non posso crederci.
Per me ciò implica una nascita spirituale. In altre parole, la mia interpretazione è che nella vita di Gesù vi è la chiave della Sua vicinanza a Dio e che Egli espresse, come nessun altro ha saputo fare, lo spirito e la volontà di Dio. È in questo senso che io Lo vedo e Lo riconosco come Figlio di Dio.
(...)
E poiché la vita di Gesù ha quel senso e quella trascendenza ai quali io ho alluso, credo che Egli appartenga non soltanto al cristianesimo ma al mondo intero, a tutte le razze e a tutti i popoli, poco importa sotto quale bandiera, nome o dottrina essi possano lavorare o professare una fede o adorare un dio ereditato dai propri avi.[1]
*
[1] Mohandas Karamchand Gandhi, Cosa significa Gesù per me, «Modern Review», ottobre 1941. Pubblicato in Mohandas Karamchand Gandhi, La forza della verità. Scritti etici e politici, Edizioni Sonda, Torino 1991, vol. I, pp. 458-460 .
CHIESA
Avviata la beatificazione
Don Mazzolari: dal Sant’Uffizio agli altari?
di ANSELMO PALINI*
Qualcosa sta veramente cambiando nella Chiesa. Prima la beatificazione di Oscar Romero, a oltre 35 anni dal suo martirio e malgrado l’iter sembrasse bloccato poiché l’arcivescovo di San Salvador era ritenuto troppo politicizzato. Ora il nulla osta della Congregazione per le Cause di Santi per l’avvio della causa di beatificazione di don Primo Mazzolari. Il nulla osta è stato firmato dal cardinale prefetto Angelo Amato. La richiesta era stata avanzata dal vescovo di Cremona fin dal febbraio 2013, con l’approvazione unanime dell’episcopato lombardo.
Il postulatore della causa di beatificazione è don Bruno Bignami, presidente della “Fondazione Mazzolari” di Bozzolo (Mn) e autore di numerosi studi e pubblicazioni su don Primo: senza dubbio uno dei più autorevoli conoscitori del pensiero mazzolariano. Inizierà dunque ora la fase diocesana del processo di beatificazione, al termine della quale tutto verrà inviato a Roma per i successivi passaggi.
Don Mazzolari, per tutta la sua vita osteggiato dal Sant’Uffizio che considerò “erronei” molti suoi libri, e aspramente criticato dall’episcopato lombardo, ora viene formalmente “messo sotto esame” per una possibile beatificazione. Come dire che si riconosce la bontà dell’azione e del pensiero di don Primo, il suo essere profeta, non compreso allora dalla Chiesa.
Il primo provvedimento del Sant’Uffizio di censura degli scritti di don Mazzolari è del 1934, l’ultimo del 1960 quando Mazzolari era ormai morto. Una decina sono stati i provvedimenti del Sant’Uffizio presi nei confronti di Mazzolari: gli venivano contestati non aspetti della dottrina, bensì l’opportunità delle sue prese di posizione su tematiche di attualità o su aspetti di tipo pastorale.
Il parroco di Bozzolo ha obbedito alle ingiunzioni del Sant’Uffizio di non scrivere, poi di non dare interviste, poi di non predicare fuori diocesi, poi di restare nella propria parrocchia, ma ha obbedito in piedi, facendo presente che era contestato non su aspetti del dogma, ma su materie opinabili, dove la coscienza morale individuale doveva essere il criterio di giudizio. È stato obbediente ma libero. Pur se con grande sofferenza interiore.
La sua obbedienza comunque è stata soprattutto al Vangelo e a Cristo. Soltanto con l’avvento al soglio pontificio di Giovanni XXIII si ebbe il pieno riconoscimento della completa ortodossia e dell’appassionata fedeltà alla Chiesa di Mazzolari. Giovanni XXIII lo ricevette in Vaticano il 5 febbraio 1959 indicandolo come la «tromba dello Spirito santo in Val Padana », bloccando così un duro provvedimento dell’episcopato lombardo che stava per colpire don Primo.
L’attività di don Primo non si è potuta svolgere in modo lineare. Le censure e le condanne subite per i suoi scritti fanno supporre che don Mazzolari si sia in un certo senso trattenuto dall’esprimersi compiutamente, in quanto ben cosciente del fatto che tutto il suo lavoro sarebbe finito sotto la lente di ingrandimento del Sant’Uffizio e degli incaricati di dare l’imprimatur ecclesiastico ad ogni nuova pubblicazione. Possiamo in un certo qual modo ipotizzare che le pagine migliori di don Mazzolari siano rimaste inedite.
A Bozzolo, sulla tomba di don Primo, posta ora nella chiesa di san Pietro, è scritto solamente «Primo Mazzolari, sacerdote». Don Mazzolari è stato questo innanzitutto, e la sua vita sacerdotale si è svolta sostanzialmente nell’ombra, senza onorificenze né riconoscimenti, in un isolamento rotto solamente dai frequenti viaggi pastorali e dalla visita degli amici più cari, oltre che dalla passione per lo scrivere che sempre lo accompagnò e che fu alla base delle sue fortune quanto delle sue disavventure.
Don Mazzolari era animato da un’ansia pastorale incessante: la Chiesa doveva essere missionaria. I lontani erano al centro della sua attenzione: il Vangelo doveva giungere fino a loro. Nessuno è escluso, ma di tutti e di ciascuno Dio è Padre amorevole. Il tema dei lontani è stato trattato ne La più bella avventura, dove commenta la parabola del Figliol Prodigo, e in numerosi articoli pubblicati sul quindicinale da lui fondato nel 1949, Adesso.
L’immagine della parrocchia di don Primo è quella tradizionale: era figlio del suo tempo e intendeva il ruolo del prete come quello di autentica guida dell’intera comunità anche nel campo non strettamente religioso. Non aveva in mente nulla di rivoluzionario, ma il suo andare oltre le mura del tempio e proporre a tutti le proprie iniziative era già di per sé rivoluzionario per la Chiesa del suo tempo.
Riteneva inoltre che fosse necessaria una rievangelizzazione anche all’interno della cittadella cristiana, dove la fede era spesso ridotta a ritualismo e rimaneva chiusa nelle sagrestie. La sua fede è stata tormentata, non tanto sotto il profilo teologico e dottrinale, quanto per il suo sforzo di dialogo con i lontani e di confronto con le varie problematiche del tempo. Ciò non venne compreso e fu aspramente combattuto.
Quello di Mazzolari è stato un cammino di formazione della coscienza morale lungo e faticoso, a volte anche accidentato, ma accompagnato da una conversione continua, da una sempre nuova capacità di discernimento, secondo un duplice costante riferimento: il Vangelo e la storia. Un Vangelo sganciato dalla storia degli esseri umani per don Mazzolari sfociava in semplice intellettualismo, in formule sterili e disincarnate. Se analizziamo gli scritti di don Primo, constatiamo che sono costruiti riferendosi fondamentalmente ai Vangeli, pochissimo alle lettere di Paolo e ancor meno all’Antico Testamento. Questa centralità di Gesù Cristo e del Vangelo ispira tutta l’azione di Mazzolari.
Fra i temi cari a Mazzolari va ricordato innanzitutto quello della pace. Mazzolari, dopo un percorso accidentato e sofferto, negli anni Cinquanta ha indicato alla Chiesa la strada della pace, mettendo le basi di una sorta di nonviolenza cristiana, teorizzando l’obiezione di coscienza, in piena guerra fredda e quando c’era il rischio di un nuovo conflitto mondiale. Il comandamento cristiano dell’amore non può coniugarsi con le armi e con la guerra. In questo senso il libro Tu non uccidere è assolutamente attuale. Vi è scritto: «La nostra arma di difesa è la giustizia sociale più che l’atomica. Chi pensa di difendere con la guerra la libertà, si troverà in un mondo senza nessuna libertà. Chi pensa di difendere con la guerra la giustizia, si troverà in un mondo che avrà perduto perfino l’idea e la passione per la giustizia. Chi pretende di difendere con la guerra la cristianità, riporterà la Chiesa alle catacombe». Una condanna assoluta della guerra, come quella pronunciata da papa Francesco a Redipuglia il 12 settembre 2014.
Un secondo tema centrale per Mazzolari, e oggi più che mai essenziale in rapporto alla credibilità dell’azione pastorale, è quello dei poveri: il parroco di Bozzolo ha parlato a tutti, ma il suo sguardo preferenziale era per i poveri e per questo ha parlato di “Chiesa di poveri”, una terminologia che poi il Concilio farà propria. «Nei poveri vi è il volto di Cristo», amava ripetere don Primo. Non solo, ma Mazzolari ha anche vissuto da povero. Ha scritto nel suo Testamento: «Non possiedo niente. La roba non mi ha mai fatto gola e tanto meno occupato. Attorno al mio altare come attorno alla mia casa e al mio lavoro non ci fu mai suon di denaro».
Un altro tratto della figura di don Primo oggi assolutamente attuale è la sua convinzione circa un ruolo più attivo, autonomo e responsabile dei laici, che per don Mazzolari devono rappresentare il naturale raccordo, una sorta di ponte, tra la Chiesa e il mondo moderno. I laici devono operare con intelligenza, coraggio e autonomia dentro e fuori la comunità cristiana, devono fare da fermento nel mondo, assumendosi con coraggio le responsabilità delle proprie scelte. La valorizzazione del laicato è il tema centrale della Lettera sulla parrocchia del 1937.
Nel profilo sacerdotale di don Mazzolari è centrale infine l’esperienza della misericordia divina e tra le pagine più significative a questo riguardo vi è la famosa predica del giovedì santo, 3 aprile 1958, su Nostro fratello Giuda. Come non ricordare papa Francesco e il suo «misericordiare», ossia non solo fare opere di misericordia, ma proclamare che Dio è misericordia?
* autore di diversi volumi su don Mazzolari, fra cui “Primo Mazzolari. Un uomo libero”, con postfazione di mons. Loris Francesco Capovilla (Ave, 2009); “Primo Mazzolari. In cammino sulle strade degli uomini” (Ave, 2012); “Sui sentieri della profezia. I rapporti fra Giovanni Battista Montini-Paolo VI e Primo Mazzolari” (Messaggero, 2012)
* Adista 23 MAGGIO 2015 • N. 19
L’amore è la via
di Enzo Bianchi (Avvenire, 6 luglio 2013)
È altamente significativo che papa Francesco abbia voluto accogliere l’eredità di un’enciclica di Benedetto XVI e l’abbia promulgata aggiungendo al testo nuovi contenuti. Non è la prima volta che questo accade nella Chiesa, e tuttavia questa enciclica è capace di testimoniare la continuità dell’azione di confermare nella fede i fratelli da parte del successore di Pietro e, nello stesso tempo, di dare un segno della fraternità tra il vescovo di Roma emerito e quello attuale.
Il tema dell’enciclica è la fede, e questa lettera non solo viene emanata nell’anno a essa dedicato, ma è anche il completamento dell’insegnamento di Benedetto XVI sulle virtù teologali, dopo le sue encicliche sulla carità e sulla speranza. Siamo in un’ora contrassegnata dalla crisi della fede: della fede in Dio, certamente, e dunque in Colui che ha raccontato Dio, Gesù Cristo (cf. Gv 1,18); ma crisi anche dell’umanità della fede, della fede come atto umano, fede-fiducia come fondamento necessario per il cammino di umanizzazione. Papa Francesco ci offre un approfondimento della fede, ripercorrendo per noi la strada della storia di salvezza: la fede è quella che è apparsa tra gli uomini con Abramo, il padre dei credenti; è stata fede di Israele, il popolo di Dio; è stata fede compiuta in Gesù Cristo, «origine e compimento » della fede cristiana (cf. Eb 12,2).
Questa fede, che resta un dono di Dio e nasce sempre dall’ascolto (cf. Rm 10,17), nell’uomo si fa esercizio e si coniuga in modo fecondo con l’intelligenza e la ragione umana, con il cuore stesso dell’uomo, ed è la vera luce per la conoscenza di Dio e della verità che è Gesù Cristo (cf. Gv 14,6), per quanto è possibile all’essere umano.
Ma la fede vissuta, custodita e annunciata dalla Chiesa è anche una fede che riguarda tutta l’umanità, è per il «bene comune» ed è capace di dare senso alla vita degli uomini e delle donne, vita fragile, votata alla morte, che nella fede diventa incontro con il Signore nella vita per sempre. Se questa è la traccia dell’enciclica, occorrerebbe molto più spazio per mettere in luce i passaggi estremamente significativi e performanti delle parole di papa Francesco.
Voglio però evidenziare almeno tre acquisizioni decisive. Innanzitutto, l’affermazione forte secondo cui la fede non è lo spazio vietato alla ragione, non è un salto nel vuoto, non è un sentimento cieco e neppure un fatto soggettivo, una concezione individualistica.
È vero che essa è sempre un dono, e di conseguenza un atto personale, ma è capace di rischiarare il cammino di ogni essere umano, di far comprendere la storia dell’uomo e dell’universo, di dare un senso al duro mestiere di vivere toccato in sorte all’uomo.
Un’altra affermazione forte riguarda il contenuto di questa fede: è l’amore, o meglio, è il Dio che «è amore» (cf. 1v 4,8.16). Chi sono i cristiani? Quelli che «hanno creduto all’amore» (cf. 1v 4,16). E quando non si crede all’amore, si finisce per credere agli idoli, che sono un falso antropologico prima di essere un falso teologico. È l’idolatria il contrario della fede, è l’idolatria alienante che «chiede a un volto umano di piegarsi a un volto che non è un volto umano» (Martin Buber), bensì il volto di un signore-padrone che non permette né libertà né amore.
Infine, proprio perché i cristiani sono stati definiti paradossalmente «i credenti» ( At 2,44), essi confidano in Gesù Cristo, il Dio-uomo, affidabile perché fedele al Padre e all’uomo fino alla morte, fino a dare la propria vita per gli uomini, suoi fratelli e amici. La fede cristiana non può non essere amore per Gesù Cristo, perché «l’amore stesso è conoscenza» (san Gregorio Magno).
Essendo dunque la fede strettamente connessa con l’amore, non può essere imposta con la violenza, non può essere una verità che schiaccia il singolo, non sarà fede intransigente e neppure arrogante, ma umile. La verità, infatti, non sarà mai posseduta da qualcuno, ma sempre ci possederà e ci precederà, perché la verità è una persona, Gesù Cristo!
E per tutti quelli che non si dicono cristiani né credenti in Dio il messaggio dell’enciclica è di grande speranza: «nella misura in cui si aprono all’amore con cuore sincero ... già vivono, senza saperlo, nella strada verso la fede». Sì, occorre fede-fiducia per tutti gli uomini, e soprattutto occorre credere all’amore. A chi crede all’amore, Dio si farà conoscere in un modo noto a Lui solo, e lo assocerà al mistero pasquale di Cristo (cf. Gaudium et spes 22 )
LA GERARCHIA CATTOLICO-ROMANA HA ROTTO I PONTI CON IL MESSAGGIO EVANGELICO. A 50 anni dall’inizio del Concilio Vaticano II, bisogna prendere atto che il terribile è già accaduto: il "Lumen Gentium" è stato spento e, sulla cattedra di Pietro, siede il Vicario del Signore e Padrone Gesù ("Dominus Iesus": J. Ratzinger, 2000).
A 50 ANNI DAL VATICANO II, UNA SITUAZIONE CUPA. Un’analisi di Vito Mancuso - con una nota
Nell’ultima intervista Martini ha dichiarato: «Vedo nella Chiesa di oggi così tanta cenere sopra la brace che spesso mi assale un senso di impotenza», parole che potrebbero essere sottoscritte dalla gran parte dei vescovi e dei periti teologici che cinquant’anni fa arrivavano a Roma per il Vaticano Il. L’ironia vuole che proprio uno di essi sia oggi il pontefice regnante, tra i principali responsabili di questa cupa situazione
l’inedito [10 febbraio 1986]
Wojtyla: «Abbiamo tanto da imparare dagli indù»
«Possiamo dire che Assisi è già un fatto irreversibile e noi lo portiamo avanti.
Il mondo induista, a suo modo, è molto disponibile al dialogo coi cristiani»
a cura di Angela Ambrogetti (Avvenire, 19.03.2011)
Volo papale Bombay - Roma, 10 febbraio 1986. A Roma nevica. Una cosa straordinaria che stravolge anche il rientro del Papa dal suo viaggio in India. Il volo papale atterra a Napoli all’una di notte, e da lì Giovanni Paolo II arriva a Roma in treno su due V carrozze di prima classe appositamente allestite. Sono le 8 di mattina quando finalmente si arriva a Roma. L’India che ha visto il Papa è quella di Madre Teresa, con la casa per i moribondi dove a seguire il Papa che accarezza quei poveri corpi ci sono i reporter di tutto il mondo. Ma è anche l’India di Gandhi, della Chiesa nata dall’apostolo Tommaso, delle grandi folle che salutano il vescovo di Roma anche se non sono nemmeno cristiani.
Giovanni Paolo II rende omaggio alla tomba del Mahatma a piedi scalzi come tutti. Poi dice che la sua visita in India è un pellegrinaggio di buona volontà e di pace. E prega sulla tomba di san Tommaso, martirizzato secondo la tradizione a Madras. I cattolici qui continuano a chiamarsi «cristiani di San Tommaso».
Un viaggio anche un po’ più faticoso del solito. Il Papa ci scherza su.
Dante Alimenti: «Buona sera! Siamo arrivati alla fine di questa fatica grossa».
Papa : «Non ancora, bisogna arrivare a Roma, dove ci aspetta la neve!».
Alimenti: «Come ha trovato questo mondo induista, disponibile verso i cristiani?».
Papa : «Penso che sia, a suo modo, molto disponibile».
Alimenti: «Verranno ad Assisi anche loro? (si allude all’incontro interreligioso che avrebbe avuto luogo nella città di san Francesco il 26 ottobre di quell’anno, ndr.)
Papa : «Eh, quella è un’altra cosa. Penso che verranno anche ad Assisi, ma soprattutto loro, hanno molte cose da insegnarci».
Alimenti: «Abbiamo potuto apprendere quindi qualcosa?»
Papa : «Eh sì, dovevamo, io ho appreso già da molto tempo».
Alimenti: «Dopo l’islam anche l’induismo?».
Papa : «L’islam è un altro capitolo».
Ugo D’Ascia: «Santità, c’è una vistosa assenza nel suo viaggio, la città santa dell’induismo Benares. Perché, ci sono ragioni di opportunità? Non dico politiche perché poi mi sgrida, ma ragioni di opportunità che hanno vietato questa città santa al Papa di Roma?».
Papa : «Deve domandarlo ai vescovi dell’India».
Giornalista: «Santità, si dice che questo viaggio è un po’ la continuazione dello spirito d’Assisi. Lei troverà pochi cattolici però tanti induisti».
Papa : «Adesso tutti i viaggi sono un po’ la continuazione di Assisi. E Assisi è già un fatto possiamo dire irreversibile. Lo si porta avanti. E si deve dire che Assisi era frutto di tanti viaggi».
Vittorio Citterich: «Il viaggio più lungo, faticoso, andiamo un’altra volta in Asia. Quando in Cina?
Papa : «Ho già detto a uno, deve domandare a quello, a chi lo sa!».
Indica il cielo. Di fatto Mosca e Pechino sono i due sogni mai realizzati di Giovanni Paolo II.
NOTE SUL TEMA:
di Enzo Bianchi (“Jesus”, n.12, dicembre 2011)
Sempre più spesso, in modo quasi martellante, si afferma che «senza Dio tutto è permesso», citando in modo abusivo Fëdor Dostoevskij. Questo per sostenere che «con Dio o senza Dio tutto cambia» oppure che «se Dio non è affermato, allora c’è perdizione per l’uomo». A partire da tali posizioni vorrei dunque riflettere sull’espressione «senza Dio».
Innanzitutto, che cosa può significare questa espressione per i credenti, in particolar modo per i cristiani? Non può certo significare che vi siano uomini e donne che non stanno davanti a Dio, che non sono sue creature e dunque suoi figli in «Adamo, figlio di Dio» (Lc 3,38). Ogni persona è stata voluta da Dio, è venuta al mondo per vocazione di Dio; Dio la accompagna e la sostiene, anzi la benedice in ogni giorno della sua vita; Dio la ama sempre, anche quando questa persona contraddice la sua volontà, persino nel caso che lo bestemmiasse o lo negasse. Come il padre della parabola (cf. Lc 15,11-32), il Dio narrato da Gesù Cristo continua ad amare e ad aspettare chi è lontano da lui, addirittura anche chi desidera la sua morte, la morte del padre. Sì, è scandaloso, ma questa è la verità del Dio cristiano! Nell’ottica dei credenti, dunque, nessuno può essere senza Dio, neanche l’a-teo che si vuole senza Dio, neanche lo stolto che dice: «Dio non c’è» (Sal 14,1; 53,1).
Ma c’è un altro modo di intendere l’espressione «senza Dio». È quello che si trova in una lettera scritta dal carcere dal teologo luterano Dietrich Bonhoeffer, il 16 luglio 1944: «Non possiamo essere onesti senza riconoscere che dobbiamo vivere nel mondo “etsi Deus non daretur”», anche se Dio non ci fosse, dunque senza Dio. Anche questa espressione in realtà è spesso citata a sproposito e tradita da chi vi legge l’annuncio di un cristianesimo secolarizzato, di un umanesimo modellato sull’ateismo. Bonhoeffer non diventa ateo, come dimostra ciò che egli stesso afferma poche righe dopo: «Davanti a Dio e con Dio viviamo senza Dio», cioè senza prendere Dio in ostaggio, senza la necessità mondana di Dio, senza considerare Dio come un’ipotesi di lavoro, senza pensare di avere Dio dalla nostra parte, ma nella gratuità di Dio, la gratuità dell’amore.
Bonhoeffer chiede che l’uomo diventi umano e faccia riferimento, per questo, all’umanità di Gesù Cristo, colui che «ha narrato Dio» (exeghésato: Gv 1,18) anche sulla croce. Occorre pertanto fare grande attenzione a non strumentalizzare queste parole del grande martire cristiano, finendo per negare la sua fede o per condannare le sue espressioni, che costituiscono un’altissima testimonianza di un cristianesimo adulto e pensante, in un mondo diventato capace di vivere senza l’ipotesi Dio, in un’autonomia umana che non nega Dio e il suo amore. «Dio» - ha scritto Eberhard Jüngel - «è più che necessario», sta nello spazio della gratuità, perché il suo amore trascende la legge della necessità.
Quanto a quelli che si dicono atei, senza Dio, noi cristiani dobbiamo rispettare la loro affermazione, chiedendoci però subito: quale Dio negano? Di quale Dio vogliono essere privi? Del Dio che noi cristiani raccontiamo, che tramandiamo culturalmente, oppure del Dio che è vita, amore, misericordia, del Dio vivente?
Qui va detto con chiarezza: noi credenti dobbiamo essere consapevoli che a volte forgiamo immagini perverse di Dio, e quindi rendiamo Dio causa di bestemmia tra le genti (cf. Ez 36,20-22; Rm 2,24). Ecco perché anche di fronte a coloro che si definiscono atei, non credenti in Dio, dobbiamo innanzitutto interrogarci e rispettare il loro mistero.
In ogni uomo c’è l’immagine di Dio (cf. Gen 1,26-27), che secondo i padri della chiesa non può essere cancellata neppure dai crimini peggiori commessi dall’uomo. Questa immagine rende ogni persona capace di compiere il bene, di avere una coscienza, di discernere il bene dal male. E solo Dio vede cosa accade nella coscienza, conosce la ricerca del bene praticata dai cosiddetti atei, la loro ricerca dell’amore. Essi non la chiamano ricerca di Dio ma di fatto, come ha affermato Benedetto XVI il 25 settembre scorso durante il suo viaggio in Germania, «sono più vicini al Regno di Dio di quanto lo siano i credenti “di routine”». Solo Dio conosce la vicinanza o la lontananza dal Regno di chi si dice senza Dio e di chi si dice credente.
Infine, non possiamo dimenticare che i cristiani delle origini erano accusati dai pagani proprio di essere “a-tei”, senza Dio: essi cioè risultano atei per le altre religioni, come afferma l’amico teologo Joseph Moingt. Sì, noi tutti viviamo davanti a Dio, con Dio, senza Dio. E attendiamo di vedere il suo volto di amore, di pace e di vita al di là della morte.
di Enzo Bianchi (Jesus, n° 9, settembre 2010)
Secondo l’apostolo Paolo, «non di tutti è la fede» (2Tess 3,2), cioè non tutti accolgono il dono della fede da parte di Dio perché essa è «virtù teologale», come recitava il catechismo: si può quindi affermare anche che questo dono non è fatto a tutti. La fede, infatti, nasce dall’ascolto (Rm 10,17) e perciò occorre che la parola di Dio giunga al cuore dell’uomo e vi desti la fede. Ma è anche vero che la fede - proprio perché è accolta dall’uomo, proprio perché è l’uomo a credere - è anche un atto umano, di libertà, al quale si può essere educati: la fede, infatti, quale atto umanissimo e vitale significa entrare in relazione, avviare un rapporto vivo con l’altro", è dire "Amen", aderire, fare fiducia, credere.
La fede, il credere sono una necessità umana: potremmo dire che non ci può essere autentica umanizzazione senza la fede. Come sarebbe possibile vivere senza fidarsi di qualcuno? A differenza di molti animali, infatti, noi usciamo incompiuti dal grembo di nostra madre e per "venire al mondo", per crescere come persone in relazione con gli altri dobbiamo mettere fiducia in qualcuno.
Il bambino, appena nato dalla madre, ha subito bisogno di sentire che può mettere fiducia anche in suo padre, nei genitori, in quelli che sono i suoi primi riferimenti. Occorre che gli venga dato il cibo, un riparo dal freddo o dal caldo, la parola... e così viene educato a credere perché, scoprendo gratuità e coerenza, sente di poter crescere e di potersi fidare, avverte che esistere ha un senso. È credendo negli altri che, poco a poco, il bambino crede anche in sé stesso: l’affidabilità è possibile.
Più tardi scoprirà di essere in grado di iniziare una storia d’amore solo se sarà capace di credere nell’altro e di essere a propria volta affidabile per l’altro. Non è significativo che un tempo coloro che iniziavano una storia d’amore con responsabilità e consapevolezza si chiamavano "fidanzati" e al momento delle nozze si scambiavano la "fede"? Durante tutta la nostra esistenza dobbiamo saper credere agli altri: anche nelle relazioni sociali e in quelle economiche dobbiamo fidarci, "fare credito", come dice il linguaggio commerciale, cioè credere a qualcuno.
Sì, c’è un’umanità della fede alla quale noi cristiani, purtroppo, non siamo sufficientemente attenti: rischiamo di essere divorati dall’ansia o dalla passione della fede in Dio e non comprendiamo che senza questa fede umana non è possibile che in una persona si innesti la fede in Dio, se non come dichiarazione teista, come affermazione di appartenenza culturale e identitaria, non certo come confessione cristiana.
Ma proprio questa umanità della fede ci porta a confessare oggi la crisi della fede: crisi dell’atto umano del credere diventato così difficile, raro e sovente, comunque, contraddetto. Siamo poco disposti a mettere fiducia negli altri, siamo incapaci a «credere insieme con gli altri» in un obiettivo, un progetto che pur sentiamo buono.
Lo constatiamo ogni giorno: perché si preferisce la convivenza al matrimonio? Perché è diventata così difficile una storia perseverante e fedele nell’amore? Perché la parola data nel matrimonio o nella vita comunitaria, nelle relazioni amorose è così facilmente smentita? Oggi non riusciamo più a credere e forse, soprattutto, a credere nell’amore?
Eppure l’apostolo Giovanni dà questa definizione lapidaria dei cristiani: «Noi siamo quelli che crediamo all’amore» (1Gv 4,16). Sovente sento lamentele sulla mancanza di fede in Dio, sulla rimozione che la nostra società opera nei confronti di Dio, ma in cuore sono tentato da una reazione di insofferenza: com’è possibile lamentarsi che la gente non crede più in Dio quando non crede più nell’altro, in chi sta accanto, nella compagnia degli uomini e delle donne? Come pensare di poter credere in un Dio che non si vede e non credere negli altri che vediamo e grazie ai quali cresciamo e diventiamo persone adulte?
A leggere con sapienza la Bibbia, vi cogliamo innanzitutto una lunga educazione alla fede, operata da Dio stesso, partendo da Abramo fino a Gesù Cristo. Non a caso il libro della Sapienza ci parla di «Dio educatore dell’uomo», Dio che insegna a essere umani. La Chiesa italiana si è impegnata nei prossimi anni a riflettere sull’educazione alla fede: non dimentichiamoci che la ricerca e l’impegno saranno fecondi se terremo conto che la fede ha anche un’umanità: questo significa non solo credere in Dio, ma anche credere nel prossimo, nella Terra, nel futuro.
Una domanda mi pare sorgere allora da queste considerazioni: chi è credente? Quando uno crede veramente? Sono davvero non credenti tutti quelli che si dicono atei? E sono veramente credenti tutti quelli che dicono di credere in Dio o vantano orgogliosamente la propria appartenenza cristiana?
LA LEGGE DELL’"UNO" E L’UNITA’ E LA SOVRA(-U)NITA’ DI OGNI CITTADINO E DI OGNI CITTADINA: LA LEZIONE (1933) DI SIGMUND FREUD
L’ITALIA, Il "MONOTEISMO" DELLA COSTITUZIONE, E IL "BAAL-LISMO" DEL MENTITORE (1994-2010). IL SONNO DELLA RAGIONE COSTITUZIONALE GENERA MOSTRI, ATEI E DEVOTI ...
(...) l’esperienza insegna che i valori costituzionali possono venire erosi gradualmente, in forme oblique, attraverso una pioggia d’episodi minori che in conclusione ne faccia marcire le radici. E questo pericolo chiama in causa non solo il Capo dello Stato, bensì ciascuno di noi, la vigilanza di ogni cittadino (...)
Federico La Sala
ANNIVERARI. Il grende scrittore russo, morto cent’anni fa, nel 1891 partecipò a un convegno per la riunificazione tra tutte le Chiese
A Firenze un Tolstoj «ecumenico»
Quella pagina poco nota della sua biografia getta nuova luce sulla complessa spiritualità dell’autore, che sosteneva: «Io applaudo alla proposta di fondere le Chiese cristiane in una sola che abbia per capo il Papa di Roma»
DI VINCENZO ARNONE (Avvenire, 06.05.2010)
Alle soglie del centenario della morte di Leone Tolstoj (avvenuta il 7 novembre 1910), ci si trova dinanzi a questo genio della letteratura come impreparati, complessati, quasi vinti dalle sue opere che rimangono nella memoria di ogni lettore. Tolstoj aveva fatto diversi viaggi in Italia e in Europa intorno al 1857.
Nel 1891 vi ritornò e venne a Firenze. Vi rimase alcuni giorni. Motivo del suo viaggio, questa volta, non era la curiosità turistica, o artistica o la brama di conoscere la cultura di nuovi Paesi, bensì la partecipazione a un convegno ecumenico internazionale che ebbe luogo nell’autunno di quell’anno in una sala del palazzo n. 34, viale Principe Amedeo, «per discutere argomenti relativi al miglioramento della società umana sia rispetto allo Stato che alla Chiesa». Motivazione tanto antica quanto nuova, tanto vecchia quanto moderna, tanto elitaria quanto popolare.
Sembra di leggere, in certi passaggi delle relazioni, resoconti e verbali relativi ai nostri tempi. Al convegno, dal titolo ’Conferenze sulla fusione di tutte le Chiese cristiane’, parteciparono intellettuali, politici ed ecclesiastici tra cui Ruggero Bonghi, Cesare Cantù, monsignor Isidoro Casini, il generale Booth dell’Esercito della salvezza, don Pietro Smudowski, della Polonia, altri e il conte Leone Tolstoj, lo scrittore già a quei tempi di fama mondiale.
Il convegno fu di vertice, tra pochi intellettuali, non ebbe quindi quella risonanza popolare e di vasta opinione, però si conservano ancora i testi degli interventi dei vari relatori, che sono ancor oggi molto interessanti, stimolanti, direi attuali per le problematiche che presentano; alcuni sono datati, ma altri sono proiettati nell’orizzonte di tutte le stagioni. Gli ultimi decenni dell’Ottocento costituivano un periodo di grandi trasformazioni politiche, sociali, religiose, industriali; c’era nell’aria il desiderio di nuovi orientamenti, di nuove strategie sociali al fine di prepararsi ai grandi mutamenti sociali che si preannunciavano.
Non parve strano perciò, anzi spontaneo e ovvio, come osserva Giovanni Guidotti nel suo I tre papi, ossia la pace tra le chiese cristiane del 1893, che «uomini volenterosi, noti per fama, per operosità, per ingegno, e amanti della felicità dei popoli si riunissero insieme al fine di discutere sui prossimi avvenimenti e studiare i mezzi adatti ad avviarli alla buona meta e per allontanare dai popoli scosse e catastrofi».
L’intervento di Tolstoj tende ad unire ricordi personali e affermazioni di principio per avvalorare il messaggio di pace e di convivenza tra i popoli e il rigetto della guerra e di ogni violenza e l’unione tra le Chiese cristiane.
Dice tra l’altro:
«Una delle mie massime enunciate è: non opporsi al male. Di questo mio principio mi hanno fatto un titolo di accusa tacciandomi di rivoluzionario, o peggio; ma è questione di rassegnazione, di carità del prossimo, di commiserazione pei poveri di spirito.... Per questo medesimo principio ho dovuto dichiarere un’iniquità la guerra, qualunque essa sia. E qualunque ne sia la causa: i popoli della terra sono fratelli e hanno a vivere in santa pace....
Come vedete, miei illustri colleghi, i miei principi hanno la loro base nell’Evangelo e perciò ho potuto accattare il lusinghiero invito a questa conferenza e ben volentieri sono venuto qui in mezzo a voi per trattare del modo di ricondurre la religione cristiana alle primitive sue fonti, pure e limpide, e di ricostruire una Chiesa unica che la esplichi e la rappresenti, trasformando e fondendo amorevolmente tutte le Chiese cristiane esistenti... Io applaudo dunque alla proposta di fondere le Chiese cristiane in una sola che abbia per capo il Papa di Roma e per base la sua organizzazione esteriore la formula cavouriana e per fondamento del suo pensiero le massime di Cristo e dell’Evangelo».
IL LIBRO
Bruno Milone indaga Leone il nonviolento
Nel suo ’Tolstoj e il rifiuto della violenza’ (Servitium, pagine 176, euro 15,00) Bruno Milone, sulla scorta degli scritti di Isaiah Berlin, Pier Cesare Bori e Walter Bryce Gallie, rivaluta le concezioni filosofiche e religiose di Tolstoj mostrando in particolare come il rifiuto della violenza, in Tolstoj, non sia riconducibile a una semplice ’pretesa’ ricavata dal ’Discorso della montagna’, come se fosse possibile, seguendo l’esempio di Cristo e in virtù della semplice ’mitezza’ e ’non resistenza al male’, costringere i malvagi a deporre la loro cattiveria e a portare la pace sulla terra. Al contrario, la proposta della non violenza nasce da una acuta analisi dei processi di disumanizzazione che operano in tutti i progetti di pacificazione, di risoluzione dei conflitti e di trasformazione del mondo mediante la guerra e le rivoluzioni.
Il libro sarà presentato martedì 11 maggio a Milano, alle 18.30 presso l’auditorium San Carlo (Sala Verde) in corso Matteotti, 14; con l’autore interverrà Fulvio Manara.
Socrate e Ratzinger
di Ferdinando Camon (il Fatto Quotidiano, 13 aprile 2010)
La lettera del cardinale Ratzinger, pubblicata ieri da tutti i giornali, con la quale l’allora responsabile della Congregazione per la Dottrina delle Fede risponde sul problema di dispensare dagli oneri sacerdotali il reverendo Miller Kiesle, colpevole di pedofilia, invitando a prender tempo e a tener presente anche il bene della Chiesa cattolica, è un importantissimo documento storico. Perché dimostra che il cardinale (come il Papa precedente, e quello precedente ancora) avvertiva nell’affrontare i casi di pedofilia tra i preti lo scontro tra due beni: il bene delle vittime e il bene della Chiesa. I due beni non vanno d’accordo, chi ha il potere di decidere deve scegliere: o protegge le vittime danneggiando la Chiesa, o protegge la Chiesa abbandonando le vittime.
Una sconosciuta lettrice ha mandato a un giornale una letterina semplice semplice in cui espone un problema terribile per il cattolico credente. Dice: “Anch’io, se sapessi che un prete commette atti di pedofilia, non lo denuncerei alla giustizia civile ma solo alla chiesa, perché prima di dire o fare qualcosa, mi pongo sempre la domanda: a chi giova, a Dio o a Satana?”. Non denunciando, eviti un oltraggio alla Chiesa, e questo è bene, Dio lo gradisce e lo chiede. Denunciando, fai uno scandalo enorme, la Chiesa resta colpita, e questo è Satana che lo chiede e lo gradisce.
C’è un librino esile che nessuno cita (e questo mi stupisce), centrato in pieno sul problema di fronte al quale si trova Ratzinger, e prima di lui gli altri papi. È un dialogo di Socrate intitolato “Eutifrone”. Eutifrone è un sacerdote, Socrate lo trova per strada (il sacerdote sta andando a testimoniare in non so qual processo), lo ferma e impianta una discussione su questo tema: un’azione è buona perché piace a Dio, o piace a Dio perché è buona? Eutifrone, da buon sacerdote, risponde: un’azione è buona se piace a Dio. Socrate cerca di spostarlo sull’altra risposta, ma non fa in tempo, il dialogo s’interrompe.
C’è un film di qualche anno fa intitolato “Water”, acqua, e ambientato in India, in cui per pochi minuti, trequattro, appare Gandhi. Non c’entra niente con la trama del film, ma passa in treno, la gente accorre per salutarlo, lui scende per compiacerla, fa pochi passi e regala una briciola si saggezza. Dice: “Fino a ieri credevo che Dio fosse la verità, oggi so che la verità è Dio”. È un salto enorme. Il salto che Socrate cerca di far fare ad Eutifrone. Il salto che Paolo VI non ha fatto, né Giovanni Paolo II, né Ratzinger fino alla lettera ai fedeli irlandesi di poche settimane fa. Se una cosa è buona perché piace a Dio, allora non-denunciare non solo non è una colpa, ma è un merito. Se c’è da scegliere tra Dio e la Giustizia, scegliendo il primo scegli anche la seconda.
Solo la lettera ai fedeli irlandesi rovescia questo principio. Perché dice ai preti pedofili: “Dovete rispondere davanti a Dio onnipotente, come pure davanti ai tribunali debitamente costituiti”. Non è più vero che, se c’è da scegliere tra Dio e giustizia, scegliendo il primo scegli anche la seconda. È vero l’inverso: scegliendo la giustizia scegli Dio.
La lettera pubblicata ieri e firmata da Ratzinger è del 1985, allora tutta la cultura cattolica (tranne quella del dissenso) era vincolata a scegliere Dio, con ciò scegliendo il bene. Spostarla a scegliere il bene, nella convinzione che lì sta Dio, è un’operazione titanica, per la quale ci vorrà un lungo tempo. Con la lettera agli irlandesi questo tempo comincia. Incolpare Ratzinger di essersi formato nel tempo precedente non ha senso. È più giusto dargli atto di aver inaugurato il grande transito, cominciando a spingere la Chiesa fuori dall’etica pre-socratica.
(fercamon@alice.it )
MARCIA DEL SALE, CON GANDHI 80 ANNI DOPO
di MARCO RONCALLI (Avvenire, 11.03.2010)
Giornata da non dimenticare, e non solo per la storia dell’India, il 12 marzo di ottant’anni fa. Informato il viceré di quanto voleva fare, Gandhi, che da tempo come leader del Partito del congresso si batteva per la liberazione dal colonialismo britannico e che già nel 1919 e nel 1921 aveva lanciato due grandi campagne «satyagraha» (non violenza), dava inizio alla sua più grande azione resistente non violenta: la Marcia del sale.
Si trattò di uno dei grandi eventi del XX secolo, forse la mobilitazione più unificante del Paese, dopo che Bapu (il Padre) aveva individuato nell’obbligo di pagare alla Corona la tassa sul sale - percepita come ingiusta da tutti e nefasta per le classi più povere - il simbolo della dipendenza coloniale. Una scelta che metteva in scena e sotto i riflettori mediatici la rivendicazione di indipendenza del suo Paese legandosi a un prodotto di prima necessità, per di più locale.
Lasciato il suo «ashram» (eremo) nei pressi di Ahmedabad, insieme ad un’ottantina di amici e alcuni giornalisti, marciò per 24 giorni arrivando la mattina del 6 aprile a Dandi, sull’Oceano Indiano, nello stato del Gujarat. Percorse così 241 chilometri. Proprio come le 241 stilografiche a oltre ventimila euro l’una - serie limitata con l’immagine del Mahatma in cammino - che la Montblanc giorni fa ha ritirato dal commercio, dopo le accuse di distruggere il simbolo della quintessenza della semplicità. Ma torniamo al traguardo della marcia che lungo la strada aveva visto crescere a dismisura gli accompagnatori.
Giunto a destinazione, Gandhi avanzava nell’acqua e raccoglieva nelle sue mani alcuni cristalli di sale con un gesto presto emulato da migliaia e migliaia di persone che, nonostante le percosse a colpi di bambù piombato, non cessavano la loro protesta, ma senza rispondere alla violenza. Un atteggiamento disarmato e disarmante subito ripetuto in tante regioni dove gli indiani facevano evaporare l’acqua marina raccogliendone il sale sotto gli occhi degli inglesi prima esitanti e poi pronti ad arrestare Gandhi e con lui 60 mila pacifici disobbedienti.
Nei fatti però da allora la nonviolenza dei «satyagrahi» divenne un problema non più controllabile dalla Corona. «Sembrava fosse scattata improvvisamente una molla in tutto il Paese», disse Nehru, scusandosi di avere messo in discussione l’efficacia della scelta gandhiana. Invece funzionò. Più del boicottaggio delle merci inglesi, dei digiuni, dell’isolamento dei funzionari britannici. Stringendo quei cristalli di sale sulla spiaggia, Gandhi non diede avvio solo alla successiva abolizione dell’impopolare gabella.
In realtà, con questa marcia - come ha scritto Lanza del Vasto - «il Popolo e il suo Capo ebbero la prova tangibile della loro irresistibile forza allorché un anelito unanime li muoveva, e la prova che, oggi, domani, e sempre non avrebbero avuto bisogno di nessun altra forza e di nessun altra arma, ma solo di quel soffio. Di conseguenza, Gandhi considerò l’indipendenza dell’India come cosa fatta».
E se è vero che questa sarebbe stata definitivamente conquistata anni dopo (anche a prezzo di una guerra religiosa, di una scissione fra India e Pakistan, del sacrificio della Grande anima), la Marcia del sale avrebbe costituito da allora in poi un modello per tante future proteste: dalle marce per i diritti dei neri americani, guidate da Martin Luther King, a quelle che ricominciamo a vedere anche in casa nostra.
DON PRIMO MAZZOLARI,
IL MUCCHIO COME MITO ("Adesso", 17/1953)
a cura di don Aldo Antonelli
"Il mucchio come mito"!
Le adunate in piazza san Pietro? O quelle, sterminate, delle GMG in giro per il mondo? O quelle, affollate ed anche tragiche, che fanno da contorno ai viaggi papali, Africa o non Africa?
Ma anche le ammucchiate dei figuranti alla Fiera di Roma! Siamo ormai alla celebrazione quantitativa delle cose e delle persone. Non è il sapore dei soldi che interessa, ma il loro ammontare. Non è la voce delle persone che si vuole ascoltare, ma il loro peso numerico.
"Il mucchio come mito" è il titolo che riporta un articolo non firmato del numero 17/1953 della rivista "Adesso" di don Primo Mazzolari. Molto probabilmernte (lo si vede anche dallo stile) è di don Mazzolari stesso.
Nel mese di settembre del 1953, nella stessa domenica, un milione di cattolici si erano radunati a Torino per il Congresso Eucaristico, oltre settecentomila a Milano per la festa dell’"Unità" e duecentomila a Spalato per ascoltare Tito...
Don Primo che fa?
Prende la penna e scrive:
IL MUCCHIO COME MITO
Questo il bilancio di una qualunque domenica del settembre 1953.
Non ne siamo stupiti, ma non siamo contenti, anche se il Congresso di Torino batte il record.
Appunto perché noi cattolici siamo ancora davanti in questa gara di mobilitazione delle masse, noi per primi non possiamo essere contenti dell’andazzo.
Le moltitudini non ci fanno paura: ci fa paura la fiducia che esse portano dietro e che ispirano alle loro guide. E’ una fiducia che, secondo me, contrasta con le regole dello spirito e s’avvicina a quelle del materialismo.
Il materialismo, infatti, s’insinua,e fa capolino da ogni dove, e il fasto, il rumore, la quantità ne sono gli araldi. La tecnica poi, che fa muovere genti e suoni, senza fatica ma non senza spesa, e che dispone di ritrovati incantatori, che distraggono invece di raccogliere, eccitano invece di purificare, si è messa volentieri a servizio di questo spirito di massa.
Per rimanere un attimo in casa nostra, penso che molti credenti troveranno un pò arduo portare come motivo di massa certi sublimi Misteri, che un tempo venivano circondati da gelose e arcane iniziazioni.
Non vorrei essere frainteso. Io non contesto il diritto di esprimere la propria fede e di esternare la propria adorazione, e neppure di sottrarre il popolo cristiano al dovere di fare ciò che gli altri fanno, e che potrebbe rappresentare un "aggiornamento d’apostolato". Mi permetto soltanto di chiedere se noi cattolici possiamo metterci in questo piano di gara che ci porta fatalmente all’esaltazione dei valori di massa.
Questo stare insieme a quel modo per un’ora, per una giornata, questo affiancarsi e pigiarsi assomiglia al quam bonum et quam jucundum habitare fratres in unum?
Non tutto quello che gli altri fanno è bene fare: non tutti i diritti sono usabili per chi guarda oltre il diritto.
In certi favolosi ammassamenti di qualsiasi genere, si ha l’impressione che il motivo centrale divenga piuttosto un pretesto per uno spiegamento di forze o per un torneo oratorio, che deve per forza sfociare nella retorica.
Lamentiamo il disamoramento del quotidiano, si chiami esso parrocchia, casa, ecc., e siamo noi che ne deformiamo il gusto con questa incessante mobilitazione verso lo straordinario e lo sbalorditivo.
Ma il fatto di questa strutturazione di massa investe in pieno il problema dell’educazione del popolo e il progressivo svuotamento dell’uomo. La personalità sta diventando una larva, e un pò anche per colpa nostra, nonostante il daffare verbale per difenderla e consolidarla.
Ieri avevano ragione i più grossi portafogli: oggi, hanno ragione le masse più grosse, i mucchi più grossi.
Non abbiamo fatto molta strada e neppur cambiato strada. Prepotenza del danaro o sopraffazione del numero, se non è zuppa è pan bagnato: una strada cioè che ci dispensa dall’essere ragionevoli e dal rispettare tanto coloro che sono senza soldi come coloro che sono in pochi.
Senz’accorgersene, il mucchio diventa il mito: ed esso va accresciuto e difeso ad ogni costo. E chi fa parte del mucchio s’abitua a non esistere, a non parlare, a non agire se non come mucchio.
La democrazia del mucchio non è la democrazia: come non è la religione la religione del mucchio.
Il mucchio è falange, legione, rullo compressore, non comunità; elemento di urto, non comunione.
Le masse, come i blocchi non si cercano se non per sfidarsi, urtarsi, annientarsi. Dietro un ordinamento politico di masse o di blocchi, non c’è che la guerra.
Il pericolo della massa è avvertito purtroppo anche da pochi cristiani, i quali trovano più facile ammucchiare che educare, sbalordire più che elevare.
Cristo è venuto a liberare l’uomo da ogni schiavitù, anche dalla schiavitù della massa.
Don Mazzolari: «Adesso è l’ora dei laici»
di Giorgio Campanini (Avvenire, 11 aprile 2010)
Riflettere sul laicato nella Chiesa di oggi alla luce dell’insegnamento di don Primo Mazzolari può apparire a prima vista il tentativo di operare un confronto inattuale, considerati i profondi mutamenti intervenuti nella storia della Chiesa nella seconda metà del Novecento, a partire da quell’evento conciliare che alla sua morte, nel 1959, cominciava soltanto a profilarsi all’orizzonte.
Come tutta la vita della Chiesa, così l’insieme delle problematiche riguardanti il laicato appare, a partire dal Vaticano II, profondamente mutato. Ma se il Concilio è apparso, sotto molti aspetti, un avvenimento «rivoluzionario», tuttavia si trattava di una «rivoluzione» da lungo tempo preparata dagli spiriti più vigili della Chiesa dell’Ottocento e del Novecento (per l’Italia basti pensare soltanto a Rosmini e a Bonomelli, a Sturzo e allo stesso Mazzolari).
Sotto questo aspetto, riandare alla riflessione mazzolariana sul laicato (e operare una rilettura di essa nei nuovi orizzonti postconciliari) appare tutt’altro che inopportuno, sia per cogliere meglio il senso dell’evento conciliare, sia per affrontare i problemi che, anche dopo di esso, rimangono aperti.
In una lettera del 1933
all’allora presidente della Gioventù femminile di Azione cattolica della diocesi di Cremona (solo di
recente pubblicata), così Mazzolari si esprimeva: «Ella mi scrive: so che non guarda con simpatia al
nostro movimento femminile. Non è la più esatta traduzione del mio animo. Nutro invece una
simpatia profondissima e di vecchia data verso l’Ac come idea. Il far posto ai laici nella Chiesa è
sempre stata una mia missione, non una convinzione soltanto. Non simpatizzo con la maniera oggi
in uso in Italia... Le esperienze e gli avvenimenti cambieranno tante cose.
Quando? Non lo so perché non sono profeta: so però che dovrà essere, poiché un’Azione cattolica
che clericalizza (la parola è brutta ma il significato che le do in questo momento è inoffensivo) i
laici... li sposta dalla loro qualità specifica... per loro imprestare, estraniandoli quasi del tutto dal
mondo in cui vivono, una nostra mentalità. Non è un gran guadagno».
Questo problema - il rischio, cioè, della «clericalizzazione» del laicato cattolico - rappresenta il filo conduttore della prolungata riflessione di Mazzolari sul rapporto gerarchia-clero-fedeli, dagli scritti degli anni ’30 agli ultimi editoriali di Adesso. Emblematico (ma non unico documento di questa attenzione e di questa preoccupazione) un suo importante scritto del 1937, e cioè la Lettera sulla parrocchia. Questo testo rappresenta, a nostro avviso, quello in cui più schiettamente (anche perché in qualche modo coperto dall’anonimato) egli esprime il suo pensiero su questo tema.
Al centro della riflessione mazzolariana sta la ferma convinzione che, in una stagione caratterizzata dalla fine del regime di cristianità, la missione della Chiesa non possa pienamente espletarsi confidando esclusivamente nel trinomio gerarchia-clero-religiosi, ma si imponga «la partecipazione dei laici alla vita attiva dell’apostolato».
Questa attiva presenza laicale nella missione evangelizzatrice della Chiesa è possibile, a giudizio di Mazzolari, a due fondamentali condizioni: in primo luogo la fuoriuscita dai ristretti recinti della vita parrocchiale e l’atteggiamento, da parte del laicato cattolico, di un atteggiamento di lucida e responsabile autonomia.
Proprio aprendosi al mondo il laicato cattolico, abbandonando il sicuro rifugio della comunità cristiana, dovrebbe essere in grado di «fare il raccordo tra la parrocchia, che è lo spirito, e le attività della vita moderna»; né costituirebbe un dramma il fatto che questa «fuoriuscita» possa inizialmente provocare qualche tensione («Non importa se, uscendo» il laico «ha sbatacchiato l’uscio»).
In secondo luogo l’abbandono, da parte della Chiesa, della pretesa di «controllare direttamente opere e istituzioni che sono di diritto nelle mani della comunità civile», garantendo così ai laici un adeguato spazio di libertà: «I figliuoli, divenuti maggiorenni - avverte - possono pretendere a una certa autonomia ed è dovere della religione d’educarveli invece di contrariarne l’aspirazione o impedirne o ritardarne la preparazione».
Perché l’uno e l’altro obiettivo - il superamento della separatezza fra Chiesa e mondo e la promozione di un laicato responsabile - possano essere raggiunti occorre aprire porte e finestre della comunità cristiana: «Non si chiuda né si spranghi il mondo della parrocchia. Le grandi correnti del vivere moderno vi transitino, non dico senza controlli, ma senza pagare pedaggi umilianti e immeritati... L’Azione cattolica ha il compito preciso d’introdurre le voci del tempo nella compagine eterna della Chiesa» e di «gettare il ponte sul mondo, ponendo fine a quell’isolamento che toglie alla Chiesa di agire sugli uomini del nostro tempo».
Proprio in vista di questa apertura al mondo, a giudizio di Mazzolari occorre «salvare la parrocchia» (ma qui, come in altri passi dello scritto, è facile intravedere dietro di essa tutta la Chiesa) «dalla cinta che i piccoli fedeli le alzano allegramente intorno e che molti parroci, scambiandola per un argine, accettano riconoscenti». In sintesi, è necessario andare al di là del ristretto numero dei praticanti abituali, formare cristiani aperti al mondo, evitare la «clericalizzazione del laicato», dare fiducia ai fedeli e nello stesso tempo diffidare di coloro che, «docili e maneggevoli», secondo la caustica denunzia mazzolariana, «dicono sempre di sì» e spesso sono apprezzati e valorizzati assai più di coloro che, dotati di maggiore spirito critico, mettono in discussione la prassi corrente, e dunque «creano problemi».
Al fondamento di questa nuova stagione di irradiazione del messaggio evangelico nella storia sta, a giudizio di Mazzolari, una nuova e più autentica «spiritualità laicale», della quale (come egli stesso confessava in un articolo di Adesso «siamo tuttora sprovvisti». Vi era dunque un vuoto da colmare non solo sul piano della prassi, ma anche sotto il profilo dell’elaborazione di una nuova spiritualità del laico, costruita non soltanto sul suo «essere nella Chiesa» ma anche sul suo «essere nel mondo». È, questo, è un problema che - nonostante il Concilio Vaticano II - rimane ancora sostanzialmente aperto.
Una raccolta di studi sul «Gandhi cattolico», che dall’ateismo della gioventù approdò alla fede
Lanza del Vasto prof di nonviolenza
Calando nell’umano la sua comprensione della Trinità come relazione trasse lo spunto per una dura «battaglia» contro la guerra «abominio del secolo», anticipando molti temi del Concilio
DI LORENZO FAZZINI (Avvenire, 21.03.2009)
Un ponte tra Occidente ed Oriente. Questo è stato Lanza del Vasto, pensatore, mistico, attivista nonviolento in un tempo in cui - il bellicoso primo Novecento - tale posizione sembrava quanto meno fuori luogo. Ma Del Vasto (1901-1981) tale ’ponte’ tra questi due mondi l’ha costruito non su un’improvvisata folgorazione per l’India, quanto in base ad un’argomentazione intellettuale costellata di riflessioni sulla tradizione filosofica d’Occidente.
E in La filosofia di Lanza del Vasto vengono analizzati gli architravi del poliedrico pensiero del pacifista italo-francese (abitò a Parigi dove pubblicò i suoi libri, tra cui il fondamentale La Trinité spirituelle). La giovanile frequentazione di Comte e Darwin lo portò a diventare «un giovane intellettuale ateo e razionalista», come lo tratteggia Frédéric Vermorel nel saggio La Trinità in Lanza del Vasto (il volume raccoglie gli atti di un convegno tenutosi a Pisa). Fu l’incontro intellettuale con il mistico fiammingo Jan Van Ruysbroeck a folgorare il giovane Giuseppe, che nel 1923 ammise: «Mi sono riconciliato con Dio».
Ma episodio determinante per la formazione del neoconvertito fu imbattersi in Tommaso d’Aquino e la sua Summa theologiae, in particolare un passaggio - non dell’Aquinate, ma a lui molto affine: «Dio è relazione, ma relazione non relativa perché è immutabile». Di qui sgorga l’intera struttura del pensiero vastiano: Dio come relazione, non come sostanza immobile, ma rapporto al suo interno e verso il mondo.
Sottolinea Adriano Fabris: «Si tratta dell’assunzione netta, decisa, da parte di Lanza, del rapporto come principio. [...] Il che significa affermare, appunto, per così dire che: ’In principio è il rapporto’». Del Vasto applicò tale pensiero anzitutto nei confronti della Trinità cristiana: «La fede cattolica [...] mostra Dio al di là dell’esteriorità, oltre la materia, nell’essere: il Padre. Mostra Dio in un io più me stesso che io, nel Figlio dell’Uomo, nel Cristo cuore dei cuori. Mostra Dio in un arcobaleno più alto del settimo cielo. Relazione assoluta oltre le relazioni, lo Spirito Santo», scrisse Lanza nel 1964.
Precisa Vermorel: il mistico devoto di Gandhi «si situa nella linea di pensiero che partendo da Dionigi passa da Eckhart per approdare a Nicolò Cusano» in quel «panenteismo, un’affermazione congiunta della radicale trascendenza e della non meno radicale immanenza di Dio rispetto al creato».
Ma parlare di Lanza cattolico non è possibile senza accennare anche al suo impegno ’politico’ in senso ecclesiale, cioè la sua scommessa sulla nonviolenza come valore che, mutuato da Gandhi (lui e l’India, annotava in Viatique, «sono la salvezza del mondo, non c’è altra via di uscita dall’abominio del secolo»), doveva permeare anche la Chiesa cattolica.
Nel saggio dedicato a tale questione da Sergio Tanzarella si racconta la pacifica ’battaglia’ (fatta di digiuno, preghiere, contatti e appelli) di Lanza e dei membri della sua Comunità dell’Arca durante il Concilio Vaticano II perché i padri riconoscessero il valore evangelico della nonviolenza. Un appello cui Giovanni XXIII non restò insensibile: il mercoledì santo del 1963, già malato, Roncalli rispose ad una missiva di Del Vasto inoltrandogli, in anteprima di un giorno, l’enciclica Pacem in terris dove i temi cari al mistico pisano (il disarmo, lo stop alla proliferazione nucleare, la nonviolenza ...) vi erano vieppiù affrontati. E nella Gaudium et spes vi è stato chi - come Anna Carfora - ha rintracciato chiari influssi vastiani, come la lettura della nonviolenza quale ’arma dei deboli’.
Antonino Frago e Paolo Trianni (a cura)
LA FILOSOFIA DI LANZA DEL VASTO
Jaca BooK, Pagine 304, Euro 18.00
La Carità Pelosa
di Aldo Antonelli *
Così si chiamava, dalle nostre parti, l’amore prigioniero del gesto pietoso e cieco della responsabilità adulta: "Carità Pelosa".
L’espressione mi è tornata in mente di fronte all’uscita geniale del Tremonti che reistaura, in chiave moderna, la vecchia "tessera annonaria"...in piena linea con la cultura fascista e con la morale doppiopettista della destra.
Sì: carità pelosa!
Si tratta di un sentimento epidermico di compassione emotiva che però, oltre alle distanze dalla miseria, mantiene anche le cause che la generano. Si tratta dell’ipocrisia propria di chi ti fa dono del superfluo dopo averti rapinato del necessario.
"La Carità, ebbe a scrivere il grande Paul Ricoeur, non è forzatamente là dove la si esibisce...essa è molto spesso il senso nascosto del sociale".
Nel primo dopoguerra, nel febbraio del 1950, ad una "pia donna" scandalizzata per la durezza del suo linguaggio contro le facili e inutili elemosine, don Primo Mazzolari rispondeva lapidariamente:
"Ma cos’è la Carità? La prego a non voler rimpicciolire fino alla pusillanimità più meschina questo termine sacro. La Carità è anche violenza (violenza d’amore), la Carità è anche rampogna. Legga S.Paolo, legga S.Girolamo, legga santa Caterina da Siena o rilegga semplicemente - ma più attentamente - il Vangelo. Quando Cristo dice "guai a voi", "ipocriti", "sepolcri imbiancati" era mosso da carità come quando guariva i lebbrosi o sbendava Lazzaro richiamato dal sepolcro. La carità esige anche le parole dure, quando sono necessarie. Altrimenti, col bruciarci l’incenso l’un l’altro, finiremo con l’accecarci di più. Non si scandalizzi dunque, brava signora, delle parole forti, della carità che grida. Si scandalizzi piuttosto del quieto e sonnolente conformismo che ci sta prendendo...".
Segno di questo "sonnolente e quieto conformismo" è anche il silenzio che ha accompagnato la grande trovata del ministro Tremonti nel voler reintrodurre la "Poverty Card". Non vi pare?
Contro questo imbecille silenzio, ho trovato interessante un articolo di Roberta Carlini sull’ultimo numero di Rocca.
Scrive, tra l’altro:
«C’è molto del ministro Tremonti, in questa "poverty card": un certo clima emergenziale da economia di guerra, un grande fiuto per le politiche di immagine, una forte spregiudicatezza nel vendere la propria merce politica (in fondo, di ben pochi soldi si tratta nel bilancio familiare di un anno, e anche nel bilancio pubblico italiano). E soprattutto, c’è una concezione del welfare che salta a pié pari il Novecento per tornare all’Ottocento: la carità, sentimento privato che si fa politica pubblica e cancella i diritti dei cittadini per riconoscere solo, in modo compassionevole e discrezionale, i bisogni dei poveretti. Le dame di San Vincenzo assunte dallo Stato e infilate in un chip elettronico».
In allegato l’articolo per intero.
Aldo
Dietro la Politica del Consenso Facile
(Roberta Carlini - Rocca 14/2008)
In alcune catene di supermercati in Italia già esiste il giorno del nonno. Un giorno - a volte due - a settimana, durante i quali i pensionati fanno la spesa con lo sconto. Gli strateghi del marketing di quei supermercati non hanno messo tetti di reddito o carte di identificazione: sanno che difficilmente un manager in pensione si metterà in coda per comprare pasta e scatolame col 10% di sconto. E comunque quel che a loro interessa è attrarre il cliente, non è che hanno tra i loro scopi quello di fare giustizia sociale. Forse Giulio Tremonti, ministro dell’Economia, si è ispirato al marketing della grande distribuzione più che ai ricordi delle tessere annonarie del passato, quando ha introdotto nella manovra economica del governo la «card» per la spesa dei pensionati poveri. 400 euro di spesa l’anno, per un milione e duecentomila pensionati. Nessun aumento di pensioni troppo basse, nessun intervento su prezzi impazziti: ma soldi, in contanti o meglio in moneta elettronica, da spendere in beni di prima necessità. Seguiranno accordi con la grande distribuzione per promozioni ulteriori. Ma intanto il marchio commerciale della manovra è impresso: carità per i poveri.
Ritorno all’ 800
«La manovra approvata in soli 9 minuti dal consiglio dei ministri ha lanciato un messaggio eloquente e forte: non esiste più uno stato sociale; d’ora in poi esisteranno solo politiche di soccorso per i bisognosi», ha scritto Nadia Urbinati su La Repubblica all’indomani dell’annuncio della «tessera di povertà». La controprova più evidente è nella rassicurazione, fatta dallo stesso governo, sul fatto che la tessera sarà distribuita dalle Poste con garanzie di riservatezza. Eh già: a nessuno piace esporre l’etichetta di «povero» sul portone della propria dignitosa abitazione o sul bavero della propria vecchia giacca. Soprattutto se a questa condizione di povertà si è giunti dopo una vita di lavoro duro. Ma questo fa la tessera: dà la qualifica burocratica al povero, che, privacy o non privacy, dovrà tirarla fuori al supermercato per pagare il pacco di pasta. E difficilmente la camufferà porgendola alla cassiera con disinvoltura insieme alla carta di credito.
C’è molto del ministro Tremonti, in questa «poverty card»: un certo clima emergenziale da economia di guerra, un grande fiuto per le politiche di immagine, una forte spregiudicatezza nel vendere la propria merce politica (in fondo, di ben pochi soldi si tratta nel bilancio familiare di un anno, e anche nel bilancio pubblico italiano). E soprattutto, c’è una concezione del welfare che salta a pié pari il Novecento per tornare all’Ottocento: la carità, sentimento privato che si fa politica pubblica e cancella i diritti dei cittadini per riconoscere solo, in modo compassionevole e discrezionale, i bisogni dei poveretti. Le dame di San Vincenzo assunte dallo Stato e infilate in un chip elettronico.
Populismo al governo
Però piace, si dice. Quei pensionati che avranno la carta magari cercheranno di andare a fare la spesa in orari non di punta per non farsi vedere, ma saranno contenti di risparmiare qualcosa. Così come piace - si dice - la voce grossa del ministro con petrolieri e banche. E piace, certo che piace, l’eliminazione della tassa sulla prima casa. Tutti pezzi singoli di un quadro più generale di politica del consenso facile, della quale poco si studiano e si sanno gli effetti di medio periodo ma si esaltano quelli di brevissimo periodo: l’indice di popolarità del governo cresce. È il populismo, bellezza. Ma poiché non tutti si accontentano degli annunci, e c’è molta gente desiderosa di andare a guardare dentro i contenuti delle politiche - al di là dell’effetto immediato sui propri portafogli, e al di là dei titoli acritici dei Tg -, sarà meglio cercare di capire, misura per misura, cosa c’è sotto l’abito scin-tillante del populismo al governo.
Una piccola mancia
La Carta per i poveri, per cominciare. Suo scopo è quello di alleviare la situazione economica delle famiglie con anziani, di fronte al crescente carovita. È chiaro che all’origine del problema di quelle famiglie c’è la combinazione di due fattori: pensioni troppo basse, prezzi che crescono troppo. Alle prime non ha posto rimedio nessuna riforma delle pensioni delle tante che si sono succedute negli ultimi decenni, né ovviamente porrà riparo la carta elettronica. Quanto ai prezzi, la ripresa dell’inflazione degli ultimi mesi è dovuta alla combinazione di fattori esterni - lo choc mondiale dovuto all’aumento dei prezzi dell’energia e delle materie prime - e interni. Tra questi ultimi, la catena della produzione e distribuzione in Italia, che ha speculato sulle tensioni internazionali aumentando i prezzi assai prima e assai più di quanto i costi lo giustificassero. Cose complicate, troppo lunghe da spiegare figuriamoci da risolvere. E infatti non ci si prova nemmeno, e in teoria la carta per i poveri - ove funzionasse a pieno, cioè fosse assai più estesa e consistente - potrebbe addirittura alimentare il meccanismo perverso delle speculazioni sui prezzi.
Ma il governo di destra stravittorioso alle elezioni non si limita a «dare» ai poveri una piccola mancia. Fa di più: dice che l’ha presa dai ricchi, dalle categorie più odiate del momento, ossia petrolieri e banchieri. I primi, perché identificati con i beneficiari di tutti i soldi che paghiamo quando facciamo il pieno. I secondi, perché stanno strozzando tante famiglie italiane con mutui a tassi crescenti. Della tassa sul petrolio si aspetta di capire quando e quanto sarà trasferita sui prezzi.
Un grosso regalo
Quanto alla velleità di tagliare le unghie alle banche, più che di un dispetto pare si sia trattato di un manicure. Dopo i primi fumi - che hanno garantito una giornata di grande pubblicità per il governo, che pareva avesse con una bacchetta magica riportato le rate del mutuo ai livelli di due-tre anni fa. In realtà, l’unica novità che le famiglie indebitate si sono trovate davanti - anzi si troveranno, perché ancora l’annuncio si deve tradurre in realtà - è una nuova offerta commerciale da parte della propria banca. Un’offerta standard per rinegoziare il mutuo: abbassando la rata e allungando la durata. Così, la banca mette al sicuro un credito a rischio e il cliente diluisce il problema negli anni. Ma alla fine paga di più. Dal punto di vista individuale, può essere un’offerta di quelle che non si possono rifiutare: chi non ha i soldi per pagare accetta la rinegoziazione non perché la trova conveniente ma per necessità. Ma dal punto di vista collettivo, l’aver inventato una convenzione-standard, una megasoluzione uguale per tutti ha salvato le banche da effetti spiacevoli di quella strana bestia chiamata concorrenza. Quella per cui, magari, può arrivare un’altra banca a sostituirti il vecchio mutuo con un altro a condizioni migliori. Quella che le banche non si sono fatte nel momento delle vacche grasse, e grazie all’accordo col governo non si faranno adesso.
Tutti i giornali, che fossero a favore o contro, e prima ancora di sapere esattamente cosa ci fosse dentro, hanno accettato di battezzare come «Robin tax» la nuova tassa sui profitti dei petrolieri. Altrettanto hanno fatto tg e radio. Certo quella di Robin Hood è un’immagine forte, e simpatica anche. E i tempi cambiano, e anche i comportamenti umani, per cui è perfettamente possibile che il fiscalista dei ricchi diventi il loro rapinatore (fiscale). Però è strana, la fretta e la unanimità con cui si è accettata quest’immagine, invece di andare a indagare sull’esatto contenuto del «furto» di Robin Tremonti ai «ricchi». E invece di chiedersi come mai i «poveri» sono tornati così ufficialmente tra noi, cessando di fare scandalo per diventare poveri di Stato.
Testimoni del nostro tempo
Gandhi in Vaticano
di Giancarlo Zizola, Il Sole 24 Ore, domenica 3 febbraio 2008
(Ringrazio l’Autore, che mi ha fornito il testo originale dell’articolo. Gran parte di queste notizie sono tratte dal libro informatissimo di Gianni Sofri, Gandhi in Italia, Il Mulino 1988, pp. 156. Salvo mio errore, non ricordo di aver letto nel libro di Sofri il richiamo agli articoli della Civiltà Cattolica qui riferiti da Zizola. ). Enrico Peyretti, 4 febbraio 2008
Il 13 dicembre 1931 Gandhi arriva a Roma, reduce dalla II Conferenza della Tavola Rotonda a Londra. La riunione si è risolta in un nuovo fallimento per le divisioni del movimento nazionale indiano, abilmente sfruttate dal governo per rinviare ogni decisione sul programma di partnership tra India e Inghilterra proposto da Gandhi. Winston Churchill si è rifiutato di riceverlo e la stampa britannica lo classifica “il fachiro nudo”. Lui ha preferito cogliere nelle manifestazioni d’onore di cui è circondato in Europa il segno dell’attrazione di un messaggio, come il suo, che fa leva sulla forza intrinseca della verità, sulla soglia dei totalitarismi in Europa.
Le accoglienze popolari, ma anche di scrittori, filosofi, politologi londinesi gli hanno fatto balenare la speranza di un avvicinamento del mondo cristiano a questi ideali. Per questo gli sembra plausibile progettare un incontro con Pio XI. Ha a disposizione solo tre giorni per la tappa romana, dovendo poi imbarcarsi a Brindisi per l’India e rende noto alle autorità vaticane il suo desiderio. Si presenta l’opportunità di un incontro unico fra la Chiesa romana e il movimento della Nonviolenza. Gandhi è incoraggiato dall’articolo pubblicato nella prima pagina dell’ “Osservatore Romano” del 27 novembre, intitolato Come Gandhi parla di Dio. A firma di “X”, il giornale vaticano ha commentato con sorprendente calore la sua conferenza alla Columbia Grammophone Company e ha rintracciato nel suo linguaggio“reminiscenze di Aristotele e di S. Tommaso” augurandosi che “la voce di Cristo riesca a farsi ascoltare anche da quest’uomo eccezionale, che mostra tanto amore per la verità che rende liberi”.
Tuttavia Gandhi aveva incontrato da tempo la figura di Gesù. Sulla parete di fango della sua capanna era appesa una stampa in bianco e nero con la figura del Cristo e la scritta: “Egli è la nostra pace”. Leggendo il Nuovo Testamento egli era stato rapito dal Sermone della Montagna: “E’ il Sermone che mi ha fatto amare Gesù. Leggendo tutta la storia della sua vita in questa luce, mi sembra che il cristianesimo resti ancora da realizzare. Fintanto che non avremo sradicato la violenza dalla nostra civilizzazione, il Cristo non sarà ancora nato. E’ il Sermone della Montagna che mi ha rivelato il valore della resistenza passiva. Io fui colmo di gioia leggendo: ‘Amate i vostri nemici,pregate per coloro che vi perseguitano’ ”.
“Voglio vedere il papa, mi ha mandato un buon messaggio” ha confidato Gandhi a Romain Rolland, patriarca del pacifismo europeo e suo biografo, di cui è stato ospite a Villeneuve, in Svizzera, tornando da Londra.. “Se lo vedo, potrò trattare meglio con gli indiani cattolici romani; e vedrei volentieri il loro capo, come vedo i capi musulmani”. In una riunione a Losanna Gandhi ha affermato che prima pensava che “Dio è verità”, ora invece era convinto che “la verità è Dio”. Egli ha confermato di sentirsi attirato dalla figura di Gesù Cristo, ma di essere frenato dal cristianesimo così come è stato distorto dalla mente greca di Paolo e riciclato dalla cristianità in Occidente. Un giorno ha chiesto: “Come può essere fraterno chi crede di possedere la verità assoluta?”. Aveva esposto questa convinzione in un discorso all’YMCA di Colombo nell’isola di Ceylon nel 1927: “Se dovessi considerare soltanto il Sermone della Montagna e l’interpretazione che io ne do - aveva detto - non esiterei ad affermare che sono cristiano. Ma purtroppo bisogna ammettere che molto di quanto viene spacciato per cristianesimo è una negazione del Sermone della Montagna”.
La richiesta di udienza non viene accolta dal Vaticano, che comunica che Pio XI è oberato di impegni in quei giorni e che potrebbe ricevere il Mahatma solo dopo qualche tempo. Secondo i rapporti della polizia fascista il rifiuto vaticano potrebbe esser dipeso da banali questioni di abbigliamento, perché Gandhi “non voleva assoggettarsi ad un vestimento più decente”. Mussolini, lui, ha trovato bene il tempo per riceverlo a Palazzo Venezia. Altra spiegazione è che il papa temesse, ricevendo il “ribelle”, di fare uno sgarbo all’Inghilterra, dove conserva amici nella Chiesa anglicana, teologi e intellettuali fin dai tempi del suo lavoro alla Bodleian Library. Una terza ipotesi sarà formulata alcuni anni dopo da Jawaharial Nehru: il rifiuto sarebbe stato motivato dal fatto che “la Chiesa cattolica non approva i santi o i mahatma al di fuori della propria circoscrizione” e poiché alcuni ecclesiastici protestanti avevano definito Gandhi un grande religioso e un vero cristiano, “per Roma era diventato assolutamente necessario distinguersi da questa eresia”.
Se non può vedere il papa, almeno riesce a visitare coi segretari i Musei Vaticani, fuori orario, per uno strappo concessogli in segno di cortesia. Mahadev Desai, uno del seguito, riferirà che ad attirare specialmente Gandhi non sono i tesori d’arte, ma il grande Crocifisso del XV secolo che sovrasta l’altare della Cappella Sistina. Così avviene che la porta chiusa dalla realpolitik vaticana apra al profeta della nonviolenza l’incontro con la figura del Cristo in croce, nel cuore del Vaticano ed è questo Cristo che lo emoziona nel profondo. Per molti minuti Gandhi rimane a contemplare il grande Crocifisso,gli si avvicina, lo osserva da sinistra, poi da destra, quindi da dietro, sempre più rapito e commosso; torna sui propri passi, gli gira intorno più volte, come per eseguire il rito indiano della circumambulazione di un oggetto di culto: “Non si può fare a meno di commuoversi fino alle lacrime” è il suo commento immediato. Tornerà più volte a ricordare la commozione provata allora, fino al pianto, di fronte alla rappresentazione di un Uomo che aveva saputo morire sulla croce per la salvezza dell’umanità.
I biografi di Gandhi, sia in Europa che in Asia, concordano nell’affermare che il soggiorno a Roma lo fece diventare ancora più critico verso l’Occidente e ancora più convinto che non v’era altra soluzione per combattere i regimi totalitari al di fuori della nonviolenza. Egli considerava il fascismo, la guerra, i delitti e la corruzione come altrettante dimostrazioni del trionfo della violenza occidentale sulla morale cristiana e sentiva pertanto che la violenza non poteva curare i mali che essa stessa aveva procurato.
Meno di due mesi dopo la mancata udienza, “La Civiltà Cattolica” dedica al leader pacifista due ampi articoli nei quaderni del 6 e 20 febbraio 1932, senza firma, sigillo di autorevolezza istituzionale. Si possono cogliere qui i motivi per i quali non si era considerata matura né opportuna l’udienza papale. Nel primo, si raccolgono i principali elementi della biografia e della teoria denominata Satyagraha (cioè fermezza della verità) dell’“agitatore nazionalista indiano”, la cui assimilazione a San Francesco anche da parte di cattolici è vista come una “deplorabile profanazione”, mentre si critica come nefasto il suo programma di por fine al dominio britannico.
Il secondo articolo critica l’universalismo religioso gandhiano, attribuendogli la mira di induizzare il cristianesimo per renderlo subalterno al suo programma nazionalista, o al meglio per diluire il senso cristiano nel mare dell’indifferentismo sincretista. Gli si addebita di essere “infatuato dell’umanitarismo pseudocristiano di Tolstoi”. Lo si paragona a Machiavelli, benché gli si conceda la buona fede di lottare per un ideale di giustizia per il suo popolo.
Dovranno passare trentasette anni per poter leggere,nella stessa “Civiltà Cattolica” (I,1969), un saggio, Gandhi e la nonviolenza, in cui si riconosce che “molte sue concezioni e metodi sono diffusi in tutto il mondo, entrando a far parte del retaggio dell’uomo moderno, del quale ispirano la lotta per la liberazione umana”, e hanno consentito di “conquistare per il popolo dell’India l’indipendenza da una delle più potenti nazioni imperialiste della storia”. Ad essere apprezzato è il fatto che “per tutta la vita il Mahatma restò un grande ricercatore della verità, perché credeva fermamente che la verità è inattaccabile ed inespugnabile”: “E’ strano - è la conclusione - che, mentre nazioni cristiane ricorrono alla violenza per conseguire i loro scopi, e cercano di giustificare la violenza, abbia dovuto essere un indù, fedele e convinto, a scoprire il legame tra verità e nonviolenza per realizzare il cambiamento sociale”.
Sessantesimo morte Ghandhi
La straordinaria attualità di Gandhi
Religione e laicita’, contro ogni guerra
di Mao Valpiana
[Ringraziamo Mao Valpiana (per contatti:
mao@sis.it) per questo intervento....] *
Non ha partecipato ai festeggiamenti per l’indipendenza indiana, dopo averla conquistata con il satyagraha (la forza della verita’ o nonviolenza), perche’ la separazione tra India e Pakistan e’ stata per lui una grande sconfitta. E’ morto assassinato da un giornalista indu’, alla testa di un complotto, che non gli aveva perdonato la sua azione per la riconciliazione religiosa e la sua apertura ai musulmani. Gandhi, che era di religione indu’, fu considerato dai fondamentalisti di entrambe le parti come un traditore. Sono passati 60 anni, da quel 30 gennaio del 1948, e il fondamentalismo religioso e’ ancora un pesante ostacolo per tanti processi di pacifica convivenza.
Dunque, non si puo’ parlare di Gandhi senza riferirsi alla sua esperienza e alla sua definizione di religione: "E’ l’elemento permanente della natura umana; non ritiene nessun sacrificio troppo grave per trovare piene espressione e lascia l’anima totalmente inquieta fino a che non ha trovato se stessa, conosciuto il suo Creatore e sperimentato la vera corrispondenza fra il creatore e se stessa". E poi prosegue: "Per me Dio e’ verita’ e amore; Dio e’ etica e morale; Dio e’ coraggio. Dio e’ la fonte della luce e della vita e tuttavia e’ di sopra e di la’ di tutto questo. Dio e’ coscienza. E’ perfino l’ateismo dell’ateo. Trascende la parola e la ragione. E’ un Dio personale per coloro che hanno bisogno della sua presenza personale. E’ incarnato per coloro che hanno bisogno del suo contatto. E’ la piu’ pura essenza. E’, semplicemente, per coloro che hanno fede. E’ tutte le cose per tutti gli uomini. E’ in noi e tuttavia al di sopra e al di la’ di noi...".
Siamo in presenza di una religione aperta, libera, accogliente, amorevole, umana. La religione di Gandhi coincide con la ricerca della Verita’, perche’ Dio stesso e’ Verita’, e la Verita’ e’ Dio. In questo senso per Gandhi ogni problema che si pone, ogni questione che si deve affrontare, politica, sociale, economica, etica, collettiva o personale, e’ una sfida religiosa: "per me ciascuna attivita’, anche la piu’ modesta, e’ guidata da quella che io considero la mia religione... la mia attivita’ politica, come tutte le altre mie attivita’, procede dalla religione... percio’ anche nella politica dobbiamo stabilire il regno dei cieli". Tuttavia in Gandhi c’e’ posto anche per una piena laicita’. Ha saputo essere, insieme, un grande religioso e una grande statista: "se fossi un dittatore, religione e Stato sarebbero separati. Credo ciecamente nella mia religione. Voglio morire per essa. Ma e’ una mia faccenda personale. Lo Stato non c’entra. Lo Stato dovrebbe preoccuparsi del benessere temporale, dell’igiene, delle comunicazioni, delle relazioni con l’estero, della circolazione monetaria e cosi’ via, ma non della vostra o mia religione. Questa e’ affare personale di ciascuno". Forse non e’ un caso che Gandhi avesse una grande ammirazione proprio per due italiani, San Francesco d’Assisi e Giuseppe Mazzini, un grande riformatore religioso e un grande riformatore laico; fede e patriottismo. Oggi nel mondo intero Gandhi e’ considerato il profeta della nonviolenza, ma il rischio e’ quello di farne un santo, un eroe, un simbolo, un mito. Gandhi, invece, nel corso di tutta la sua azione sociale e politica si e’ sempre sforzato di far capire che cio’ che lui ha fatto poteva farlo chiunque altro, che "la verita’ e la nonviolenza sono antiche come le montagne". La novita’ emersa con Gandhi consiste nell’aver saputo trasformare le nonviolenza da fatto personale a fatto collettivo, da scelta di coscienza a strumento politico: con Gandhi la nonviolenza non e’ piu’ solo un mezzo per salvarsi l’anima, ma diventa un modo per salvare la societa’. La nonviolenza e’ sempre esistita, presente in tutte le culture e in tutte le religioni, in oriente e in occidente, nei sacri testi della Bibbia e del Corano, della Bhagavad Gita e del Buddhismo. Ma e’ con Gandhi che la nonviolenza diventa un’arma di straordinaria potenza per liberare le masse oppresse. Il Mahatma ci ha fatto scoprire che la nonviolenza e’ insieme un fine ed un mezzo, che per abbracciare e farsi abbracciare dal satyagraha ci vuole fede, pazienza, sacrificio, dedizione, addestramento: "Il satyagrahi si allena giorno per giorno, in ogni istante della propria vita, per diventare capace di soffrire con gioia e apprendere la difficile arte del dono della vita. Egli agisce senza recriminazioni, con distacco, senza aspettarsi il risultato immediato delle proprie azioni e senza rivendicarne il merito. Non si stupisce della violenza che puo’ essergli inflitta, non agisce con rabbia e utilizza ogni occasione che gli si presenta per trasformare il male con il bene".
Gandhi e’ stato un grande innovatore, e’ stato l’uomo che ha riscattato il XX secolo che altrimenti sarebbe stato consegnato alla storia come un secolo buio, per gli orrori delle guerre mondiali e per l’Olocausto nei campi di sterminio. Gandhi e’ la preziosa eredita’ per il nuovo secolo.
La lezione di Gandhi ha suscitato molti proselitismi, in ogni parte del mondo. Dal Sudafrica al Chiapas, dalla Birmania al Tibet, cosi’ come in Europa e in America Latina, ovunque vi sono gruppi o popoli che lottano per i loro diritti ispirandosi alla forza attiva del satyagraha.
"Se posso dirlo senza arroganza e con la dovuta umilta’, il mio messaggio e i miei metodi sono validi, nella loro essenza, per il mondo intero; ed e’ motivo di viva soddisfazione per me sapere che hanno gia’ suscitato mirabile rispondenza nel cuore di un grande e sempre crescente numero di uomini e donne dellíOccidente".
Oggi infatti, in Europa e negli Stati Uniti, non si puo’ parlare di pacifismo senza fare i conti con la nonviolenza gandhiana. La mobilitazione contro la guerra (intendo contro tutte le guerre, fatte da chiunque per qualsiasi motivo e con qualunque arma) e’ coerente e vincente solo se fatta con i mezzi della nonviolenza. "La guerra e’ il pi? grande crimine contro l’umanita’". Gandhi condanna il ricorso alla guerra, senza appello, e ci indica anche il metodo giusto alternativo: "Si dice: i mezzi in fin dei conti sono mezzi. Io dico: i mezzi in fin dei conti sono tutto". Dunque la nonviolenza di Gandhi e’ soprattutto prassi, azione, sperimentazione. Tutta la sua vita e’ spesa in questa ricerca, tanto da intitolare la sua autobiografia Storia dei miei esperimenti con la verita’.
Il mondo e’ solo all’inizio dell’esplorazione delle potenzialita’ della nonviolenza, la sola via che puo’ salvare l’umanita’ dal vicolo cieco suicida che ha intrapreso.
Tratto da
Notizie minime de
La nonviolenza è in cammino
proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini.
Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it
Arretrati in:
http://lists.peacelink.it/
Numero 349 del 29 gennaio 2008
Firmata al termine dell’incontro
La dichiarazione conclusiva del primo seminario del forum cattolico-musulmano
Pubblichiamo in una nostra traduzione italiana il testo della dichiarazione comune firmata a conclusione dell’incontro del forum cattolico-musulmano. *
Il forum cattolico-musulmano è stato creato dal Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso e da una Delegazione dei 138 firmatari musulmani della Lettera aperta intitolata Una Parola Comune, alla luce di tale documento e della risposta di Sua Santità Benedetto XVI tramite il suo segretario di Stato, cardinale Tarcisio Bertone.
Il suo primo seminario si è svolto a Roma dal 4 al 6 novembre 2008. Sono intervenuti 24 partecipanti e cinque consiglieri di ciascuna delle due religioni. Il tema del seminario è stato "Amore di Dio, amore del prossimo". Il dibattito, condotto in un caldo spirito conviviale, si è concentrato su due grandi temi: "fondamenti teologici e spirituali", "dignità umana e rispetto reciproco".
Sono emersi punti di similitudine e di diversità che riflettono lo specifico genio distintivo delle due religioni.
1. Per i cristiani la fonte e l’esempio dell’amore di Dio e del prossimo è l’amore di Dio per suo Padre, per l’umanità e per ogni persona. "Dio è amore" (1 Giovanni, 4, 16) e "Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna" (Giovanni, 3, 16). L’amore di Dio è posto nel cuore dell’uomo per mezzo dello Spirito Santo. È Dio che per primo ci ama permettendoci in tal modo di amarlo a nostra volta. L’amore non danneggia il prossimo nostro, piuttosto cerca di fare all’altro ciò che vorremmo fosse fatto a noi (cfr. 1 Corinzi, 13, 4-17). L’amore è il fondamento e la somma di tutti i comandamenti (cfr. Galati, 5, 14). L’amore del prossimo non si può separare dall’amore di Dio, perché è un’espressione del nostro amore verso Dio. Questo è il nuovo comandamento "che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati" (Giovanni, 15, 12). Radicato nell’amore sacrificale di Cristo, l’amore cristiano perdona e non esclude alcuno. Quindi include anche i propri nemici. Non dovrebbero essere solo parole, ma fatti (cfr. 1 Giovanni, 4, 18). Questo è il segno della sua autenticità.
Per i musulmani, come esposto nella lettera Una Parola Comune, l’amore è una forza trascendente e imperitura, che guida e trasforma il rispetto umano reciproco. Questo amore, come indicato dal Santo e amato profeta Maometto, precede l’amore umano per il Dio uno e trino. Un hadit mostra che la compassione amorevole di Dio per l’umanità è persino più grande di quella di una madre per il proprio figlio (Muslim, Bab al-Tawba: 21). Quindi esiste prima e indipendentemente dalla risposta umana dell’unico che è "amorevole". Questo amore e questa compassione sono così immensi che Dio è intervenuto per guidare e salvare l’umanità in modo perfetto, molte volte e in molti luoghi, inviando profeti e scritture. L’ultimo di questi libri, il Corano, ritrae un mondo di segni, un cosmo meraviglioso di maestria divina, che suscita il nostro amore e la nostra devozione assoluti affinché "coloro che credono hanno per Allah un amore ben più grande" (2: 165) e "in verità il Compassionevole concederà il suo amore a coloro che credono e compiono il bene" (19: 96). In un hadit leggiamo che "Nessuno di voi ha fede finquando non ama il suo prossimo come ama se stesso" (Bukhari, Bab al-Iman: 13).
2. La vita umana è un dono preziosissimo di Dio a ogni persona, dovrebbe essere quindi preservata e onorata in tutte le sue fasi.
3. La dignità umana deriva dal fatto che ogni persona è creata da un Dio amorevole per amore, le sono stati offerti i doni della ragione e del libero arbitrio e, quindi, le è stato permesso di amare Dio e gli altri. Sulla solida base di questi principi la persona esige il rispetto della sua dignità originaria e della sua vocazione umana. Quindi ha diritto al pieno riconoscimento della propria identità e della propria libertà di individuo, comunità e governo, con il sostegno della legislazione civile che garantisce pari diritti e piena cittadinanza.
4. Affermiamo che la creazione dell’umanità da parte di Dio presenta due grandi aspetti: la persona umana maschio e femmina e ci impegniamo insieme a garantire che la dignità e il rispetto umani vengano estesi sia agli uomini sia alle donne su una base paritaria.
5. L’amore autentico del prossimo implica il rispetto della persona e delle sue scelte in questioni di coscienza e di religione. Esso include il diritto di individui e comunità a praticare la propria religione in privato e in pubblico.
6. Le minoranze religiose hanno il diritto di essere rispettate nelle proprie convinzioni e pratiche religiose. Hanno anche diritto ai propri luoghi di culto e le loro figure e i loro simboli fondanti che considerano sacri non dovrebbero subire alcuna forma di scherno o di irrisione.
7. In quanto credenti cattolici e musulmani siamo consapevoli degli inviti e dell’imperativo a testimoniare la dimensione trascendente della vita attraverso una spiritualità alimentata dalla preghiera, in un mondo che sta diventando sempre più secolarizzato e materialistico.
8. Affermiamo che nessuna religione né i suoi seguaci dovrebbero essere esclusi dalla società. Ognuno dovrebbe poter rendere il suo contributo indispensabile al bene della società, in particolare nel servizio ai più bisognosi.
9. Riconosciamo che la creazione di Dio nella sua pluralità di culture, civiltà, lingue e popoli è una fonte di ricchezza e quindi non dovrebbe mai divenire causa di tensione e di conflitto.
10. Siamo convinti del fatto che cattolici e musulmani hanno il dovere di offrire ai propri fedeli una sana educazione nei valori morali, religiosi, civili e umani e di promuovere una attenta informazione sulla religione dell’altro.
11. Professiamo che cattolici e musulmani sono chiamati a essere strumenti di amore e di armonia tra i credenti e per tutta l’umanità, rinunciando a qualsiasi oppressione, violenza aggressiva e atti terroristici, in particolare quelli perpetrati in nome della religione, e a sostenere il principio di giustizia per tutti.
12. Esortiamo i credenti a operare per un sistema finanziario etico in cui i meccanismi normativi prendano in considerazione la situazione dei poveri e degli svantaggiati, siano essi individui o nazioni indebitate. Esortiamo i privilegiati del mondo a considerare la piaga di quanti sono colpiti più gravemente dall’attuale crisi nella produzione e nella distribuzione alimentare, e chiediamo ai credenti di tutte le denominazioni e a tutte le persone di buona volontà di cooperare per alleviare la sofferenza di chi ha fame e di eliminare le cause di quest’ultima.
13. I giovani sono il futuro delle comunità religiose e delle società in generale. Vivranno sempre di più in società multiculturali e multireligiose. È essenziale che siano ben formati nelle proprie tradizioni religiose e ben informati sulle altre culture e religioni.
14. Abbiamo concordato di prendere in considerazione la possibilità di creare un Comitato cattolico-musulmano permanente, che coordini le risposte ai conflitti e ad altre situazioni di emergenza, e di organizzare un secondo seminario in un Paese a maggioranza musulmana ancora da definire.
15. Attendiamo dunque il secondo seminario del Forum cattolico-musulmano che si svolgerà entro due anni, in un Paese a maggioranza musulmana ancora da definire.
Tutti i partecipanti sono stati grati a Dio per il dono di questo tempo trascorso insieme e per questo scambio proficuo. Alla fine del seminario, Sua Santità Papa Benedetto XVI e, dopo gli interventi del professor Seyyed Hossein Nasr e del Grand Mufti Mustafa Ceric, ha parlato al gruppo. Tutti i presenti hanno espresso soddisfazione per i risultati del seminario e la loro aspettativa di un dialogo più proficuo.
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