[...] Le letture possono essere molteplici ... ma io la trovo molto sofferta e sincera, ed anche molto premonitrice. Chissà cosa scriverebbe, oggi, questo signore quando ormai la produzione si coniuga indissolubilmente con lo sfruttamento e l’inquinamento, con il falso e l’ingiustizia, creando dei vuoti di povertà abissali da una parte e accumulando inique ricchezze dall’altra. Non dico per "progredire", ma anche solo per restare a galla, questi signori sono costretti, nolenti e/o incoscienti che vogliano essere, a un tour de force che li rende schiavi del meccanismo: la macchina non si può fermare! [...]
Le confessioni di un industriale milanese
a cura di don Aldo Antonelli
Tempo fa ho avuto la grande gioia di ricevere una bellissima lettera da una signora di Bozzolo (vi dice niente questo nome? ....è il paese dove ha fatto il parroco don Mazzolari!)
Bianca, questo il nome della signora, si complimentava con me per quello che avevo scritto non so su quale giornale, e mi invitava a visitare Bozzolo: "Devi venire, perché leggendo quello che tu scrivi mi ricorda il grandissimo mio parroco don Mazzolari!". Nello scambio di corrispondenza (tramite le classiche lettere, non avendo lei un indirizzo di posta elettronica) abbiamo preso confidenza al punto di ricevere da lei tutta la raccolta di "Adesso", la rivista di don Primo: quattro grossi volumi che, come leggiamo nell’Apocalisse, sono tentato di mangiare e divorare più che leggere.
Ebbene, sul numero di Adesso del 15 gennaio 1950 leggo una bellissima lettera che un industriale milanese ha scritto a don Mazzolari e che vi incollo qui sotto.
Le letture possono essere molteplici ... ma io la trovo molto sofferta e sincera, ed anche molto premonitrice. Chissà cosa scriverebbe, oggi, questo signore quando ormai la produzione si coniuga indissolubilmente con lo sfruttamento e l’inquinamento, con il falso e l’ingiustizia, creando dei vuoti di povertà abissali da una parte e accumulando inique ricchezze dall’altra. Non dico per "progredire", ma anche solo per restare a galla, questi signori sono costretti, nolenti e/o incoscienti che vogliano essere, a un tour de force che li rende schiavi del meccanismo: la macchina non si può fermare!
Economia drogata, contro la quale solo un severo percorso di disintossicazione può restituire la libertà. Una decisa inversione di tendenza; l’inizio di una "decrescita" direbbe Serge Latouche.
Aldo [don Antonelli]
Milano 1 gennaio 1950
Lasciate la parola anche ai ricchi, non per accusare o difendersi, ma per sfogarsi.
Sono un uomo che chiamano fortunato. Ho un’impresa che, riassestatasi dai colpi della guerra, cammina e mi fa guadagnare bene.
Il lavoro ogni giorno si allarga e sono preso nella morsa degli affari. Gli altri non vedono che la mia falsa prosperità; dico falsa non perché manchi a me e alla mia famiglia il necessario, anzi, lo confesso, c’è anche il superfluo, ma ogni giorno, tanto più essa prospera, tanto più la sento falsa. Sto diventando sempre più schiavo del denaro e degli affari.
Il mio mondo è un mondo di ossessionati dalla paura del domani. Oggi gli affari vanno bene, ma domani riuscirò a garantire l’impegno?
Sono come un cane da caccia: mai un respiro, mai una distensione: sono un condannato.
La vita economica moderna è un ingranaggio spietato. Non so se qualcuno dei pesci più grossi di me abbia ormai fatto il callo al mestiere; ma io mi sento in balia di una lotta sorda e disumana.
Fuori, la concorrenza onesta e disonesta, sempre assillante. I miei operai non mi vogliono male, ma neppure bene: mi sopportano. Per loro rappresento la paga della fine mese; per il resto, un estraneo e un intruso.
In casa ci vogliamo bene; ma il denaro ci impedisce di volerci ancora più bene, di avere una casa magari meno splendente, senza tappeti e lampadari, senza comodità ricercate; ma più intimità, più armonia. Tra noi c’è un equivoco continuo: mi compassionano perché dicono che lavoro troppo, ma i denari non sono mai abbastanza quando entrano in casa, perché le esigenze crescono sempre.
Continuo a lasciarmi invischiare, perché non capisco più dove arriva l’affetto e la previdenza e dove arriva il mercato.
Sono stanco di dovermi comperare una vita che pare così facile ed è così nauseante e stupida. Sì, perchè siamo condannati a star bene, a sembrar felici; siamo condannati a vestire bene e ogni tanto a fare le marionette di lusso alla Scala. Bisogna tenersi su per ingannare e ingannarci, vittime stupide dalla coalizione, della ipocrisia dei vicini e dei lontani.
Sono arrivato sino ad odiare, odiare rabbiosamente la mia automobile, le mie cristallerie, le mie poltrone, i miei lucidi e ingombranti appartamenti: odiare quello che troppi invidiano!
Caro Don Mazzolari, le dica queste cose ai suoi poveri: dica loro che ci perdonino, ma anche che ci compatiscano perché siamo degli infelici più di loro.
Forse essi non ci capiranno; e questo ci fa stare ancora peggio, perché, oltre che condannati, ci sentiamo perfino maledetti.
Venga presto la rivoluzione cristiana, prima per noi che per gli altri, a restituirci la nostra umanità, la nostra famiglia, la pace, la gioia vera.
Scusi lo sfogo. Con stima.
Un industriale milanese.
iN RETE E NEL SITO, SI CFR.:
Sulla vita e sulle opere di don Primo Mazzolari, in rete, si cfr.: http://www.fondazionemazzolari.it/
Francesco sulle tombe di don Mazzolari e don Milani
Nello stesso giorno, il 20 giugno, il Papa si recherà in forma privata sulla tomba del priore di Barbiana e del prete cremonese guardato con sospetto dalle gerarchie nel dopoguerra ma che fu riabilitato dall’arcivescovo Montini e da Giovanni XXIII
di Andrea Tornielli (La Stampa, 24/04/2017)
Città del Vaticano. Martedì 20 giugno, nello stessa mattinata, spostandosi in elicottero, Francesco si recherà a pregare in forma riservata e non ufficiale sulle tombe di don Lorenzo Milani a Barbiana e di don Primo Mazzolari a Bozzolo. Ieri, domenica 23 aprile, il Papa ha partecipato con un un videomessaggio alla presentazione del volume dei Meridiani contenente l’opera omnia di don Milani, definendolo un «grande educatore innamorato della Chiesa».
E sempre ieri la diocesi di Cremona ha reso noto che il Pontefice si recherà sulla tomba di don Primo Mazzolari, in forma riservata e non ufficiale a pregare sulla tomba di don Primo nella chiesa parrocchiale di Bozzolo. Oggi, con il bollettino vaticano, è stata confermata anche la visita a Barbiana. In poche ore, due significativi segnali verso altrettante importanti figure profetiche e incomprese della Chiesa italiana del Dopoguerra
Don Primo Mazzolari, prete che si diede alla clandestinità collaborando con la Resistenza, nel Dopoguerra aveva sviluppato un originale pensiero sociale: «Nessuno è fuori della carità», affermava. Venne criticato e sanzionato dall’autorità ecclesiastica. Amico di Ernesto Balducci, Giorgio La Pira, Nicola Pistelli, e dello stesso don Lorenzo Milani, aveva fondato la rivista “Adesso!”.
Nel 1955 aveva pubblicato anonimamente un saggio intitolato “Tu non uccidere” con il quale attaccava a fondo la dottrina della guerra giusta e l’ideologia della vittoria, optando per la non violenza e auspicando un forte «movimento di resistenza cristiana contro la guerra» che si impegnasse per la giustizia, considerata l’altra faccia della pace. Nel 1957 l’arcivescovo di Milano Giovanni Battista Montini lo aveva chiamato a predicare in diocesi, e negli ultimi mesi di vita, nel febbraio 1959, Giovanni XXIII lo aveva ricevuto in udienza salutandolo pubblicamente come «Tromba dello Spirito Santo in terra mantovana» (Bozzolo, dove il sacerdote era stato confinato è in provincia di Mantova ma in diocesi di Cremona).
Papa Francesco, aprendo la sera del 16 giugno 2016 il convegno della diocesi di Roma, parlando di Giuda e della necessità di andare incontro alle persone qualunque sia la loro condizione, aveva detto: «Don Primo Mazzolari fece un bel discorso su questo, era un prete che aveva capito bene questa complessità della logica del Vangelo: sporcarsi le mani come Gesù, che non era pulito andava dalla gente e prendeva la gente come era, non come doveva essere».
Francesco, a commento dell’immagine di un capitello della basilica di Vèzelay, in Borgogna, nel quale secondo alcune interpretazioni si vede raffigurato il Buon Pastore che porta sulle spalle il corpo di Giuda, aveva citato una famosa omelia di Mazzolari dedicata all’apostolo traditore. Il parroco di Bozzolo, precursore del Concilio Vaticano II, il Giovedì Santo del 1958, aveva detto: «Povero Giuda. Che cosa gli sia passato nell’anima io non lo so. È uno dei personaggi più misteriosi che noi troviamo nella Passione del Signore. Non cercherò neanche di spiegarvelo, mi accontento di domandarvi un po’ di pietà per il nostro povero fratello Giuda. Non vergognatevi di assumere questa fratellanza. Io non me ne vergogno, perché so quante volte ho tradito il Signore; e credo che nessuno di voi debba vergognarsi di lui. E chiamandolo fratello, noi siamo nel linguaggio del Signore. Quando ha ricevuto il bacio del tradimento, nel Getsemani, il Signore gli ha risposto con quelle parole che non dobbiamo dimenticare: “Amico, con un bacio tradisci il Figlio dell’uomo!”».
«Amico! Questa parola - continua Mazzolari - che vi dice l’infinita tenerezza della carità del Signore, vi fa’ anche capire perché io l’ho chiamato in questo momento fratello. Aveva detto nel Cenacolo non vi chiamerò servi ma amici. Gli Apostoli sono diventati gli amici del Signore: buoni o no, generosi o no, fedeli o no, rimangono sempre gli amici. Noi possiamo tradire l’amicizia del Cristo, Cristo non tradisce mai noi, i suoi amici; anche quando non lo meritiamo, anche quando ci rivoltiamo contro di Lui, anche quando lo neghiamo, davanti ai suoi occhi e al suo cuore, noi siamo sempre gli amici del Signore. Giuda è un amico del Signore anche nel momento in cui, baciandolo, consumava il tradimento del Maestro».
Dopo aver ricordato la fine disperata dell’apostolo traditore, Mazzolari concludeva: «Perdonatemi se questa sera che avrebbe dovuto essere di intimità, io vi ho portato delle considerazioni così dolorose, ma io voglio bene anche a Giuda, è mio fratello Giuda. Pregherò per lui anche questa sera, perché io non giudico, io non condanno; dovrei giudicare me, dovrei condannare me. Io non posso non pensare che anche per Giuda la misericordia di Dio, questo abbraccio di carità, quella parola amico, che gli ha detto il Signore mentre lui lo baciava per tradirlo, io non posso pensare che questa parola non abbia fatto strada nel suo povero cuore. E forse l’ultimo momento, ricordando quella parola e l’accettazione del bacio, anche Giuda avrà sentito che il Signore gli voleva ancora bene e lo riceveva tra i suoi di là. Forse il primo apostolo che è entrato insieme ai due ladroni. Un corteo che certamente pare che non faccia onore al figliolo di Dio, come qualcheduno lo concepisce, ma che è una grandezza della sua misericordia».
Quel Buon Pastore che prende Giuda sulle spalle
Il Papa durante l’apertura del convegno della diocesi di Roma ha citato l’esempio del capitello della basilica di santa Maria Maddalena a Vèzelay, che ritrae l’apostolo traditore portato da Gesù. L’omelia di don Primo Mazzolari
di Andrea Tornielli (La Stampa, 17/06/2016)
Città del Vaticano. Papa Francesco, aprendo la sera del 16 giugno in San Giovanni in Laterano il convegno della diocesi di Roma, in un passaggio del suo intervento ha invitato a non «mettere in campo una pastorale di ghetti e per dei ghetti», ricordando che il realismo evangelico «non significa non essere chiari nella dottrina». «Non si tratta - ha aggiunto - di non proporre l’ideale evangelico, al contrario, ci invita a viverlo all’interno della storia, con tutto ciò che comporta».
A questo proposito Bergoglio ha parlato di un antico capitello medievale che a un estremo rappresenta Giuda e all’altro Gesù che porta il traditore ormai morto sulle spalle: «Don Primo Mazzolari fece un bel discorso su questo, era un prete che aveva capito bene questa complessità della logica del Vangelo: sporcarsi le mani come Gesù, che non era pulito andava dalla gente e prendeva la gente come era, non come doveva essere».
Francesco ha fatto riferimento a un capitello della basilica di Vèzelay, in Borgogna, dedicata a santa Maria Maddalena, che sorge sulla via che porta a Santiago di Compostela. Una chiesa dalla perfetta architettura romanica ben conservata, meta di pellegrinaggi nel Medio Evo, con migliaia di persone che venivano a invocare misericordia guardando all’esempio della donna che aveva incontrato la profonda compassione di Cristo ed era stata prima testimone della sua resurrezione.
In alto, sul primo capitello a destra per chi entra, c’è una scultura poco conosciuta, anche a motivo dell’altezza a cui è posta, circa venti metri dal suolo.
Una scultura che vista da vicino colpisce e sconcerta. Da un lato si vede Giuda impiccato, con la lingua di fuori, circondato dai diavoli. E fin qui nulla di nuove: esistono tante rappresentazioni della drammatica e violenta fine da suicida dell’apostolo che aveva tradito Gesù vendendolo per trenta denari.
La sorpresa arriva dall’altro lato del capitello. Si vede un uomo che porta sulle spalle il corpo di Giuda. Quest’uomo ha una strana smorfia sul volto: metà bocca appare corrucciata, l’altra metà sorridente. L’uomo veste la tunica corta ed è un pastore. È il Buon Pastore che porta sulle sue spalle la pecora perduta, la centesima pecora per cercare la quale ha lasciato le altre 99. L’artista che ha scolpito la scena e il monaco che l’ha ispirata ha voluto rappresentare qualcosa di estremo ipotizzando che anche Giuda vi sia stata salvezza.
A commento di questa immagine, Papa Francesco ha citato un’omelia che don Primo Mazzolari, il parroco di Bozzolo precursore del Concilio Vaticano II, tenne il Giovedì Santo del 1958, dedicata proprio a «Giuda, il traditore». «Povero Giuda - aveva esordito il sacerdote - Che cosa gli sia passato nell’anima io non lo so. È uno dei personaggi più misteriosi che noi troviamo nella Passione del Signore. Non cercherò neanche di spiegarvelo, mi accontento di domandarvi un po’ di pietà per il nostro povero fratello Giuda. -Non vergognatevi di assumere questa fratellanza. Io non me ne vergogno, perché so quante volte ho tradito il Signore; e credo che nessuno di voi debba vergognarsi di lui. E chiamandolo fratello, noi siamo nel linguaggio del Signore. Quando ha ricevuto il bacio del tradimento, nel Getsemani, il Signore gli ha risposto con quelle parole che non dobbiamo dimenticare: “Amico, con un bacio tradisci il Figlio dell’uomo!”».
«Amico! Questa parola - continua Mazzolari - che vi dice l’infinita tenerezza della carità del Signore, vi fa’ anche capire perché io l’ho chiamato in questo momento fratello. Aveva detto nel Cenacolo non vi chiamerò servi ma amici. Gli Apostoli sono diventati gli amici del Signore: buoni o no, generosi o no, fedeli o no, rimangono sempre gli amici. Noi possiamo tradire l’amicizia del Cristo, Cristo non tradisce mai noi, i suoi amici; anche quando non lo meritiamo, anche quando ci rivoltiamo contro di Lui, anche quando lo neghiamo, davanti ai suoi occhi e al suo cuore, noi siamo sempre gli amici del Signore. Giuda è un amico del Signore anche nel momento in cui, baciandolo, consumava il tradimento del Maestro».
Dopo aver ricordato la fine disperata dell’apostolo traditore, Mazzolari concludeva: «Perdonatemi se questa sera che avrebbe dovuto essere di intimità, io vi ho portato delle considerazioni così dolorose, ma io voglio bene anche a Giuda, è mio fratello Giuda. Pregherò per lui anche questa sera, perché io non giudico, io non condanno; dovrei giudicare me, dovrei condannare me. Io non posso non pensare che anche per Giuda la misericordia di Dio, questo abbraccio di carità, quella parola amico, che gli ha detto il Signore mentre lui lo baciava per tradirlo, io non posso pensare che questa parola non abbia fatto strada nel suo povero cuore. E forse l’ultimo momento, ricordando quella parola e l’accettazione del bacio, anche Giuda avrà sentito che il Signore gli voleva ancora bene e lo riceveva tra i suoi di là. Forse il primo apostolo che è entrato insieme ai due ladroni. Un corteo che certamente pare che non faccia onore al figliolo di Dio, come qualcheduno lo concepisce, ma che è una grandezza della sua misericordia».
«E adesso, che prima di riprendere la Messa, ripeterò il gesto di Cristo nell’ ultima cena, lavando i nostri bambini che rappresentano gli Apostoli del Signore in mezzo a noi, baciando quei piedini innocenti, lasciate che io pensi per un momento al Giuda che ho dentro di me, al Giuda che forse anche voi avete dentro. E lasciate che io domandi a Gesù, a Gesù che è in agonia, a Gesù che ci accetta come siamo, lasciate che io gli domandi, come grazia pasquale, di chiamarmi amico».
Inediti
Sud, Don Mazzolari contro Quasimodo
Giuseppe Matarazzo (Avvenire, 5 ottobre 2015)
«Vi dico che se fossi un “terrone” (poeta o pittore, magistrato o usciere, poco importa), indirei una crociata per il Sud, per la Sicilia, per la Sila, per il Tavoliere; e ci metterei tutto il cuore nel mio lamento, tutto l’amore, come ce lo metto lo stesso, senza aver mai visto né la Sicilia, né la Calabria, solo perché sono italiano, solo perché sono cristiano, solo perché sono prete».
Don Primo Mazzolari, il parroco di Bozzolo, una delle figure emblematiche del cattolicesimo del Novecento, si rivolge al poeta Salvatore Quasimodo in maniera dura e appassionata fra le colonne de L’Italia del 19 novembre 1949 («Lamento per certi uomini del Sud») e poi in un carteggio ricostruito fra gli innumerevoli brani originali e inediti nel monumentale Diario. V, 25 aprile 1945 - 31 dicembre 1950 edito da Edb a cura di Giorgio Vecchio (pp. 448, euro 30,00). Il parroco scrittore non riesce a «staccarsi», senza intervenire, dal Lamento per il Sud dell’intellettuale siciliano, e dalla cantilena che lo accompagna: «Più nessuno mi porterà nel Sud».
Un «lamento d’amore senza amore», come scrive nell’ultimo verso della poesia datata 1949 (da La vita non è sogno e ristampata sull’Unità del 13 novembre di quell’anno: «Il mio cuore è ormai su queste praterie,/ in queste acque annuvolate dalle nebbie./ Ho dimenticato il mare, la grave/ conchiglia soffiata dai pastori siciliani, /le cantilene dei carri lungo le strade/ dove il carrubo trema nel fumo delle stoppie,/ ho dimenticato il passo degli aironi e delle gru/ nell’aria dei verdi altipiani/ per le terre e i fiumi della Lombardia./ Ma l’uomo grida dovunque la sorte d’una patria./ Più nessuno mi porterà nel Sud». Quelli di Quasimodo sono versi di nostalgia, di rabbia. Il destino di tanti, troppi forse, meridionali costretti a emigrare.
Don Mazzolari legge invece questo sfogo in negativo, intravede il distacco, la resa, l’inerzia. E si rivolge «a voi» perché «lo ripetiate ai molti siciliani, calabresi, pugliesi, lucani... che, saliti al Nord, occupano meritatamente eminenti posti nella politica, nelle lettere, in arte, nella magistratura, nella burocrazia, nel commercio, ovunque. Se mi sdegno perché non parlano, perché non fanno: se mi sdegno nel sentirli ripetere che “più nessuno li porterà nel Sud” quasi fossero degli evasi, non ditemi, caro Quasimodo, che esagero o che offendo tutta una rispettabile categoria di cittadini».
Il sacerdote incalza il futuro premio Nobel (nel 1959): «Se fossi un siculo o un calabro, sarei già tornato per tracciare una strada, costruire una casa, trivellare un pozzo, aprire una scuola, fondare una chiesa: almeno per fare una barricata, a costo di lasciarci la pelle. Un morto di più, ma consapevole». E ancora: «È troppo comodo far la rivoluzione a Milano, in Galleria, o a Roma, in via Veneto respirando nebbia e fumo di sigarette di contrabbando, facendo il cortigiano a mecenati rossi e neri, agli avventurieri indollarati, che ci aiutano a dimenticare “il mare, la grave - conchiglia soffiata dai pastori siciliani (...)". Voi, Quasimodo, uomo di cuore, poeta di cuore, non gli dovete staccare il vostro cuore per portarlo “su queste praterie, - in queste acque annuvolate dalle nebbie”. (...) Dove però si finisce per star bene, troppo bene, da borghesi».
Segue l’invito a vedere invece laggiù nel Sud («dove i vostri occhi non vogliono più vedere») quello che ha visto Gaetano Baldacci (direttore del Giorno, ndr), sullo sfondo della dibattuta riforma agraria: «Pittori e letterati comunisti e loro vicini di casa fornicano con quell’alta società di latifondisti e di possessori di piccole cilindrate fuori serie, la quale spesso ne divide i gusti e ne appaga le inclinazioni, magari con il frutto di quelle terre di dolore e di vergognoso sfruttamento».
Il poeta non si fa pregare nel rispondere a tono (ne L’Italia del 27 novembre, «Più nessuno mi porterà al Sud»), ma «con piacere» a parole che «come sempre, hanno il “furor” del crociato». «Ricordo una Sua predica sull’altare che copre in Assisi la tomba di san Francesco: ed erano, anche quelle, parole forti di carità in un tempo in cui anch’io, forse, speravo che la Chiesa avrebbe portato finalmente la sua potenza in difesa delle moltitudini dei poveri umiliati dall’ingiustizia.
Lei rimprovera a me, uomo del Sud, la compiacenza d’una evasione fisica da quelle terre, dai sentimenti di quel popolo, che sono, poi, i veri contenuti della mia poesia. Ma nel mio Lamento per il Sud Lei, lettore, ha dato una risposta negativa a due miei versi. Il primo, “più nessuno mi porterà nel Sud”, non è un rifiuto, ma un rimpianto; l’altro, che chiude la poesia, dice di “amore senza amore”, che è amore non corrisposto».
Ma «lasciamo più sottili considerazioni ai vecchissimi e mediocri critici che vogliono ancora oggi valorizzare i calligrafi, i giocatori di prosa lirica, questi tardi baudelairiani da caffè-concerto; il nostro discorso doveva essere un altro, di natura morale, non estetica. È un discorso senza rettorica, perché quando Lei invita me o altri uomini del Sud, poeti, pittori, sacerdoti, a correre laggiù con animo di crociati per alzare magari una barricata (contro i baroni e il Governo?) o a tracciare una strada, aprire una scuola, Lei, caro don Mazzolari, si lascia trascinare dal suo violento amore cristiano in un’onda oratoria.
Costruire strade, scuole, acquedotti? E con che? E proprio a me scrive queste cose, che in Calabria e in Sardegna e in altri luoghi ho costruito strade, ponti, scuole, case per il popolo, per dodici anni della mia giovinezza, vivendo in mezzo agli operai, alla povera gente, che porta la propria mente sempre “vestita d’una veste nera in segno di dolore e di martirio”?».
«E “terrone” che vive alla giornata come un operaio sono rimasto dopo 15 anni di vita lombarda. E a Lei, che non è solo sacerdote, ma uomo di cultura che non dimentica la politica, posso dire che la riforma agraria attuata con legge o con violenza, toglierà dall’isola anche i battaglioni antigiuliani. Nessun esercito ha mai circondato o istituito il coprifuoco a Milano quando c’era da dare la caccia a un bandito o a un’associazione di delinquenti: là, in Sicilia, per annuvolare il problema dei feudi, è facile il gioco, anche se più grave la posta».
Era la risposta attesa da don Mazzolari (che replica in coda al testo di Quasimodo): «Se non avessi avuto la certezza della vostra povertà, non avrei osato prendere il pretesto da una vostra poesia per un’esortazione che è buona per ognuno di noi. Nessun italiano può dire di non avere qualche torto verso il Sud. Bisogna che ci pensiamo tutti un po’ di più e con più cuore e buon volere, affinché le riforme vengano, non dietro violenza, ma per legge, non suggerite dalla disperazione, ma dall’amore, che è compimento di giustizia. Non vedo altra strada, e sono certo che la mia Chiesa, più che la sua potenza, mette, oggi, la sua maternità a difesa delle moltitudini umiliate. Io vivo di questa fede».
Ironia della sorte, il poeta morirà nel 1968 nel Sud, a Napoli, colpito da un ictus mentre si trovava ad Amalfi. E il Sud, i siciliani e i meridionali della nuova diaspora dopo 50 anni sono ancora sospesi fra lamento, nostalgia, rabbia. Il coraggio di sporcarsi le mani e il senso di impotenza di fronte all’irredimibilità sciasciana, al cambiamento impossibile. Sia che si resti. Sia che si vada altrove, «su queste praterie, in queste acque annuvolate dalla nebbia». Così com’è attuale, quindi, il monito e lo sdegno di Mazzolari e il senso di una «crociata».
LAMENTO PER IL SUD
La luna rossa, il vento, il tuo colore
di donna del Nord, la distesa di neve...
Il mio cuore è ormai su queste praterie,
in queste acque annuvolate dalle nebbie.
Ho dimenticato il mare, la grave
conchiglia soffiata dai pastori siciliani,
le cantilene dei carri lungo le strade
dove il carrubo trema nel fumo delle stoppie,
ho dimenticato il passo degli aironi e delle gru
nell’aria dei verdi altipiani
per le terre e i fiumi della Lombardia.
Ma l’uomo grida dovunque la sorte d’una patria.
Più nessuno mi porterà nel Sud.
Oh, il Sud è stanco di trascinare morti
in riva alle paludi di malaria,
è stanco di solitudine, stanco di catene,
è stanco nella sua bocca
delle bestemmie di tutte le razze
che hanno urlato morte con l’eco dei suoi pozzi,
che hanno bevuto il sangue del suo cuore.
Per questo i suoi fanciulli tornano sui monti,
costringono i cavalli sotto coltri di stelle,
mangiano fiori d’acacia lungo le piste
nuovamente rosse, ancora rosse, ancora rosse.
Più nessuno mi porterà nel Sud.
E questa sera carica d’inverno
è ancora nostra, e qui ripeto a te
il mio assurdo contrappunto
di dolcezze e di furori,
un lamento d’amore senza amore.
Cronache del parroco di Bozzolo di Angelo Paoluzi in “Europa” del 28 febbraio 2012
Non è morto nel 1959 perché il suo messaggio sembra scritto oggi. Don Primo Mazzolari, «la tromba dello Spirito Santo della Bassa mantovana» - così lo definì papa Giovanni XXIII -, è ancora fra noi, con il suo potere di ammonimento e possiamo dire di profezia. Nelle centoventi pagine di un’antologia dal titolo Come pecore in mezzo ai lupi le edizioni Chiarelettere (Milano 2011, 7 euro) ripropongono testi che continuano a servire come catechismi di moralità politica. Nella prefazione don Virginio Colmegna parla di «attività provocatoria » di don Primo, di una «nuova cultura politica, partecipata, rilanciando la connessione virtuosa fra etica e impegno politico, riscoprendo una soggettività che ha il coraggio del servizio disinteressato, del bene comune come responsabilità».
Un concetto al quale risponde - sembra per i nostri giorni - il brano di un articolo scritto su Adesso nel 1950: «Un popolo che stenta a vivere e conta a milioni i suoi disoccupati e ha lo schifo di pochi avventurieri che buttano via volgarmente il denaro, ha diritto di vedere che almeno gli uomini da lui scelti per governarlo, se non proprio poveri, siano almeno distaccati, in omaggio a quello spirito di povertà da cui prendono nome e vanto».
Così un’amara osservazione sui principi, sui quali «è almeno strano che certe difese a oltranza vengano fatte principalmente nei confronti dei poveri, i quali, posti nel disumano dilemma di scegliere tra un principio morale e una tremenda necessità materiale, all’infuori di qualche caso di grazia, sono costretti ad arrendersi alle necessità». E sullo spettacolo (triste immagine dei nostri tempi) «poco edificante ma istruttivo, di uomini senza fede che si dichiarano per la religione; di senza patria, che s’accendono di furore nazionalistico; di corrotti celibatari, che esaltano la santità della famiglia».
Abbiamo di don Mazzolari un ricordo preconciliare. Si svolse a Napoli, negli anni che precedettero il Vaticano II, un convengo di scrittori cattolici, cui partecipò il meglio della cultura di allora, da Giancarlo Vigorelli a Giorgio La Pira, da Carlo Bo a Mario Pomilio. Fra essi un silenzioso don Primo: il suo Adesso era sotto il tiro della censura clericale. In un gruppo di lavoro si sfogò: chiese a tutti i laici presenti che cosa stessero rischiando, in quanto credenti, della loro libertà: un povero prete come me questo rischia, disse, e sventolò la tonaca. Erano gli anni in cui, fra la generale diffidenza ecclesiale, si batteva per la pace, per l’obiezione di coscienza, per una Chiesa che respingesse - come più tardi essa fece - la legittimità della guerra.
Come pecore fra i lupi restituisce al nostro ricordo il tenace parroco di Bozzolo, che non soltanto i fascisti non riuscirono a piegare
DON PRIMO MAZZOLARI,
IL MUCCHIO COME MITO ("Adesso", 17/1953)
a cura di don Aldo Antonelli
"Il mucchio come mito"!
Le adunate in piazza san Pietro? O quelle, sterminate, delle GMG in giro per il mondo? O quelle, affollate ed anche tragiche, che fanno da contorno ai viaggi papali, Africa o non Africa?
Ma anche le ammucchiate dei figuranti alla Fiera di Roma! Siamo ormai alla celebrazione quantitativa delle cose e delle persone. Non è il sapore dei soldi che interessa, ma il loro ammontare. Non è la voce delle persone che si vuole ascoltare, ma il loro peso numerico.
"Il mucchio come mito" è il titolo che riporta un articolo non firmato del numero 17/1953 della rivista "Adesso" di don Primo Mazzolari. Molto probabilmernte (lo si vede anche dallo stile) è di don Mazzolari stesso.
Nel mese di settembre del 1953, nella stessa domenica, un milione di cattolici si erano radunati a Torino per il Congresso Eucaristico, oltre settecentomila a Milano per la festa dell’"Unità" e duecentomila a Spalato per ascoltare Tito...
Don Primo che fa?
Prende la penna e scrive:
IL MUCCHIO COME MITO
Questo il bilancio di una qualunque domenica del settembre 1953.
Non ne siamo stupiti, ma non siamo contenti, anche se il Congresso di Torino batte il record.
Appunto perché noi cattolici siamo ancora davanti in questa gara di mobilitazione delle masse, noi per primi non possiamo essere contenti dell’andazzo.
Le moltitudini non ci fanno paura: ci fa paura la fiducia che esse portano dietro e che ispirano alle loro guide. E’ una fiducia che, secondo me, contrasta con le regole dello spirito e s’avvicina a quelle del materialismo.
Il materialismo, infatti, s’insinua,e fa capolino da ogni dove, e il fasto, il rumore, la quantità ne sono gli araldi. La tecnica poi, che fa muovere genti e suoni, senza fatica ma non senza spesa, e che dispone di ritrovati incantatori, che distraggono invece di raccogliere, eccitano invece di purificare, si è messa volentieri a servizio di questo spirito di massa.
Per rimanere un attimo in casa nostra, penso che molti credenti troveranno un pò arduo portare come motivo di massa certi sublimi Misteri, che un tempo venivano circondati da gelose e arcane iniziazioni.
Non vorrei essere frainteso. Io non contesto il diritto di esprimere la propria fede e di esternare la propria adorazione, e neppure di sottrarre il popolo cristiano al dovere di fare ciò che gli altri fanno, e che potrebbe rappresentare un "aggiornamento d’apostolato". Mi permetto soltanto di chiedere se noi cattolici possiamo metterci in questo piano di gara che ci porta fatalmente all’esaltazione dei valori di massa.
Questo stare insieme a quel modo per un’ora, per una giornata, questo affiancarsi e pigiarsi assomiglia al quam bonum et quam jucundum habitare fratres in unum?
Non tutto quello che gli altri fanno è bene fare: non tutti i diritti sono usabili per chi guarda oltre il diritto.
In certi favolosi ammassamenti di qualsiasi genere, si ha l’impressione che il motivo centrale divenga piuttosto un pretesto per uno spiegamento di forze o per un torneo oratorio, che deve per forza sfociare nella retorica.
Lamentiamo il disamoramento del quotidiano, si chiami esso parrocchia, casa, ecc., e siamo noi che ne deformiamo il gusto con questa incessante mobilitazione verso lo straordinario e lo sbalorditivo.
Ma il fatto di questa strutturazione di massa investe in pieno il problema dell’educazione del popolo e il progressivo svuotamento dell’uomo. La personalità sta diventando una larva, e un pò anche per colpa nostra, nonostante il daffare verbale per difenderla e consolidarla.
Ieri avevano ragione i più grossi portafogli: oggi, hanno ragione le masse più grosse, i mucchi più grossi.
Non abbiamo fatto molta strada e neppur cambiato strada. Prepotenza del danaro o sopraffazione del numero, se non è zuppa è pan bagnato: una strada cioè che ci dispensa dall’essere ragionevoli e dal rispettare tanto coloro che sono senza soldi come coloro che sono in pochi.
Senz’accorgersene, il mucchio diventa il mito: ed esso va accresciuto e difeso ad ogni costo. E chi fa parte del mucchio s’abitua a non esistere, a non parlare, a non agire se non come mucchio.
La democrazia del mucchio non è la democrazia: come non è la religione la religione del mucchio.
Il mucchio è falange, legione, rullo compressore, non comunità; elemento di urto, non comunione.
Le masse, come i blocchi non si cercano se non per sfidarsi, urtarsi, annientarsi. Dietro un ordinamento politico di masse o di blocchi, non c’è che la guerra.
Il pericolo della massa è avvertito purtroppo anche da pochi cristiani, i quali trovano più facile ammucchiare che educare, sbalordire più che elevare.
Cristo è venuto a liberare l’uomo da ogni schiavitù, anche dalla schiavitù della massa.
PREGHIERA *
"Signore,
come abbiamo potuto
confondere
la nostra Fede
col marmo degli altari
e delle statue,
che Ti abbiamo costruito?
(Le spine
e i chiodi
li abbiamo fatti
d’oro e d’argento
perché Tu fossi
più presentabile).
........
Ora,
ci sono rimaste
solo parole,
sporche
e mutate di senso".
Trovo questa preghiera pubblicata sul numero di Adesso del 1.4.1950 a firma di Arnaldo Michelini.
E’ la mia preghiera in questo lungo Venerdì Santo.
Aldo [don Antonelli]
epistolario
Oltre 200 missive tra don Mazzolari e Maria di Campello rivelano l’amicizia a distanza dei due grandi della Chiesa
Il Primo e la Minore, lettere dell’anima
Un carteggio specchio di cattolicesimo inquieto, per nulla conformista, lontano da ogni zelo fazioso e da apparati di potere. Dal suo eremo la sorella seppe raggiungere personaggi come Albert Schweitzer, Dorothy Day, Gandhi e fu vicina allo scomunicato Ernesto Buonaiuti per non tradire la sua coscienza
DI MARCO RONCALLI (Avvenire, 15.03.2008)
C’ è la storia di un’amicizia epistolare salda, nella comune passione per l’uomo immagine di Dio. C’è un lungo colloquio, intessuto di ricerca spirituale e di radicale riferimento al Vangelo. C’è un diffuso senso del sacro, che avvolge creato e creature, i gigli del campo come le stelle della sera. E c’è una comunione che ci parla di cose sante, di pace e preghiera, che indica cieli aperti e orizzonti senza confini. Ecco cosa c’è nel carteggio tra Maria di Campello e Primo Mazzolari, vent’anni di lettere fra il celebre parroco di Bozzolo e la religiosa che alle falde del Clitunno ha dato vita a una comunità fra l’eremo e il chiostro, lettere ora raccolte da Mariangela Maraviglia.
Questo epistolario, come nota Enzo Bianchi nella prefazione, palesa la «trasparenza e la pacatezza che solo gli umili di fronte a Dio posseggono», come pure «le attese, le speranze e le sofferenze di una Chiesa che non desidera altro che farsi più prossima al Vangelo e agli uomini tutti». Non solo. Aperto con una chiave più «storica », lo scrigno di questa corrispondenza rivela oltre a tante tessere preziose nella ricostruzione dei profili «asimmetrici » dei corrispondenti, anche lo specchio di un cattolicesimo inquieto, per nulla incline al conformismo e all’unanimismo, lontano da ogni zelo fazioso politico o ecclesiastico, distante da ogni apparato di potere. Un cattolicesimo aperto per sensibilità interreligiosa e attenzione ai poveri, talvolta guardato con sospetto o emarginato, eppure tanto autentico e vivo, specie agli albori del risveglio liturgico e della riscoperta biblica, del cammino ecumenico e del rinnovamento monastico.
Il carteggio prende avvio nel 1925, quando le sorelle ancora non vivono nell’eremo ma risiedono in una vecchia villa non lontano da Campello, dove si trasferiranno l’anno seguente. Al «Reverendo Don Mazzolari», Maria chiede se conosce «una giovinetta di buona volontà» disposta a entrare nel suo «piccolo gruppo di terziarie francescane secolari» dove si sta «insieme, come sorelle, lavorando per vivere», «offrendo ospitalità a chi ha bisogno di venir a trovare pace in questa solitudine». Quasi due mesi più tardi la risposta, non positiva, del parroco di Bozzolo che comunque conclude la sua lettera «se il Signore vorrà...». Dopo questo primo approccio il carteggio ricomincia nel ’39, anno che vede l’unico incontro de visu tra Maria e don Primo, nel frattempo divenuto apprezzato scrittore e predicatore: proseguirà - alimentandosi di continuo - per arrestarsi solo nel ’59 con la morte di Mazzolari.
149 le missive di Maria: per lo più dettate, frutto di una «consuetudine disciplinata » (come impastare il pane) e firmate «la Minore», avvertendo come propria tale condizione («Novizia sono sempre nella via del Signore, e sempre egualmente indigente nello spirito e nel corpo»: così in una lette- ra del ’46). Novanta le epistole di don Primo, alias «frate Ignazio» - come impara a firmare dal ’41, quando si lega idealmente all’eremo pur non risiedendovi mai (con riferimento al vescovo martire di Antiochia, «frumento di Cristo»). Uno scambio rarefatto solo per la guerra e quando l’antifascista Mazzolari vive in clandestinità. Uno scambio, ancora, che rende conto di situazioni vissute dal prete cremonese, note o inedite. «Quello che ho sofferto a Camaldoli, tra quell’aridità insopportabile di schemi e di cuori, non ve lo scrivo. Ho reagito sino all’importunità » (3 settembre 1941). Oppure: «Sono stato a Napoli per il Congresso degli scrittori, ma la stanchezza del cuore mi ha fatto fretta nel ritorno. Non mi so più ritrovare in certe riunioni, ove finisco per disturbare troppa gente...» (14 ottobre 1954).
Ma se i testi mazzolariani sono prevedibili, quelli di Maria, figura ancor da scoprire dal largo pubblico (nonostante i carteggi editi o i libri di Roberto Morozzo Della Rocca e di Mariano Borgognoni), appaiono talora di forza sorprendente: «Ignazio, io sono pancristiana (...). Considero che le diverse Chiese Cristiane o i membri coscienti di queste Chiese sono chiamati a dare un loro contributo allo spirito ecumenico, gettando sale nelle acque malsane o insipide della nostra Cattolicità romana» (12 aprile 1951).
Forti e sorprendenti sono anche relazioni, incontri, contatti al centro di questa rete. Con Maria in rapporto con Albert Schweitzer e Gandhi, Giovanni Vannucci e David Turoldo, don Orione ed Ernesto Buonaiuti, don Tartaglia e don Michele Do, Brizio Casciola e Giorgio La Pira, Adelaide Coari e Dorothy Day, eccetera. Non a caso aveva fondato la sua famiglia mossa da «bisogno di più ampio respiro» - come documenta una sua lettera del ’42 a Pio XII. Nella stessa la Minore ammette di comprendere le diffidenze dell’autorità ecclesiastica nei suoi confronti, ma spiega la necessità che a Campello si possa celebrare la messa e rivela il vincolo con lo scomunicato Buonaiuti alias fra Ginepro.
Riferendo a papa Pacelli di aver resistito - in un momento di malattia - alla richiesta presentatale dal confessore: l’abiura dell’amicizia con Buonaiuti per avere l’assoluzione. «Ho sempre cercato di non tradire la mia coscienza. Non potrei farlo in quest’ora estrema», fu la risposta di Maria. La Minore comunicherà a Mazzolari il silenzio del Papa dopo la lettera. E fra Ignazio le scriverà: «Che Vi rispondano o no, questo ha poca importanza. Noi non ci facciamo molte illusioni (...) ci basta conoscere il nostro dovere e pregare Iddio». Ci sarà però più tardi una lettera di Montini, allora sostituto alla Segreteria di Stato, a trasmettere benedizione papale e una somma per l’eremo.
Sorella Maria di Campello - Primo Mazzolari
L’INEFFABILE FRATERNITÀ
Qiqajon. Pagine 378. Euro 23,00.
E-MAIL PERSIANE
Luci e ombre nello ‘spirito del capitalismo’
Cari Amici di Esphean,
il mio riferimento all’eclisse dello ‘spirito weberiano’ a Piacenza ha suscitato un importante dibattito, che si è focalizzato prevalentemente su una controversa diagnosi del capitalismo piacentino oggi. La mia riflessione si concentrava in realtà sul declino locale dello spirito della Modernità, della Civiltà Moderna, frenato dalla mentalità tradizionale, soprattutto nell’articolazione del ‘genius loci’ di Piacenza.
Ora, anche ispirandomi al nostro Zaratustra, che, assai prima di tanti dialettici europei, ci ha insegnato il dualismo fondamentale di Luce e Ombra, l’ineludibile antitesi manichea in ogni realtà del positivo e del negativo, voglio approfondire, oltre i cotées luminosi del sistema capitalista e dello spirito del capitalismo, anche quelli oscuri.
Sul versante della storia, dell’Europa e del mondo dal ‘500, non è possibile sottovalutare la crescente importanza fino all’egemonia globale oggi dell’economia di mercato, fondata sulla competizione, dove le figure dei capitalisti corrispondono a potenti interessi, influenze, esigenze, bisogni e svolgono funzioni propulsive fondamentali, per il bene e per il male, con importantissimi risvolti tecno-scientifici, culturali, sociali, ideologici, fino a plasmare o almeno influenzare la vita della quasi totalità degli uomini. Con un bilancio spettacolare ed estremamente controverso. In questo contesto vanno affrontati i nostri problemi di vita e sopravvivenza, consapevoli che tutto si tiene, e che anche i fenomeni locali, come la curva zigzagante dell’economia piacentina, ora in picchiata, appare una micro-variabile dipendente. Ma di questo scriveremo prossimamente.
Sul versante individuale, dell’etica personale e del ruolo economico sociale del singolo attore, il poeta Shakespeare ci dona una bellissima chiave di lettura, quando Polonio così inquadra l’enigmatico, inquieto principe Amleto -II, ii-: ‘Though it’s madness, yet there is method in’t’. Sebbene sia follia, vi è certo un metodo in essa.
Il termine method sintetizza lo ‘spirito weberiano’ -apertura, razionalità, calcolo comparato, iniziativa, progettualità, creatività, avventura, rischio etc.- che in certa misura, nei limiti delle logiche economiche e in dialettica con altre istanze di tipo sociale, culturale, artistico, critico, costituisce un filo importante della Modernità, razionalistica, scientifica, tecnologica, umanistica.
Ma è madness il rifiuto di una vita giusta e bella, goduta all’insegna del carpe diem, perché ‘vassene lo tempo, e noi perdiam lo meglio’. In questa ottica, il capitalista appare un folle. Infatti egli dedica il suo pensiero, la sua azione, i suoi sentimenti, i suoi mezzi,i suoi crediti, la sua passione, la sua esistenza tutta, non già alla concretezza, pur precaria, del qui e ora e dell’immediato futuro, ma a impegnarsi lavorare sacrificarsi per costruire un’impresa che, in tempi medi e/o lunghi, sempre più precari, e se tutto andrà bene, forse produrrà beni materiali o immateriali, possibili fonti, attraverso il mercato, fattore estremamente volatile, di un profitto. Infine e al meglio, con il favore di indefinibili variabili,‘il denaro che fa denaro farà ancora più denaro’, in una spirale infinita, a sua volta folle: e sarà la ricchezza, il potere, il successo. Altrimenti sarà la bancarotta.
Non solo. Nella madness del capitalista c’è anche un’altra componente irrazionale, i famosi ‘animal spirits’: avidità, prepotenza, spregiudicatezza, cinismo, determinazione, sfruttamento, spietatezza, astuzia, inganno, corruzione etc. Dato il carattere di competizione estrema nella giungla del mercato, dove vige la norma hobbesiana di ‘homo homini lupus’, gli attori si trovano coinvolti in una lotta darwiniana per la sopravvivenza, per il successo, lotta al limite con ogni mezzo e al di là da ogni limite.
La storia del capitalismo lo testimonia senza ombra di dubbio: basti ricordare negli Stati Uniti i brutali Robber Barons dell’Ottocento - i Mellor, Stanford, Carnegie - e i recentissimi super-sofisticati squali di Enron, o in Italia lo strapaesano Callisto Tanzi.
Certo non si può dimenticare che proprio un italiano rappresentò l’antitesi di queste figure emblematiche: l’indimenticabile Adriano Olivetti, protagonista di un capitalismo illuminato, moderno, aperto alla cultura della Modernità e sensibile ai problemi sociali. In un certo senso per Olivetti si potrebbe invertire la formula shakespeariana: ‘though it’s method, yet ther’s madness in’t’.
Si deve riconoscere che ogni imprenditore è animato sia da principi valori e ideali sia da pulsioni, passioni, avidità, insomma che gli aspetti riassunti come method, lo ‘spirito weberiano’, si incontrano e scontrano con gli aspetti di madness, determinando in definitiva una personale identità nella vastissima gamma tra i due archetipi o modelli estremi: l’illuminato Olivetti e il bancarottiere Tanzi.
Tra questi modelli estremi i piacentini protagonisti della rivoluzione agraria della fine Ottocento probabilmente avrebbero aborrito il secondo e apprezzato con un certo distacco il primo.
Un facile indovinello d’attualità. Dove collochereste, in questa svariata gamma, il tycoon Silvio Berlusconi? Forse in posizioni mediane o ad uno dei due estremi? E quale? Ancora una volta vi coinvolgo in problemi inquietudini enigmi. Mi riprometto di tornare a sorridere con svagati divertissements.
Sempre il vostro
Aria
MAZZOLARI E MARX
I problemi dei poveri, degli immigrati, dei cattolici previsti da un sacerdote di campagna
di Mario Pancera *
«Nel sistema cristiano vi è posto non per gli errori di Marx e di Lenin, ma per Marx e per Lenin, per il solo fatto che essi hanno contribuito, loro malgrado, a certi aumenti, i quali appartengono, come ogni bene, a Cristo. Il cristiano è contento di dovere qualche cosa anche a loro e di onorarli per questo. Essi esistono nel nostro mondo del pensiero, e vi hanno un compito e una funzione». Sono osservazioni di don Primo Mazzolari, che ho trovato nel corso di un lavoro e che non riesco a dimenticare, non tanto perché riguardano Marx e Lenin e nemmeno per l’apertura di un sacerdote verso due atei materialisti, ma per i concetti precisi: «hanno contribuito», sia pure loro malgrado, «a certi aumenti» che sono beni, perciò appartengono, come ogni bene, a Cristo.
Non c’è ripensamento: nel mondo del pensiero Marx e Lenin - dice il sacerdote - hanno un compito e una funzione che, pur fuori della loro volontà, hanno contribuito e contribuiscono a una evoluzione in positivo degli individui umani. Tanto positiva che i cristiani devono essere contenti di avere un qualche obbligo nei loro confronti (nei confronti del loro pensiero) e per ciò stesso di onorarli. L’itinerario che ha portato a questo contributo è problema della Provvidenza, ma penso che le espressioni mazzolariane vadano interpretate così.
Non so nulla di Marx né di Lenin e pochissimo di Mazzolari, ma queste affermazioni sono talmente in contrasto con la vita furibonda che ci sta intorno, che, se non si buttano nel cestino a occhi chiusi, provocano certamente disagio: sono come un tarlo tra le pagine di un libro, piccola larva, microscopica e tuttavia mai ferma. Perché mai, Mazzolari (1890-1959), parroco di un piccolo paese mantovano, doveva scriverle nella prima metà del secolo scorso, quando il primo era morto da settant’anni, avversato e anzi condannato dalla Chiesa, e il secondo, con il suo comportamento, aveva lasciato da qualche decennio una lunga scia di cadaveri dietro di sé? Mazzolari era dentro la Chiesa o fuori?
Ma il mio problema, non è di rispondere a questa domanda. Sono sicuro che egli era dentro la Chiesa. Il problema è: chi aveva ragione tra Mazzolari e i vertici ecclesiastici che avevano pronunciato, e le avrebbero ribadite negli anni, condanne definitive? Quali sono i contributi agli «aumenti», evidentemente sociali, ma forse anche spirituali (di tale valore da essere considerati un bene da un sacerdote), che Marx e Lenin ci hanno lasciato e per i quali «il cristiano è contento di dovere qualche cosa anche a loro e di onorarli per questo». Ecco il tarlo. I cattolici italiani, presi tra il consumismo, la povertà e l’esibizione di ricchezze immense, i modelli televisivi, le grida dei politici che vogliono più sicurezza per il popolo e lo spiano in tutte le maniere, lo imboniscono, lo riempiono di futilità e di pensieri inutili, che cosa penserebbero oggi di un sacerdote che li invita a onorare anche Marx e Lenin?
Oggi come allora molti lo brucerebbero in piazza e sarebbero gli stessi che nei periodi elettorali corrono sulla sua tomba, parlano negli oratorî e tengono conferenze presso associazioni cattoliche per elogiarlo. Chi sono? Vecchi personaggi della destra più retriva e nuovi nomi di una sinistra arrogante e infida, che sembrano folgorati come Paolo sulla via di Damasco. Molti tuttavia lo onorano non per ottenere voti, ma con sincerità e confidano in quella «rivoluzione cristiana» in cui anch’egli aveva sperato.
Per capirci, e capire un po’ dove si trovano quei «certi aumenti» dovuti perfino a due atei, possiamo ricordare due righe di un articolo pubblicato da Mazzolari nel suo quindicinale Adesso nel gennaio 1949: «I beni che sono prima di noi e senza di noi, appartengono all’uomo, costituiscono il patrimonio dell’uomo. Questo per un senso naturale di rettitudine. Se poi uno ha la grazia di credere in Dio, scorge in tali beni una così chiara indicazione, che ci vuole dell’ improntitudine per dire: “questo, Dio l’ha dato a me e non ad altri”, quando gli altri sono milioni e non hanno né casa, né pane, né vestito. Nel Vangelo e nell’ insegnamento della Chiesa non si trovano le pezze giustificative di così blasfema destinazione dei beni terrestri...»
Mario Pancera
* Il Dialogo, Martedì, 22 maggio 2007
anatemi
Cento anni di modernismo nelle libertà perdute della Chiesa
Nel luglio del 1907, Pio X stigmatizzava la corrente religiosa di Murri e Bonaiuti. Due mesi più tardi, l’enciclica «Pascendi Dominici gregis» condannerà ancora il movimento definito «sintesi di tutte le eresie»
di Alfonso Botti *
È passato un secolo da quando, nel luglio del 1907, con il decreto Lamentabili sane exitu Pio X condannava la corrente riformatrice religiosa da qualche anno divenuta nota con il nome di modernismo. Due mesi dopo, l’8 settembre, la condanna era reiterata con l’enciclica Pascendi Dominici gregis che stigmatizzava il modernismo come «sintesi di tutte le eresie». Si è soliti identificare il punto algido della controversia modernista con la pubblicazione di L’Évangile et l’Eglise (1902) dell’abate Loisy: il «piccolo libro» dalla copertina rossa in cui l’esegeta francese forniva una lettura tutta escatologica del regno predicato da Gesù, negando che egli avesse inteso fondare la Chiesa. A cui faceva seguire, l’anno dopo, Autour d’un petit livre nel quale esplicitava e ribadiva le proprie posizioni.
Un fenomeno europeo
Il modernismo si sviluppò tra il clero, gli intellettuali cattolici e i semplici credenti di base dagli ultimi anni del pontificato di Leone XIII alla condanna di papa Sarto. Poi cercò di organizzarsi come movimento per resistere e sopravvivere, ma fu sopraffatto. La controversia a cui diede vita produsse la crisi più importante nella Chiesa dopo la Riforma protestante e senza termini di paragone neppure con i sommovimenti prodotti dal giansenismo. Il fenomeno ebbe dimensioni a carattere europeo. Europea la statura dei suoi principali esponenti che mantenevano profondi e articolati rapporti con la cultura del Vecchio continente. Se ne trova conferma scorrendo l’elenco dei corrispondenti del pastore protestante francese Paul Sabatier, le cui carte sono conservate presso il Centro studi per la storia del modernismo di Urbino, fondato all’inizio degli anni Settanta da Lorenzo Bedeschi.
I più significativi rappresentanti della corrente furono, in Francia, oltre ai già citati Loisy e Sabatier, Bremond, Hébert, Houtin, Laberthonnière, il filosofo Le Roy; in Italia, Romolo Murri (il fondatore della prima democrazia cristiana), Buonaiuti, Minocchi, Fracassini, Semeria, Gallarati Scotti e lo scrittore Antonio Fogazzaro; in Gran Bretagna, l’ex gesuita Tyrrell, miss Petre e il barone d’origine austriaca von Hügel; in Germania i professori Schell, Schnitzer, Koch, Engert e Funk. In Spagna, a parte il limitato interesse verso il modernismo di alcuni religiosi e del sacerdote galiziano José Amor Ruibal, gli intellettuali che più si avvicinarono alla sensibilità modernista furono Leopoldo Alas, noto con lo pesudonimo di Clarín, suo fratello Genaro, il Pérez Galdós del romanzo Nazarín e, più di tutti, Unamuno.
Tra scienza e fede
L’assenza di modernisti in carne e ossa fu surrogata da Ortega y Gasset nel 1908 con la creazione del personaggio di Rubín de Cendoya nella recensione che dedicò all’edizione spagnola del Santo di Fogazzaro. Anni dopo, nel 1936, lo stesso fece lo scrittore basco Pío Baroja, con il personaggio di Javier Olarán, nel romanzo El cura de Monleón. Furono molte le riforme del cattolicesimo e della Chiesa auspicate dai modernisti. I temi più tipici delle loro ricerche storiche e religiose si possono riassumere nella formula della spinta verso la conciliazione tra la scienza e la fede cristiana. Un risultato che cercarono di perseguire muovendosi su differenti piani: con l’impiego del metodo storico-critico nell’esegesi biblica, nella storia della Chiesa e dei dogmi, nell’apologetica e l’agiografia; con la critica del tomismo come filosofia cristiana e del concetto stesso di «filosofia cristiana» al posto della quale si adoperarono a favore della libera ricerca filosofica, guardando con simpatia al pensiero di Blondel, Bergson e al pragmatismo statunitense; con l’accettazione dell’evoluzionismo darwinano per spiegare l’origine dell’uomo contro il tradizionale creazionismo del magistero ecclesiastico; prestando attenzione agli aspetti psicologici dell’esperienza religiosa sotto l’influenza di William James; con la netta opzione per la democratizzazione della Chiesa e della società, che assunse venature socialiste nel caso del Buonaiuti degli anni della rivista «Nova et vetera».
L’origine del sospetto
In definitiva i modernisti vollero togliere le incrostazioni confessionali che si erano depositate nel corso dei secoli attorno all’Evangelo e al messaggio cristiano per recuperarne l’autentico significato in vista del più proficuo dialogo con il mondo moderno. Fu una tendenza intellettuale, ma non elitaria, che trovava le proprie radici nel cattolicesino liberale francese e italiano, nel Reformkatholizismus tedesco, nell’americanismo (condannato dalla Chiesa nel 1899 con la Lettera Testem benevolentiae), nel positivismo e nel nuovo protagonismo delle masse dell’Europa di quegli anni. La Chiesa ebbe paura e condannò la corrrente riformatrice. Costruì anzi con «il modernista» il proprio nemico interno. I modernisti dovettero scegliere tra deporre l’abito talare, la sospensione a divinis e il mesto ritorno all’ovile. Alcuni continuarono a pubblicare i risultati delle proprie ricerche coperti da pseudonimi.
Quelli che non obbedirono o che vennero scoperti furono scomunicati (Loisy, Buonaiuti, Murri). Per questo motivo la crisi modernista si frantumò in tante crisi personali, di coscienza, esistenziali. Le pubblicazioni moderniste e anche alcuni romanzi furono inseriti nell’Indice dei libri proibiti. Molte riviste cessarono le pubblicazioni. Nacque una cultura del sospetto contro ogni attività di ricerca nelle scienze religiose che non risparmiò neppure il futuro Giovanni XXIII. La grande mobilitazione antimodernista favorì i settori più intransigenti e integralisti della Chiesa e del cattolicesimo. Per meglio combattere la «eresia» modernista, un ecclesiastico prossimo a Pio X, monsignor Benigni, fondò nel 1909 Sodalitium Pianum o Società San Pio V (nota anche come Sapinière), un’organizzazione di spionaggio clericale, che contò sulla collaborazione di schiere di delatori, infiltrati e persino di cifrari segreti. A partire dal settembre del 1910 si introdusse l’obbligo del giuramento antimodernista per entrare nei seminari e nelle Università pontificie (Motu proprio Sacrorum antistitum).
Nel 1907 morirono nella Chiesa le inquietudini e il dubbio, la libertà di ricerca e la possibilità stessa del pluralismo teologico. I cattolici avrebbero dovuto aspettare quasi mezzo secolo e il Concilio Vaticano II per recuperare i livelli di libertà ecclesiale che il modernismo aveva fatto intravedere.
Non a caso proprio negli anni della primavera conciliare prese avvio lo studio del modernismo con le ricerche di Ranchetti, Scoppola, Bedeschi e, su tutti, Poulat, per dire solo dei principali. Di contro, il 1907, segnò il trionfo del clericalismo. La condanna e la repressione antimodernista favorirono i settori più ultramontani e integralisti sul piano religioso e quelli più illiberali e antidemocratici sul piano politico.
Vuoti di cultura
A ben guardare, però, e con la prospettiva che il tempo consente, occorre riconoscere che la Chiesa non respinse la modernità in toto. Il modernismo rappresentava infatti solo una delle vie o opzioni della modernizzazione cattolica. Nel suo complesso Curia romana e gerarchie ne scelsero un’altra.
Iniziò proprio allora, infatti, il cammino verso la modernità compatibile, la modernità «buona», dei mezzi, ma non dei contenuti, attraverso una complessa operazione di filtro e aggiustamento del tradizionale progetto di cristianità. Un progetto dal quale non si è scostato né il papa polacco né, a quanto è dato vedere, quello tedesco, che alla messa in latino di Pio V ha dato facoltà di tornare.
Senza la condanna del 1907, la storia del cattolicesimo e della Chiesa in Europa avrebbe probabilmente seguito un altro percorso. Senz’altro meno tardiva la sconfessione dell’Action française, che giunse solo nel 1926; senz’altro maggiori resistenze alla penetrazione del fascismo avrebbe offerto il mondo cattolico italiano e più difficili la sacralizzazione della Guerra civile spagnola e la stretta alleanza di quel cattolicesimo con il franchismo. La condanna lasciò indifferente la cultura laica e socialista che vi trovò conferme circa l’irriducibile antinomia tra religione, scienza e modernità. Contentò invece quella liberale moderata e conservatrice, che di un mondo cattolico disciplinato aveva bisogno.
A essa inconsapevolmente si ispirano «atei devoti» e «teocon» dei nostri giorni, ignari delle repliche farsesche della storia. Che nel dibattito culturale e politico degli ultimi tempi su scienza e religione, bioetica e darwinismo, laicità dello Stato e neoclericalismo sino rimasti del tutto assenti riferimenti sia al modernismo, sia al clericomoderatismo, la dice lunga sul vuoto di cultura storica su cui galleggia il paese.
* il manifesto, 13.07.2007
Un movimento fra studi e convegni
Una lunga attesa I cattolici avrebbero dovuto aspettare quasi mezzo secolo e il Concilio Vaticano II per recuperare i livelli di libertà ecclesiale che il modernismo aveva fatto intravedere
di A. B. (il manifesto, 13.7.2007)
Senza prendere in considerazione la prima fase di lavori - per lo più a opera degli stessi protagonisti - e le monografie sui singoli esponenti, gli studi di carattere storico (altri naturalmente ve ne sono dal taglio filosofico e teologico) dai quali, per vari motivi, non si può prescindere per avere una panoramica completa del modernismo sono i testi di Émile Poulat, Intégrisme et catholicisme intégral. Un réseau secret international (Casterman, 1969) e Storia, dogma e critica nella crisi modernista (Morcelliana, 1967) e i saggi di Michele Ranchetti, Cultura e riforma religiosa nella storia del modernismo (Einaudi, 1963), di Piero Scoppola, Crisi modernista e rinnovamento cattolico in Italia (Il Mulino, 1963) e di Lorenzo Bedeschi, La Curia romana durante la crisi modernista (Guanda, 1966) e Lineamenti dell’antimodernismo (Guanda, 1968).
E ancora, vanno citati diversi altri autori. Come Alexander Vidler, The variety of Catholic Modernists (Cambridge University Press, 1970), Thomas Michael Loome, Liberal catholicism reform and Catholicism modernism (Matthias-Grünewald-Verlag, 1979), Maurilio Guasco, Modernismo. I fatti, le idee, i personaggi (San Paolo, 1995), Otto Weiss, Der modernismus in Deutschland. Ein Beitrag zur Theologiegeschichte (Regensburg, 1995), Pierre Colin, L’audace et le soupçon. La crise du modernisme dans le catholicisme français (Desclée de Brouwer, 1997), Roberta Fossati, Élites femminili e nuovi modelli religiosi nell’Italia tra Otto e Novecento (Quattroventi, 1997), Étienne Fouilloux, Une Église en quête de liberté. La pensée catholique française entre modernisme et Vatican II¸1914-1962 (Desclée de Brouwer, 1998), Giovanni Vian, La riforma della Chiesa per la restaurazione cristiana della società. Le visite apostoliche delle diocesi e dei seminari d’Italia promosse durante il pontificato di Pio X. 1903-1914 (Herder, 1998) e infine la raccolta di saggi Il modernismo tra cristianità e secolarizzazione (Quattroventi, 2000). Tra le iniziative editoriali più recenti si segnalano inoltre il volume della collana di scienze religiose dell’École des Hautes Études, Alfred Loisy cent ans après (Brepols, 2007), Spiritualità e utopia: la rivista «Coenobium» (1906-1919), a cura di Fabrizio Panzera e Daniela Saresella (Cisalpino, 2007) e il primo numero del 2007 del bimestrale «Humanitas» dedicato al Modernismo in Europa, a cura di Maurilio Guasco.
Per quanto riguarda gli appuntamenti di studio, due saranno quest’anno in Italia i principali convegni: il Seminario internazionale sulla «Pascendi cent’anni dopo», promosso dalla Fondazione Romolo Murri di Urbino il 12 e 13 ottobre, con la partecipazione, tra gli altri, di Claus Arnold, Rocco Cerrato, e il convegno coordinato da Michele Nicoletti e Otto Weiss, su Il modernismo in Italia e in Germania, a Trento dal 22 al 26 ottobre, su iniziativa del locale Istituto italo-tedesco. Per la primavera del 2008, infine, un convegno sulle principali riviste moderniste è stato annunciato all’Università statale di Milano.
Modernismo, quale eredità?
l’anniversario
Cento anni fa Pio X firmò la «Pascendi», un’enciclica tra le più discusse. Ma le critiche risentono di tanti pregiudizi. Una rilettura
di Corrado Pizziolo* (Avvenire, 05.09.2007)
Ricorre tra pochi giorni il centesimo anniversario dell’enciclica di Pio X Pascendi Dominici Gregis, pubblicata con la data dell’8 settembre 1907. Indubbiamente questo anniversario merita di essere ricordato, dal momento che si tratta di uno dei pronunciamenti papali più importanti e decisivi non solo del pontificato di Papa Sarto, ma dell’intero secolo scorso. Si tratta anche di uno dei testi magisteriali più controversi: esaltato senza riserve nella prima parte del ’900; criticato (se non vilipeso) successivamente. In realtà la valutazione negativa che molti oggi riservano alla Pascendi è probabilmente frutto di un pregiudizio: essa viene spesso citata come un documento con cui il «bieco potere ecclesiastico« stroncò senza pietà le voci profetiche che si appellavano ad un rinnovamento della Chiesa. Le cose non stanno certamente così. Se da un lato va detto con chiarezza che l’applicazione concreta delle direttive disciplinari indicate dalla Pascendi e da successivi documenti fu, in molti casi, eccessiva, occorre - d’altro lato - riconoscere con altrettanta chiarezza che l’enciclica di Pio X non dava corpo a delle fantasie. Il Papa, infatti, si trovò realmente ad affrontare posizioni che, pur in buona fede, proponevano soluzioni riduttive e inaccettabili su temi assolutamente fondamentali e decisivi per la fede della Chiesa.
Lo scopo dell’enciclica
Il motivo che determinò la pubblicazione della Pascendi è dichiarato immediatamente proprio nel sottotitolo del documento: «Sugli errori del Modernismo».
Cos’è il Modernismo? Possiamo definirlo una crisi di crescita nell’organismo della Chiesa cattolica. Negli anni a cavallo tra ’800 e ’900, da più parti venne avvertita l’urgenza di superare la grave frattura che era venuta progressivamente a crearsi tra il pensiero cattolico e la cultura moderna. Era una frattura che riguardava ambiti molteplici: la filosofia, la religione, la scienza, la politi ca... E che sembrava rendere non più comunicabile al mondo moderno la fede cristiana.
Molti intellettuali cattolici si sentirono perciò chiamati ad un’opera di conciliazione tra le conquiste della modernità e la tradizione cattolica. Di conseguenza si misero volenterosamente all’opera. Come purtroppo accade spesso in situazioni simili, i tentativi di questi studiosi non sempre ebbero risultati soddisfacenti per la fede cattolica. Lo sforzo di dialogare con la nuova sensibilità filosofica e scientifica dell’epoca moderna, introducendone le novità nella fede cristiana, approdò, in una certa misura, a compromettere l’identità della fede stessa. Si trattava di un pericolo a cui il Pontefice, che in modo tutto particolare è chiamato a custodire l’integrità della fede ecclesiale nella Rivelazione cristiana, non poteva evidentemente rimanere indifferente.
L’intervento inteso a denunciare gli errori presenti in questi tentativi di «modernizzare» la tradizione cattolica (di qui il termine «modernismo»), si concretizzò appunto nell’enciclica Pascendi. Essa fu preceduta di pochi mesi (3 luglio 1907) da un altro importante documento papale (il decreto Lamentabili Sane Exitu) che enumerava una lunga serie di errori «modernisti» circolanti tra i cattolici.
I punti nodali in questione
Rispetto al decreto che l’aveva preceduta, l’enciclica si presenta come un testo fortemente unitario. Essa intende dare un volto e una figura precisi al cosiddetto «Modernismo», raccogliendo in un sistema organico le diverse e variegate posizioni fino a quel momento espresse dai vari autori. Il documento si articola in tre parti, precedute da un’introduzione che fornisce la giustificazione dell’enciclica in relazione alla gravità del male e all’urgenza del rimedio reso necessario dagli errori diffusi dai modernisti dentro la Chiesa stessa. Le tre parti sono dedicate, rispettivamente, la prima all’analisi e all’interpretazione della posizione modernista; l a seconda all’identificazione delle cause del modernismo; la terza all’indicazione dei rimedi. Più che descrivere analiticamente i contenuti dell’enciclica, vale la pena di individuare gli aspetti nodali che essa pone in evidenza (ovviamente in continuità con il decreto Lamentabili). Questo ci permetterà di cogliere l’importanza e, per tanti aspetti, l’attualità di questo documento papale.
La questione dell’esegesi biblica
Fu proprio la questione dell’esegesi biblica a innescare la crisi modernista. Alcuni esegeti (in particolare Loisy) introdussero anche in ambito cattolico l’esegesi scientifica (o critica storica) applicata alla Bibbia, già da tempo praticata in ambito protestante. A questi studiosi la Pascendi rimprovera un uso dell’esegesi scientifica viziato da presupposti filosofici non compatibili con la fede cristiana. Questi presupposti (precisamente l’«agnosticismo» e l’«immanentismo» tipici del positivismo di fine ’800), rifiutando radicalmente il carattere soprannaturale del testo biblico, conducono l’esegesi scientifica a conclusioni completamente diverse rispetto a quelle trasmesse dalla fede. Un testo biblico dice cose del tutto differenti se esaminato da un esegeta scientifico o letto da un credente. Per salvare sia la scienza che la fede, gli esegeti modernisti proponevano una radicale spartizione di campi: una cosa è la scienza, un’altra è la fede; una cosa è l’esegesi scientifica, un’altra è l’esegesi teologica. Ma qual è il guaio di questa soluzione? Secondo la mentalità positivistica del tempo (presente anche nel pensiero modernistico), solo l’esegesi scientifica dice cose vere, sicure e verificabili. La lettura di fede invece non è reale: è una lettura puramente soggettiva, al limite fantastica, frutto di un vago e imprecisato sentimento religioso.
Occorre riconoscere che il prezzo pagato dall’esegesi modernista per mettere al sicuro la fede di fronte alla critica storica, proponendo semplicistica mente una netta separazione di campi, si rivelava troppo alto. Tale prezzo infatti era il regresso ad una concezione fideistica e irrazionalistica della fede e della teologia. La condanna decretata dal Magistero antimodernista concerne quindi propriamente non l’esegesi scientifica in quanto tale, ma l’esegesi scientifica professata dal modernismo, nel senso di «comandata» dalla sua filosofia. È a questa filosofia che propriamente il Magistero addebita la dichiarata opposizione tra la fede e la storia e tra l’esegesi teologica e l’esegesi scientifica.
In questo senso è decisamente sbagliata l’opinione che accusa la Pascendi di essere pregiudizialmente contraria alla scienza. È da rilevare invece che il problema del rapporto tra l’esegesi scientifica (o metodo storico-critico) e l’esegesi credente (o teologica) continua a proporsi ancor oggi come una questione con cui fare i conti. Non si spiegherebbe altrimenti perché Benedetto XVI dedichi (cento anni dopo) la premessa del suo recente libro su Gesù di Nazareth proprio a ricordare il valore e i limiti del metodo storico-critico, insistendo sulla necessità di un’esegesi scientifica illuminata dalla fede.
La questione della rivelazione
La questione dell’esegesi faceva dunque emergere il problema della fede, ridotta, dal pensiero modernistico, a semplice sentimento soggettivo. Strettamente collegata al tema della fede, appare la questione della rivelazione. Nella posizione dei cosiddetti «modernisti» l’enciclica ravvisava una concezione di rivelazione largamente influenzata dalla cultura del tempo. In nome dell’autonomia dello spirito umano si rifiutava infatti di intendere la rivelazione come qualcosa di proveniente dall’esterno dell’uomo. La rivelazione tendeva pertanto ad essere risolta in un’esperienza puramente interiore e, più precisamente, nel sentimento religioso o mistico. In ultima analisi, la rivelazione non sembrava differenziarsi dalla coscienza umana, ma si identificava co n essa. Sentimento religioso, fede e rivelazione, sostanzialmente venivano a coincidere.
Questo portava, ovviamente, all’impossibilità di distinguere fra religioni naturali e religione soprannaturale: anche il cristianesimo, come tutte le altre religioni, non è che il prodotto della natura umana.
L’enciclica ribadisce il rifiuto della nozione in qualsiasi modo naturalistica della rivelazione, precisando che la nozione cattolica di rivelazione si esprime, contro ogni equivoco, nella nozione di rivelazione intesa come «esterna», cioè come comunicazione all’uomo da parte di Dio. La precisazione dell’enciclica può apparire oggi abbastanza ovvia, specialmente alla luce della costituzione dogmatica Dei Verbum del Vaticano II, la quale precisa che la rivelazione non è semplicemente una comunicazione di verità concettuali, ma è l’auto-comunicazione di Dio stesso all’uomo, culminante in Gesù Cristo.
Tuttavia tale apparente ovvietà non è affatto da dare per scontata. La sensibilità della cultura - anche religiosa - attuale tende ad equiparare tutte le religioni esistenti, ponendole tutte sullo stesso piano. Non riappare forse l’idea che la religione (ogni religione, quindi anche il cristianesimo) non sia altro che il prodotto dello spirito umano? Che la cosiddetta «rivelazione« non sia altro che una generica e inesprimibile esperienza del trascendente, esclusivamente frutto del sentimento religioso?
La questione del dogma
In continuità con la nozione modernistica di rivelazione, che si rifà alla nozione di fede intesa come sentimento religioso, emerge la questione del dogma ecclesiastico.
Secondo i modernisti - afferma la Pascendi - è il sentimento religioso che fa emergere Dio nella coscienza, ma lo fa emergere in forma indistinta e confusa. Occorre allora l’intervento dell’intelletto che si impadronisce del sentimento e lo elabora in affermazioni concettuali. Le formulazioni che ne derivano costituiscono appunto i dogmi, i q uali sono dei semplici simboli o strumenti concettuali. Essi servono al credente come norma pratica in funzione della sua esperienza religiosa. Quando viene meno la loro efficacia in ordine alla vita del credente, devono necessariamente essere modificati in vista di un’efficienza rinnovata.
Contro la nozione modernista di dogma, il documento del Papa rifiuta la riduzione del dogma a semplice simbolo o a norma pratica. Riafferma invece che il dogma si collega direttamente alla fede, intesa, però, non nel senso modernista, ma nel senso cattolico, cioè nel senso di derivare dalla rivelazione di Dio i propri contenuti. Proprio di questa fede il dogma va inteso come «norma«, cioè come interpretazione autentica e infallibile.
Alla luce di questi brevi cenni si può comprendere l’importanza dei temi toccati dall’enciclica Pascendi. Essa affronta i fondamenti della fede cattolica, in un momento storico in cui apparivano messi seriamente in discussione. Va certamente detto che i problemi sollevati dagli autori accusati di modernismo erano problemi reali: il rapporto tra fede e storia e tra fede e scienza; la relazione tra coscienza umana e rivelazione di Dio; il rapporto tra il linguaggio umano del dogma e la verità soprannaturale che esso esprime; il senso di un’autorità nella Chiesa... Ma va anche affermato che molte delle soluzioni che venivano prospettate non erano compatibili con la fede cattolica. Di qui la doverosa necessità di un intervento del Magistero.
Possiamo anche aggiungere che il Magistero del tempo non disponeva di una teologia adeguata per affrontare le questioni che la nuova cultura moderna suscitava. In questo senso l’intenzione dell’enciclica non fu quella di risolvere tutti i problemi in questione, ma quella di ribadire l’identità e l’integralità della fede cattolica, riassegnando alla teologia il compito di ripensare le tematiche in questione. Un frutto di questa rinnovata riflessione possiamo certamente riconoscerlo nel Concilio Vatic ano II, senza però pensare che tutti gli interrogativi sorti nel periodo modernistico abbiano trovato adeguata e definitiva soluzione. Essi rimangono, in buona parte, ancora molto attuali e richiedono nuovi sforzi di riflessione. Si tratterà però, alla luce dell’insegnamento della Pascendi, di uno sforzo che dovrà compiersi nel pieno rispetto dell’identità della fede e della tradizione di quel popolo di Dio che è la Chiesa.
* docente di Introduzione alla Teologia contemporanea
Don Mazzolari: «Adesso è l’ora dei laici»
di Giorgio Campanini (Avvenire, 11 aprile 2010)
Riflettere sul laicato nella Chiesa di oggi alla luce dell’insegnamento di don Primo Mazzolari può apparire a prima vista il tentativo di operare un confronto inattuale, considerati i profondi mutamenti intervenuti nella storia della Chiesa nella seconda metà del Novecento, a partire da quell’evento conciliare che alla sua morte, nel 1959, cominciava soltanto a profilarsi all’orizzonte.
Come tutta la vita della Chiesa, così l’insieme delle problematiche riguardanti il laicato appare, a partire dal Vaticano II, profondamente mutato. Ma se il Concilio è apparso, sotto molti aspetti, un avvenimento «rivoluzionario», tuttavia si trattava di una «rivoluzione» da lungo tempo preparata dagli spiriti più vigili della Chiesa dell’Ottocento e del Novecento (per l’Italia basti pensare soltanto a Rosmini e a Bonomelli, a Sturzo e allo stesso Mazzolari).
Sotto questo aspetto, riandare alla riflessione mazzolariana sul laicato (e operare una rilettura di essa nei nuovi orizzonti postconciliari) appare tutt’altro che inopportuno, sia per cogliere meglio il senso dell’evento conciliare, sia per affrontare i problemi che, anche dopo di esso, rimangono aperti.
In una lettera del 1933
all’allora presidente della Gioventù femminile di Azione cattolica della diocesi di Cremona (solo di
recente pubblicata), così Mazzolari si esprimeva: «Ella mi scrive: so che non guarda con simpatia al
nostro movimento femminile. Non è la più esatta traduzione del mio animo. Nutro invece una
simpatia profondissima e di vecchia data verso l’Ac come idea. Il far posto ai laici nella Chiesa è
sempre stata una mia missione, non una convinzione soltanto. Non simpatizzo con la maniera oggi
in uso in Italia... Le esperienze e gli avvenimenti cambieranno tante cose.
Quando? Non lo so perché non sono profeta: so però che dovrà essere, poiché un’Azione cattolica
che clericalizza (la parola è brutta ma il significato che le do in questo momento è inoffensivo) i
laici... li sposta dalla loro qualità specifica... per loro imprestare, estraniandoli quasi del tutto dal
mondo in cui vivono, una nostra mentalità. Non è un gran guadagno».
Questo problema - il rischio, cioè, della «clericalizzazione» del laicato cattolico - rappresenta il filo conduttore della prolungata riflessione di Mazzolari sul rapporto gerarchia-clero-fedeli, dagli scritti degli anni ’30 agli ultimi editoriali di Adesso. Emblematico (ma non unico documento di questa attenzione e di questa preoccupazione) un suo importante scritto del 1937, e cioè la Lettera sulla parrocchia. Questo testo rappresenta, a nostro avviso, quello in cui più schiettamente (anche perché in qualche modo coperto dall’anonimato) egli esprime il suo pensiero su questo tema.
Al centro della riflessione mazzolariana sta la ferma convinzione che, in una stagione caratterizzata dalla fine del regime di cristianità, la missione della Chiesa non possa pienamente espletarsi confidando esclusivamente nel trinomio gerarchia-clero-religiosi, ma si imponga «la partecipazione dei laici alla vita attiva dell’apostolato».
Questa attiva presenza laicale nella missione evangelizzatrice della Chiesa è possibile, a giudizio di Mazzolari, a due fondamentali condizioni: in primo luogo la fuoriuscita dai ristretti recinti della vita parrocchiale e l’atteggiamento, da parte del laicato cattolico, di un atteggiamento di lucida e responsabile autonomia.
Proprio aprendosi al mondo il laicato cattolico, abbandonando il sicuro rifugio della comunità cristiana, dovrebbe essere in grado di «fare il raccordo tra la parrocchia, che è lo spirito, e le attività della vita moderna»; né costituirebbe un dramma il fatto che questa «fuoriuscita» possa inizialmente provocare qualche tensione («Non importa se, uscendo» il laico «ha sbatacchiato l’uscio»).
In secondo luogo l’abbandono, da parte della Chiesa, della pretesa di «controllare direttamente opere e istituzioni che sono di diritto nelle mani della comunità civile», garantendo così ai laici un adeguato spazio di libertà: «I figliuoli, divenuti maggiorenni - avverte - possono pretendere a una certa autonomia ed è dovere della religione d’educarveli invece di contrariarne l’aspirazione o impedirne o ritardarne la preparazione».
Perché l’uno e l’altro obiettivo - il superamento della separatezza fra Chiesa e mondo e la promozione di un laicato responsabile - possano essere raggiunti occorre aprire porte e finestre della comunità cristiana: «Non si chiuda né si spranghi il mondo della parrocchia. Le grandi correnti del vivere moderno vi transitino, non dico senza controlli, ma senza pagare pedaggi umilianti e immeritati... L’Azione cattolica ha il compito preciso d’introdurre le voci del tempo nella compagine eterna della Chiesa» e di «gettare il ponte sul mondo, ponendo fine a quell’isolamento che toglie alla Chiesa di agire sugli uomini del nostro tempo».
Proprio in vista di questa apertura al mondo, a giudizio di Mazzolari occorre «salvare la parrocchia» (ma qui, come in altri passi dello scritto, è facile intravedere dietro di essa tutta la Chiesa) «dalla cinta che i piccoli fedeli le alzano allegramente intorno e che molti parroci, scambiandola per un argine, accettano riconoscenti». In sintesi, è necessario andare al di là del ristretto numero dei praticanti abituali, formare cristiani aperti al mondo, evitare la «clericalizzazione del laicato», dare fiducia ai fedeli e nello stesso tempo diffidare di coloro che, «docili e maneggevoli», secondo la caustica denunzia mazzolariana, «dicono sempre di sì» e spesso sono apprezzati e valorizzati assai più di coloro che, dotati di maggiore spirito critico, mettono in discussione la prassi corrente, e dunque «creano problemi».
Al fondamento di questa nuova stagione di irradiazione del messaggio evangelico nella storia sta, a giudizio di Mazzolari, una nuova e più autentica «spiritualità laicale», della quale (come egli stesso confessava in un articolo di Adesso «siamo tuttora sprovvisti». Vi era dunque un vuoto da colmare non solo sul piano della prassi, ma anche sotto il profilo dell’elaborazione di una nuova spiritualità del laico, costruita non soltanto sul suo «essere nella Chiesa» ma anche sul suo «essere nel mondo». È, questo, è un problema che - nonostante il Concilio Vaticano II - rimane ancora sostanzialmente aperto.