RISPOSTA DI KARL MARX A SALVATORE VECA. Alcune precisazioni sulla sua intervista impossibile *
raccolte da Federico La Sala
Caro Veca
non voglio polemizzare sulla tua ricostruzione dell’intervista, ma - ringraziandoti molto per avermi sollecitato a intervenire nel vostro presente - ritengo opportuno e doveroso fare alcune precisazioni. Devo dire che il modo in cui hai filtrato il senso del mio pensiero è fortemente inquinato dal desiderio di cavalcare la moda! Esperto come sono della “miseria della filosofia” devo dire - dalle notizie che mi arrivano dall’Italia - la miseria della filosofia italiana è arrivata alle stelle: roba da sganasciarsi dalle risate!
Il mio invito fraterno, da compagno, è: sveglia! E’ ora di smetterla con i vecchi divertimenti di intellettuali di molti (non quattro) soldi, asserviti all’industria culturale del padrone di turno. Basta! Che “il mio faccione” - come dici - sia “tornato in giro per il mondo”, certamente non è il mio: è il vostro! Io sono sempre stato sempre con voi, nel presente - anche nel vostro presente! Solo che voi, immersi nel “sonno dogmatico” della ragione atea e devota, non sapete distinguere “illusione” da “apparenza”, confondete i “fenomeni della scienza” con i “fenomeni da baraccone”, e non riuscite a distinguere nemmeno un presidente di un partito (“forza Italia”) da un presidente di una repubblica (“forza Italia”). Figuriamoci, se potete essere giusti con me. Attenti: “badate - come scriveva Voltaire nel suo Dizionario filosofico, alla sua voce “Abate” - che non arrivi il giorno della ragione”!
Caro Veca
mi conoscete ben poco tu e i tuoi brillanti colleghi! Continuate a usarmi e a scimmiottarmi, ma solo per il vostro tornaconto! Battute come queste: “Infelicità è vivere nella necessità”, ma non è necessario vivere nella necessità”, dette da voi, suonano come quelle barzellette del vostro Mentitore di Stato. D’altra parte, siete della stessa “pasta” e della stessa “ditta”: il materialismo storico come moda (“avanti, o popolo della libertà, alla riscossa: il populismo trionferà”).
Abbiate la bontà e l’umiltà di ascoltarmi e leggere con attenzione! E, se volete capire, rileggete e leggete ancora - oltre alla mia “Introduzione del ‘57” - le “Tesi di filosofia della storia” di Walter Benjamin: questi ne sapeva molto di più di tutti voi e sapeva distinguere tra tempo della moda e tempo del materialismo storico; e, caso mai avete qualche difficoltà o dubbio sulla comprensione del testo, chiedete a Giorgio Agamben qualche lume "sul metodo"; forse riuscirete a capire qualcosa di “infanzia e storia” e, al contempo, di storia e storiografia.
Caro Veca - mi consenta - mi fai dire, a proposito delle parole di Epicuro: “non ho mai inteso questa superba massima in senso morale e tanto meno moralistico. L’ho sempre considerata come un invito perentorio al realismo, all’analisi concreta della situazione storico-sociale determinata e concreta. E così, continuo a pensare, dovrebbe essere considerata da qualsiasi essere umano, chiunque sia o ovunque gli accada di avere una vita con tanti altri”. Qui tocchiamo vette di “sublime” stravolgimento e confusione.
La questione è direttamente legata alla mia dichiarazione: “io non sono marxista” (“Je ne suis pas marxiste”) e mi fa ricordare gli operai parigini e i miei lavori giovanili. Il senso di tale dichiarazione è che io non sono e non ho mai sognato di essere la scimmia materialistica dell’hegelismo! Epicuro, per me, è da collocare all’interno dell’orizzonte critico (non idealistico né materialistico - volgare, sia l’uno sia l’altro). Questo, né prima né ora avete voluto e volete capirlo: tutto il mio lavoro è all’insegna della “critica dell’economia politica” della ragione atea e devota - come delle utopie!
E’ vero ho civettato spesso e molto con la dialettica hegeliana (e, in questo senso, sono stato in parte tentato di essere “marxista”), ma la mia concezione del rapporto “soggetto-oggetto” è ben oltre l’hegelismo e il marxismo: esso è da pensare come e a partire dal “rapporto sociale di produzione”. Se non si capisce questo, del materialismo storico niente è stato capito! Esso porta avanti il programma dell’illuminismo e della rivoluzione copernicana kantiana e, nel suo centro e nel suo cuore, ha come stella polare il suo imperativo categorico: “rovesciare tutti i rapporti nei quali l’uomo è un essere degradato, asservito, abbandonato e spregevole” (“Per la critica della filosofia del diritto di Hegel”). E questo dice quanto e come io sia stato più discepolo di Kant, che non di Hegel (e nemmeno di Epicuro e Democrito).
Il mio invito, ora e sempre, è: "Sàpere aude!. Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza”. Solo su questa strada, la strada della critica, l’emancipazione umana, un altro mondo - il comunismo, è possibile - non altra! E non confondete il materialismo storico con il vecchio preistorico trucco del platonismo (ateo-devoto) per il popolo!!!
Caro Veca,
per finire, mi consenta un ultimo appunto! Il mio programma non ha nulla da spartire con il tuo "saggio sul programma scientifico di Marx" (Milano 1977)! Hai fatto con me lo stesso errore che ha fatto Engels con Kant! Oh, se solo avessi ascoltato più attentamente il saggio Fulvio Papi avresti senz’altro capito di più di scienza e di etica, di "cosmologia e civiltà", e del mio stesso "imperativo categorico":
M. saluti,
Federico La Sala (21.10.2010)
* NOTA:
Veca - Buongiorno, signor Marx. E, prima di tutto, un grazie di cuore per aver alla fine accettato l’intervista. Confesso che è stato molto faticoso, e a un certo punto mi sembrava fosse proprio una mission impossible. In ogni caso, come mi ha chiesto, ho predisposto una decina di domande. Ma, se è d’accordo, mi piacerebbe cominciare con una sua battuta.
Marx - Se lei è convinto che sia una buona idea, la mia battuta preferita resta: Je ne suis pas marxiste. Mi ci sono proprio affezionato, perché in fondo mi è servita in molte circostanze imbarazzanti. E di circostanze imbarazzanti, com’è noto, ne ho vissute più d’una. Una delle ragioni del ritardo e del laborioso lavoro per arrivare alla sua intervista è appunto legata a circostanze francamente imbarazzanti. Mi creda, negli ultimi due anni, ho cominciato a ricevere una richiesta quotidiana di interviste. Mi sono dovuto documentare e ho scoperto che il mio faccione è tornato in giro per il mondo. Uno spettro s’aggira per il mondo e ha il nome di Marx. Di Karl, non di Groucho...
Veca - Qual è la massima fra le tante, che raccomanderebbe ancora oggi, nell’avvio ingarbugliato del ventunesimo secolo? Marx - Non ho problemi a rispondere e sarò conciso. Infelicità è vivere nella necessità, ma non è necessario vivere nella necessità. Questo ci ha insegnato uno dei miei eroi classici, Epicuro. Solo un’avvertenza, in proposito. Non ho mai inteso questa superba massima in senso morale e tanto meno moralistico. L’ho sempre considerata come un invito perentorio al realismo, all’analisi concreta della situazione storico-sociale determinata e concreta. E così, continuo a pensare, dovrebbe essere considerata da qualsiasi essere umano, chiunque sia o ovunque gli accada di avere una vita con tanti altri.
Veca - Veniamo alla faccenda dei tempi della storia...
Marx - La questione è importantissima. Molto più della pappa dei nostri sentimenti morali. Il materialista storico è uno che ha il dovere intellettuale e scientifico di scrutare i segni dei tempi, con un fiuto particolare per la loro stratificazione ed eterogeneità. Altro che la presunta mancanza di immaginazione del materialista storico, di cui mi ha accusato il critico critico Karl R. Popper.
Il critico critico, un professore che insegnava dalla cattedra della London School Metodo scientifico, continuando a ripetere con convinzione che la sua fosse una materia evanescente, anzi inesistente, sostiene che la miseria del materialista storico, la miseria dello storicismo coincide con la mancanza di immaginazione. Lo storicista, dice il critico critico, non è capace di immaginare un cambiamento nelle condizioni del cambiamento. Bene. Rimando la critica al mittente.
Quando ho enunciato la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto, ho indicato un po’ pedantemente e, in ogni caso, scrupolosamente un gran numero di controtendenze. Un materialista storico prende sul serio la storia. Dopo tutto, questo in fondo è l’unico punto in cui ho criticato il grande maestro Hegel. Ora, la cosa si fa seria, indipendentemente dalle critiche del critico critico che lasciano il tempo che trovano, quando la teoria deve misurarsi con la prassi.
Sul tema, nel sito e in rete, si cfr.:
Federico La Sala
FILOLOGIA E FILOSOFIA: CON KANT A EFESO, IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS...
Alcuni appunti a margine di UN CONTRIBUTO DI GRAMSCI PER "ORIENTARSI NEL PENSIERO" (#KANT) E TENTARE DI RIUSCIRE AD #ABITARE UN #PIANETA #TERRA COMUNE (ERACLITO): RI-PENSARE LA #QUESTIONEANTROPOLOGICA E #CRISTOLOGICA "ECCE HOMO") E, AL CONTEMPO, LA #QUESTIONE TEOLOGICO-POLITICA DEL #CORPOMISTICO DELLA #COMUNITA’:
A) - "POSIZIONE DEL PROBLEMA: [...] Marx è un creatore di Weltanschauung, ma quale è la posizione di Ilici? È puramente subordinata e subalterna? La spiegazione è nello stesso marxismo - scienza e azione -. Il passaggio dall’utopia alla scienza e dalla scienza all’azione (ricordare opuscolo relativo di Carlo Radek). La fondazione di una classe dirigente (cioè di uno Stato) equivale alla creazione di una Weltanschauung. [...] Marx inizia intellettualmente un’età storica che durerà probabilmente dei secoli, cioè fino alla sparizione della Società politica e all’avvento della Società regolata. Solo allora la sua concezione del mondo sarà superata (concezione della necessità, 〈superata〉 da concezione della libertà). Fare un parallelo tra Marx e Ilici per giungere a una gerarchia è stolto e ozioso: esprimono due fasi: scienza-azione, che 〈sono〉 omogenee ed eterogenee nello stesso tempo. Così, storicamente, sarebbe assurdo un parallelo tra Cristo e S. Paolo: Cristo-Weltanschauung, S. Paolo organizzazione, azione, espansione della Weltanschauung: essi sono ambedue necessarii nella stessa misura e però sono della stessa statura storica. Il Cristianesimo potrebbe chiamarsi, storicamente, cristianesimo-paolinismo e sarebbe l’espressione più esatta (solo la credenza nella divinità di Cristo ha impedito un caso di questo genere, ma questa credenza è anch’essa solo un elemento storico, non teorico)." (A. Gramsci, "Quaderno 7, § 33").
B) - PAOLO DI TARSO, IL "CITTADINO ROMANO", DIVENTA "CRISTIANO", E COSTRUISCE LA "WELTANSCHAUUNG" DEL SUO "PARTITO", FA DI #CRISTO IL "RE" DELLA "COSMOTEANDRIA" DELLA SOCIETA’ DEL SUO TEMPO, E COMINCIA A LAVORARE ALLA CONQUISTA DELL’#EGEMONIA SUI VARI "PARTITI" DEGLI APOSTOLI. Alcune note dai testi evangelici:
C) "IN PRINCIPIO ERA IL #LOGOS": STUDIANDO LE OPERE DI #SWEDENBORG, CON "I SOGNI DI UN VISIONARIO CHIARITI I SOGNI DELLA METAFISICA" (1766), PUR SE CON UN LAPSUS SIGNIFICATIVO DI "ARISTOTELISMO" RESIDUO, RISCOPRE LA LEZIONE DEL FILOSOFO DEL "LOGOS", #ERACLITO DI #EFESO ("Vegliando, noi abbiamo un mondo comune; ma sognando ciascuno ha il suo mondo") E INIZA A LAVORARE AL SUO PROGRAMMA DI CRITICA DELLA "RAGION "PURA, DELLA "RAGION PRATICA", E DELLA "CAPACITA’ DI GIUDIZIO" E,INFINE A RIFLETTERE SULLA "FINE DI TUTTE LE COSE" ( E SUL COSIDDETTO "CRISTIANESIMO") E, ANCORA, A RIPROPORRE E A RIAPRIRE LA QUESTIONE ANTROPOLOGICa ("LOGICA", 1800).
PER LA CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA E DELLA TEOLOGIA MAMMONICA:
IL"CARINO" DI UNO STUDENTE E IL "CERCATE ANCORA" DI CLAUDIO NAPOLEONI (1990)!
A CHE GIOCO GIOCHIAMO?! Ricordando ancora con stima la sollecitazione #critica di Claudio Napoleoni a non addormentarsi nel #sonnodogmatico dominante, mi permetto di #pensare che lo #studente, nella sua risposta, si riferisse al #costo economico del #libro (non al contenuto) e, al contrario, fosse molto pertinente! A ben riflettere, il "carino" avrebbe dovuto allarmare il prof. e fargli #apriregliocchi e le orecchie sulla "#doppiezza" della "#carità" cattolico-paolina, nel suo significato "mercantile" ("#caritas": "caro-prezzo" e "caro-affetto") e #accogliere con #grazia la ironica sottolineatura dello studente!
"SAPERE AUDE!" (KANT, 1784; MICHEL FOUCAULT, 1984))."Da dove iniziare, volendo recuperare, soprattutto ora, il pensiero e l’opera - complessa, molteplice, culturalmente alta - di Claudio Napoleoni?" (cfr. Lelio Demichelis, "Cercare ancora. Il capitalismo, la tecnica, l’ecologia e la sinistra scomparsa. L’attualità di Claudio Napoleoni", Economia&Politica, 26 Aprile 2020).
FILOSOFIA STORIOGRAFIA E STORIA (Koenigsberg, 1784; Kaliningrad, 2024) E ANTROPOLOGIA (KANT, 1724 -1804):
LA "TRADIZIONE #CRITICA" ITALIANA, TRA #SIRENE E #CIVETTE, ANCORA NELL’ORIZZONTE DELLA #TRAGEDIA E DELLA COSMOTEANDRIA DELLO SPECCHIO DEL "BOVILLUSIONISMO".
Se è vero che le differenze possono essere una ricchezza, è altrettanto vero che devono trovare una #mediazione non #dialettica di un UNO (un soggetto platonico ed hegelo-marxista) che NON fagogiti e divori "zeusicamente" ed "ediphicantemente" l’altro! Per Marx, filologicamente, la questione hamletica è antropologica: richiamando "la fanciulla #straniera" di Friedrich #Schiller (cfr. Marx- Engels, "La Sacra Famiglia", IV.3, 1845), egli pone all’ordine del giorno l’urgenza logico-storica di uscire dall’orizzonte dell’androcentrismo platonico-paolino del "sapiente" di Bovillus (1510), celebrato dalla tradizione "bovillus_ionistica", atea e devota, legata al "marxismo ed Hegel" (Lucio Colletti), e di portarsi fuori dall’inferno, verso il cielo dei "due soli" di Dante Alighieri.
NOTE:
COSMOLOGIA E CIVILTA’ (#KANT2024)*:
UN "INVITO" A PORTARSI FUORI DALLE ANTINOMIE DELLA DIALETTICA DI #SCILLA E #CARIDDI E RIPRENDERE LA NAVIGAZIONE NELL’#OCEANOCELESTE (#KEPLERO A #GALILEO, 1611).
Charis -sima #EUROPA non è un buon tempo (gr. "#eu-#chronos)" questo per ripensare la #relazione chiasmatica (gr. "X") che lega il #genereumano a sé stesso, alla #Terra e al #Cielo, e rendere #onore alla #Lingua #greca e alle sue parole cariche di #Grazia (gr. #XAPIS)? Se non ora, quando?
Ripropongo, qui ed ora, alcune "vecchie" note sul tema: "Ripensare l’Europa".
FILOLOGIA E "SÀPERE AUDE" (ORAZIO-KANT): "L’UOMO E’ CIO’ CHE MANGIA" (LUDWIG #FEUERBACH). Un invito alla riflessione critica sul "pane" artistico quotidiano, di cui ci cibiamo... 7 Gennaio 2024
STORIA SOCIALE DELL’ ARTE E USO DELLE #IMMAGINI A FINI DI PROPAGANDA DI FEDE (TEOLOGICO-POLITICA E ANTROPOLOGICA), SOPRATTUTTO DELLA FIGURA DELL’#UOMO PER ECCELLENZA ("ECCE HOMO", VALE A DIRE DELLA FIGURA DI GESU’ CRISTO).
STORIA E STORIOGRAFIA: DA COSTANTINO A COSTANTINO, NICEA (325-2O25). SI RACCONTA CHE #CarloMagno, rimasto affascinato dal canto di certi monaci greci che celebravano il #Battesimo del #Signore, fece tradurre in latino i testi che aveva udito cantare, forse, per ringraziarlo di questo prezioso e importante gesto, i grandi esperti della Chiesa Cattolica del tempo confezionarono la famosa "Donazione di Costantino":
CONSIDERATO che "nel 1440 l’umanista italiano Lorenzo Valla dimostrò in modo inequivocabile che la donazione era un falso", e, che il suo lavoro, "De falso credita et ementita Constantini donatione declamatio" ("Discorso sulla donazione di Costantino, altrettanto malamente falsificata che creduta autentica"), poté essere pubblicato solo nel 1517 e in ambiente protestante, mentre la Chiesa cattolica difese per secoli la tesi dell’originalità del documento", e, ancora, che "nel 1559 lo scritto di Valla fu incluso nell’indice dei libri proibiti in quanto pericoloso per la fede [...]" (Donazione di Costantino), FORSE, è importante e utile (dal punto di vista antropologico) avere in mente non solo l’#uomovitruviano->https://it.wikipedia.org/wiki/Uomo_vitruviano], ma anche (v. allegato: figura di Mercurio con caduceo *) l’uomo mercuriale (l’uomo #ermetico) di un sopravvissuto affresco di fine #Quattrocento, conservato in una "Casa di caccia" della Milano di #Ludovico il #Moro (e di #Leonardo da Vinci), un #segnavia importante della tradizione di "Mercurio e la filologia", della tradizione ermetica e dell’ermetismo cristiano.
*
PAOLINISMO, MARXISMO E LENINISMO: STORIA E STORIOGRAFIA.
UNA NOTA A MARGINE DELL’INTRODUZIONE A "IL POLITICO. Da Machiavelli a Cromwell" (Mario Tronti, 1979).
In memoria di Mario Tronti... credo che non sia proprio il caso di lasciar cadere l’importanza dei suoi studi sul tema del "politico" :
MARX- LENIN, CRISTO - SAN PAOLO: A. GRAMSCI, "POSIZIONE DEL PROBLEMA: [...] Marx inizia intellettualmente un’età storica che durerà probabilmente dei secoli, cioè fino alla sparizione della Società politica e all’avvento della Società regolata. Solo allora la sua concezione del mondo sarà superata (concezione della necessità, 〈superata〉 da concezione della libertà). Fare un parallelo tra Marx e Ilici per giungere a una gerarchia è stolto e ozioso: esprimono due fasi: scienza-azione, che 〈sono〉 omogenee ed eterogenee nello stesso tempo. Così, storicamente, sarebbe assurdo un parallelo tra Cristo e S. Paolo: Cristo-Weltanschauung, S. Paolo organizzazione, azione, espansione della Weltanschauung: essi sono ambedue necessarii nella stessa misura e però sono della stessa statura storica. Il Cristianesimo potrebbe chiamarsi, storicamente, cristianesimo-paolinismo e sarebbe l’espressione più esatta (solo la credenza nella divinità di Cristo ha impedito un caso di questo genere, ma questa credenza è anch’essa solo un elemento storico, non teorico)." (A. Gramsci, "Quaderno 7 (VII) § (33)").
PENSARE L’AL DI LA’ DELLA TRADIZIONE TEOLOGICO-POLITICA DI SAN PAOLO. Riaprire l’orizzonte storiografico stretto nei limiti "da Machiavelli a Cromwell" e ripartire, recuperando il filo della lezione di Dante Alighieri ("Monarchia") presente nel lavoro di Mercurino da Gattinara (con Carlo V) e la critica tensione teologico-politica alla base dell elisabettiano "Amleto" di Shakespeare.
"SALPA L’ÀNCORA RAGAZZO!", PER NON PERDERE IL FILO DI “DEMOCRITO E EPICURO” E LA LEZIONE DELLA “CRITICA DELL’ECONOMIA” TEOLOGICO-POLITICA DI K. MARX.
A) SALPARE L’ÀNCORA!: UN’ESORTAZIONE SULLA STRADA DELL’ ILLUMINISMO KANTIANO. Ad elogio della memoria critica del parlar chiaro e in prima persona (e del Michel Foucault svegliatosi dal “sonno dogmatico”), è bene riprendere la citazione di Epicuro (tramandata da Diogene Laerzio), nel suo senso più preciso: “Salpa l’àncora, ragazzo, e fuggi ogni forma di cultura [paideia]” (cfr. Francesco Adorno, “La filosofia antica”, Feltrinelli, Milano 1991).
Ritengo la “cosa” degna di molta attenzione, per il suo profondo significato antropologico e filosofico: a) per la sua centralità nel più generale problema della “paideia”, b) per la sua “kantiana” sollecitazione ad aver il coraggio di servirsi della propria intelligenza, e, ancora, c) perché è salutare “andare a vedere se di là è meglio” (come recita il primo paragrafo del libro dello stesso Fanizza sulla figura dell’ebreo portoghese “Miguel Vaaz. Il #conte di Mola”, pubblicato dall’Editore Cacucci, Bari 2020).
B) “CHI” SIAMO NOI, IN REALTÀ. PER non perdere il filo e uscire con Dante fuori dall’inferno (come sollecitava anche Marx!), è bene ricordare che la tesi di laurea di Karl Marx è proprio su “Democrito e Epicuro” (1841/1842) e che, oggi, la tradizione critica (ricordando Walter Benjamin) è del tutto immersa nella palude hegeliana della “dialettica” della liberazione (1969), forse, non è meglio - dopo l’epocale “crollo del muro di Berlino” (1989) - interrogarsi ancora e di nuovo su “Chi siamo noi in realtà?” (come voleva Nietzsche) e “SALPARE L’ÀNCORA” . O no?!
C) P. S. - PER NON PERDERE IL FILO DI “DEMOCRITO E EPICURO” E LA LEZIONE DELLA “CRITICA DELL’ECONOMIA” TEOLOGICO-POLITICA, riconsiderare quanto scrive MARX nel suo “romanzo” giovanile “Scorpione e felice”:
E, SULLA BASE DELLA SUA “ILLUMINAZIONE” (sul nodo del maggiorascato), RIPRENDERE E RIMEDITARE la lezione dei “Promessi Sposi”, OGGI. Forse, così, è possibile ricomprendere meglio anche i richiami di Marx, del MARX maturo, quello del “Capitale. Critica dell’economia politica”, a DANTE. O no?!
UNA QUESTIONE DI LOGOS (NON DI LOGO):
A)
"IL PROFETA GIUSEPPE" è L’ANELLO DI CONGIUNZIONE DEI "TRE" MONOTEISMI.
«Josephologie»: pochi anni fa (2007) è stato pubblicato un importante studio di #MassimoCampanini sul patriarca di Israele e sul profeta del Corano, forse, è opportuno ri-leggerlo. A quando la ri-considerazione e il riconoscimento da parte della hChiesacattolica dell’altro Giuseppe, quello del cristianesimo, che dà il nome "Gesù" a suo figlio?!
B) IL PROBLEMA DEI "TRE ANELLI" E L’ANELLO DELLE "RECINZIONI" (ENCLOSURES): L’AMORE EVANGELICO (CHARITAS, gr. #XAPITAS) E "IL DISAGIO DELLA CIVILTÀ" (S. #FREUD, 1929).
La "question" (Shakespeare, "Amleto"), nella sua semplicità, richiama la questione antropologica (della buona madre e del buon padre) e la questione teologica: "In principio era il Logos" (non il logo dell’alleanza edipica del furbo e della furba di turno).
C) "L’ESSENZA DEL CRISTIANESIMO", LA FILOLOGIA, E LA QUESTIONE ANTROPOLOGICA ("ECCE HOMO"), OGGI:
RESTITUIRE A SAN GIUSEPPE ONORE E GLORIA. UNA INDICAZIONE E UNA EREDITÀ DI #TERESADAVILA:
D) Ricordando che l’interpretazione del messaggio evangelico di Teresa d’Avila è connessa alle "Meditazioni sul Cantico dei cantici" (e non all’androcentrismo della lettura paolina), ed è molto prossima a quella di Michelangelo #Buonarroti e al suo "Tondo Doni" e al suo "Mosè", forse, è bene ed è tempo di riproblematizzare la questione antropologica ("Ecce #Homo", non "Ecce #Vir") e portarsi oltre la cosmoteandria del cattolicesimo costantiniano (Nicea 325 - 2025). Uscire dall’inferno epistemologico. Se non ora, quando?!
E) B) STORIA STORIOGRAFIA ED ECUMENISMO: L’EUROPA E COSTANTINOPOLI. Riprendendo il filo dalla #Dotta Ignoranza (Niccolò Cusano, 1440), la "Donazione di Costantino" (Lorenzo Valla, 1440), e dall’assedio e caduta di Costantinopoli (1453) e il fallimento della proposta "cristologica" del "De pace fidei" (N. Cusano, "La pace della fede", 1453), non è forse tempo di correre ai ripari, di ristrutturare il campo e riequilibrare la bilancia antropologica?!
Morto il filosofo Fulvio Papi, aveva 92 anni. Poco tempo fa aveva chiesto la tessera Anpi: "Il tempo è troppo breve"
a cura della redazione Milano (la Repubblica, 21.11.2022)
Per 35 anni ha insegnato Filosofia teoretica all’università di Pavia, presidente onorario della Casa della Cultura di Milano. Con Vegetti e Fabietti aveva curato i manuali di filosofia per i licei molto diffusi negli anni ’70 e ’80
Il filosofo Fulvio Papi, professore emerito di Filosofia teoretica all’Università di Pavia, dove ha insegnato dal 1965 al pensionamento, è morto nella sua casa di Milano all’età di 92 anni. Papi ha interpretato i classici della filosofia (Bruno, Kant, Hegel, Marx) e ha percorso le linee essenziali della filosofia contemporanea, elaborando negli ultimi trent’anni un disegno interno al ’fare filosofico’ come scrittura che configura "spazi di mondo e orizzonti di senso". Con Mario Vegetti, Franco Alessio e Renato Fabietti, Papi ha curato, per l’editore Zanichelli, il manuale di filosofia per i licei, in tre volumi, "Filosofie e società", assai diffuso negli anni ’70 e ’80.
Nato a Trieste il 16 agosto 1930, Papi si laureò in filosofia all’Università Statale di Milano con Antonio Banfi. Dal 1951, data della sua fondazione, seguì la rivista fondata dal filosofo Enzo Paci, "Aut-Aut". Dal 1952 lavorò come redattore al giornale socialista "Avanti!", prima per la pagina culturale, poi per la politica estera, infine nel 1963-4 come vice-direttore del giornale con la direzione politica di Riccardo Lombardi. Papi contribuì all’elaborazione teorica dell’autonomia socialista con la concezione delle grandi riforme sociali per via democratica e parlamentare (le riforme ’’’rivoluzionariè) propria della linea politica di Riccardo Lombardi. Fallita politicamente questa prospettica, Papi tornò interamente agli studi filosofici e al lavoro universitario. Dopo cinque anni di assistentato all’Università Statale di Milano, ha insegnato per 35 anni Filosofia teoretica all’Università di Pavia.
Tra i suoi libri figurano: "Il pensiero di Antonio Banfi" (Parenti, 1961); "Antropologia e civiltà nel pensiero di Giordano Bruno" (La Nuova Italia, 1968); "Cosmologia e civiltà. Due momenti del Kant precritico" (Argalia Editore, 1969); "Capire la filosofia" (Ibis, 1993); "Il sogno filosofico della storia. Interpretazioni sull’opera di Marx" (Guerini e Associati 1994); "La passione della realtà. Saggio sul fare filosofico" (Guerini e Associati, 1998); "Racconti della ragione. Saggi filosofici sul pensiero e la vita" (Thélema Edizioni, 1998); "Lezioni sulla Scienza della logica di Hegel" (Ghibli, 2000); "Giordano Bruno. La costruzione delle verità" (Mimesis, 2010). Presidente del Comitato scientifico della Fondazione Corrente, Papi è stato vicepresidente e poi presidente onorario della Casa della cultura di Milano e dirigeva la rivista filosofica "Oltrecorrente".
Ancora a maggio Papi, che è stato anche insignito dell’Ambrogino d’oro come cittadino benemerito della città di Milano, aveva partecipato all’inaugurazione dei giardini dedicati a Renato Boeri davanti al Politecnico. A ricordarlo c’è anche Roberto Cenati, presidente dell’Anpi provinciale: "La notizia mi ha profondamente addolorato. Con Fulvio perdiamo un protagonista della vita culturale del nostro Paese, un riferimento indispensabile per tutti noi. Un paio di anni fa Fulvio ha chiesto l’iscrizione all’Anpi con una lettera che conserverò sempre tra i miei documenti più preziosi.
Nella lettera, avente come oggetto "Domanda di iscrizione all’Anpi", Fulvio scrive: "Nel periodo 1942-45 ero studente presso il collegio Rosmini di Stresa, appartenevo a una famiglia di tradizione antifascista, politicamente socialista. Ho fiancheggiato idealmente (data l’età) la formazione partigiana 7a Brigata Stefanoni che dal marzo 1944 si andava costituendo nella zona tra Signese e il Mottarone. Il suo ultimo comandante fu lo studente di Medicina Renato Boeri, poi celebre neurologo, che dal dopoguerra divenne un amico carissimo che ho seguito sino all’ultimo giorno e commemorato come direttore dell’Istituto Besta. Divenni anche amico fraterno di Aldo Aniasi, allora comandante Iso. Iso, con grande generosità, mi associava alle riunioni partigiane che un tempo si tenevano in occasione del premio Omegna."
La lettera si conclude così: "Una comprensibile ragione di pudore - dato che Fulvio, giovanissimo, non aveva partecipato alla Resistenza - mi consigliava di non chiedere l’iscrizione all’Anpi. Ma ora il tempo è troppo breve." Non avevo perso un minuto di tempo, dopo avere ricevuto la lettera di Papi. Mi ero subito precipitato nella sua abitazione e da allora sono iniziati, in modo costante, colloqui e incontri, per me estremamente importanti e formativi. Ho incontrato Fulvio il 22 luglio scorso. In quell’occasione Fulvio mi ha raccontato degli anni dell’occupazione nazifascista a Stresa e di avere avuto più paura delle Brigate nere fasciste che degli stessi tedeschi. Ci eravamo sentiti qualche giorno fa. In quell’occasione Fulvio mi aveva espresso, come sempre, con grande lucidità e chiarezza, le sue preoccupazioni per l’escalation del conflitto in Ucraina e per il minacciato ricorso all’uso di armi nucleari, che segnerebbero la distruzione della vita sul nostro pianeta. Ai familiari esprimo anche a nome dell’Anpi Provinciale di Milano commossa e affettuosa vicinanza".
CULTURA
Fulvio Papi, l’ultima voce della «scuola di Milano»
ADDII. La scomparsa del filosofo che insegnò per 35 anni all’ateneo di Pavia, scrivendo volumi su Giordano Bruno, Kant, Hegel e Marx
di Fabio Minazzi (il manifesto, 24.11.2022)
A novantadue anni si è spento domenica un importante filosofo come Fulvio Papi. Nato a Trieste nel 1930, ha sempre vissuto a Milano, dove si è laureato in Statale con Antonio Banfi (1886-1957), di cui è diventato assistente, mentre ha iniziato a lavorare al quotidiano socialista Avanti!, prima per la pagina culturale, poi per la politica estera e, infine, come vice-direttore, collaborando con Riccardo Lombardi (1901-1984). In questa veste, allo scoppio dei «fatti d’Ungheria» (1956), pubblicò, in prima pagina sull’Avanti!, un coraggioso corsivo, in cui difendeva apertamente gli studenti e gli operai insorti, mentre l’Unità, diretta da Pietro Ingrao inneggiava ai carri armati sovietici.
LA SUA FORMAZIONE ha trovato una straordinaria realizzazione nella monografia Il pensiero di Antonio Banfi (1961), con cui il pensiero del filosofo milanese è inserito, in modo coerente e rigoroso, nel contesto internazionale, illustrando le differenti movenze del razionalismo critico. Questo imprinting riemerge nell’Antropologia e civiltà di Giordano Bruno (1968, poi 2006) che costituisce, ancor oggi, un punto di riferimento per gli studi bruniani perché la filosofia del nolano è declinata alla luce dei grandi temi della modernità.
LASCIANDO IL LAVORO giornalistico, Papi diventa docente di Filosofia teoretica nell’ateneo di Pavia, dove insegna per 35 anni, dando vita a una regolare e originale attività di studio e ricerca, documentata dai suoi numerosissimi volumi. Tra questi si segnalano gli studi sul Kant precritico (Cosmologia e civiltà, 1969), su Marx (Il sogno filosofico della storia, 1994 e il fondamentale Dalla parte di Marx, 2014, in cui delinea la genealogia critica della contemporaneità), su Hegel (2000), su Antonia Pozzi (2009 e 2013), sulla filosofia dell’arte (1992), sul fare filosofico (1998), sull’ontologia (2005), sul pensiero del nulla (2009), su Bruno (2010) e via dicendo.
INTRECCIANDO pensiero e memoria, Papi costruisce un suo originale stile che matura in Vita e filosofia (1990), in cui la «scuola di Milano» (Banfi, Cantoni, Paci e Preti) è studiata nelle sue movenze e nelle sue varie progettualità, volte a costruire una nuova teoresi in grado di riscattare l’Italia dalla cultura fascista. Fioriscono così indagini sui Racconti della ragione (1998), La memoria ostinata (2005), Banfi, dal pacifismo alla questione comunista (2007), la formazione in epoca fascista (Per andare dove, 2020 e Figli del tempo, 2021).
CON PAPI MUORE l’ultima grande voce della «scuola di Milano» che si intreccia con la cultura di questa città che già Gramsci, negli anni Venti, segnalava costituire il «problema Milano». A Milano esiste infatti una tradizione di ascendenza internazionale e illuminista che attesta la vocazione europea di questa metropoli nel momento stesso in cui pone alle forze della sinistra il compito di costruire una nuova cultura alternativa a quella che nutre il fascismo permanente della nostra tradizione.
CRITICA DEL SOGNO D’AMORE DELLA RAGION PURA E FILOLOGIA: A LEZIONE DA SHAKESPEARE.
SHAKESPEARE (E BEN JONSON): "EST MODUS IN REBUS" (Orazio, "Satire" I, 1, 106-107). Polonio comprende che nella "follia" di Amleto "c’è del metodo (Amleto, II,2), ma non conosce il modus, né la misura né la lingua dell’Arte poetica di Quinto Orazio Flacco.
"BEN SCAVATO VECCHIA TALPA!" (MARX, 1852): "Ma la rivoluzione va fino al fondo delle cose. Sta ancora attraversando il purgatorio. Lavora con metodo [...] La tradizione storica ha fatto sorgere nei contadini francesi la credenza miracolistica che un uomo chiamato Napoleone renderà loro tutto il loro splendore. E si è trovato un individuo il quale, dato che porta il nome di Napoleone, ha potuto spacciarsi per quest’uomo, conformemente al codice #Napoleone, il quale stabilisce: "La recherche de la paternité est interdite".
Dopo un vagabondaggio di venti anni e una serie di avventure grottesche, la leggenda diventa realtà e l’uomo diventa imperatore dei francesi. L’idea fissa del nipote si è realizzata, perché essa coincideva con l’idea fissa della classe più numerosa della popolazione francese -[...] Intendiamoci. La dinastia dei Bonaparte non rappresenta il contadino rivoluzionario, ma il contadino conservatore; non il contadino che vuole liberarsi dalle sue condizioni di esistenza sociale, dal suo piccolo appezzamento di terreno, ma quello che vuole consolidarli; non quella parte della popolazione delle campagne che vuole rovesciare la vecchia società con la sua propria energia, d’accordo con le città, ma quella che invece, ciecamente confinata in questo vecchio ordinamento, vuole essere salvata e ricevere una posizione privilegiata, insieme col suo piccolo pezzo di terreno, dal fantasma dell’Impero. Essa non rappresenta la cultura progressiva, ma la superstizione del contadino, non il suo giudizio, ma il suo pregiudizio, non il suo avvenire, ma il suo passato, non le sue moderne Cévennes, ma la sua moderna Vandea (Karl Marx, "Il 18 Brumaio di Luigi Napoleone".
PUCK - ROBIN GOODFELLOW ("Sogno di una notte di mezza estate", II) E MARX (1856): "[...] Da parte nostra non disconosciamo lo spirito malizioso che si manifesta in tutte queste contraddizioni. Nei segni che confondono la borghesia e i meschini profeti del regresso riconosciamo la mano del nostro valente amico, Robin Goodfellow, la vecchia talpa che scava tanto rapidamente, il grande minatore: la rivoluzione. La storia è il giudice e il proletariato il suo esecutore." (K. Marx, discorso per l’anniversario del People’s paper, aprile 1856).
***
AMLETO, I. 1: *
"Bernardo. Ecco, la scorsa notte,
quando la stella a occidente del polo
aveva ormai compiuto il suo percorso
in quella parte del cielo ove brilla,
la campana batteva il primo tocco,
Marcello ed io...
Compare lo Spettro
Marcello. Silenzio! Eccolo, torna!
Bernardo. È lui! È proprio lui!... Il re defunto!
Marcello. Parlagli, Orazio, tu che sai il latino.
Bernardo (A Orazio).
Guardalo bene: non è tutto il re?
Orazio. Spiccicato!... Mi sento raggelare...
di stupore... paura... non lo so.
Bernardo. Forse vorrebbe che alcuno gli parli.
Marcello. Parlagli, Orazio, su, parlagli tu!"
[...]
AMLETO, I. 5:
Entra lo Spettro
Orazio. Oh, guardate, signore, eccolo, viene!
Amleto. O angeli e ministri della grazia,
difendeteci voi!...
[...]
Parla. Che cosa vuoi che noi facciamo?
(Lo spettro fa cenno ad Amleto di avvicinarsi a lui)
Orazio. Ecco, vi accenna d’andar con lui,
come a volervi parlare da solo.
Marcello E guardate con che amorevol gesto
v’invita ad appartarvi insieme a lui!
Ma non ci andate.
Orazio. No, assolutamente.
Amleto. Perché? Che cosa c’è da aver paura?
Io, di questa mia vita materiale,
non faccio maggior conto d’uno spillo,
e quanto alla mia anima,
che male mai può farle,
s’è come lui immortale?... Mi fa cenno.
Io vado.
[...]
AMLETO, I, 5:
Amleto. Mai parlare di quel che avete visto.
Sulla mia spada giurate.
La voce dello Spettro (Da dentro)
Giurate!
[...]
La voce dello Spettro
Sulla spada!
Amleto. Ben detto vecchia talpa!
Ma come fai a scavarti la terra
così veloce?... Un minatore in gamba.
Via, signori, spostiamoci di nuovo.
Orazio. Oh, giorno e notte insieme,
quale straniera meraviglia è questa!
Amleto. E come tale dalle il benvenuto!
Ci son più cose in cielo e in terra, Orazio,
che non sogni la tua filosofia.
Ma sentite: qui, come mai innanzi,
voi due - così vi possa assistere la #Grazia! -
per quanto stravagante e stralunato
possa apparirvi il mio comportamento
(e m’accadrà di stimare opportuno
di darmi un’aria stralunata e sfatta),
non dovete far mostra, innanzi ad altri,
di saperne di più di quel mio stato
[...]
AMLETO, V, 2:
Orazio (Indicando il corpo del re)
[...]
E lasciate ch’io dica al mondo ignaro
come sono accaduti questi eventi.
Potrete così udire
di carnali rapporti, e sanguinose
e innaturali azioni, e d’assassinii
casuali, e decisioni occasionali
di morti provocate o da perfidia
o da forza maggiore, e, in questo epilogo,
di tranelli falliti e ricaduti
sulla testa di chi li aveva orditi.
Su tutto posso dir la verità.
Fortebraccio. E noi ci accingeremo ad ascoltarla,
qui, tutti insieme, coi nostri maggiori.
In quanto a me, abbraccio la mia sorte,
col dolore nel cuore;
ho dei diritti, mai dimenticati,
su questo trono, che l’ora presente
mi esorta a far valere.
Orazio. Anche di questo vi dovrò parlare,
ed a nome di chi, con il suo voto,
molti altri ne trarrà alla vostra parte.
Ma si proceda subito al da farsi,
mentre gli animi sono ancora scossi,
così che altri intrighi ed altri errori
non abbiano a recarci altre sventure.
*Fonte: Liber Liber.
SPINOZA, UN FIGLIO DEL "DEUS", NON UN FIGLIO DEL "LUPUS", (A FIANCO DI KANT, NON DI HEGEL). *
Questioni teoretiche
Cantiere Spinoza
di Maurizio Morini (Ritiri Filosofici, 16 Gennaio 2022)
Così come per qualsiasi altra occupazione, anche in filosofia sono necessari strumenti adeguati per fare bene il proprio lavoro, tali soprattutto da superare le difficoltà che presto o tardi sempre si dovranno affrontare. In questo senso uno dei suoi strumenti principali è il concetto di definizione, stabilire il quale non è neutrale ed implica delle conseguenze decisive. Chi delle definizioni ha fatto l’essenza del proprio filosofare è stato Spinoza il quale ha costruito l’intero suo edificio proprio grazie al metodo geometrico. Molti però, tra gli stessi filosofi, ne hanno dichiarato l’inutilità o addirittura l’artificiosità. Adorno nelle sue lezioni confessava che, di fronte alle definizioni del filosofo olandese, si trovava «del tutto disorientato, come la mucca di fronte alla porta nuova». Il filosofo della Dialettica dell’Illuminismo finiva poi per dichiarare che in filosofia ci sono dei concetti che non sono passibili di definizione con la conseguenza che la sua ricerca era inutile. Adorno si rifaceva esplicitamente a Kant il quale aveva sostenuto a sua volta una ben precisa critica della definizione così come utilizzata in filosofia. Solo al termine delle sue lezioni, guardando ai risultati della filosofia contemporanea, Adorno (in maniera onesta) sembra spezzare una lancia a favore della definizione e addirittura ritirare la propria tesi.
La definizione in Aristotele e in Kant
Da un punto di vista etimologico, la parola definizione è composta dalla preposizione de e dal nome finis: discorso sul limite. La definizione quindi indica i confini entro i quali è racchiusa l’essenza o il concetto di qualche cosa. Essa pertanto deve cogliere gli aspetti comuni o differenziali di una certa cosa: in altre parole, la definizione si intende secondo il genere e la differenza specifica. Questa impostazione risale ad Aristotele il quale affermava che c’è definizione solo quando il termine significa qualcosa di primario, ovvero quando si parla di cose che non possono essere predicate di altre. Il genere è il primo elemento della definizione (dove per genere si intende il complesso di caratteri di un certo tipo riuniti sotto un certo nome); la differenza specifica invece, ciò invece che caratterizza la cosa che si intende definire rispetto a tutte le altre.
Kant, nella Dottrina trascendentale del metodo, assume un’altra prospettiva, per comprendere la quale è necessario distinguere due usi della ragione: il primo riguarda l’uso della ragione in base a concetti; il secondo l’uso della ragione in base alla costruzione di concetti. Al primo uso viene dato il nome di filosofia; al secondo il nome di matematica. In quest’ultima i concetti sono già determinati a priori dall’intuizione pura, senza che via sia necessario alcun dato empirico; la filosofia invece non può prescindere dall’esperienza in quanto essa sta a fondamento dei concetti. Posto ciò, Kant conclude che la fondatezza della matematica poggia su definizioni, assiomi e dimostrazioni, nei confronti dei quali la filosofia deve fare a meno («come il geometra, usando il suo metodo nella filosofia, non può costruire che castelli in aria, così il filosofo, applicando il proprio nella matematica, non dia luogo che a chiacchiere»). Kant sostiene che in filosofia la definizione non può essere utilizzata proprio perché i concetti empirici, più che essere definiti, andrebbero resi espliciti, chiariti, dichiarati (tutti termini che in tedesco fanno riferimento al termine Aufkärung). Sono fuori strada quindi tutti coloro che utilizzano termini come sostanza, causa, diritto: in altre parole una vera e propria stroncatura della filosofia di Spinoza.
La definizione in Spinoza
Cosa diceva Spinoza in merito? «Se si deve conoscere una cosa attraverso la definizione costituita da genere e differenza - scrive nel Breve Trattato - non possiamo mai perfettamente conoscere il genere supremo, che non ha alcun genere sopra di sé» (KV, I, 9). Piuttosto, bisogna seguire la vera logica, ovvero la divisione della natura in natura naturans e natura naturata.
Ma è in una corrispondenza epistolare, quella intrattenuta con un giovane mercante di Amsterdam, Simone De Vries, che Spinoza chiarisce meglio il suo pensiero. Chiesto su che cosa dovesse intendersi per definizione, egli rispondeva che bisogna distinguere la definizione della cosa in senso reale, in quanto fuori dall’intelletto, e la definizione della cosa in quanto è concepita in senso nominale. Alla prima si chiede di essere vera in quanto ha un oggetto determinato; la seconda si propone invece al solo scopo di ricerca. In altre parole: il primo genere di definizione deve essere necessariamente vero in quanto, se io ad esempio voglio definire l’essenza del tempio di Salomone, devo stabilire una descrizione esatta della cosa (altrimenti si ha una cattiva definizione). Il secondo tipo di definizione implica invece che si esplichi la sua progettualità, non importa che essa sia vera o no: in questo caso la definizione o si concepisce oppure non si concepisce. Chiariamo con un esempio: un conto che io debba definire l’orologio a parete che ho di fronte a me; un’altra è che io debba definire un orologio a parete che devo ancora costruire, in cui ciò che importa è che la sua costruzione non sia autocontraddittoria, tale cioè da renderlo inservibile allo scopo.
Il problema, insiste Spinoza, consiste nel fatto che la definizione tradizionale (quella aristotelica, che distingue genere e differenza specifica) riposa essenzialmente sull’esperienza, la quale però «non ci dà alcuna essenza delle cose», sicché noi dell’esperienza non abbiamo mai bisogno per la definizione. Infatti - si potrebbe dire - come si potrebbe definire una cosa soggetta al continuo divenire? Lo potremmo fare solo fingendo, per esigenze legate a questioni pratiche, come quello di intendersi su ciò di cui si sta discutendo. La prospettiva dunque sembra avvicinarsi a quella kantiana per poi però allontanarsi in modo radicale: se il tedesco sosteneva che l’esperienza è l’unico campo della filosofia (e per questo rinunciava alla definizione), l’olandese sosteneva che, proprio perchè l’esperienza non era l’unico campo della filosofia, la definizione era essenziale.
Un sistema aperto non una cattedrale di ghiaccio
Se il dialogo tra Spinoza e il suo giovane amico non può essere considerato un dialogo tra sordi, non si può non riconoscere però che i due parlano linguaggi diversi. Da esso si ricavano alcune impressioni (vedi le lettere 8, 9 e 10 dell’epistolario), soprattutto in merito all’oggetto della loro discussione, cioè le proposizioni dell’Etica.
La prima è che l’intero dialogo sulla definizione (tema piuttosto acceso nel circolo spinoziano, come ammette De Vries) è fondato sull’intelletto come strumento per accedere alla verità: cosa che oggi è talmente lontana dalla nostra sensibilità filosofica che facciamo difficoltà a seguirlo e a comprenderlo pienamente.
La seconda impressione è che, contro la retorica del “cristallo” e della “cattedrale di ghiaccio”, il sistema di Spinoza (riassunto nell’Etica) si rivela essere un cantiere aperto in cui, oltre alla scelta dei materiali, rimane determinante la capacità di costruire dei costruttori.
Questo conduce ad una terza domanda (da cui nasce l’impressione): le definizioni dell’Etica sono definizioni reali oppure definizioni nominali? Qui l’impressione è che Spinoza mescoli le carte, alternando le une alle altre senza un indice preordinato e dove la risposta sembra lasciata all’intelligenza del lettore, il quale è invitato a prendere parte alla costruzione. Diceva Wolfson che «l’Etica non è una comunicazione al mondo; è la comunicazione di Spinoza con se stesso». Questo non significa che le sue definizioni siano lasciate al relativismo delle interpretazioni o peggio al solipsismo. Tutt’altro: ciò significa che ogni definizione impegna il lettore nella forza del ragionamento, perché solo questo può mostrare la verità o la falsità di un asserto. Nel Trattato sull’emendazione dell’intelletto Spinoza scrive: «ho dimostrato e ancora tendo a dimostrare il buon ragionamento, ragionando bene».
CANTIERE SPINOZA. ETICA, MATEMATICA, E CRITICA DELLA DIALETTICA...
Se è vero, come è vero, che l’Etica di Spinoza è “un sistema aperto non una cattedrale di ghiaccio” e che è necessario sciogliere l’enigma se “le definizioni dell’Etica sono definizioni reali oppure definizioni nominali” (M. Morini, "Cantiere Spinoza", Ritiri Filosofici, 16.01.2022), non si può ricadere nella stesso passo falso dell’analisi del “Discorso del Re” (M. Morini), e portare l’acqua al mulino non di “Amleto” (Shakespeare), ma a quello di Hobbes!
Una interpretazioni riduttiva della “Critica della Ragion pura” e della concezione kantiana della “definizione”, dalla sez. della “Dottrina trascendentale del metodo”, riconduce direttamente e di nuovo il discorso sotto il “principio di Hobbes” (e nell’orizzonte di Hegel e di T. W. Adorno), nell’orizzonte del “Leviatano” (e, al contempo, della dialettica di Hegel e della “dialettica dell’illuminismo” di Adorno), “secondo cui le azioni del sovrano non possono mai essere accusate di ingiustizia dai sudditi e il sovrano non può né essere messo a morte né essere punito dai suoi sudditi” (M. Morini, “ [1]”, Ritiri Filosofici, 02.01.2022).
“HOMO HOMINI LUPUS EST”?! Pur condividendo l’impressione “che Spinoza mescoli le carte, alternando le une alle altre senza un indice preordinato e dove la risposta sembra lasciata all’intelligenza del lettore, il quale è invitato a prendere parte alla costruzione” (M. Morini, cit.), è assolutamente non condisibile una conclusione dell’analisi accogliendo la dichiarazione del “Figlio del Lupo” (“Wolf-son”) e dire davvero con Wolfson che «l’Etica non è una comunicazione al mondo; è la comunicazione di Spinoza con se stesso»! E’ posssibile asservire la “filosofia” (nel senso di Kant) di Spinoza al calcolo e alla matematica di Platone, di Cartesio, di Hobbes, ed Hegel, e dire che questo “significa che ogni definizione impegna il lettore nella forza del ragionamento, perché solo questo può mostrare la verità o la falsità di un asserto” (M. Morini, cit.)?!
Non è il caso di riprendere il discorso dalla figura del “capo”, dal “discorso del re”, e rimeditare la “filosofia” e la “matematica” di Kant?! Se no, come è possibile distinguere tra “essere e non essere”, definire, ragionare e, al contempo, decidere sul “che fare?”, qui ed ora?! Non è meglio uscire dall’inferno della “fenomenologia dello spirito” di Hegel e, con Dante e Virgilio, uscire dalla caverna (Inf. XXXIV, v. 90) e ammirare il “cielo stellato” di Koenigsberg?
Augusto figlio di dio
Appiano di Alessandria avrebbe potuto essere uno dei tanti cittadini dell’Impero romano dimenticati od anche mai conosciuti dai posteri. Se non fosse che, nel corso della sua vita di...
di Marco Sferini (La Sinistra quotidiana, 22 Settembre 2021)
Appiano di Alessandria avrebbe potuto essere uno dei tanti cittadini dell’Impero romano dimenticati od anche mai conosciuti dai posteri. Se non fosse che, nel corso della sua vita di uomo di legge e di procuratore, si interessò di storia - per così dire - “moderna” o “contemporanea“, se lo si vive calato esclusivamente nel suo tempo, astraendosi dal proprio presente. Questa sua passione la mise tutta nella redazione di una narrazione accurata delle Guerre civili: da Mario e Silla fino all’instaurazione del Principato.
In realtà, la sua monumentale opera, ben 24 libri, è arrivata fino a noi più che dimezzata: della “Ῥωμαικά” (“Rhomanikà“) rimangono solo 11 volumi, ma sono sufficienti per riuscire a ritrovare tutta una lunga serie di collegamenti con altri autori e con episodi della storia imperiale dell’Urbe.
Sappiamo che Karl Marx se ne interessò e che, molto probabilmente, soprattutto grazie alla lettura dei testi di Appiano imparò ad apprezzare oltre ogni modo la figura di Spartaco come “der famoseste Kerl“: tradotto dal tedesco, questo giudizio sul generale degli schiavi risulta essere “il tipo più in gamba“. Meglio di Garibaldi, si spinge il Moro nella comparazione con l’attualità che osserva in Europa e nell’Italia dei moti risorgimentali.
Appiano, come bene scrive Luciano Canfora nel suo “Augusto figlio di dio” (Editori Laterza, prima ed. 2015), è uno storico dilettante, ma tremendamente bravo e soprattutto ha accesso ad una vastità di fonti e di informazioni che, ancora oggi, rimangono un enigma per come siano state trovate, scoperte e utilizzate dall’alessandrino. Sembra essere, se non l’unico, almeno uno dei pochi cronachisti dell’antichità a conoscere situazioni così intime, segrete e particolari della corte augustea da mettere in discussione quel poco che sappiamo della sua vita.
La sorpresa di Marx davanti alla bravura di Appiano è nulla in confronto alle tinte di giallo che contornano questo avvocato dei tempi di Traiano, Adriano e Antonino Pio nel momento in cui si accinge a diventare uno scrittore, uno storico e lo fa con a disposizione dettagliatissimi resoconti della vita tanto privata quanto pubblica di Giulio Cesare ma, soprattutto, di Augusto.
L’opera di Canfora sul Princeps, sul rifondatore della Res publica, sul primo imperatore di Roma, è barocca, ricca di pieghe del tempo, di sovrapposizioni e intersezioni tra i personaggi di un passato che si rilegge nel tempo moderno ottocentesco, mentre prende corpo il marxismo, così come nel primo novecento mentre avanza lo spartachismo germanico. Sono pagine di meticolosa disamina della vita di Ottaviano, pur intervallate da viaggi nella quarta dimensione, accanto ad un Virgilio dantescamente ritrovato, seppure un bel po’ di anni dopo la sua morte, che però è - come scrive Marx ad Engels - «un egiziano tutto d’un pezzo».
Chi si dispone alla lettura dell’Augusto di Canfora, sappia fin dall’inizio che non è un libro semplice: necessita una certa conoscenza della romanità, tanto sul piano storico quanto su quello politico. Necessita pure una conoscenza, quanto meno di base, della letteratura latina, di autori come Seneca, Cicerone, Tacito ed anche il più leggero mondo svetoniano dei Cesari.
Non è una biografia né di Augusto e né di Appiano. Paradossalmente, però, riesce ad essere un grande affresco dinamicamente tinteggiato da tante sfumature di un mondo in continua evoluzione, che si riconosce proprio dall’atto fondativo prodotto dalle Guerre civili, dalla dittatura cesariana e dalla pax inaugurata da un Augusto scaltro, cui Appiano riconosce tutti i meriti del grande politico, camaleontico, capace di interpretare simultaneamente il difensore del Senato e della tradizione repubblicana della Roma che aveva cacciato i re ed essere il nuovo sovrano di un impero che viene rinnovato, completamente ristrutturato nella sua amministrazione ed anche nella preservazione della memoria, del sapere, dell’arte e delle lettere.
Augusto, ce lo dice Marco Antonio, ma lo sottolinea pure Canfora, deve un po’ tutto al suo nome: non a quello di nascita (Gaio Ottavio), bensì a quello del suo padre adottivo, il Divus Julius. Ottaviano ne è consapevole e fa di tutto per attribuirselo in ogni occasione, per farsi riconoscere dai Padri coscritti come l’erede di una volontà politica che difende la repubblica dai tentativi di restaurazione oligarchica dei cesaricidi.
In realtà, Luciano Canfora svela tante ambiguità di una storia romana che Appiano tuttavia non cela, non mistifica, non celebra inversamente, revisionisticamente, con quella accondiscendente sudditanza verso il potere, con una piaggeria che ci si aspetterebbe da uno scrittore che, per giunta, è un procuratore imperiale (anche se alcuni storici ritengono che questa carica gli venne assegnata più come titolo onorifico che come investitura vera e propria con pieni poteri).
“Augusto figlio di dio” è molto più di un libro sul primo imperatore di Roma: è un vero e proprio lavoro di ricerca storica, politica, sociale e morale tradotto in una biografia che ha il gusto piacevole del romanzo giallo, la fascinazione del prosa descrittiva di un passato mostrato con le tante similitudini del e nel nostro presente (in particolare, queste fanno riferimento alle caratteristiche più propriamente umane nelle declinazioni politiche, intellettuali e militari). Non ultimo, possiede il disincanto da una esposizione cattedratica che l’autore a volte è tentato di offrire a tutti i lettori nel proporre l’intersezione di tante difficili argomentazioni, ma che riesce sempre a coniugare con la cosciente pragmaticità della fruizione dell’opera da parte di un vasto pubblico dalle conoscenze più varie.
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
COSTANTINO, SANT’ELENA, E NAPOLEONE. L’immaginario del cattolicesimo romano.
STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINQUE SECOLI” DI LETARGO...
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA.
FLS
RECENSIONI
Luciano Canfora, Augusto figlio di Dio
di LIVIA RIGA *
Augusto, non occorre dirlo, è il personaggio chiave della politica romana antica e quindi anche della nostra storia. Più diplomatico che militare, dimostrò abilità di stratega che gli permisero di cogliere al volo l’occasione creatasi al seguito degli avvenimenti del 44 a.C., ponendosi come restitutor rei publicae relativamente alla pace e all’ordine per la città e, al contempo, come unica alternativa al precipitare degli eventi. Cavalcando l’onda emotiva dell’uccisione di Cesare, Ottaviano si insinua nella politica romana e in un’abile manovra ne diventa il cuore, pur senza abolire le massime cariche dello Stato.
In questo libro - che vede la luce a conclusione delle celebrazioni del secondo Bimillenario Augusteo durante le quali in tutt’Italia si sono succedute iniziative, aperture straordinarie e nuovi allestimenti - Luciano Canfora propone una lettura della politica augustea che, attraverso la storiografia antica e moderna, rivela l’attualità e la genialità programmatica di questo princeps in re publica.
Il primo passo di Ottaviano per insinuarsi nelle dinamiche politiche di Roma è la divinizzazione dello zio Cesare (padre adottivo). In questo venne aiutato da un evento prodigioso occorso nel luglio del 44 a.C. quando nei cieli di Roma apparve una cometa che rimase visibile per sette giorni; questo fenomeno fu interpretato dal popolo come manifestazione dell’anima di Cesare accolta tra gli dei immortali e determinò la decisione del senato di onorarlo come un dio, rendendo Ottaviano di fatto Divi filius.
Che questa divinizzazione sia un passaggio obbligato per l’ascesa politica di Ottaviano appare evidente - sebbene l’autore scelga di non soffermarsi su questo aspetto - anche da alcune opere edilizie intraprese negli ultimi anni del primo secolo a.C. Sul luogo ove il corpo di Cesare rimase esposto subito dopo l’assassinio, Ottaviano costruì un tempio dedicato al Divo Giulio a perenne ricordo di quell’azione ignominiosa che cambiò le sorti della storia romana (e che ancora oggi viene onorata da qualche nostalgico che vi porta dei fiori; cfr. F. Coarelli, Roma, Laterza, Roma-Bari 2008, pp. 90-92); dedicò il tempio nel suo Foro a Marte Ultore, cioè il Vendicatore dei Cesaricidi, e alla statua del dio titolare e di Venere affiancò quella di Cesare divinizzato (cfr. F. Coarelli, op. cit., pp. 133- 134); inoltre nel Pantheon di Agrippa Cesare è ormai assurto allo stesso rango delle divinità canoniche (e Augusto stesso era probabilmente collocato nel pronao, pronto a fare anche lui, alla sua morte, il suo ingresso nell’Olimpo; cfr. F. Coarelli, op. cit., pp. 380- 381). Questa divinizzazione del padre insomma non è che una più o meno velata esaltazione in vita di se stesso.
A ricordo di quegli anni cruciali Augusto scrisse i Commentarii de vita sua e le Res gestae; quest’ultime, pervenuteci integralmente, erano il sacralizzante riepilogo dei propri successi da trasmettere a tutti i sudditi, da scrivere sul marmo per l’impiego monumentale, ispirandosi alla tradizione delle epigrafi regie del mondo persiano, egizio faraonico e tolemaico. Al contrario i Commentarii erano un genere letterario più tipicamente romano, redatti come un diario delle imprese, senza alcuna velleità storiografica ma pensati come materiale cronachistico alla base di eventuali historiae. Questo prezioso testo fu la fonte di diversi storici, ma non è purtroppo giunto fino a noi.
In Augusto figlio di Dio l’autore intende dimostrare che Appiano, lo scrittore e funzionario imperiale vissuto all’epoca degli Antonini (tra il 95 e il 160 d.C. ca.), nella sua Storia di Roma (Ῥωμαικά), attinse fedelmente ai commentari di Augusto traducendone pagine intere in greco.
In effetti, questo saggio di Luciano Canfora è un notevole studio bibliografico su tutte le fonti storiche e manoscritte che mira a far emergere la figura di Appiano sotto una nuova luce. Sono esaminate tutte le critiche, raffrontati tutti gli storici, antichi e moderni, per mostrare l’influenza di questo straordinario storico sulla cultura occidentale fino ai nostri giorni.
È ad esempio dimostrato che Appiano fu la principale fonte di Shakespeare per le sue tragedie, in particolare per il discorso davanti al cadavere di Cesare in cui Antonio, da consumato demagogo, capovolge una situazione per lui molto difficile. E ancora, Canfora mette in risalto come l’esaltazione di Spartaco da parte di Appiano sia stata favorevolmente letta da Marx in termini ‘comunistici’, definendolo un «vero rappresentante dell’antico proletariato» (p. 30). Infatti, nella gestione del bottino (κατ’ἰσομοιρίαν), nell’utilizzo delle armi e delle competenze che i patroni gli avevano fornito solo per il loro tornaconto, Spartaco rappresenta per Marx un modello che il moderno proletariato dovrà seguire nell’ottenere la libertà e conquistare il potere.
Appiano, tuttavia, ha goduto di scarso credito in epoca moderna (tra Cinquecento e Settecento), se non addirittura di discredito, fino a essere definito «plagiario» (fucus alienorum laborum, p. 71) da studiosi dell’Ottocento, quali Schweighauser, Xylander, Perizonio, Scaligero ecc. Questa accusa gli deriva dall’atteggiamento compilativo nell’uso delle sue fonti; egli è infatti un grande ordinatore della storia romana, rispetto alla quale scompone le precedenti hystoriae e i commentarii, per darne una nuova prospettiva geografica e, in alcuni casi, focalizzata su monografie di grandi personaggi. Per esempio nei suoi libri sulle Guerre civili, Appiano consulta tutti gli storici che hanno trattato quel periodo, compreso tra l’età dei Gracchi e la battaglia di Azio, utilizzando la loro documentazione e adottando spesso persino le loro osservazioni.
Per esempio, nei primi libri la fonte è rappresentata soprattutto dalle Historiae ab initio bellorum civilium di Anneo Seneca padre, che a sua volta si ispira alle Historiae di Asinio Pollione. Negli anni che vanno dall’omicidio di Cesare alle guerre con Antonio il riferimento principale sono invece proprio i Commentarii de vita sua di Ottaviano che, secondo Canfora, Appiano riporta con precisione, passando dalle sintesi dell’epoca precedente a un dettagliato e dilungato commento di tipo diaristico dell’età augustea.
Ma pur trascrivendo la cronaca narrata da Ottaviano, Appiano interviene nella narrazione facendo le proprie osservazioni; per esempio stigmatizza la scelta di Ottaviano di farsi chiamare Augusto, Σεβαστός (colui che deve essere adorato), che equivaleva a una divinizzazione addirittura da vivo. Inoltre Augusto, che già con la divinizzazione del padre Cesare era divenuto ‘figlio di Dio’, ha il demerito per l’egiziano Appiano di aver conquistato il regno d’Egitto, «che era il più duraturo e il più potente del lascito di Alessandro» (p. 108; Appiano, Proemio II, 21). E ancora, nell’Introduzione generale alla Storia di Roma egli, parlando del suicidio di Antonio dopo Azio, conclude con queste parole: «con quest’ultima guerra civile anche l’Egitto passò sotto i Romani e Roma tornò a essere una monarchia» (p. 61; Appiano, Guerre civili, 14, 60).
Appiano adopera qui il termine «monarchia» perché rifiuta il gioco di Ottaviano, che si era proposto come il difensore della repubblica, ma riconosce comunque a questo ordinamento politico il merito della raggiunta concordia e un lungo periodo di pace. Appiano, pertanto, non è un semplice trascrittore, ma aggiunge suoi commenti e valutazioni etico-politiche in modo originale, integrando anche all’occorrenza i Commentarii con altri testi non ‘di parte’. È il caso del Libro Siriaco, in cui si rifà a un’altra γραφή, la Storia siriana di Timagene di Alessandria, il cui punto di vista pone al centro Alessandro e la grande storia della Macedonia in chiave antiromana e a favore dei Parti.
Il libro di Canfora affronta in seguito la lettura che viene data di Ottaviano Augusto anche da altri storici come Seneca, Plutarco e Svetonio. Vengono descritti i rapporti di Ottaviano con Cicerone, il quale prima sarà favorevole ai cesaricidi Bruto e Cassio, poi diventerà protettore e ‘sponsor’ nell’ascesa di Ottaviano contro Antonio e, infine, con la costituzione del triunvirato di Ottaviano, Antonio e Lepido, cadrà nelle liste di proscrizione e verrà ucciso. Ben presto però Ottaviano lo recupererà come ‘grande patriota’ e come vate precursore della soluzione del princeps in re publica per conciliare forza, consenso e legalità. Augusto vuole, in effetti, controllare la storia costituendo un archivio delle sole lettere di Cicerone che avrebbero potuto essere strumentali al suo potere (e distruggendo le altre che gli erano ostili), e cerca a tal fine una riappacificazione con il figlio ed erede dell’oratore, concedendogli di condividere con lui il consolato nell’anno 30 a.C.
Nel volume è, poi, oggetto di analisi il “controllo culturale” del princeps, soprattutto attraverso Mecenate, sui poeti del suo tempo e sulle loro opere: basti pensare ai Fasti di Ovidio, l’Eneide di Virgilio, l’opera storica di Livio o alla lirica civile di Orazio. Eppure, anche se buona parte della letteratura nel periodo di Augusto si impegnò a celebrare la pace augustea simboleggiata dalla costruzione dell’Ara Pacis e sebbene il Senato avesse dato ordine di chiudere il tempio di Giano, le verità fatte valere da Augusto vennero negate dagli storici successivi tra cui Tacito, Svetonio e Plinio. Per esempio Tacito pone dubbi sulla morte di Irzio e Pansa e la pax augustea diventa per lui una «pace cruenta», con la repressione delle congiure e con la sconfitta sul suolo germanico di Lollio e Varo.
Augusto, durante il suo principato, aveva fatto di tutto per mettere a tacere la storiografia contraria (su questo argomento cfr. M. Lentano, La memoria e il potere. Censura intellettuale e roghi di libri nella Roma antica, Liberilibri, Macerata 2012, recensito per Syzetesis da F. Verde, https://goo.gl/YAG3Pd), tanto che Seneca padre, nato nel 60 a.C. ca., aveva prudentemente affidato la sua opera Historiae ab initio bellorum civilium alla sola circolazione nell’ambito familiare, temendo che la rivendicazione della veritas in un tempo di sistematica manipolazione storica avrebbe potuto nuocere alla sua vita. A titolo esemplificativo nelle Historie Seneca padre aveva descritto la crudeltà delle guerre civili e in particolare aveva rinfacciato a Silla l’invenzione delle proscrizioni, vero meccanismo di violenza legalizzata da parte dello Stato, con l’obiettivo di eliminare una parte delle classi dirigenti. Queste proscrizioni, condannate anche da Cesare, vennero invece riprese durante il triunvirato da Ottaviano, il quale fu inizialmente contrario ma poi, secondo Svetonio, «una volta iniziate le condusse con maggiore durezza degli altri due» (p. 469; Svetonio, Vita di Augusto, 27).
La storiografia dunque sconfigge la vulgata augustea e Appiano, al culmine della sua carriera sotto Marco Aurelio, commenta la mattanza delle proscrizioni triunvirali evidenziando la crudeltà di Ottaviano nel rifiuto della sepoltura delle vittime.
Il testo di Canfora si conclude con un’interessante riflessione sulla parabola politica augustea e sul fatto che Augusto, per affermarsi, abbia eliminato tutti gli avversari e posto l’immagine di sé come erede del Divus Iulius. La strategia culturale del princeps mirava a esaltare la continuità di un organismo politico di cui lui stesso era divenuto un abile manipolatore attraverso la realizzazione di una nuova visione dell’impero.
In questo Canfora raffronta l’era di Augusto con l’epoca moderna, in particolare con la rivoluzione russa e la figura di Ottaviano con quella di Stalin che, dopo aver eliminato tutti i suoi possibili rivali e posto la mummia di Lenin nella piazza Rossa, si erge come successore della sua linea politica.
Per quanto riguarda il titolo, è evidente che l’autore voglia implicitamente richiamare la tematica cristiana della filiazione divina di Cristo e dell’unicità del Dio (che, infatti, viene designato con l’iniziale maiuscola all’interno di tutto il testo). Tali riferimenti però appaiono del tutto estranei allo sviluppo della trattazione nel volume e in generale alla religiosità romana nell’epoca in esame. Inoltre, il titolo Augusto figlio di Dio potrebbe indurre nel lettore un’aspettativa tematica che verrebbe in parte disattesa.
Contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, infatti, non è l’aspetto religioso dei culti nel periodo augusteo a essere l’oggetto privilegiato dell’esposizione di Canfora; a titolo di esempio, basti citare il fatto che l’autore sceglie di non soffermarsi sull’importante attività di rifondazione di alcuni culti antichi, portata avanti dal princeps subito dopo la battaglia di Azio.
Proprio perché il libro si configura come un’attenta analisi storiografica e filologica della vita di Ottaviano, forse sarebbe stato interessante mettere in risalto ciò che in quell’epoca fu fatto dagli eruditi su richiesta dello stesso Ottaviano per riportare in vita, in modo talvolta fantasioso, alcuni dei culti arcaici della città di Roma: uno studio antiquario e filologico (v. per esempio il caso dei Fratres arvales) atto a rafforzare l’immagine di Augusto come restitutor non solo dell’ordine politico ma anche dei doveri religiosi trascurati da almeno un secolo. (Sull’argomento si veda il nuovo allestimento del Chiostro Ludovisi inaugurato in occasione del Bimillenario Augusteo nel Museo Nazionale Romano delle Terme di Diocleziano; cfr. inoltre J. Scheid, Gli arvali e il sito ad Deam Diam, in R. Friggeri-M. Magnani Cianetti- C. Caruso, a cura di, Terme di Diocleziano. Il chiostro piccolo della Certosa di Santa Maria degli Angeli, Electa, Milano 2014, pp. 49-59).
I n conclusione, pur scegliendo di non trattare alcuni aspetti della politica edilizia e religiosa di Ottaviano, l’opera Augusto figlio di Dio giunge a un’interessante e condivisibile riflessione sulla modernità della parabola politica augustea e sulla paradigmatica strategia rivoluzionaria del protagonista. Il libro di Luciano Canfora presenta, quindi, un’interessante chiave di lettura di questo affascinante e cruciale periodo della storia umana.
* Fonte: Syzetesis, Anno III - 2016 (Nuova Serie) Fascicolo 2
La perdita dell’etica pubblica senza una fede laica nel bene comune
Sinistra. Scomparso l’antagonista storico del capitalismo, regrediti i ceti medi e la classe operaia avanzata, è emersa una nebulosa rancorosa, un magma sociale senza morale. Le classi superiori d’Italia sono le più ciniche di tutte le loro pari nelle altre nazioni. Il popolaccio italiano è il più cinico di tutti i popolacci». (Giacomo Leopardi)
di Piero Bevilacqua (il manifesto, 20.11.2021)
In un Paese nel quale due uomini come Silvio Berlusconi e Matteo Renzi son potuti assurgere al ruolo di presidenti del Consiglio, e il primo ambisce alla Presidenza della Repubblica, con ogni evidenza è accaduto qualcosa di grave nei fondamenti della sua vita civile. Quanto è avvenuto segnala un guasto profondo nell’etica pubblica, un decadimento di vasta portata della moralità collettiva.
Occorre ricordare che i processi di degrado dell’etica pubblica, in atto in Italia, ingigantiscono in virtù dei singolari caratteri originali del nostro Paese, un fenomeno di per sé universale: lo svuotamento ideale e il decadimento della politica quale arte moderna del governo delle società, pratica della sua trasformazione progressiva o rivoluzionaria. Si tratta di questioni note: il tracollo delle ideologie del ‘900, la dissoluzione dei partiti popolari e la loro riduzione a comitati elettorali, la corruzione dilagante, ecc. Questa analisi coglie però una parte della realtà.
La scomparsa dell’antagonista storico del capitalismo ( comunismo e in parte socialdemocrazia) ha favorito, insieme ai processi materiali della globalizzazione, la marginalizzazione dei ceti medi e della classe operaia avanzata, che avevano costituito per decenni la base più estesa di consenso e partecipazione pubblica nelle società industriali. Erano questi ceti che garantivano la moralità progressista della politica. La loro regressione sociale, anche per effetto della riduzione del welfare, ha allontanato masse estese dalla militanza politica, dalla partecipazione elettorale, da ogni interesse per la cosa pubblica.
Al loro posto è emersa una nebulosa indistinta di gruppi e individui priva di connotazioni politiche coerenti, che sostituisce rivendicazioni e prospettive di riforma dell’esistente con espressioni rancorose di risentimento, confuse pretese risarcitorie, ostilità contro l’”altro”. Mancando la direzione dell’intelletuale collettivo che erano i partiti, la scena pubblica viene occupata così da un magma sociale a cui politologi e commentatori, in mancanza di meglio, hanno dato il nome di popolo. Un lemma vecchio per una realtà del tutto inedita.
Se un dato distingue le società industriali questa è la loro ricchissima stratificazione sociale. Il popolo è un concetto dell’800 per l’800. Ma l’analisi politologica non ha ancora colto l’essenziale. Dietro la decadenza della politica si erge gigantesco un fantasma che rimane nascosto agli sguardi superficiali: il nichilismo. Quanto profetizzato da Nietzsche, la morte di Dio e la perdita di fondamenti di ogni morale, è ormai senso comune e investe la politica alle radici. Col dissolvimento della religione, la scomparsa, per lo meno in Occidente, delle fedi delle varie confessioni, veicolo pur sempre di valori morali, anche la politica tracolla.
Se la scienza politica, a partire da Machiavelli, fa a meno della religione, la politica corrente muore se nessuna “religione” la sostiene, neppure la fede laica nel bene comune e nella possibilità di cambiare il mondo. E non è senza significato che ad anticipare questi anni sia stato il nostro Leopardi, il quale diversi decenni prima di Nietzsche aveva intravisto «questa universale dissoluzione dei principi sociali, questo caos che veramente spaventa il cuor di un filosofo, e lo pone in grande forse circa il futuro destino delle società civili». Si rilegge oggi con brividi di emozione e stupore il Discorso sullo stato presente dei costumi degli italiani(1824), per la potenza disvelatrice di uno sguardo che non lascia ombre alla situazione desolante del nostro tempo.
Dunque, il quadro generale è quello di una grave involuzione antropologica delle società umane, ma entro il quale, l’Italia è, per ragioni che Leopardi esamina in maniera impeccabile, il Paese in più gravi condizioni: «L’Italia è, in ordine alla morale, più sprovveduta di fondamenti che forse alcun altra nazione europea e civile». Sembra scritto in questi giorni: «Le classi superiori d’Italia sono le più ciniche di tutte le loro pari nelle altre nazioni. Il popolaccio italiano è il più cinico di tutti i popolacci». L’egoismo, il narcisismo, l’invidia, l’odio per l’altro erano allora la norma, prima che gli ideali del risorgimento investissero lo spirito pubblico.
Naturalmente all’analisi di Leopardi manca il ruolo dei media, i quali amplificano, rendono popolare, materia di spettacolo l’immoralità crescente del ceto politico e della cosiddetta società civile.
So per certo, per parafrasare Leopardi, che se le leggi l’avessero consentito, non pochi giornalisti avrebbero invitato Totò Riina ai loro programmi televisivi. Costoro sono incarnazioni perenni del tipo italiano dell’analisi leopardiana. Ebbene, è dalla profondità di tale catastrofe culturale e spirituale che la sinistra e le forze democratiche dovrebbero oggi prendere le mosse, perché la dissoluzione della società non abbia quale rimedio al caos un governo autoritario.
La morte di Salvatore Veca, il filosofo militante
L’intellettuale è scomparso a Milano. Aveva 77 anni. Dagli studi negli anni Sessanta alle battaglia con il Pci dove venne più volte contestato. Una vita in prima linea
di Giancarlo Bosetti (la Repubblica, 07 Ottobre 2021)
Il posto di Salvatore Veca nel repertorio della filosofia contemporanea è stato fissato precocemente come quello del “neocontrattualista” che importava dagli Stati Uniti e adattava originalmente all’Europa la teoria della giustizia (Una teoria della giustizia, mi avrebbe certamente corretto) di John Rawls del 1971. Visto ora a distanza, quello era in realtà il suo lavoro giovanile, di straordinaria importanza anche per gli effetti che avrebbe avuto nell’influire sul corso delle idee in Italia e in particolare sulla sinistra, ma un’opera a cui molto sarebbe seguito nella prolifica e sostanziosa produzione, con la lunga stagione dei successivi lavori sui temi dell’incertezza, dell’incompletezza, e con loro del pluralismo, che caratterizza il sapere e la condizione degli esseri umani. Si tratta della stagione della maturità piena del Veca filosofo della politica e della conoscenza che, a 77 anni, molto avrebbe avuto ancora da dire.
Non solo Rawls dunque. È tornata in questa stagione la ricchezza della sua formazione negli anni Sessanta all’Università statale di Milano, dove l’ho conosciuto, da matricola io, lui di pochi anni più vecchio, ma già per me un “professore” come assistente di Enzo Paci. Una formazione in cui ha contato quella forte voce teoretica che insegnava, in modo suggestivo e visionario la fenomenologia di Husserl, e che spingeva ad affrontare con rigore analitico le filosofie del linguaggio, Quine, la logica. Milano era allora un incredibile serbatoio di risorse intellettuali: con Paci, c’erano Ludovico Geymonat a filosofia della scienza, Mario Dal Pra a storia della filosofia, Ettore Casari alla logica e Cesare Musatti (che era come trovarsi di fronte Freud in persona). E Musatti fu anche per lui studente, come per tanti, il primo degli esami, la prima passione accademica. Salvatore lo racconta, nell’ultimo suo libro, l’autobiografia scritta nei mesi del ritiro da Covid, insieme al figlio di sua moglie Nicoletta Mondadori, Sebastiano (Prove di autoritratto, Mimesis).
Forse anche per questo egli vedeva nel Sessantotto un momento di svolta significativo non per la politica ma per i mores, il mutamento di ordine sociale, la liberazione sessuale, l’innesco di una rivoluzione femminista. È stato costante nella vita di Veca l’impegno pubblico, nei confronti della politica, rispetto alla quale ha sempre difeso l’autonomia del pensare, in questo seguendo la lezione di Norberto Bobbio: impegno ma con distanza. Una distanza che non gli ha risparmiato polemiche anche molto dure da parte dei settori più conservatori del Pci. Quando presentò all’Istituto Gramsci di Bologna, nel 1982, il suo lavoro sulla società giusta, che tradotto in politica significava il riformismo per una società “migliore”, fu letteralmente assalito come “traditore” dei principi rivoluzionari e della classe operaia.
Ma questo non impedì al suo pensiero di attecchire e sulla distanza di conquistare consensi sempre più larghi e alla fine prevalenti. Fu anche con il suo aiuto personale che, nel mio lavoro all’Unità, potei prima far circolare i nomi e le idee, allora una novità non indolore nel contesto dei comunisti italiani, della cultura liberale di Walzer, Rawls, Amartya Sen e tanti altri. Si consolidava con la sua spinta personale, certo insieme a Bobbio, a Vittorio Foa e Giuliano Amato, con Michele Salvati, Alberto Martinelli, Giovanna Zincone, Guido Martinotti, Nadia Urbinati, Marina Calloni una larga corrente di pensiero di ispirazione liberalsocialista, che avrebbe dato vita con chi vi scrive alla rivista Reset. Non erano mancate le tensioni nei confronti del Pci fin da quando Salvatore, insieme a Salvati, ne aveva chiesto l’abbandono del nome. Ma le resistenze servirono soltanto a ritardare quel che comunque avrebbe dovuto avvenire. «Tentavamo di fare da ponte tra l’Avanti! e l’Unità», racconta nell’autobiografia. Ardua impresa negli anni Ottanta!
E a proposito di abbagli circa il Veca “traditore” è da rimarcare che le sue prese di posizione più recenti avrebbero stupito se mai per il loro ancoraggio a una visione radicata circa la funzione della sinistra, del sindacato, della giustizia sociale. È da ricordare il lascito enorme di Veca accademico, insegnante, guida dell’istituto superiore di Pavia, e poi anche editore con la casa editrice Feltrinelli, e organizzatore di cultura alla testa della Fondazione Feltrinelli, dei suoi Annali e dei suoi incontri. Ma dovremo a lungo rileggere i suoi lavori del ciclo dell’incertezza e dell’ incompletezza.
Insieme a molteplici influenze ritorna nelle pagine degli ultimi vent’anni con grande forza quella di Isaiah Berlin, non solo e non tanto il Berlin dei saggi sulla libertà (negativa), ma soprattutto quello del pluralismo dei valori: «Altre vallate altre pecore» diceva con una battuta alludendo alle varietà delle culture umane, ed echeggiando Pascal e Montaigne. Consapevole della impossibilità di stringere nelle nostre mani una compiuta ed esauriente conoscenza della verità, il filosofo aveva aperto una nuova fase della sua ricerca che voleva integrare la sua idea della giustizia con una prospettiva di realismo filosofico. Una visione della filosofia come permanente «lavoro in corso», aperta sempre e dovunque si percepisca l’esistenza di un problema, sempre alle prese con la difficoltà del fondamento, come i marinai sulla “barca di Neurathj” (Otto, il filosofo austriaco, ideatore dell’immagine) «sempre alle prese con uno scafo da rimodellare senza mai poterlo mettere in cantiere per ricostruirlo con materiali migliori». Opera da continuare per «coltivatori di memorie» (la storia e la storia delle idee) ed «esploratori di connessioni», le idee che ci servono per andare avanti.
Un modello di lavoro intellettuale: in ricordo di Salvatore Veca
di Gianfranco Pellegrino (Le parole e le cose, 8 ottobre 2021)
Nel 2006, ricordando il suo ‘dispatrio’ in Gran Bretagna, Luigi Meneghello diceva: «Nell’immediato dopoguerra, il partito che incarnava la mia idea di politica è andato a farsi benedire fin dal primo congresso. Il nuovo partito perfetto avrebbe dovuto essere il Partito d’Azione. Purtroppo, nessuno votava per noi, neanche le nostre fidanzate, mi sa, perché i voti che prendevamo erano uguali al numero degli iscritti (...). Dopo i primi due anni del dopoguerra, mi sono accorto che le cose andavano male, che il Paese aveva scelto diversamente, si era diviso in due campi, e ho pensato: in questo mondo non ho più niente di utile da fare»[1].
Per molto tempo, il nostro paese è rimasto diviso in due campi, in politica come nella cultura, e chi non si riconosceva in quei due campi era destinato alla marginalità. Uno dei meriti di Salvatore Veca (scomparso nella notte fra mercoledì 6 e giovedì 7 ottobre, era nato nel 1943) è stato di avere contribuito moltissimo a fare della cultura italiana - e soprattutto della cultura filosofica del nostro paese - un luogo più plurale, meno diviso, più aperto alla discussione internazionale.
Se molti studiosi italiani discutono con colleghi di tutto il mondo, sia in Italia sia all’estero, se certi temi sono ormai di casa nelle nostre università e molti nostri connazionali insegnano all’estero è anche grazie ad alcune operazioni culturali intraprese e portate a termine con successo da Veca. Il contributo di figure come la sua alla sprovincializzazione di una certa cultura italiana è stato enorme. Ma si badi: il fatto non è solo che Veca ha introdotto nella discussione certi metodi - i metodi della filosofia politica analitica di lingua inglese -, certi autori - Rawls, principalmente, ma anche Walzer, Nozick, Williams e Nagel -, certi temi - la teoria etica normativa -, né conta solo il lavoro culturale e intellettuale in senso più ampio da lui compiuto - in istituzioni culturali come la Casa della cultura e la Fondazione Feltrinelli di Milano, ma anche in case editrici e nell’università di Pavia e nella politica militante della sinistra italiana, dove Veca ha partecipato all’evoluzione riformista di parte del PCI. Ci sono aspetti della figura e del modello di lavoro intellettuale di Veca che sono forse meno evidenti di questi, ma su cui varrebbe la pena riflettere, ora che chi li incarnava ci ha lasciati. E su questi mi vorrei soffermare, per dare un ricordo da lontano, per così dire - il ricordo di chi proviene da una generazione diversa e posteriore e ha osservato da una certa distanza il lavoro di Veca, pur venendone in parte influenzato.
Figure come quella di Veca hanno costruito un modello di lavoro intellettuale preciso e inedito - inedito nel nostro paese, ma forse anche in altri contesti. Si tratta di un modello di lavoro intellettuale più sfuggente e meno estremo di quanto si potrebbe pensare a uno sguardo superficiale, e che ha messo a frutto il meglio di mondi diversi. Veca non è stato un filosofo analitico nel senso tradizionale (e talvolta caricaturale) del termine - concentrato esclusivamente su questioni tecniche, poco interessato alla storia del pensiero, esitante nella costruzione di grandi sintesi o affreschi.
Nonostante una grande abilità tecnica, egli ha sempre mirato a costruire un orizzonte complessivo, con l’obiettivo di incidere sulla realtà politica e sociale. In un certo senso, Veca ha abbandonato l’orizzonte teorico del marxismo italiano tradizionale, e soprattutto la filosofia della storia di Marx (o almeno una certa interpretazione di essa) senza per questo rinunciare a una certa idea di militanza tipica del marxismo e a un’ambizione di egemonia culturale. Veca non ha mai rinunciato all’aspirazione di cambiare il mondo, un’aspirazione che gli derivava anche e soprattutto da una tradizione illuminista che ereditava da autori come Norberto Bobbio e Uberto Scarpelli.
Ma allo stesso tempo Veca ha abbandonato, e reso piuttosto ridicoli, tutti gli stilemi tipici di certa filosofia tradizionale italiana del suo tempo (un modo di procedere sopravvissuto in alcuni casi anche adesso) - una filosofia tutta ortodossia e conformismo, tutta erudizione fine a se stessa, di andamento oracolare e con ambizioni spesso tiranniche di politica culturale. Al contrario di molti, Veca è riuscito nel raro tentativo di esercitare influenza, di prendere posizione, partendo però dall’idea che le società siano necessariamente pluraliste e il consenso sia da costruire, non da imporre.
Veca ha messo insieme il meglio di molte tradizioni e ha perseguito una via media tra modelli estremi in una maniera inimitabile. Ha prestato attenzione alle grandi figure della storia della filosofia politica e dell’etica, facendone spesso tesoro. Ma ha volto la sua attenzione a scopi militanti, per così dire.
Come amava dire, ha saccheggiato i templi del passato: tutte le sue letture servivano a edificare un paradigma complessivo e gli strumenti che usava derivavano dalle frontiere della ricerca filosofica contemporanea. Non ha mai rispettato steccati, spaziando dall’epistemologia alla teoria etica normativa, alla politica normativa, alle etiche applicate. Anche in questo caso, si tratta di un modo di procedere che trova paragoni in alcuni grandi figure della filosofia di lingua inglese - Nagel, Williams e Parfit, ma non Rawls, per esempio, che è stato molto meno ampio e più monomaniaco, per così dire.
Ma la cosa più rilevante, a mio parere, è il modello di filosofia pubblica che Veca ha tentato di realizzare. Come ho detto, Veca non ha mai esitato a intervenire nella discussione pubblica, a tutti i livelli. Anzi, per molto tempo, si è impegnato, come dicevo sopra, nella politica militante, facendo scelte molto controverse e subendone le conseguenze. Eppure, in tutto questo non ha mai fatto tre mosse che sono invece diventate tipiche del modello oggi preponderante di intellettuale pubblico.
In primo luogo, Veca non ha mai assunto, né cercato pose da divo: non ha evitato le apparizioni, ma non le ha mai cercate. Le ha sfruttate, non le ha subite. Veca non ha mai avuto una gestione social della sua figura: non ha cercato di alimentare continue esposizioni, non ha costruito un marchio, non ha inseguito nessun pubblico. Non ha costruito dal nulla un pubblico di clienti. Ha educato un pubblico di pari.
In secondo luogo, Veca ha creduto profondamente nella funzione dell’università: per lui la filosofia (anche la filosofia pubblica) è sempre stata la filosofia che si fa nelle università, con certi strumenti, e a partire da una certa expertise. L’impegno di Veca non si è mai trasformato in anti-accademismo. Anche in questo caso, Veca ha conservato la fiducia nelle istituzioni, anzi il gusto di vivere e costruire istituzioni, tipico della sinistra tradizionale del nostro paese.
Infine, l’estrema chiarezza del suo linguaggio, la ricerca, talvolta, anche di uno stile cordiale ed elegante non hanno mai significato per lui semplificazione, banalizzazione o corrività. Questa è forse l’eredità migliore della filosofia analitica che Veca ha trasmesso, insieme ad altri, a parte della cultura italiana: se si legge bene, se si parte dalle definizioni, se si seguono con pazienza tutti i passaggi, le pagine di Veca possono essere lette da chiunque. Non perché siano una semplificazione, non perché siano divulgazione condiscendente, o filosofia pop. Ma perché sono una forma democratica di scrittura, che non presuppone nulla, né si avvale di allusioni e vaghezze, ma si assume il carico di portare tutti allo stesso livello e di procedere insieme - autore e lettore.
Questo modello di lavoro intellettuale è il lascito più autentico e prezioso di figure come quella di Veca, che in questo riprendeva la tradizione neoilluminista di Bobbio. Eppure, è un lascito che ha attecchito pochissimo nella nostra cultura e ha avuto un successo molto minore rispetto ad altri aspetti della sua attività. Viviamo in tempi in cui la filosofia pubblica si divide fra presunti grandi maestri oracolari e vaticinanti, spesso intenti a distillare vaghezze allusive e al fondo banali, a terrorizzare i seguaci e a inseguire scandali quotidiani e presunti critici dell’accademia e araldi di una filosofia popolare, che le stesse banalità e vaghezze dei primi spacciano con linguaggio sciatto e intenti meramente autopromozionali. Entrambe le tipologie seguono in realtà le leggi del mercato: piazzano un prodotto, occupano una nicchia merceologica, coltivano un segmento dell’ampia platea dei consumatori. Nonostante non fosse per nulla un nemico del mercato, anche se ne teorizzava limiti stretti, Veca non si è mai piegato alle logiche del mercato culturale ed editoriale. Questa è la sua eredità migliore, e più rara.
[1] Mazzacurati C., Paolini M. (2006), Luigi Meneghello. Dialoghi, Fandango Libri, Roma.
L’OPPIO DEI POPOLI E LO SPIRITO CRITICO.
JEAN-LUC NANCY, IL SOFFIO RIVOLUZIONARIO, E I PALLONI IN ARIA...
JEAN-LUC NANCY, in un suo ultimo intervento ad un convegno del maggio scorso, dice: "[...] Quando Marx dichiara che la religione è «l’oppio dei popoli, lo spirito di un mondo senza spirito» [Nella sua "Critica della filosofia del diritto di Hegel"] intende dire da un lato che la religione è un povero surrogato dell’oppio con cui i ricchi si stordiscono, ma anche e allo stesso tempo che c’è da qualche parte uno “spirito” riservato a coloro che ne hanno i mezzi. Beninteso, per lui, tutti gli uomini ne hanno i mezzi, tutti possono partecipare al vero Spirito, a condizione d’essere liberi dall’alienazione. Poiché l’alienazione non consiste essenzialmente nell’estorsione del plusvalore - che ne è piuttosto il segno. L’alienazione consiste nel non essere propriamente sé stessi, tanto in quanto individui concreti che in quanto comunità non meno concrete".
E CONTINUA: "Questo spirito soffia come tutti gli spiriti. Marx usa spesso la parola “soffio” (Atem, respirazione). Ci accontenteremo di un esempio: «Il governo prussiano è infastidito dalla resistenza passiva che incontra ovunque. Attraverso l’apparente apatia, percepisce il soffio rivoluzionario»[...]"(Jean-Luc Nancy, "Essere, Soffio / Être soufflé", Le parole e le cose", 4.10.2021).
IL MESSAGGIO EVANGELICO E IL "FIGLIO DELL’UOMO". "Allora la folla gli [a Gesù] rispose: «Noi abbiamo appreso dalla Legge che il Cristo rimane in eterno; come dunque tu dici che il Figlio dell’uomo deve essere elevato? Chi è questo Figlio dell’uomo ["Filius hominis", "υἱὸς τοῦ ἀνθρώπου]?»"(Gv. 12,34).
QUESTIONE ANTROPOLOGICA. CHI è questo Figlio dell’Uomo, CHI il "Gesù Cristo" degli Evangelisti? COME è detto nell’Evangelo di Giovanni di "Gesù Cristo"? Ponzio Pilato disse: "«Ecco l’uomo» (gr. «idou ho anthropos», vulg. «ecce homo»)" (Gv. 19, 4).
QUALE SPIRITO? COME è detto nella Prima Lettera dell’Evangelista Giovanni?: "Carissimi, non prestate fede ad ogni spirito, ma mettete alla prova gli spiriti, per saggiare se provengono veramente da Dio [...] Dio è amore." (1 Gv. 4, 1-8).
IL PROBLEMA DEL MENTITORE: CHI È IL "GESÙ CRISTO" DI PAOLO DI TARSO?!: "Diventate miei imitatori [gr.: mimetaí mou gínesthe], come io lo sono di Cristo. Vi lodo perché in ogni cosa vi ricordate di me e conservate le tradizioni così come ve le ho trasmesse. Voglio però che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo [gr. ἀνήρ, ἀνδρός «uomo»], e capo di Cristo è Dio" (1 Cor. 11, 1-3).
PSICOANALISI E CRISTOLOGIA: "OEDIPUS AT VERSAILLES" ED "EDIPO A CUERNAVACA". CHE FARE? Rileggere il testo di "Un frammento inedito di Freud del 1931" e dell’articolo di Franca Ongaro Basaglia ("PM", novembre 1982). SapereAude!
IL VENTO SOFFIA DOVE VUOLE (Gv. 3.8). QUANTI PALLONI IN ARIA ...
Federico La Sala
In onore di Francesco e Chiara d’Assisi, dei Francescani (Dante Alighieri, compreso!) ... e di Leonard Boff
IGNOTI A SE’ STESSI ...ED ESPORTATORI DI ’CRISTIANESIMO’ E DI ’DEMOCRAZIA’!!!
La ’lezione’ (di Nietzsche e) di un aborigeno canadese ai ’registi’ della politica ’cattolica’ (e ’laica’).
di Federico La Sala (ildialogo.org, 22 novembre 2005)
Credo che ormai siamo proprio e davvero al capolinea - nella totale ignoranza di sé stessi i componenti della Gerarchia della Chiesa ’cattolica’ si agitano ... alla ’grande’!!! Non hanno proprio più nulla da dire, evidentemente! Sono scesi in campo ... ma contro Chi?!, contro che cosa?! Contro lo spirito francescano!!!
In segno di solidarietà, qui ed ora - 2005 dopo Cristo, con i francescani in carne ed ossa, oggetto di un richiamo, con un Motu Proprio, da parte dell’ex- prefetto ’kantiano’ Ratzinger, il papa Benedetto sedicesimo, forse non è inutile un breve commento a margine... per cercare di stare svegli e di svegliarci, possibilmente - tutti e tutte!
Dennis McPherson, un aborigeno (che ormai ’ci’ conosce bene, evidentemente!) canadese, ecco cosa (sapientemente e sorprendentemente - per noi, occidentali!!!), alla domanda - “qual è l’essenza dell’essere umano? E’ una creatura speciale con una missione speciale?” - di un’antropologa-intervistatrice, ha risposto:
Se teniamo presente le famose parole “De nobis ipsis silemus [...]”(di Francesco Bacone), messe da Kant sopra (come una pietra tombale) e prima di iniziare il suo discorso della e nella Critica della ragion pura, si può dire che il ’nostro’ aborigeno ha capito e visto più che bene - e meglio di tutti i filosofi e teologi dell’Occide[re]nte!!! E ’ce’ lo ha detto in faccia - ’papale’, ’papale’: basta!!!
Noi che non conosciamo ancora noi stessi (Nietzsche) .... e che navighiamo nel più grande “oscurantismo” - quello (più importante!!!) relativo a noi stessi, vogliamo pure dare lezioni ed esportare ’cristianesimo’ e ’democrazia’ in tutto il mondo!? “Mi”!?, e “Mah”!!!?
Sul tema, nel sito, si cfr.:
EICHMANN A GERUSALEMME (1961). “come fu possibile la hitlerizzazione dell’Imperativo Categorico di Kant? E perché è ancora attuale oggi?” (Emil L. Fackenheim, Tiqqun. Riparare il mondo).
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
L’ILLUMINISMO, OGGI. LIBERARE IL CIELO. Cristianesimo, democrazia e necessità di "una seconda rivoluzione copernicana"
FLS
MARX, IL "LAVORO - IN GENERALE", E IL "RAPPORTO SOCIALE DI PRODUZIONE - IN GENERALE".... *
"CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA" , "CRITICA DELLA RAGION PRATICA" (E MEMORIA DI DANTE ALIGHIERI - ANNO 2021) . Alla luce del fatto che si è persa ogni cognizione dello "stato di cose presente", forse, è opportuno - come voleva Marx - riprendere il filo dalla indicazione delle note "Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione"): "La teoria è capace di impadronirsi delle masse non appena dimostra ad hominem, ed essa dimostra ad hominem non appena diviene radicale. Essere radicale vuol dire cogliere le cose alla radice. Ma la radice, per l’uomo, è l’uomo stesso".
Si dice:
CONCORDO. Ma per ripartire bisogna riprendere il filo dalla "Logica" di Kant (non di Hegel, come si recita ancora oggi: http://www.leparoleelecose.it/?p=41116#comment-439785), dalla sua "quarta" (e prima!) domanda: "che cosa è l’uomo?", dalla sua "Critica della ragion pratica", e dal suo "imperativo categorico" (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5635)! La questione è antropologica (non andrologica né ginecologica)! O no?!
* Sul tema, mi sia lecito, si cfr. la "Lettera da ‘Johannesburg’ a Primo Moroni (in memoriam)": "CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4198); su COME NASCONO I BAMBINI? E COME ‘NASCONO’ I GENITORI?!, rileggere la lettera di Sigmund Freud (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=2923).
RAGION PURA E RADICI DELL’IO. Introduzione alla Critica della filosofia ...
Che strano modo “storico” di proporre e portare avanti una riflessione sulla “passione” della “critica” e “l’autocritica delle passioni” (cfr. Paolo Costa, “La passione critica è l’autocritica delle passioni”, Le parole e le cose, 21.07.2020) ! Come se la “Critica della Ragion Pura”, la “Critica della Ragion Pratica”, e la “Critica del Giudizio”, non fossero state mai scritte?!
Marx scrive (nonostante i “marxisti”) un “commento” continuo sul lavoro di “critica” portato avanti da Kant (da ricordare non solo la “Introduzione alla Critica della filosofia del diritto di Hegel”, ma anche i “Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica”, il “Per la critica dell’economia politica”, e “Il Capitale. Critica dell’economia politica”) e ancora oggi, dopo Freud e Foucault e Derrida, “essere giusti con Kant” è più che difficile ?! Boh e bah !?
L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT, IL PROGRAMMA DI MARX, E LA BUONA-PRASSI. Introduzione alla Critica della filosofia del diritto di Hegel...
La religione “è la realizzazione fantastica dell’essenza umana, poiché l’essenza umana non possiede una realtà vera...
La miseria religiosa è insieme l’espressione della miseria reale e la protesta contro la miseria reale. La religione è il sospiro della creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, così come è lo spirito di una condizione senza spirito. Essa è l’oppio del popolo.
Eliminare la religione in quanto illusoria felicità del popolo vuol dire esigerne la felicità reale...
La critica ha strappato dalla catena i fiori immaginari, non perché l’uomo porti la catena spoglia e sconfortante, ma affinché egli getti via la catena e colga i fiori vivi....
La critica della religione finisce con la dottrina per cui l’uomo è per l’uomo l’essere supremo, dunque con l’imperativo categorico di rovesciare tutti i rapporti nei quali l’uomo è un essere degradato, assoggettato, abbandonato, spregevole”
(Cfr. K. Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione, 1844)
SUL TEMA, mi sia lecito, si cfr. “LEZIONE SU KANT” A GERUSALEMME e, al contempo, LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA “CAPO”!.
ERMENEUTICA, PRINCIPIO DI "CARITÀ", E ... CERVELLO FUORI DALLA CAVERNA!
Semplicità insormontabili
La macchina dell’esperienza
di Roberto Casati e Achille Varzi *
Lui (in vacanza, seduto in riva al mare, con fare filosofico). Che bella cosa, la felicità!
Lei. Non ti facevo così saggio.
Lui. Non scherzare. La felicità è una bella cosa e non c’è niente di male nel ripetercelo, di tanto in tanto. E ti dirò di più: gli edonisti avevano perfettamente ragione. Non è forse massimizzando il piacere che si può essere felici? Il piacere provoca felicità, quindi, più si prova piacere, più si è felici.
Lei. Addio saggezza. Guarda che il nesso tra piacere e felicità è ben più spurio di quanto pensassero gli edonisti.
Lui. A me non sembra proprio. Per me è un piacere essere qui, ed è proprio perché sto provando questo piacere che sono felice.
Lei. C’è un argomento di Robert Nozick che dimostrerebbe il contrario. Mai sentito parlare della "macchina dell’esperienza"?
Lui. Sentiamo.
Lei. La macchina dell’esperienza è un vero e proprio prodigio tecnologico. Funziona così: tu entri nella macchina, e quella è in grado di procurarti qualunque esperienza tu possa desiderare. C’è un casco, con degli elettrodi, e se lo indossi ecco che il tuo cervello viene stimolato in modo, appunto, da farti provare le sensazioni che vuoi. Desideri sperimentare che cosa si prova a scrivere una bella poesia, vincere un premio, innamorarsi di una persona, sentirsi ricambiati del proprio amore? Indossa il casco e voilà: proverai esattamente quelle sensazioni in modo assolutamente realistico.
Lui. Ma un conto è provarle davvero, quelle sensazioni; altro conto provarle dentro una macchina del genere.
Lei. Funziona in modo tale che mentre le provi non hai alcuna consapevolezza del fatto di essere all’interno della macchina.
Lui. E se io non desidero niente in particolare?
Lei. Gli ingegneri che hanno progettato la macchina si sono ben documentati e hanno fatto in modo che la macchina disponga, per così dire, di un menù veramente ricco di possibilità. Quindi, se vuoi, puoi davvero provare ogni tipo di esperienza, non solo quelle che ti vengono in mente. E naturalmente il menù è richissimo di esperienze piacevoli, ovvero esperienze di piacere.
Lui. Quindi, se voglio, posso entrare nella macchina e starci dentro tutta la vita, pre-programmando le cose in modo tale da provare piacere per tutti i giorni che mi restano da vivere?
Lei. Esattamente. Il punto è: lo faresti? Entreresti in una macchina così con la garanzia di provare piacere per il resto della tua vita?
Lui. Ovvio!
Lei. Secondo Nozick, no. Non solo non ci entrerebbe lui, ma pensa che nemmeno noi ci entreremmo.
Lui. E perché mai?
Lei. Per tre motivi. Primo: generalmente vogliamo fare certe cose, non solo provare l’esperienza di farle. Anzi, è proprio perché le vogliamo fare che ci sottoponiamo all’esperienza di farle. Invece la macchina fa il contrario. Secondo, vogliamo essere felici di ciò che siamo. Cioè vogliamo essere delle persone felici. Ma che persone saremmo, se ci chiudessimo nella macchina per il resto della nostra vita?
Lui. Beh, per la felicità si può anche rinunciare a essere delle persone...
Lei. Terzo, nella macchina non avremmo alcuna esperienza della realtà: proveremmo esperienze realistiche, ma sarebbero comunque esperienze di una realtà del tutto artificiale, virtuale. Un po’ come i cervelli nella vasca ipotizzati da Putnam, o i personaggi del film Matrix, mentre "combattono" contro l’agente Smith stando sdraiati nelle loro poltrone in laboratorio.
Lui. Vieni al punto.
Lei. Il punto è che provare piacere non basta. Anche ammesso che sia un importante ingrediente in una ricetta per la felicità, bisogna provarlo nel modo giusto.
Lui. Sarà come dici. Però questi esperimenti mentali lasciano un po’ il tempo che trovano.
Lei. A me non pare affatto un esperimento mentale. Non ti sembra che questo nostro mondo si stia trasformando in una grande macchina dell’esperienza, non molto diversa da quella ipotizzata da Nozick?
* Il Sole-24 Ore, 24.11. 2013.
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TRENTO
Dipartimento Lettere e Filosofia
Corso di Laurea in FILOSOFIA.
Supervisore: Prof. Varzi Achille Carlo,
Co-Supervisore: Prof. Ghia Francesco,
Laureando: GANDELLINI Francesco
IL PRINCIPIO DI CARITÀ [2016]
Definizione e analisi critica tra ermeneutica e logica
a cura di Francesco Gandellini **
INTRODUZIONE
Il termine “carità” deriva etimologicamente dal latino caritas (acc. caritatem, «benevolenza», «amore», questo da carus, «caro», «costoso», «diletto», «amato»), e a sua volta dal greco χάρις, «grazia». Dal punto di vista dell’etimo, la parola cattura l’idea dell’amore disinteressato ma prezioso verso qualcuno, della benevolenza gratuitamente concessa al destinatario, senza riserve rispetto alla sua condizione. Gli etimologisti latini derivavano il lemma carus dalla prima persona singolare del presente del verbo carēre, ovvero careo, «manco», «sono privo di», e ritenevano di giustificare il valore di una cosa sul metro della mancanza della cosa stessa, in modo tale che tanto più se ne avverte l’assenza, tanto più essa acquista valore e pregio.
Passando per il greco χάρις e dal verbo χαίρω, «rallegrarsi», «provare piacere», si arriva alla radice sanscrita ka = ca (sscr. ka, kan, kam), presente in parole quali kâma, «amore», kamana, «desiderabile», «bello», kamara, «amoroso», kam-e, «desiderò», «amò». Si possono, inoltre, trovare affinità nel lettone kahrs, «cupido», nel gotico hors, da cui il tedesco Hure, «meretrice», ma che si riallaccia al latino quaero, «cercare», «ricercare», «bramare» ciò che è desiderato. Il termine “carità” afferisce, dunque, anche alla sfera dell’amore desiderato, del richiesto perché bramosamente bello e capace di dare piacere e rallegrare.
Il principio di carità rappresenta un criterio prezioso, disinteressato ma richiesto nella logica del dialogo. Esso fornisce una norma fondante, sebbene implicita, per la costruzione di un confronto fecondo e esente da appropriazioni o strumentalizzazioni di qualunque sorta. Il valore apportato dal principio di carità consiste, forse banalmente, nel rendersi disponibile all’ascolto dell’altro e nell’attribuire pregnanza di senso alle sue parole, almeno fino a un evidente punto di non ritorno.
La scelta di trattare il principio di carità come argomento di tesi va incontro alla necessità di indagare l’implicito, il sottinteso, il banale che sovente viene trascurato e passato sotto silenzio, col rischio di dimenticarne la validità e l’utilità concreta e portante nell’ambito dell’umano. Si tratta, perciò, di far riermegere agli occhi della coscienza i fondamenti troppo spesso dati per scontato e, proprio per questo, dimenticati, abbandonati e relegati a relitti a margine dell’edificio del sapere.
È compito primario della filosofia conferire dignità conoscitiva a quanto viene accolto come evidente, ovvio, lapalissiano perché in ciò, e nel suo oblio, si possono rinvenire “proprio quei problemi che sono i più scottanti per l’uomo, il quale, nei nostri tempi tormentati, si sente in balìa del destino” 1, ossia quegli interrogativi umani centrali in cui ne va della quotidianità tanto quanto dell’esistenza intera, oltre che di una convivenza pacifica. Spingendo la riflessione in direzione di ciò che pare assodato e fuori di dubbio ai fini della riflessione stessa, si giunge a capire e a rendere ragione di una complessità nuova, nella quale si gioca qualcosa come la comprensione o il fraintendimento tra gli individui.
Il principio di carità è una guida rimasta finora col capo coperto. Esso ha condotto e conduce gli uomini nei meandri tortuosi della comunicazione, del rapporto dialogante e dell’interpretazione reciproca. Può pregiudicare il buon andamento di una discussione, rimanendo nell’anonimato e nell’ombra. Determina e garantisce lo spazio minimo per l’intesa e l’accordo, ma può anche sancirne il definitivo naufragio.
Lo scopo della presente trattazione è di portarne alla luce, in un percorso storico e tematico, le caratteristiche principali, in modo da scoprirne il capo e segnalarne i lineamenti distintivi. La filosofia, nel suo decorso storico, si è raramente rivolta in modo esplicito al principio di carità. Fatta eccezione per Agostino, per il caso isolato dell’illuminista tedesco Georg Meier (che lo chiama principio di equità ermeneutica) e per la riflessione dei logici contemporanei (Wilson, Quine, Davidson), esso non viene pressoché mai menzionato o, almeno, non con questo appellativo con cui, soprattutto recentemente, è tornato alla ribalta.
Si tratta, quindi, e questo è l’intento del lavoro, di rimarcarne gli aspetti costituivi, laddove il criterio sia stato suggerito dagli autori, oppure di ricercare ed enucleare possibili edizioni, implicitamente consegnate dai filosofi alla riflessione sul principio in questione. Per questo la tesi potrebbe soffrire di discontinuità più o meno consistenti, dettate appunto dall’esigenza di scandagliare le profondità del pensiero filosofico, anche mediante salti temporali e concettuali rilevanti, in quei punti ritenuti significativi per una trattazione ampia e pregnante, ma filtrata sempre nel setaccio della carità ermeneutica e logica.
1 E. HUSSERL, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Milano, il Saggiatore 2008, pag. 35
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LA QUESTIONE DELLA "H".... "Capire il comportamento umano. Azione, razionalità, empatia" (di Antonio Rainone).
SANT’AGOSTINO, DOTTORE DELLA GRAZIA ("CHARIS"): "ECCO DA DOVE COMINCIA L’AMORE" ("ECCE UNDE INCIPIT CHARITAS").
IL NOME DI DIO, SENZA GRAZIA ("CHARIS")! L’ERRORE FILOLOGICO E TEOLOGICO DI PAPA BENEDETTO XVI, NEL TITOLO DELLA SUA PRIMA ENCICLICA. Nel nome della "Tradizione"
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Critica economica.
Il feticismo delle merci che promette l’immortalità
Un saggio rilegge le profetiche analisi economiche di Walter Benjamin e la sua denuncia del capitalismo come “frutto” dell’insinuazione del serpente: «Sarete come Dio»
di Luigino Bruni (Avvenire, venerdì 24 gennaio 2020)
Un classico è sempre attuale. Non perché ha bisogno di essere attualizzato da noi, ma perché costringe chi lo legge a farsi suo contemporaneo. Chi incontra un classico fa un viaggio nel tempo, lo raggiunge dentro il suo spazio e la sua vita, e poi scopre che è anche il suo proprio tempo, il suo spazio, la sua storia e la sua vita. Senza i grandi scrittori e i grandi artisti, il passato sarebbe semplicemente inaccessibile e incomprensibile. Che cosa fosse l’atmosfera del sabato pomeriggio di un villaggio marchigiano di inizio Ottocento, cosa fossero (non solo come si mostravano) i piedi dei popolani romani del Seicento, cosa fosse la miseria dei miserabili francesi. E invece grazie a Leopardi, Caravaggio e Hugo li conosciamo e li capiamo.
I classici affratellano lo spazio e il tempo, li mettono in comunione- comunicazione. È questo, forse, il loro dono più grande. Un classico, poi, è sempre radicale, sbilanciato, eccessivo. Non è ruffiano e quindi non dice le cose che dovrebbe dire per soddisfare i gusti dei consumatori. È partigiano, è parziale come la verità, mai politically correct. Dice qualcosa, non dice tutto, ma quel qualcosa limitato e relativo contiene una goccia capace di bucare il tempo. Non è più buono degli altri uomini e donne, né più vero né dotato di una moralità superiore. È semplicemente abitato da un daimon, sempre eccedente rispetto alla persona che lo ospita; e così una tipica penitenza di questi esseri geniali (genio = daimon) è l’esperienza della inadeguatezza, di non essere all’altezza etica e spirituale delle cose che capisce, scrive, traduce in opere.
Walter Benjamin è certamente un classico. È una delle figure più originali e geniali del pensiero europeo del Novecento. Meno noto era, fino a poco fa, il suo contributo nel dibattito sul capitalismo, sulla sua natura e sul suo destino. Da qualche anno, grazie soprattutto al lavoro di Giorgio Agamben, stiamo tutti riscoprendo le geniali e profetiche intuizioni del filosofo ebreo tedesco, morto suicida nel 1940 sui Pirenei, per sfuggire alla cattura dei nazisti.
Ora, il saggio di Vincenzo Di Marco e Biancamaria Di Domenico, Walter Benjamin. La religione del capitalismo (edizioni Pazzini, pagine 112, euro 12), continua a svelarci i tesori di ’teologica economica’ contenuti nel pensiero di Benjamin, e non solo nel frammento del 1921, Capitalismo come religione, ma anche in opere più classiche, come Angelus Novus e i Passages, dove, leggendo il libro di Di Marco e Di Domenico, scopriamo idee molto importanti sull’economia, sul capitalismo e la sua dimensione sacrale, che ci svelano anche alcune affermazioni misteriose e oscure contenute nel frammento del 1921.
Il saggio affronta molti dei temi che si situano all’incrocio delle idee di Benjamin sul capitalismo, sulla filosofia e sulla religione - dal messianismo, al feticismo delle merci e quindi all’idolatria, la metamorfosi del cristianesimo in un’altra religione: il capitalismo. E lo fa dialogando con i classici che hanno scritto su questo tema, cominciando da Marx e Weber, e finendo con Derrida e Agamben (meno utili sono i molti riferimenti a commentatori contemporanei, che raramente sono all’altezza dei classici, e finiscono spesso per appesantire e complicare la lettura).
Ma nel libro ci sono soprattutto molte parole di Walter Benjamin, alcune stupende e generative di nuove parole per il nostro tempo. Parlando, ad esempio, della natura idolatrica della prostituzione e del gioco d’azzardo, scriveva: «Solo gli idealisti sprovveduti possono credere che il piacere dei sensi, di qualsiasi natura esso sia, possa determinare il concetto teologico del peccato.
Alla base della vera lussuria non c’è altro che questa sottrazione del piacere del corso della vita con Dio, il cui legame con essa risiede nel nome. Il nome stesso è il grido del nudo piacere. Questa cosa sobria, in sé priva di destino il nome - non ha altro avversario che il destino, che prende il suo posto nella prostituzione e crea il suo arsenale nella superstizione» (I passages di Parigi). Non si comprende allora, anche alla luce del passaggio appena citato (per non parlare della tesi di Benjamin che il capitalismo è una religione «senza espiazione»), l’affermazione degli autori che leggiamo a pagina 98: «Nel pensiero di Benjamin manca la nozione di peccato che troviamo invece nel cristianesimo».
Molto spazio è consacrato nel saggio al discorso sul feticismo delle merci (dove ritroviamo e rileggiamo volentieri le splendide intuizioni di Marx), anche perché è un tema centrale nel capitalismo di Benjamin e nel nostro, profondamente legato a un altro tema cardine: l’idolatria.
Infine, gli autori colgono molto bene uno dei punti centrali in Benjamin (e in Adorno) e nella religione capitalistica: la promessa di immortalità. Ma come dice Benjamin, «la promessa di immortalità che le merci incarnano è connessa a un tempo che non vuol saperne della morte, una “età dell’inferno”». Non è l’età del paradiso ma, paradossalmente, quella dell’inferno. Perché un mondo di cose che non muoiono non è l’eden della Bibbia. Nell’eden, l’albero della vita consentiva una immortalità agli uomini, a condizione che non avessero preteso di essere i padroni (di mangiare i frutti) della conoscenza del bene e del male. L’eternità buona dell’uomo non è quella di Dio, perché la sua vita resta inscritta nel perimetro etico che non è generato e consumato dall’uomo stesso.
Il capitalismo, invece, la sua hybris ha immaginato una eternità come frutto dell’onnipotenza degli uomini a partire dalla definizione assoluta (slegata) di cosa sia il bene e di cosa sia il male. C’è anche questo dentro una naturale diffidenza del pensiero cattolico nei confronti delle filosofie del contratto sociale: il bene e il male non si definiscono per contratto, come l’ideologia neoliberale pensa e vuole prima di tutto, perché il bene e il male e i suoi confini non sono negozionabili: sono dono, sono eredità, sono testamento. La promessa di eternità del capitalismo oggi non è tanto l’allungamento della vita, la sostituzione degli organi, la chirurgia estetica, ma è l’antico promessa del serpente: «diventerete come Dio». Benjamin intuiva che il capitalismo sarà religione perfetta quando le imprese vendendoci la sua merce cercheranno di venderci un pezzo di paradiso. E noi ci crederemo.
“SMONTARE LA GABBIA”! USCIRE DALLA CAVERNA, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI “DIO” CONCEPITO COME “UOMO SUPREMO”....
CONSIDERATO "[...] lo stato in cui versa attualmente l’antispecismo: se tale movimento sembra infatti aver chiaro quali siano la prima e l’ultima lettera del suo alfabeto - l’organizzazione ingabbiante delle logiche che regolano e perpetuano l’antropocentrismo e una società in cui tutti gli animali, umani e non umani, possano vivere liberi -, è però incapace di articolare le altre - discorsi e prassi che indichino, nella materialità della storia, come smontare le gabbie, simboliche e materiali, in cui, seppure con intensità e rigore variabili, tutti i viventi sono rinchiusi indipendentemente dalla specie di appartenenza [...]” E, ANCORA, CONSIDERATO CHE “In 1905, riferendosi alla discrepanza tra le previsioni del marxismo scientifico e le vicissitudini storiche contingenti che, saltando a piè pari la fase di presa del potere da parte della borghesia, avevano portato alla rivoluzione proletaria in un paese feudale come la Russia zarista, Trotskij scrive: “La prima lettera è presente, e così anche l’ultima, ma tutto il mezzo dell’alfabeto è mancante” [...]”, SPUNTA (non esplicitata) LA CONNESSIONE CON L’INVENZIONE DELLA “TAVOLA PERIODICA DEGLI ELEMENTI” di Dmitrij Ivanovič Mendeleev,
CREDO CHE SIA NECESSARIO E OPPORTUNO AMPLIARE L’ORIZZONTE e RICONSIDERARE DALLE RADICI la “«piramide dei viventi» che da secoli continuiamo a portarci dietro”, quella contenuta nel «Liber de sapiente» (Libro della sapienza), pubblicato nel 1509 da Charles de Bovelles (1479-1567)” (come sollecita Stefano Mancuso con Alessandra Viola, nel lavoro “Verde brillante”, Giunti 2015, p. 18 - e, non il vecchio “marxista” Lucio Colletti, nel suo famoso “Il marxismo e Hegel”, Laterza 1969)! E, ANCORA E SOPRATTUTTO, “SMONTARE LA GABBIA” DELLA SISTEMATICA DI LINNEO!
E, benché siano passati 160 anni dalla pubblicazione, nel 1859, dell’«Origine delle specie», l’opera fondamentale che Charles Darwin ci ha regalato per comprendere la vita sul nostro Pianeta (Stefano Mancuso, cit.), USCIRE DALLA CAVERNA, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI “DIO” CONCEPITO COME “UOMO SUPREMO”. PER LA CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA E DELLA TEOLOGIA MAMMONICA. CON KANT, E CON MARX, OLTRE ...
Federico La Sala
L’ ITALIA, LE “ROBINSON-NATE”, E LA “POESIA” DEL PRESENTE ... *
“Oggi assistiamo a una sorta di crisi di intelligibilità, che in diverse diagnosi sembra avere a che fare con la fine di un mondo e delle sue pratiche, di una forma di vita leggibile: fine della società letteraria, fine della politica nella sua concezione novecentesca... (...) Che cosa sarebbe della poesia, e anche del suo rapporto critico con la società, se questo nostro tempo, come spesso diagnosticato, costituisse davvero l’epoca della sua fine, della fine del modo in cui ne abbiamo inteso il senso sino a ora? ” (Italo Testa, “Autorizzare la speranza. Poesia e futuro radicale” , "Le parole e le cose", 21 marzo 2019).
“OGGETTO: Per la nostra sana e robusta Costituzione.... ” (Mail, 2002): “[...] Tempo fa una ragazza, a cui da poco era morta la madre e altrettanto da poco cominciava ad affermarsi il partito denominato “Forza Italia”, discutendo con le sue amiche e i suoi amici, disse: “Prima potevo gridare “forza Italia” e ne ero felice. Ora non più, e non solo perché è morta mia madre e sono spesso triste. Non posso gridarlo più, perché quando sto per farlo la gola mi si stringe - la mia coscienza subito la blocca e ricaccia indietro tutto. Sono stata derubata: il mio grido per tutti gli italiani e per tutte le italiane è diventato il grido per un solo uomo e per un solo partito. No, non è possibile, non può essere. E’ una tragedia!”. Un signore poco distante, che aveva ascoltato le parole della ragazza, si fece più vicino al gruppo e disse alla ragazza: “Eh, sì, purtroppo siamo alla fine, hanno rubato l’anima, il nome della Nazionale e della Patria. E noi, cittadini e cittadine, abbiamo lasciato fare: non solo un vilipendio, ma un furto - il furto dell’anima di tutti e di tutte. Nessuno ha parlato, nessuno. Nemmeno la Magistratura!” (Si cfr. RESTITUITEMI IL MIO URLO! ... DALLA CINA UNA GRANDE LEZIONE!).
ITALIA, 2 GIUGNO 2019. A pag. 2 dell’inserto “ROBINSON” (n. 130) di “la Repubblica” del 1° Giugno 2019, in un testo con il titolo “Mia madre, il Re e la cosa di tutti “, e il sottotitolo “Il 2 giugno 1946 l’Italia scelse di non essere più una monarchia. Lessico familiare del Paese che puntò su se stesso”. L’autore - dopo aver premesso che “una persona sola che incarna lo Stato e incarna il popolo intero non può che essere, essere, simbolicamente, una persona «sacra»“, e chiarito che “è per definizione, per ruolo un signore al di sopra delle parti, non rappresenta una frazione, rappresenta l’intero. L’unità. La comunità. (...) la sua carica è elettiva. Non è un raggio divino, e nemmeno il raggio della Storia attraverso l’espediente dinastico, a fargli incarnare «la cosa di tutti»” (...) La repubblica è anti-assolutista anche in questo suo sapiente scegliere gli uomini che la incarnano a seconda dei sommovimenti della politica e della società (...) così si avvia alla conclusione: “Dunque si è repubblicani - o almeno lo sono io - se si ama e si accetta ciò che non è assoluto, NON SIMULA L’ETERNO, ACCETTA IL LIMITE, lo traduce in politica”.
E, INFINE, l’autore così CHIUDE: “Mi rimane da dire che quando Eugenio Scalfari fondò un giornale che si chiamava «la Repubblica» andavo all’università e subito pensai: che bel nome! Che nome giusto per un giornale! Ma come è possibile che a nessuno prima di lui, sia venuto in mente di chiamare così un pezzo di carta che si occupa soprattutto della «res publica», della cosa di tutti, e lo fa tutti i giorni? E’ al tempo stesso un nome umile e alto. Peggio per chi non se ne è accorto prima” (Michele Serra).
POESIA, COSTITUZIONE, E FUTURO RADICALE...: “Come certi capi indiani che si trovarono di fronte al fatto che, una volta entrati nelle riserve, non risultasse più comprensibile cosa fosse un atto coraggioso, quale attività potesse esemplificarlo, visto che le pratiche che sino ad allora avevano dato senso a tali attività erano venute meno - i bisonti scomparsi, le guerre con altre tribù proibite” (Italo Testa - sopra).
ITALIA: “ESAME DI MATURITA’ 2019”. - PER UN CONVEGNO E UNA RIFLESSIONE SUL CONCETTO DI UNITÀ E DI SOVRANITÀ (SOVRA-UNITÀ). Materiali sul tema.
Federico La Sala (20 giugno 2019)
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
"SCORPIONE E FELICE". RIDENDO E SCHERZANDO, MARX TROVA "LA PIETRA FILOSOFALE" DEL SUO CAMMINO.
UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA "EDIPICA"!!! IL MAGGIORASCATO: L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO
KANT E GRAMSCI. PER LA CRITICA DELL’IDEOLOGIA DELL’UOMO SUPREMO E DEL SUPERUOMO D’APPENDICE.
Federico La Sala
Commenti
Marx per ripensare l’alternativa oggi
Marxismo. Gli argomenti che più hanno appassionato i partecipanti, perché per molti versi i più nuovi, quello dell’Ecologia e quello di Genere
di Luciana Castellina (il manifesto, 19.05.2019)
La sala più grande di Pisa, quella del Polo didattico Carmignani, a Piazza dei Cavalieri, proprio alle spalle della leggendaria Normale, è gremita già prima dell’inizio. “Esagerati”, avevano detto tutti a Marcello Musto, grande artefice dell’evento, che aveva insistito per quella localizzazione.
E invece c’è persino gente in piedi. Tutti lì per Carlo Marx a 201 anni dalla sua nascita: e se si trattasse di un nuovo vagito della sinistra? Potrebbe persino darsi, perché sono restati tutti tutti e tre i giorni in cui al microfono si sono susseguiti 25 relatori, provenienti da 14 paesi di quattro continenti.
I lavori aperti da una non programmata ragazzina che, a nome degli studenti, si felicita per questa occasione di confronto ( che - dice - ormai non c’è più nell’università) e poi attacca diretta il presidente della regione Enrico Rossi - lì per inaugurare la conferenza - perché ha finanziato un convegno di quelli delle famiglie e invece lesina i soldi per l’istruzione.
Un giusto inizio perché questa conferenza su Marx pur ad alto livello marxologo (salvo me e Landini) non è stata affatto un evento accademico. Il titolo, del resto, lo aveva annunciato: “Ripensare l’alternativa”. E cioè: andiamo a scovare quello che il nostro vecchio compagno di Treviri ha detto e si è spesso perso per strada e solo ora, grazie a Mega ( la strepitosa edizione che fin dai tempi della Germania est - è in corso a Berlino, in cui compaiono una quantità di sconosciuti inediti) viene fuori e vediamo a cosa ci può ancora servire. Insomma:non siamo qui per interesse archeologico ma per trovare argomenti per il che fare di oggi.
E in effetti da tanti inediti che i relatori ci hanno fatto conoscere è emerso un Marx solo sospettato, molto più ricco e vicino alle nostre attuali problematiche di quanto sia stato quello un po’ rozzo tramandatoci dalla vulgata del movimento operaio. Soprattutto un Marx molto politico. Non per caso fra i relatori c’è anche Maurizio Landini, accolto da tutti con grande entusiasmo, che ci legge Marx nel presente del lavoro, di cui fa una impietosa disanima.”Ho incontrato lo sfruttamento prima di avere incontrato Marx” - esordisce.
Non cercherò neppure di entrare nel merito di quanto è stato detto, sarebbe impossibile in un articolo di quotidiano. E però voglio riportare i titoli e almeno un concetto delle diverse sezioni in cui la conferenza si è articolata per dare un’idea dell’attualità della riflessione:
Dopo una prima seduta inaugurale che ha affrontato il tema generale “Capitalismo”, con Landini, appunto, e poi - prima oratrice - Silvia Federici (Hofstra University, Usa), che ha offerto il primo contributo da una prospettiva femminista; Bob Jessop (Lancaster University, UK) “Il capitale come relazione sociale: dall’analisi alla lotta di classe”, e cioè il rapporto fra persone viene mediato dalle cose, che lo nascondono ; e, infine, una preziosa relazione di Maurizio Iacono (Università di Pisa ma anche fra i fondatori de Il manifesto), intitolata “La merce entra in scena nel teatro del postmoderno”, in cui, richiamando i “tavoli danzanti” di Flaubert, ha ripercorso il processo che dal legno arriva al tavolo, e poi però nessuno cerca il loro autore come avrebbe fatto Pirandello, ma anzi nasconde il lavoro sociale collettivo che è servito a crearli, lo rende invisibile, merce separata. che incorpora lavoro transitato dalla soggezione al dispotismo aziendale a quello mascherato della merce.depurata dal lavoro nella camera oscura.
La seconda giornata è cominciata con tre contributi sul tema “nazionalismo” : di George Comninel (York University Toronto), il nostro Alberto Burgio (Università di Bologna, ex deputato di RC, autore fra i tanti di un libro su Gramsci dedicato a Lucio Magri): “Gli operai non hanno patria”, nazionalismi e internazionalismo tra XX e XXI secolo, una lucida e impietosa descrizione di come e perché sia andato emergendo l’attuale sovranismo. ( “Mentre il mercato globale si espande, si soffia sul fuoco dei particolarismi, nascondendone la gerarchia”).
Stesso tema - “Il nazionalismo nel 18 brumaio di Luigi Bonaparte. Il primo contrattacco contro il socialismo”- trattato da un relatore un po’ speciale, perché il solo proveniente dall’est Europa e proprio da uno dei paesi oggi portabandiera del nuovo nazionalismo, l’Ungheria, dove insegna alla Central European University:Gaspar Tamàs. (“Il soggetto, individuale o collettivo, è sempre in sé plurale, contiene contraddittorietà ineliminabili; solo che oggi questo è più dirompente perché si è affievolita la coscienza di classe”).
A seguire “Democrazia”, con Mauro Buccheri, un ormai anziano siciliano da 50 anni alla York University di Toronto;Terrel Carver (University of Bristol,UK) e Michael Brie (Fondazione Rosa Luxemburg), alle prese con il complicato tema del rapporto democrazia e socialismo, “il filo del rasoio”, come l’ha definito Carver, o, più pessimisticamente Brie,“un compito irrisolto”. Molto ricco di narrazioni ( e considerazioni ) il tema della Migrazione, dove Davud Smith, (Kansas Uniuversity Usa) ha riferito del pensiero di Marx su accumulazione e migrazione forzata quale appare nel Capitale ma soprattutto nei suoi ultimi manoscritti; Piero Basso (università di Ca’Foscari) sull’esercito di riserva, le migrazioni forzate iniziate con la tratta degli schiavi, la necessità oggi di battersi per il diritto a non dover emigrare, più che per quello di emigrare. E Ranabir Samaddar (gruppo di ricerca di Calcutta) , che ci ha parlato del passato e del presente: le migrazioni nell’era del globalismo.
E ancora il Lavoro, dove ho avuto l’onore di tenere anche io una relazione che ho intitolato “il becchino frantumato”, ma dove soprattutto è stato analizzato il lavoro moderno quale risulta essere quello di due paesi del Sud, le Filippine ( Sarah Raymundo, Dillman University Manila) e Ricardo Antunes (Unversità Campinas Brasile), che ha affrontato il tema del lavoro immateriale ( che, ha detto fra l’altro, presuppone quello materialissimo dei minatori che estraggono la materia prima con cui si fanno i nostri apparecchi digitali) caratterizzato in realtà da un modo di estrazione del plus valore del tutto simile a quello delle epoche più antiche. Anche in questo caso molte osservazioni di Marx su quanto oggi chiamiamo post-industria, che continua a produrre plus valore.
Oltre a due interessanti contributi sul tema Religione, uno di Stefano Petrucciani (Sapienza) e uno di Michael Loewy (Centre de la recherche scientifique, Francia) su aspetti del feticismo in Marx, ma anche su quello attualissimo della Teologia della Liberazione , la grande preziosa corrente della Chiesa sudamericana.
Gli argomenti che più hanno appassionato i partecipanti, perché per molti versi i più nuovi, quello dell’Ecologia e quello di Genere.
Sul primo hanno parlato tre relatori venuti ciascuno da una diversa parte del mondo: Kohei Saito dal Giappone (Osaka University), Gregory Claeys (Royal Holloway University UK), Razmig Keucheyan ( nome palesemente armeno ma Università di Bordeaux). Tutti e tre hanno in qualche modo affrontato il tema dal lato dei bisogni, citando gli scritti dei due principali teorici dell’argomento, André Gorz e Agnes Heller, ma mettendoli in rapporto con le tantissime e quasi sempre ignorate riflessioni di Marx sulla rapina della natura, così come sulla liberazione del tempo (Manoscritti del ’44, Ideologia tedesca, Critica alla filosofia del diritto di Hegel, Grundrisse,lo stesso Capitale).
E dunque insistendo sul fatto che occorre sottrarsi al consumismo imposto dal modo di produzione capitalista ( l’imbroglio del capitalismo) e invece qualificare i propri bisogni ,non moltiplicarli. Un mutamento possibile tuttavia solo se si libera tempo dal lavoro per lo sviluppo della creatività, proprio quello che il capitale nega. Greta è stata naturalmente molto citata, e però come ha detto Claeys, dobbiamo risponderle in fretta, ma non abbiamo ancora elaborato le linee della rivoluzione necessaria ad affrontare il problema.
L’ultimo round è stato per il Genere con Humani Bannerji (indiana ma York University Toronto) e di Elvira Concheiro (Unam,Mexico). Nel riprendere il più recente dibattito femminista molto si è insistito su quello che è stato definito “incontro possibile con Marx”, e cioè sulla connessione della battaglia delle donne con quella anticapitalista. E per questo molto si è parlato del lavoro non pagato di riproduzione e di cura.
Per questo più volte citato il nuovo manifesto femminista americano scritto da Nancy Fraser e Cinzia Arruzza ( giovane siciliana ma docente universitaria a new York), intitolato “Patriarcato e capitale, alleanza criminale”.
Il discorso di chiusura ha rappresentato un evento eccezionale. A pronunciarlo è stato Alvaro Garcia Linera, vicepresidente della Bolivia dal 2006, il paese altissimo sulle Ande presieduto dal leggendario indio Morales. Linera ha una storia diversa, è un raffinato intellettuale marxista, che ha trascorso come tanti nel suo continente molti anni in prigione. Ha tenuto una relazione lunga, argomentata e colta, spiegando come stanno provando a fare un socialismo diverso da quello che abbiamo chiamato “reale”.
Insistendo sulle necessarie forme di democrazia e sulla socializzazione dei beni (il famoso bencomunismo) al posto delle statalizzazioni. Non provo neppure a darne una traccia, ma spero si sarà in grado di pubblicarlo al più presto. Linera è venuto apposta a Pisa, per poche ore, fra un impegno a Barcellona e uno a Parigi. Voleva esserci, e noi della sua partecipazione siamo stati orgogliosi e commossi .(Particolarmente io perché mi ha parlato subito de Il Manifesto ).
Ringraziando tutti a nome dell’Università di Pisa a conclusione della Conferenza Maurizio Iacono ha detto: “Ricucire, pur mantenendo la necessaria tensione dialettica, tempo lungo della ricerca, della storia e dell’immaginazione, e tempo breve dell’azione civile, politica e della vita quotidiana, nella consapevolezza che non ci può essere libero sviluppo delle facoltà individuali senza la fine dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, dell’uomo sulla donna, dell’uomo sulla natura.E’ questo che abbiamo imparato da Marx e che deve presupporre ogni tentativo di ripensare l’alternativa e ogni lotta per la dignità e l’uguaglianza.”
Commenti
Marx per ripensare l’alternativa oggi
Marxismo. Gli argomenti che più hanno appassionato i partecipanti, perché per molti versi i più nuovi, quello dell’Ecologia e quello di Genere
di Luciana Castellina (il manifesto, 19.05.2019)
La sala più grande di Pisa, quella del Polo didattico Carmignani, a Piazza dei Cavalieri, proprio alle spalle della leggendaria Normale, è gremita già prima dell’inizio. “Esagerati”, avevano detto tutti a Marcello Musto, grande artefice dell’evento, che aveva insistito per quella localizzazione.
E invece c’è persino gente in piedi. Tutti lì per Carlo Marx a 201 anni dalla sua nascita: e se si trattasse di un nuovo vagito della sinistra? Potrebbe persino darsi, perché sono restati tutti tutti e tre i giorni in cui al microfono si sono susseguiti 25 relatori, provenienti da 14 paesi di quattro continenti.
I lavori aperti da una non programmata ragazzina che, a nome degli studenti, si felicita per questa occasione di confronto ( che - dice - ormai non c’è più nell’università) e poi attacca diretta il presidente della regione Enrico Rossi - lì per inaugurare la conferenza - perché ha finanziato un convegno di quelli delle famiglie e invece lesina i soldi per l’istruzione.
Un giusto inizio perché questa conferenza su Marx pur ad alto livello marxologo (salvo me e Landini) non è stata affatto un evento accademico. Il titolo, del resto, lo aveva annunciato: “Ripensare l’alternativa”. E cioè: andiamo a scovare quello che il nostro vecchio compagno di Treviri ha detto e si è spesso perso per strada e solo ora, grazie a Mega ( la strepitosa edizione che fin dai tempi della Germania est - è in corso a Berlino, in cui compaiono una quantità di sconosciuti inediti) viene fuori e vediamo a cosa ci può ancora servire. Insomma:non siamo qui per interesse archeologico ma per trovare argomenti per il che fare di oggi.
E in effetti da tanti inediti che i relatori ci hanno fatto conoscere è emerso un Marx solo sospettato, molto più ricco e vicino alle nostre attuali problematiche di quanto sia stato quello un po’ rozzo tramandatoci dalla vulgata del movimento operaio. Soprattutto un Marx molto politico. Non per caso fra i relatori c’è anche Maurizio Landini, accolto da tutti con grande entusiasmo, che ci legge Marx nel presente del lavoro, di cui fa una impietosa disanima.”Ho incontrato lo sfruttamento prima di avere incontrato Marx” - esordisce.
Non cercherò neppure di entrare nel merito di quanto è stato detto, sarebbe impossibile in un articolo di quotidiano. E però voglio riportare i titoli e almeno un concetto delle diverse sezioni in cui la conferenza si è articolata per dare un’idea dell’attualità della riflessione:
Dopo una prima seduta inaugurale che ha affrontato il tema generale “Capitalismo”, con Landini, appunto, e poi - prima oratrice - Silvia Federici (Hofstra University, Usa), che ha offerto il primo contributo da una prospettiva femminista; Bob Jessop (Lancaster University, UK) “Il capitale come relazione sociale: dall’analisi alla lotta di classe”, e cioè il rapporto fra persone viene mediato dalle cose, che lo nascondono ; e, infine, una preziosa relazione di Maurizio Iacono (Università di Pisa ma anche fra i fondatori de Il manifesto), intitolata “La merce entra in scena nel teatro del postmoderno”, in cui, richiamando i “tavoli danzanti” di Flaubert, ha ripercorso il processo che dal legno arriva al tavolo, e poi però nessuno cerca il loro autore come avrebbe fatto Pirandello, ma anzi nasconde il lavoro sociale collettivo che è servito a crearli, lo rende invisibile, merce separata. che incorpora lavoro transitato dalla soggezione al dispotismo aziendale a quello mascherato della merce.depurata dal lavoro nella camera oscura.
La seconda giornata è cominciata con tre contributi sul tema “nazionalismo” : di George Comninel (York University Toronto), il nostro Alberto Burgio (Università di Bologna, ex deputato di RC, autore fra i tanti di un libro su Gramsci dedicato a Lucio Magri): “Gli operai non hanno patria”, nazionalismi e internazionalismo tra XX e XXI secolo, una lucida e impietosa descrizione di come e perché sia andato emergendo l’attuale sovranismo. ( “Mentre il mercato globale si espande, si soffia sul fuoco dei particolarismi, nascondendone la gerarchia”).
Stesso tema - “Il nazionalismo nel 18 brumaio di Luigi Bonaparte. Il primo contrattacco contro il socialismo”- trattato da un relatore un po’ speciale, perché il solo proveniente dall’est Europa e proprio da uno dei paesi oggi portabandiera del nuovo nazionalismo, l’Ungheria, dove insegna alla Central European University:Gaspar Tamàs. (“Il soggetto, individuale o collettivo, è sempre in sé plurale, contiene contraddittorietà ineliminabili; solo che oggi questo è più dirompente perché si è affievolita la coscienza di classe”).
A seguire “Democrazia”, con Mauro Buccheri, un ormai anziano siciliano da 50 anni alla York University di Toronto;Terrel Carver (University of Bristol,UK) e Michael Brie (Fondazione Rosa Luxemburg), alle prese con il complicato tema del rapporto democrazia e socialismo, “il filo del rasoio”, come l’ha definito Carver, o, più pessimisticamente Brie,“un compito irrisolto”. Molto ricco di narrazioni ( e considerazioni ) il tema della Migrazione, dove Davud Smith, (Kansas Uniuversity Usa) ha riferito del pensiero di Marx su accumulazione e migrazione forzata quale appare nel Capitale ma soprattutto nei suoi ultimi manoscritti; Piero Basso (università di Ca’Foscari) sull’esercito di riserva, le migrazioni forzate iniziate con la tratta degli schiavi, la necessità oggi di battersi per il diritto a non dover emigrare, più che per quello di emigrare. E Ranabir Samaddar (gruppo di ricerca di Calcutta) , che ci ha parlato del passato e del presente: le migrazioni nell’era del globalismo.
E ancora il Lavoro, dove ho avuto l’onore di tenere anche io una relazione che ho intitolato “il becchino frantumato”, ma dove soprattutto è stato analizzato il lavoro moderno quale risulta essere quello di due paesi del Sud, le Filippine ( Sarah Raymundo, Dillman University Manila) e Ricardo Antunes (Unversità Campinas Brasile), che ha affrontato il tema del lavoro immateriale ( che, ha detto fra l’altro, presuppone quello materialissimo dei minatori che estraggono la materia prima con cui si fanno i nostri apparecchi digitali) caratterizzato in realtà da un modo di estrazione del plus valore del tutto simile a quello delle epoche più antiche. Anche in questo caso molte osservazioni di Marx su quanto oggi chiamiamo post-industria, che continua a produrre plus valore.
Oltre a due interessanti contributi sul tema Religione, uno di Stefano Petrucciani (Sapienza) e uno di Michael Loewy (Centre de la recherche scientifique, Francia) su aspetti del feticismo in Marx, ma anche su quello attualissimo della Teologia della Liberazione , la grande preziosa corrente della Chiesa sudamericana.
Gli argomenti che più hanno appassionato i partecipanti, perché per molti versi i più nuovi, quello dell’Ecologia e quello di Genere.
Sul primo hanno parlato tre relatori venuti ciascuno da una diversa parte del mondo: Kohei Saito dal Giappone (Osaka University), Gregory Claeys (Royal Holloway University UK), Razmig Keucheyan ( nome palesemente armeno ma Università di Bordeaux). Tutti e tre hanno in qualche modo affrontato il tema dal lato dei bisogni, citando gli scritti dei due principali teorici dell’argomento, André Gorz e Agnes Heller, ma mettendoli in rapporto con le tantissime e quasi sempre ignorate riflessioni di Marx sulla rapina della natura, così come sulla liberazione del tempo (Manoscritti del ’44, Ideologia tedesca, Critica alla filosofia del diritto di Hegel, Grundrisse,lo stesso Capitale).
E dunque insistendo sul fatto che occorre sottrarsi al consumismo imposto dal modo di produzione capitalista ( l’imbroglio del capitalismo) e invece qualificare i propri bisogni ,non moltiplicarli. Un mutamento possibile tuttavia solo se si libera tempo dal lavoro per lo sviluppo della creatività, proprio quello che il capitale nega. Greta è stata naturalmente molto citata, e però come ha detto Claeys, dobbiamo risponderle in fretta, ma non abbiamo ancora elaborato le linee della rivoluzione necessaria ad affrontare il problema.
L’ultimo round è stato per il Genere con Humani Bannerji (indiana ma York University Toronto) e di Elvira Concheiro (Unam,Mexico). Nel riprendere il più recente dibattito femminista molto si è insistito su quello che è stato definito “incontro possibile con Marx”, e cioè sulla connessione della battaglia delle donne con quella anticapitalista. E per questo molto si è parlato del lavoro non pagato di riproduzione e di cura.
Per questo più volte citato il nuovo manifesto femminista americano scritto da Nancy Fraser e Cinzia Arruzza ( giovane siciliana ma docente universitaria a new York), intitolato “Patriarcato e capitale, alleanza criminale”.
Il discorso di chiusura ha rappresentato un evento eccezionale. A pronunciarlo è stato Alvaro Garcia Linera, vicepresidente della Bolivia dal 2006, il paese altissimo sulle Ande presieduto dal leggendario indio Morales. Linera ha una storia diversa, è un raffinato intellettuale marxista, che ha trascorso come tanti nel suo continente molti anni in prigione. Ha tenuto una relazione lunga, argomentata e colta, spiegando come stanno provando a fare un socialismo diverso da quello che abbiamo chiamato “reale”.
Insistendo sulle necessarie forme di democrazia e sulla socializzazione dei beni (il famoso bencomunismo) al posto delle statalizzazioni. Non provo neppure a darne una traccia, ma spero si sarà in grado di pubblicarlo al più presto. Linera è venuto apposta a Pisa, per poche ore, fra un impegno a Barcellona e uno a Parigi. Voleva esserci, e noi della sua partecipazione siamo stati orgogliosi e commossi .(Particolarmente io perché mi ha parlato subito de Il Manifesto ).
Ringraziando tutti a nome dell’Università di Pisa a conclusione della Conferenza Maurizio Iacono ha detto: “Ricucire, pur mantenendo la necessaria tensione dialettica, tempo lungo della ricerca, della storia e dell’immaginazione, e tempo breve dell’azione civile, politica e della vita quotidiana, nella consapevolezza che non ci può essere libero sviluppo delle facoltà individuali senza la fine dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, dell’uomo sulla donna, dell’uomo sulla natura.E’ questo che abbiamo imparato da Marx e che deve presupporre ogni tentativo di ripensare l’alternativa e ogni lotta per la dignità e l’uguaglianza.”
"DUE SOLI" IN TERRA, E UN SOLO SOLE IN CIELO: "TRE SOLI".... *
Storia.
Il sogno di Napoleone: l’archivio dell’impero
Bonaparte aveva capito che, controllando la memoria dei popoli, li si teneva in pugno e si poteva scrivere la storia come prova della legittimità del proprio potere
di Edoardo Castagna (Avvenire, giovedì 11 aprile 2019)
Del saccheggio napoleonico di opere d’arte, con i lunghi strascichi relativi alle restituzioni o alle mancate restituzioni, molto si è scritto. Assai meno del saccheggio di uomini, della “carne da cannone” razziata come e più di quadri e statue in ogni angolo d’Europa, per finire seppellita tra le colline boeme o nelle steppe di Russia. Tutti iscritti all’anagrafe della storia come “francesi” sebbene in gran parte francesi non fossero affatto, come lo stesso Napoleone si premurò poi di rimarcare. Ma le appartenenze nazionali, così come le tradizioni storiche e le memorie collettive, si costruiscono. Ed è per questo che tra i tanti saccheggi napoleonici uno, perseguito con particolare tenacia, si concentrò sugli archivi delle varie capitali via via occupate e inglobate nell’Impero.
Vicenda meno nota di altre, ben ricostruita da Maria Pia Donato nel suo L’archivio del mondo. Quando Napoleone confiscò la storia (Laterza, pagine 170, euro 19,00). La sua versione dell’eterno sogno della biblioteca universale si declinò utilitaristicamente verso la condensazione sotto un unico controllo di quella che avrebbe dovuto essere la fonte primaria sia per la scrittura della storia nei secoli a venire, sia per la costruzione di una tradizione e di un’identità comune a tutta l’Europa posta sotto lo scettro di Napoleone, in ideale rimando all’unità medievale dei “due soli” a cui esplicitamente tale operazione si ispirò. Furono infatti la conquista, nel 1809, degli archivi del Sacro Romano Impero e del Papato a mettere in moto la macchina accentratrice dell’archivio dell’Impero.
Come in tante altre occasioni, la storia seguiva la propria strada indipendentemente dalla volontà degli uomini, tanto che l’idea di centralizzare gli archivi europei, sottolinea la Donato, seguì e non precedette l’inizio della sua realizzazione: il suo Napoleone è perfettamente tolstojano, in balìa di quegli stessi eventi epocali che si illude di governare. Stando al trattato con l’Austria nel 1809, avrebbero dovuto passare sotto controllo francese soltanto gli atti relativi ai territori ceduti agli occupanti: i quali invece, con militaresca ruvidità, prelevarono in blocco le carte conservate a Vienna, quali che fossero e di ogni epoca. Furono riempite oltre 2.500 casse, caricate sui carri e spedite a Parigi.
Simile fu la brutalità con la quale si procedette al- l’acquisizione degli archivi di Roma, il cui sequestro in realtà fu, almeno inizialmente, funzionale alla volontà di Napoleone di mettere sotto pressione il Papa: tanto che nel 1813, quando l’imperatore credette di averla spuntata su Pio VII, ordinò la restituzione delle carte. Per rimangiarsela, naturalmente, quando mutò nuovamente idea sul conto del Pontefice. Nel frattempo però, e anche in contraddizione con i tatticismi politici del momento, maturava in lui e nei suoi collaboratori «l’idea di creare un sito centrale della memoria per l’impero, anzi una grandiosa raccolta delle testimonianze scritte della civiltà», nota la Donato; via via furono acquisiti gli archivi olandesi, spagnoli, piemontesi, belgi, della galassia di staterelli tedeschi.
A sovrintendere al tutto fu l’archivista capo Pierre-Claude-François Daunou: ex prete, ex illuminista, ex fervente repubblicano, infine comodamente adagiato nell’ordine bonapartista (al quale peraltro sarebbe sopravvissuto). Nella sua opera trasfuse, al pari di quella contemporanea e simmetrica dei curatori del Louvre, del Jardin des plantes o della Biblioteca nazionale di Parigi, l’ideale e l’ambizione enciclopedici degli Idéologues illuministi. «Fu elaborata sul campo - nota la Donato - la dottrina che Édouard Pommier ha chiamato “la teoria del rimpatrio”, ossia l’idea che solo nella Francia rigenerata le opere delle scienze e delle arti avrebbero potuto sprigionare il loro potenziale di conoscenza ed emancipazione».
Daunou aveva ben servito Napoleone compilando un Saggio storico sul potere temporale dei papi tutto teso a mostrare le malefatte plurisecolari del Papato e le buone ragioni di un imperatore nel volerlo ridurre alla sua mercé; il Saggio venne ripetutamente riveduto e ampliato proprio grazie alle nuove fonti archivistiche divenute disponibili. Ma Daunou non era un mero cortigiano, anzi: nella sua opera di gran maestro dell’archivio napoleonico diede indubbie prove di capacità organizzative, di intelligenza pratica (fu l’inventore di quelle “schede”, uniformi per formato e ordine delle informazioni, divenute poi di uso universale fino all’avvento della digitalizzazione) e anche di un po’ di visionarietà.
Non ci fu il tempo di costruire l’immenso palazzo che avrebbe dovuto ospitare i Grandi Archivi, ma quello per affermarne la centralità storica sì: non solo, prosegue la Donato, «furono l’invenzione simbolica di un impero in cerca di radici», ma offrivano anche l’occasione di coltivare la storia pragmatica che era stata degli Idéologues. L’archivio serviva (anche) a scrivere la storia», e per questo esserne i controllori significava essere i controllori della memoria dei popoli. Nelle carte degli archivi si trovano i mattoni fondamentali per erigere quei monumenti umani collettivi che sono le identità naziona-li: una lezione, questa, che gli Stati- nazione che sarebbero sorti dopo il tramonto dell’età napoleonica, e che rientrarono in possesso dei rispettivi archivi, avrebbero ben messo a frutto.
*
Sul tema, nel sito, si cfr.:
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
DANTE ALIGHIERI (1265-1321)!!! LA LINGUA D’AMORE: UNA NUOVA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO. CON MARX E FREUD. Una "ipotesi di rilettura della DIVINA COMMEDIA" -Nel 200° anniversario della pubblicazione della "Fenomenologia dello Spirito" di Hegel (1807)
Federico La Sala
PIANETA TERRA. 8 MARZO 2019: IL GRADO DI CIVILTA’ CUI L’UOMO E’ GIUNTO .... *
"[...] Nel rapporto con la donna, in quanto essa è la preda e la serva del piacere della comunità, si esprime l’infinita degradazione in cui vive l’uomo per se stesso: infatti il segreto di questo rapporto ha la sua espressione inequivocabile, decisa, manifesta, scoperta, nel rapporto del maschio con la femmina e nel modo in cui viene inteso il rapporto immediato e naturale della specie.
Il rapporto immediato, naturale, necessario dell’uomo con l’uomo è il rapporto del maschio con la femmina. In questo rapporto naturale della specie il rapporto dell’uomo con la natura è immediatamente il rapporto dell’uomo con l’uomo, allo stesso modo che il rapporto con l’uomo è immediatamente il rapporto dell’uomo con la natura, cioè la sua propria determinazione naturale.
Cosi in questo rapporto appare in modo sensibile, cioè ridotto ad un fatto d’intuizione, sino a qual punto per l’uomo l’essenza umana sia diventata natura o la natura sia diventata l’essenza umana dell’uomo.
In base a questo rapporto si può dunque giudicare interamente il grado di civiltà cui l’uomo è giunto. Dal carattere di questo rapporto si ricava sino a qual punto l’uomo come essere appartenente ad una specie si sia fatto uomo, e si sia compreso come uomo; il rapporto del maschio con la femmina è il più naturale dei rapporti che abbiano luogo tra uomo e uomo.
In esso si mostra sino a che punto il comportamento naturale dell’uomo sia diventato umano oppure sino a che punto l’essenza umana sia diventata per lui essenza naturale, e la sua natura umana sia diventata per lui natura. In questo rapporto si mostra ancora sino a che punto il bisogno dell’uomo sia diventato bisogno umano, e dunque sino a che punto l’altro uomo in quanto uomo sia diventato per lui un bisogno, ed egli nella sua esistenza più individuale sia ad un tempo comunità [...]".
* K. MARX, Manoscritti economico-filosofici del 1844. Sul tema, si cfr.: CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
MARX, IL "LAVORO - IN GENERALE", E IL "RAPPORTO SOCIALE DI PRODUZIONE - IN GENERALE".... *
L’alienazione come concetto da ridiscutere
A proposito dell’ultimo numero di «La società degli individui», a cura di Ferruccio Andolfi e Giovanni Sgro’
di Marco Gatto (il manifesto, 11.01.2019)
Il quadrimestrale di filosofia e teoria sociale La società degli individui dedica il suo ultimo numero a una rilettura del tema dell’alienazione depositato in quel testo tanto importante quanto discusso che è la raccolta dei Manoscritti economico-filosofici del 1844 di Karl Marx. Ferruccio Andolfi e Giovanni Sgro’, nelle pagine introduttive, spiegano perché sia necessario ripensare adeguatamente il Marx umanista, dopo una lunga stagione che, da più versanti, ha inteso ribadire la centralità del Marx scienziato dell’economia, allestendo così una scissione assai problematica nell’opera del Moro che è alla base anche del più recente dibattito storiografico e filosofico.
Per i curatori, che si riallacciano a una più generale ripresa del concetto di alienazione proveniente da pensatori quali Axel Honneth e Rahel Jaeggi, ma che ne considerano la problematicità sia nel suo crinale critico-negativo, sia in quello propositivo di ripensamento della centralità individuale, gli attuali «fenomeni di spossessamento del sé continuano ad attirare l’attenzione anche dopo il superamento delle ingenuità utopico-essenzialiste» ormai date per scontate nel cammino riflessivo di Marx.
DEL RESTO, se è vero che il capitalismo contemporaneo produce forme di vita devote alla superficie o a uno sradicamento del concreto verso i registri distorsivi dell’astratto, che sovente sposano l’interezza delle retoriche neoliberali sul lavoro, una riflessione sulle nuove modalità di estraneazione sembra farsi all’ordine del giorno. Quelle oggi concepite come patologie sociali possono comunque definirsi attraverso concetti che rappresentano una dislocazione, una dissociazione dell’individuo dall’ambiente sociale, e dunque un suo autonomizzarsi dai legami; nello stesso tempo, questo distacco presuppone, per alcuni, una positiva esperienza critica e dunque l’apertura a una nuova modalità di conoscenza ed esperienza: una doppia accezione, insomma, che rende problematico il quadro filosofico legato al concetto di alienazione.
IL NUMERO è assai denso; i contributi - a firma di Mario Cingoli, Marcella D’Abbiero, Enrico Donaggio, Roberto Fineschi, Paulo Denisar Fraga, Stéphane Haber, Stefano Petrucciani, Eleonora Piromalli, Yvon Quiniou, Emmanuel Renault e Massimiliano Tomba - problematizzano le questioni rilevandone diversi gradi di prospettiva; non manca una riflessione, allestita da Sgro’, sull’interpretazione che dei Manoscritti avevano offerto Herbert Marcuse ed Erich Fromm, dei quali il numero presenta due scritti sul materialismo storico e sul socialismo. È ovviamente legata a questa riconsiderazione critica del Marx umanistico la proposta, messa in campo ancora da Andolfi e Sgro’, di una nuova edizione commentata dei Manoscritti, appena uscita presso l’editore Orthotes, e calibrata sulla nuova Marx-Engels-Gesamtausgabe, con un testo di accompagnamento assai puntuale che guida la lettura passo dopo passo.
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
COSMOLOGIA E CIVILTÀ. "PER LA CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA" DELLA RAGIONE ATEA E DEVOTA
KARL MARX RISPONDE A SALVATORE VECA, PRENDE LE DISTANZE DA ENGELS E RENDE OMAGGIO A FULVIO PAPI.
"PER LA CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA" DELLA RAGIONE ATEA E DEVOTA ...
VICO E MARX CONTRO LA PRASSI (ATEA E DEVOTA) DELLA CARITÀ POMPOSA.
KANT E GRAMSCI. PER LA CRITICA DELL’IDEOLOGIA DELL’UOMO SUPREMO E DEL SUPERUOMO D’APPENDICE.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Marx libero dai pregiudizi dei marxismi
L’analisi di Musto (Einaudi)
di Umberto Curi (Corriere della Sera, 04.01.2019)
Non accade spesso che la pubblicazione di un libro segni una svolta negli studi relativi ad un autore. È più frequente il caso di saggi che, nella migliore delle ipotesi, si limitano ad aggiornare il quadro, o che sviluppano aspetti settoriali specifici, senza intraprendere una revisione complessiva. Prevale largamente, insomma, l’attitudine a lavorare all’interno di un paradigma già consolidato, piuttosto che proporre un approccio talora arrischiato, ma realmente innovativo.
Questo orientamento generale è ancora più nettamente riscontrabile negli scritti riguardanti il pensiero di Karl Marx. Dopo la vera e propria orgia ideologica degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, quando i testi del filosofo furono utilizzati per legittimare le posizioni politiche più diverse e spesso più stravaganti, e dopo il quasi totale oblio conseguente alla cosiddetta «crisi del marxismo», i pochi libri dedicati all’autore del Capitale comparsi negli anni più recenti si sono segnalati per la riproposizione di stereotipi logori, senza alcun serio tentativo di leggere Marx come sarebbe stato giusto e doveroso, vale a dire come un grande protagonista della ricerca teorica contemporanea, degno di appartenere ad un’ideale galleria di pensatori classici.
Si può anzi rilevare un paradosso rivelatore. Fino a ieri (anzi, come si vedrà fra breve, letteralmente fino ad oggi) il Marx del quale si è ricominciato a parlare è il profeta della società comunista, l’acerrimo denigratore del capitalismo, il fautore di una filosofia del proletariato denominata «materialismo storico» - vale a dire un personaggio che, se ci si attiene rigorosamente ai suoi scritti, anziché avallare improbabili leggende fiorite all’ombra delle ideologie novecentesche, nulla in realtà ha a che vedere con la reale identità teorica del pensatore di Treviri. Fra i numerosi esempi che si potrebbero citare, per dimostrare le vere e proprie deformazioni che la sua opera ha dovuto subire, basti ricordare l’intransigenza con la quale egli aveva più volte sottolineato di non aver mai enunciato un «sistema socialista», ribadendo la sua totale refrattarietà a «prescrivere ricette per le osterie dell’avvenire».
Il grave e inescusabile ritardo nell’«essere giusti con Marx» (per parafrasare il titolo dell’opera nella quale Jacques Derrida fa i conti con Freud) è oggi finalmente colmato con la pubblicazione del libro di Marcello Musto Karl Marx. Biografia intellettuale e politica 1857 -1883 (Einaudi, pagine XI-329, e 30). Il testo è costruito sulla base di un’opzione metodologica al tempo stesso semplice ed estremamente efficace: delineare il contributo teorico contenuto negli scritti marxiani redatti fra il 1857 (l’anno dei Grundrisse, per intendersi) e il 1883 (anno della morte di Marx), contestualmente alla descrizione dei principali eventi della sua vita. E con ciò reagendo alla tendenza ancor oggi persistente a separare la narrazione dell’esistenza di Marx dalla sua elaborazione teorica.
Ne risulta un’opera in ogni senso magistrale per l’acribia della documentazione filologica, il rigore della trattazione, la cristallina chiarezza espositiva, l’originalità dell’approccio interpretativo. Già autore di altri fondamentali contributi alla comprensione del pensiero marxiano - fra i quali, Ripensare Marx e i marxismi (Carocci, 2011) e L’ultimo Marx (Donzelli, 2016) - Musto ci consegna ora un testo che sconvolge il sonnolento scenario dell’esangue letteratura marxologica, per consegnarci la viva attualità del pensiero di un grande autore classico.
Per un Marx al presente
Comunismi. C’è da chiedersi quanto, perfino nelle meno odiose tra le società occidentali, non siano stati visti i bisogni operai in crescita intellettuale e morale rispetto ai loro bisogni materiali, affidati essenzialmente alla distribuzione
di Rossana Rossanda (il manifesto, 12.12.2018)
Non credo che, nell’interessante rassegna degli studi su Marx apparsa sul manifesto, si possa rimproverare alla ricerca svolta da Marcello Musto un eccesso di attenzione per le peripezie della coppia Marx-Jenny von Westhfalen. Non so se esse siano fin troppo note, ma sono quelle che danno a questa ricerca un carattere di molto più vicino umanamente e di comprensibile anche per lo sviluppo scientifico del pensatore di Treviri.
Se mai riterrei utile approfondire una ricerca sul presente. Considerato che Marx non ha mai rinunciato a ritenere la classe operaia industriale delle fabbriche come il soggetto «rivoluzionario» per eccellenza, sarebbe utile capire su quale strato o gruppo sociale sia passato questo protagonismo in una fase in cui l’industria è nettamente in calo.
Non sembra che si possa attribuire questo compito al crescente precariato giovanile. Né mi sembra decisivo il passaggio al lavoro di servizio alla persona da parte della maggior quantità di donne, tantomeno per il lavoro di cura su cui si è soffermata Alisa Del Re, ma che interessa gran parte del femminismo italiano. Non è semplice considerarlo lavoro produttivo di merci che si possono scambiare, alimentando la accumulazione capitalistica: in generale si tratta di «competenze» soprattutto di carattere affettivo o relazionale e di vendita del proprio «tempo disponibile».
Ne deriva una trasformazione permanente della figura del lavoro, specie femminile, ma non mi pare del meccanismo di produzione di merce vendibile, a meno che non si tratti di grandissimi aggregati di servizi direttamente o indirettamente alla persona, come si possono individuare ancora nella fenomenologia cinese o in certe produzioni, specialmente di carattere medico, americane o tedesche.
Altrettanto interessante mi sembra il discorso che ne deriva per le società dell’Est, soprattutto per quanto riguarda la libertà: in generale sembrerebbe di poter raccogliere attorno a quella fenomenologia la natura di società particolarmente chiuse e autoritarie; perfino la definizione di stato sempre intollerabile, propria di Bakunin, sembra potersi attribuire specialmente alle società dell’Est, più odiose addirittura delle nostre.
Di qui anche l’errore compiuto dai vari «marxismi-leninismi» di considerare come obiettivo principale unico la distribuzione di beni soprattutto materiali ai lavoratori, obiettivo fatto proprio anche dalla maggior parte dei partiti comunisti.
L’avere privilegiato esclusivamente i beni materiali di consumo - che appare tuttora la scelta della Repubblica popolare cinese - è stata rilevata anche dal lavoro di Ernesto Screpanti per la manifestolibri, ed è al centro della ricerca di Rita Di Leo (L’età della moneta), trascurando (non a caso) la trasformazione dei rapporti fra uomini invece che fra cose, che ha caratterizzato anche il modello sovietico e ora sembra caratterizzare quello cinese.
Nella ricerca di Musto è interessante il rilievo dato al «plusvalore», cioè all’appropriazione da parte del padronato del tempo rubato gratuitamente agli operai, trascurando i loro bisogni di acculturazione e in genere di libertà nei rapporti sociali. C’è da chiedersi quanto, perfino nelle meno odiose tra le società occidentali, non siano stati visti i bisogni operai in crescita intellettuale e morale rispetto ai loro bisogni materiali, affidati essenzialmente alla distribuzione. Ne deriva l’ignoranza dei motivi ricorrenti di crisi nelle società dell’Est, mentre Marx riconduce esplicitamente ad una idea della «classe» come composta essenzialmente da individui necessariamente diversi l’uno dall’altro. Questo filone di ricerca mi sembra urgente.
Dentro la rivoluzione del mercato mondo
Marxismo. «200 Marx. Il futuro di Karl». Si apre oggi al Macro di Roma un convegno internazionale che celebra, con lo sguardo al futuro, il bicentenario del Moro. Anticipiamo un ampio stralcio di un testo che sarà presentato nella sessione «Per la critica del capitalismo globale» in programma domani
di Sandro Mezzadra (il manifesto, 13.12.2018)
Intervenire a un convegno su Marx (o meglio sul suo «futuro») in una sessione intitolata Per la critica del capitalismo globale comporta qualche esitazione. Di che cosa siamo chiamati a parlare? Della critica del nostro presente facendo tesoro della lezione di Karl? O piuttosto della critica che quest’ultimo ha articolato nel corso della sua vita, in un tempo ormai lontano, di un modo di produzione capitalistico fin dalla sua origine «globale»? Non è per me una domanda retorica.
Trascorsa l’epoca della damnatio memoriae, quando la semplice menzione di Marx (in particolare in Italia) determinava commiserazione o alzate di ciglia, è bene resistere alla tentazione di applicare linearmente all’analisi del presente le categorie da lui elaborate. Profondamente «intempestivo», secondo l’azzeccata definizione di Daniel Bensaïd, Marx ha intrattenuto un rapporto complesso - di adesione e di scarto, di appropriazione e di sottrazione - con il proprio tempo. Il suo pensiero ne è fortemente segnato: leggere (o rileggere) oggi le sue opere significa esporsi a questa intempestività.
LA NOSTRA RICERCA «deve mettere Marx a confronto non con il suo tempo, ma con il nostro tempo. Il Capitale deve essere giudicato sulla base del capitalismo di oggi. Ma sarà opportuno aggiungere una postilla: affinché questo sia possibile, è essenziale comprendere e apprezzare la storicità specifica delle categorie marxiane, non tanto per liberarle dalle incrostazioni di un’epoca ormai trascorsa quanto per riattivare quell’urto contro i limiti del suo tempo (e del suo stesso pensiero) che le costituisce.
C’è qui per me un principio di metodo: l’«attualità di Marx» non coincide necessariamente con l’attualità del suo sistema; risiede nei vuoti oltre che nei pieni del suo pensiero, nei suoi scacchi così come nei suoi trionfi «scientifici» - nei problemi che ci aiuta a pensare e non soltanto nelle soluzioni che ci propone. La nostra interpretazione di Marx, in altri termini, deve essere da un lato filologicamente rigorosa, dall’altro «trasformativa», come ha scritto di recente Étienne Balibar.
Ora, che vi sia qualcosa di invariante nel capitalismo è evidente. Ma questa formulazione riduce la critica dell’economia politica al terreno della logica e azzera il rilievo di intere sezioni del Capitale - quella sulla «cosiddetta accumulazione originaria», ad esempio, ma anche e soprattutto l’analisi della transizione dalla manifattura alla «grande industria», che costituisce metodologicamente un modello per la messa a fuoco dei caratteri specifici assunti dal capitalismo in un’epoca storica (la metà dell’Ottocento) e in un luogo (l’Inghilterra) determinati.
PIÙ IN GENERALE, oscura un fatto per me cruciale, che Marx ha definito (fin dalle pagine dedicate alla borghesia nel Manifesto con una chiarezza senza pari: ovvero il carattere rivoluzionario dell’oggetto della sua critica rivoluzionaria, il capitalismo. Nei Grundrisse il «mercato mondiale» appare come sintesi e condizione di possibilità (come «presupposto e risultato») della «rivoluzione permanente» attuata dal capitale, della sua strutturale determinazione espansiva: «la tendenza a creare il mercato mondiale», scrive qui Marx, «è data immediatamente nel concetto di capitale. Ogni limite si presenta qui come ostacolo da superare».
ECCO DUNQUE un primo elemento «invariante» da inserire in una definizione di capitalismo coerente con la critica marxiana (non senza avvertire che il concetto di capitalismo non rientra nel lessico di Marx, che parlava piuttosto di «modo di produzione capitalistico» o di «formazione sociale» capitalistica). Il capitale come rivoluzione permanente costruisce la sua storia come «storia mondiale» e produce i propri spazi nell’orizzonte del «mercato mondiale». Una volta posto quest’ultimo come «invariante» risalta immediatamente, tuttavia, il carattere astratto di questa invarianza. Il «mercato mondiale» cambia radicalmente nella storia, a partire dal momento della sua apertura attraverso la conquista, il colonialismo e il genocidio descritti nel capitolo 24 del primo libro del Capitale.
Nel mio lavoro con Brett Neilson ho cercato di cogliere la «differenza specifica» del capitalismo contemporaneo sottolineando come oggi siano preminenti (nella stessa composizione del «capitale complessivo», nell’orientamento di quelle che Marx chiamava le «rivoluzioni di valore»), operazioni di carattere essenzialmente estrattivo. Abbiamo cercato di sostanziare questa tesi (che in modi diversi è condivisa da altri autori, da Michael Hardt e Toni Negri a Saskia Sassen per esempio) con un’analisi delle operazioni del capitale nel settore estrattivo in senso stretto, nella logistica e nella finanza.
PARLIAMO DI SPECIFICHE operazioni del capitale, per indicare che il capitalismo oggi non si riduce alle sue determinazioni estrattive, per quanto queste ultime esercitino una funzione di comando e di sincronizzazione sull’insieme dei processi di valorizzazione e di accumulazione. E in particolare cerchiamo di dimostrare che il capitalismo contemporaneo non è caratterizzato (al contrario di una tesi ampiamente diffusa ad esempio nei dibattiti latinoamericani sul cosiddetto «neo-estrattivismo») da un assoluto primato dello «spossessamento», impiegando il termine nel senso attribuitogli da David Harvey. Quel che ci sembra piuttosto importante analizzare e comprendere è la combinazione di «spossessamento» e «sfruttamento» in quella che oggi occorre tornare a definire, con tutte le sue differenze, la condizione e l’esperienza proletaria globale.
È QUASI INUTILE sottolineare come oggi il mondo della finanza, nel tempo dell’High Frequency Trading per fare un solo esempio, sia completamente diverso da quello in cui si muoveva il «capitale produttivo di interesse» analizzato da Marx nel terzo libro del Capitale. C’è tuttavia in questa analisi un punto che mi pare molto interessante, anche indipendentemente del significato che deve essere attribuito alla categoria di «capitale fittizio» da lui impiegata in questo contesto: per Marx, la finanza è sostanzialmente una gigantesca «accumulazione di diritti, titoli giuridici, sulla produzione futura». Questa determinazione in ultima istanza politica della finanza, il suo essere caratterizzata da una pretesa sulla produzione futura, rimane decisamente attuale. E mostra, in particolare laddove si analizzino le forme dell’indebitamento di massa - tanto pubblico quanto privato - che coinvolgono popolazioni povere e lavoratrici, come il contenuto del debito contratto nel rapporto con il capitale finanziario sia l’obbligo a partecipare alla «produzione futura», la coazione a un lavoro quale che sia.
Il capitale finanziario estrae, preleva valore attraverso la diffusione molecolare nel tessuto della cooperazione sociale di questa coazione - che corrisponde indubbiamente a specifici processi di «spossessamento». Ma nel momento in cui la coazione si traduce in pratica (in altre parole: nel momento in cui, per ripagare il debito, la singola proletaria mette all’opera la propria forza lavoro, si entra necessariamente in rapporto con diverse figure del capitale le cui operazioni sono caratterizzate da specifici processi di «sfruttamento».
ECCO DUNQUE la combinazione di spossessamento e sfruttamento di cui ho parlato prima. E occorrerà aggiungere, restando a questo esempio molto semplificato, che la nostra proletaria ha di fronte a sé uno spettro molto ampio e profondamente eterogeneo di prestazioni lavorative (di modalità attraverso cui mettere in opera la propria forza lavoro) tra cui scegliere: potrà andare a lavorare in una fabbrica o in uno sweatshop, in un supermercato o in una casa, potrà fare la massaggiatrice o vedere droga per strada. È un punto fondamentale, che andrebbe argomentato con ben altra ampiezza, inseguendo le metamorfosi e le infinite combinazioni di spossessamento e sfruttamento che si presentano: mi limito qui a dire che ai processi di finanziarizzazione, e più in generale al primato delle operazioni estrattive del capitale, corrisponde quella che io e Brett Neilson abbiamo chiamato moltiplicazione del lavoro.
IL PROGRAMMA DEL CONVEGNO
Da oggi fino a domenica a Roma (presso la sede del Macro in via Nizza 136) il convegno «200 Marx. Il futuro di Karl», inserito nelle iniziative per il bicentenario della nascita.
Il programma (consultabile sul sito www.marx200.it) si aprirà oggi alle 14 con la sessione « Rivoluzione della politica», con interventi di Aldo Tortorella, Paolo Ciofi, Maria Luisa Boccia, Alfonso Maurizio Iacono, Giacomo Marramao, Marina Montanelli, Marcello Musto, Mario Tronti.
Venerdì sarà la volta di un panel dedicato a «Storia e storie», con Adolfo Pepe, Francesco Giasi, Enrico Donaggio, Chiara Giorgi, Vittorio Morfino, Peter Kammerer, Stefano Petrucciani. Infine «Per la critica del capitalismo globale», con Michael Braun, Riccardo Emilio Chesta, Sandro Mezzadra, Laura Pennacchi, Benedetto Vecchi, Carlo Vercellone, Ursula Huws.
Sabato 15, si chiude con «Vite, parole, corpi», insieme a Vincenzo Vita, Franco Ippolito, Roberto Ciccarelli, Donatella Dicesare, Roberto Finelli, Cristina Morini.
Luciano Canfora "Io, Artemidoro e la mia guerra ai falsari geniali"
Dopo la sentenza della Procura di Torino, parla lo studioso che aveva considerato il Papiro sin dall’inizio una truffa. "Chi ha studiato con me è stato vittima di pressioni e minacce. Salvatore Settis? Lo considero ancora un amico"
Intervista di Dario Olivero (la Repubblica, 12.12.2018)
Questa storia si può raccontare, come tutte le storie, in molti modi. Uno è quello della procura di Torino: il Papiro di Artemidoro è un falso, non si procede per truffa solo perché il reato è caduto in prescrizione. Un altro è quasi conradiano: il Papiro di Artemidoro è il campo di battaglia di due duellanti, Salvatore Settis che ne ha perorato l’acquisto e difeso l’autenticità fino all’ultimo sangue e Luciano Canfora che fin dall’inizio l’ha messa in dubbio. Un terzo è la detective story con tutti gli ingredienti del noir: un falsario geniale, un venditore oscuro, un acquisto affrettato, svariate autopsie filologiche e scientifiche, misteri, depistaggi, esperti entrati e usciti di scena, molti soldi. E, naturalmente, un investigatore ossessionato dalla verità.
Professor Canfora, perché ha dedicato tredici anni della sua vita a dimostrare che il Papiro di Artemidoro è falso? È ossessionato?
«Per nulla», risponde al telefono da Bari il giorno dopo la notizia arrivata dalla procura di Torino che gli dà ragione. «Semmai sono uno curioso che desidera sempre andare a fondo. Mi sono occupato e mi occupo di tante cose con la stessa curiosità e, visto che non esistono ossessioni multiple, il Papiro non è la mia ossessione. Nessuno lascia a metà una ricerca o un problema, bisogna lavorare con disciplina rispettando lo stile che richiede una materia come la filologia».
Ma perché proprio il Papiro?
«Mi imbattei nel Papiro mentre lavoravo su tutt’altro. La mia ricerca mi portò a studiare i modi di ritrovamento e acquisto dei materiali papiracei negli anni Venti e Trenta, un periodo di grande fioritura. Un fondo si trovava a Milano al centro Achille Vogliano. Lì vidi dei lucidi che raffiguravano il cosiddetto Papiro di Artemidoro. Era il 2006, mi chiesero di esprimermi e scrissi un articolo in cui esortavo alla cautela sulla sua autenticità».
E come mai la storia non finì lì?
«L’Enciclopedia italiana, di cui faceva parte anche Settis, mi chiese di scrivere la voce "Papiro" con la precisa richiesta di dare molto spazio a questa novità appena esposta a palazzo Bricherasio. Allora approfondii lo studio e pubblicai sui Quaderni di storia i miei rilievi e li mandai a Settis che mi disse che anche lui all’inizio aveva avuto dei dubbi. Dopo alcune settimane, lo dissi anche in un’intervista. Due giorni dopo su Repubblica apparve un pezzo molto polemico del mio amico che mi chiamava in causa. A quel punto ritenni fosse mio dovere proseguire le indagini».
Lo chiama amico, lo siete ancora?
«Sì, lo siamo tuttora. I rapporti personali non possono essere intaccati da una disputa accademica».
C’è chi insinua che la sua battaglia fosse motivata dal risentimento per non essere stato chiamato alla Normale di Pisa.
«Ma certo che no. Quell’anno nessuno venne chiamato. Inoltre credo sinceramente che Settis mi fosse favorevole».
È vero che avete condiviso una stanza quando eravate studenti?
«Da studenti abbiamo dormito nella stessa stanza di un pessimo albergo di Taranto, ci stavamo laureando e avevamo ricevuto una colossale borsa di studio da 25mila lire per seguire un convegno. Mi ricordo che Settis chiese una birra ma non avevano neanche quella. Stiamo parlando del ’63: c’era ancora Togliatti».
Ma dai tempi di Togliatti quante volte vi siete sentiti negli ultimi tredici anni?
«Le ripeto, ci siamo visti spesso, per esempio nel consiglio scientifico della Treccani».
Mi aiuti a ricostruire la storia. Partiamo dal gallerista armeno, Serop Simonian, che vendette il Papiro all’allora Compagnia di San Paolo nel 2004 per 2 milioni e 750 mila euro. Lo ha mai incontrato?
«No, mai. Ha una galleria d’arte ad Amburgo, ma il personaggio è sospetto. Pensi che quando Eleni Vassilika, che poi avrebbe rifiutato il Papiro in comodato d’uso all’Egizio di Torino, era direttrice a Hildesheim aveva già avuto a che fare con lui ed ebbe molti problemi sull’autenticità e provenienza delle opere che trattava. Avemmo con lui due contatti: il primo fu quando Silio Bozzi, un dirigente della polizia scientifica, gli chiese il negativo di una foto scattata al Konvolut, cioè l’involucro da dove sosteneva provenisse il Papiro, e lui disse di no. La seconda per un invito a un convegno sul Papiro. Non venne».
Veniamo al secondo personaggio: il falsario. Si chiamava Simonidis, non le sarà sfuggita l’assonanza dei nomi dei due protagonisti.
«In effetti deve essere la provvidenza che si è divertita a mettere insieme un greco e un armeno di due secoli diversi nella stessa storia. Simonidis è un personaggio colossale. Non conosciamo né l’anno di nascita né quello di morte. Anzi, diffuse la notizia di essere morto ma in realtà si era ritirato in Egitto, secondo il Times (che non ne era del tutto certo) pare che sia morto in Albania nel 1890».
Falsificò la sua morte?
«Era un genio. Studiò sul Monte Athos dallo zio che era igumeno di uno dei monasteri. Imparò a disegnare teste, profili, imparò la composizione degli inchiostri antichi. Poi andò ad Atene dove pubblicò opere di argomento geografico con uno stile che imita quello bizantino. Studiò teologia a Istanbul, poi finì in Russia e cercò di smerciare una lista di testi greci che sosteneva aver portato dall’Athos ma l’Accademia di Pietroburgo li respinse. Erano tutti testi geografici come il Papiro».
Professore, se non sapessi che stiamo parlando del Papiro di Artemidoro, direi che lei stima questo falsario come certi detective ammirano i delitti di quelli a cui danno la caccia.
«Non mi sono invaghito, però in effetti so benissimo che la frequentazione assidua porta all’immedesimazione, Plutarco docet. Simonidis riuscì quasi a beffare l’Accademia delle scienze di Berlino. Ma, come diceva il grande filologo tedesco Wilamovitz: "Un falsario moderno per quanto bravo tradisce sempre la sua modernità"».
E torniamo al Papiro. E alla vittima. Perché la Compagnia di San Paolo lo acquistò? Non c’erano segnali che potesse trattarsi di una imprudenza?
«Nel 2004 nessuno aveva sospetti. C’era uno studio parziale tedesco del ’98. Certo, si tentò di venderlo anche in Spagna ma la Fondación Pastor sconsigliò, così come il Getty. Ma allora non era ancora scoppiato il caso. L’acquirente non aveva voci critiche che lo potessero allarmare».
Ma anzi, aveva il parere favorevole di Settis. Cosicché decise di esporlo in mostra.
«Esatto. Con tanto di sontuoso catalogo dal titolo Le tre vite del Papiro, oggi quasi introvabile».
Immagino non per lei.
«Io ne ho due o tre copie».
Comunque incominciò la sfida che è durata fino a oggi.
«Ma se io non fossi stato sollecitato ad occuparmene non lo avrei mai fatto. Uno deve disciplinare le energie».
L’archiviazione della procura di Torino sembra chiudere la storia. Eppure, come in un thriller, c’è un’autopsia ancora in corso. In questo momento il Papiro è a Roma all’Istituto centrale per il restauro. I proprietari, che hanno deciso di non intraprendere nessuna iniziativa legale, vogliono continuare a studiarlo. Ci aspettano nuovi colpi di scena?
«L’Istituto è un’eccellenza italiana, è giusto che procedano alle analisi, che sono soprattutto sugli inchiostri; ma ha già fornito indicazioni che vanno verso l’accertata modernità del papiro. Essendo scienziati procederanno con dei raffronti su pezzi di scavo per completare il referto».
Ma è giusto studiare un falso?
«Ma il Papiro è un eccellente prodotto moderno come altri prodotti del Simonidis ».
Quanti caduti ha lasciato sul campo la guerra del Papiro di Artemidoro?
«Mi ha colpito che studiosi di grande qualità in ognuno dei rispettivi ambiti siano stati bersaglio di attacchi e ostilità. Oltre alla ex direttrice dell’Egizio e Bozzi ci sono stati altri casi, restauratori, esperti, studiosi. Sono state fatte pressioni su di loro, alcuni costretti a lasciare il lavoro, altri trasferiti».
Pressioni da parte di chi?
«Posso citare Di Maio che oggi va tanto di moda?».
Se crede.
«Una manina misteriosa non so di chi».
E dal mondo accademico ha avuto più solidarietà, ostilità o indifferenza?
«Quando Mussolini fu arrestato il 25 luglio del ’43 un vicino di casa abbraccia un noto antifascista del suo stesso palazzo e gli dice commosso: finalmente. E il vicino gli risponde: me lo dovevi dire prima».
Karl Marx impigliato nel futuro
Percorsi. Un sentiero di lettura, in cinque libri di recente pubblicazione, per orientarsi nel bicentenario del pensatore di Treviri. Un modo per rimettere al lavoro il Moro, evidenziandone i «punti di stress»
di Benedetto Vecchi (il manifesto, 07.12.2018)
Due secoli separano il presente dall’anno di nascita di Karl Marx. In termini di anni (duecento), l’immagine evocata è quella di un uomo e di un’opera di altri tempi, ottocentesca. Eppure la sua critica all’economia politica, la sua antropologia filosofica, la sua militanza politica hanno condizionato gran parte del Novecento. Era quindi prevedibile che studiosi - marxisti e non solo - facessero i conti con la sua eredità teorica. Molte sono state le pubblicazioni dedicate al Moro. Difficile individuarne contorni netti, tuttavia. Ne esce semmai una costellazione tematica, talvolta sfuggente.
In primo luogo, emergono quelli che David Harvey ha chiamato i «punti di stress» dell’opera marxiana. La teoria del valore lavoro, la distinzione tra lavoro produttivo e improduttivo, la definizione della necessità di una organizzazione politica che valorizzasse l’autonomia della classe operaia. La polarità tra una tendenza globale del capitale (la formazione di un mercato mondiale, o per usare una espressione di Etienne Balibar di «capitalismo assoluto») e una «nazionalizzazione» della base economica del capitalismo stesso.
Marx, va da sé, nazionalista mai lo è stato. Negli scritti indirizzati all’Associazione internazionale dei lavoratori o nei pamphlet «politici» ha infatti sempre criticato ferocemente ogni cedimento nazionale dei gruppi militanti. Trovarlo descritto, come ormai spesso accade, sia a destra che a sinistra, come un «sovranista» restituisce solo la miseria della filosofia politica contemporanea.
CHI SI PROPONE di gettare un po’ di luce su questa costellazione è Roberto Finelli in Karl Marx. Uno e bino (Jaca Book, pp. 287, euro 25), che con una felice idea scandisce la riflessione, interrompendo la linea che dal passato porta al futuro, invertendo cioè il ritmo: c’è prima il futuro, poi il presente (lo stato dell’arte della critica marxista al capitalismo) per infine chiudere sul passato (il marxismo storico).
Il futuro di Finelli è la dichiarazione di un percorso di ricerca in divenire, ma del quale alcune tappe sono state comunque segnate. Il filosofo dell’astrazione reale segnala in primo luogo la irrinunciabile necessità di rompere lo schema evoluzionista, determinista di una filosofia della storia marxista che fa del comunismo una sorta di approdo obbligato, dettato da leggi di movimento oggettive che cancellerebbero la tensione a una libertà radicale per la quale serve mettere al lavoro la coppia filosofica «individuazione e riconoscimento di sé».
Individuazione significa fare i conti con l’antropologia della povertà e dello sfruttamento nel capitalismo, mentre il riconoscimento del sé significa un esercizio della differenza che tiene aperta, appunto, la possibilità di una libertà radicale. Da qui l’evocazione della psicoanalisi come elaborazione «altra», propedeutica alla produzione di soggettività politiche adeguate al presente.
IL BANDOLO DELLA MATASSA ha però fili e fila da tirare, come quello della biografia di Marx. Paolo Ferrero e Bruno Morandi si inoltrano così su quel tornante, facendo leva su una evidente attitudine pedagogica rispetto le sue opere (Grundrisse e Capitale), convinti i due autori che la desertificazione politica di questi anni abbia quasi azzerato la conoscenza dell’opera marxiana. Il loro libro Marx. Oltre i luoghi comuni (DeriveApprodi, pp. 240, euro 14) passa in rassegna la perigliosa e romantica vita del Moro, ma anche la teoria del valore lavoro, il ruolo della finanza, dello stato. Di tutt’altro spirito, ma con evidenti punti di contatto metodologici con questo volume è poi l’ambiziosa monografia di Marcello Musto su Karl Marx (Einaudi, pp. 326, euro 30).
Sono anni che Marcello Musto svolge un lavoro certosino sulle fonti del pensiero marxista. In questo libro ci sono pagine dedicate ai pamphlet incendiari come il Manifesto del partito comunista, La critica al programma di Gotha, le vicende e gli scontri feroci che videro Marx e Engels battagliare contro anarchici, repubblicani (Giuseppe Mazzini era disprezzato dal Moro), socialisti utopisti. Un libro che smentisce l’immagine di un Marx autoritario e settario, restituendo invece la profonda convinzione che la liberazione della classe operaia potesse venire solo dalla classe operaia stessa e non da qualche dirigente illuminato o da un gruppo selezionato di giacobini, per quanto comunisti fossero.
I TANTI LIBRI USCITI segnalano, tuttavia, un certo prosciugamento del bacino di lavoro intellettuale su Marx. Conferisce evidenza a questa difficoltà il tono un po’ mesto di molti interventi presenti nel volume curato da Stefano Petrucciani Il pensiero di Karl Marx (Carocci editore, pp. 381, euro 35), dove compaiono autori che si ritrovano anche in quello curato da Chiara Giorgi per manifestolibri (Rileggere il capitale, pp. 245, euro 20).
Il libro si caratterizza per un tentativo di rompere lo schema da una certa scolastica marxista. Stefano Petrucciani, ad esempio, affronta il tema della libertà, all’interno di un disegno nel quale le proposte politiche di Marx vengono qualificate come una anticipazione - tesi molto azzardata - del welfare state novecentesco. Il diritto borghese diseguale individuato dall’autore è funzionale alla lunga transizione che dovrebbe portare all’operatività, ma solo alla fine, della massima «a ciascuno secondo i suoi bisogni, da ciascuno a secondo la sua capacità». Fino ad allora, il diritto non può che essere contraddittoriamente diseguale.
COSA FARNE ALLORA dell’eredità marxiana? Con una mossa a sorpresa, felicemente inaspettata, Sandro Mezzadra e Mario Espinoza Pino invitano a aprire laboratori marxiani facendo tesoro degli scritti giornalistici, legati alla contingenza, di Marx. Il giornalismo, quello sulle lotte di classe in Francia, sulla Comune, sulle corrispondenze per lo statunitense New York Tribune è interpretato come un laboratorio dove il Moro ha messo a fuoco i problemi da sciogliere nella sede adeguata - i tempi lunghi della riflessione - ma alla luce delle necessarie messe di dati, fondamentali per lo sviluppo delle sue categorie.
I due autori segnalano inoltre che sono scritti giornalistici che rompono la gabbia dell’accusa di eurocentrismo rivolta Marx, giungendo ad abbozzare - in base a quanto stava accadendo in Cina, Russia, India, Africa - una vision «multilineare» dello sviluppo capitalistico. In questa direzione va il saggio di Etienne Balibar contenuto nel libro curato da Chiara Giorgi ( ).
Il filosofo francese prova a individuare i punti di stress della teoria marxiana per poi sviluppare una concezione del «capitale assoluto» e del «debito ecologico».
Un vento lieto lo portano infine altri due testi, Quelli di Alisa Del Re e Giso Amendola. La prima introduce i temi del lavoro di riproduzione, di cura, relazionale, del lavoro semplice e gratuito.
UNA PROSPETTIVA femminista che entra in rotta di collisione con l’economicismo di molto marxismo ortodosso. Aria fresca, specialmente quando la filosofa italiana dice che la ricchezza degli anni Settanta non sta solo nell’immaginare e praticare altre relazioni sociali, ma nel saper tenere insieme diritti civili e sociali, spezzando cioè la gabbia che separa individuale e collettivo. Le singolarità e la loro irriducibilità a sintesi governate dall’alto. Il partito politico di massa, tanto nelle sue varianti socialdemocratiche che leniniste, non è stato messo in scacco solo dal perfido capitale ma è stato sottoposto alla critica roditrice del conflitto di classe. Pensare di ricostruirlo come se niente fosse accaduto, consegna chi lo propone a risibili risultati elettorali e politici da prefisso telefonico.
LIBERTÀ INDIVIDUALE e libertà collettiva, dunque. Da inventare, praticare. È quello che fa lo «stato di agitazione permanente» delle donne di questi ultimi anni, che sgombera il campo da polarità tra i muscoli esibiti in qualche riot metropolitano scandito da gilet gialli e l’autodeterminazione di chi pensa che il proprio «lavoro elementare» (di cura, riproduttivo) con la ricchezza abbia molto a che fare. E sulla tensione tra produzione di soggettività e astrazione insiste Giso Amendola, mettendo in rapporto Marx e Foucault, stabilendo assonanze e dissonanze, foriere di inediti e proficui sviluppi. Sono due testi che chiariscono molte delle dinamiche sociali, culturali, politiche dentro questo vischioso presente. Hanno inoltre il pregio di sgomberare il terreno dalle sciocchezze sui «conflitti di identità», la retorica delle «guerre culturali», invitando a immaginare e prendere in considerazione che la singolarità e frammentazione del lavoro vivo dentro il conflitto del capitale non necessariamente fa suo il lessico della rivendicazione economica, ma indugia - e quindi valorizza - su quello delle forme di vita, della relazionalità in divenire.
IL NODO, all’interno questo scenario, resta quindi quale organizzazione politica darsi. Il modello reticolare è una opzione, certo, senza però chiudere gli occhi: quella che sembra costituire una soluzione può rivelarsi, come accaduto nei movimenti globali di queste due decadi del nuovo millennio, un problema aggiuntivo.
VA DUNQUE RESPINTA ogni tentazione di scolastica marxista, di riattraversamento di tradizioni politico-culturali che non aiutano a comprendere il presente. È questo l’unico modo per mettere nuovamente al lavoro Marx. Riprendere cioè il lavoro della talpa. Per rompere la gabbia di un eterno presente. E aprire, con quel gusto per il paradosso e l’azzardo teorico e politico tipicamente marxiano, una strada che dia vita a una prassi teorico politica radicale. E comunista.
Il dono dell’incompiutezza
Saggi. «Marx eretico» di Carlo Galli, pubblicato per Il Mulino
di Benedetto Vecchi (il manifesto, 17.10.2018)
Un libro felicemente anomalo, questo di Carlo Galli, filosofo della politica che ha ingaggiato da anni un corpo a corpo con le tesi del giurista Carl Schmitt, inquadrandolo in quella corrente di pensiero sotterranea, ma a suo modo potente, che dal nichilismo approda all’elegia della decisione. E che arriva a diventare la tonalità teorica dominante del nazismo.
ATTORNO A QUESTI TEMI, Galli ha lavorato molto, consegnando ai lettori testi importanti, come Genealogia della politica (Il Mulino), Spazi politici (Il Mulino), Contingenza e necessità nella politica moderna, Ancora Destra e Sinistra (questi ultimi due pubblicati da Laterza). La sua vita ha contemplato anche un impegno diretto, come deputato, nell’agone politico. Esperienza istituzionale che non lo ha molto entusiasmato, per i suoi riti e le sue ingessature, tanto in Parlamento che nel partito democratico che lo ha eletto.
Mai però Carlo Galli si era confrontato con le teorie marxiane, meglio con Karl Marx, autore che è stato certo letto, ma che è rimasto finora quasi sempre sullo sfondo, una specie di classico al quale fare riferimento senza nessuna sistematicità. Ed è da accogliere con piacere la pubblicazione del condensato, ma fertile saggio che il filosofo italiano ha dato alle stampe in occasione del duecentesimo anniversario marxiano con il titolo Marx eretico (Il Mulino, pp. 164, euro 13).
UN LIBRO che non ha nessuna pretesa di sistematicità nell’analisi del pensatore di Treviri, ma che ha un nucleo tematico e teorico che va valutato positivamente. C’è il titolo, che è programmatico, perché sgombra il campo da banalità e letture interessate a demolire Marx, magari osannandolo a parole.
L’autore della critica dell’economia politica è un eretico: non lascia nessun appiglio alla costruzione - come invece purtroppo è accaduto - di una teoria dogmatica, deterministica della critica alla società del capitale.
Marx, scrive Galli, si colloca su quel sentiero dove la teoria sfocia nella prassi e dove la prassi alimenta la teoria. I filosofi hanno interpretato il mondo, ora si tratta di cambiarlo, scriveva Marx. Questo tuttavia non significa che non bisogna più fare teoria e filosofia. Semmai significa che la prassi è esperienza della lotta di classe, della disparità di potere tra le classi e che tutto ciò fornisce materiale per la teoria. Si potrebbe dire che dietro la frase di Marx sul passaggio all’azione c’è un invito a una prassi che non si chiuda in un sistema, ma che tenga aperta sempre l’interrogazione sul mondo.
DUNQUE MARX ERETICO rispetto a Hegel (amato e odiato, ma verso il quale si pone come interlocutore alla pari), perché individua il nocciolo del capitalismo, cioè l’appropriazione privata della ricchezza prodotta socialmente. Per restituire l’individuo alla sua umanità è questo il nocciolo da fondere. Il proletariato è il soggetto che incarna lo sfruttamento del capitale. Per questo è il soggetto riconosciuto per combattere il capitalismo. Su cosa sia il proletariato Marx lo chiarirà parzialmente, lasciando però aperta la porta a modifiche, variazioni, aggiornamenti tanto sulla sua composizione che sulla consistenza politica.
INTERESSANTI sono i riferimenti di Galli agli scritti più direttamente storico-politici di Marx (il 18 Brumaio e Le lotte di classe in Francia), dove le dinamiche politiche e istituzionali francesi e l’entrata in scena del proletariato sono indagate sul loro divenire, dunque sui limiti, il potenziale, i rapporti di forza presenti nella società e nella scena politica. Il proletariato sarà sconfitto nel 1848 con la cancellazione della Comune di Parigi, ma la sua storia non finisce con quell’insuccesso, annota Galli.
Anche la ponderosa critica dell’economia politica occupa un posto di rilievo in questo testo di Galli. Marx è uno studioso sistematico. Lettore onnivoro, passa giornate intere nella biblioteca di Londra, studiando i teorici dell’economia politica (Adam Smith e David Ricardo, ovviamente), ma anche leggendo voracemente giornali e report sui fatti politici.
LA CRITICA DELL’ECONOMIA politica ha una notevole base documentale per segnalare che c’è sfruttamento, c’è plusvalore non pagato al lavoratore. Ma mai - e su questo non si può che concordare con Galli - l’impianto analitico del filosofo di Treviri è voluto diventare sistema o, peggio, una teoria economica da affiancare a quelle già esistenti. Marx voleva sovvertire il mondo, voleva cioè la rivoluzione. Certo non ambiva a una nicchia, più o meno polverosa, nella galleria dei grandi pensatori della modernità, come è accaduto ad altri filosofi e sociologi.
C’È UN’ALTRA PAROLA che torna continuamente in questo libro. Incompiutezza. Marx è l’incompiuto, colui cioè che ha aperto molti sentieri, percorrendone alcuni e abbandonandone altri. L’incompiutezza lo avrebbe dovuto preservare dalla sua musealizzazione, ma non è stato così. Il diamat sovietico e molto marxismo della seconda e terza internazionale lo hanno invece ridotto a un santino e le sue opere a una successione di frasi fatte, usate per legittimare esperienze statali autoritarie e soffocanti. Vero, ma fa bene Galli a ricordare le molte donne e uomini che lo hanno invece utilizzato per affermare proposte di liberazione dall’oppressione.
Marx, dunque, incompiuto. È questa una delle chiavi di lettura del volume, che merita attenzione. Non tanto per quello che evidenzia: il suo progetto di critica del capitale, Marx non riesce a realizzarlo. Continuerà a studiare, leggere, scrivere, inviare lettere per affermare che bisogna continuare a scavare, a interpretare il mondo per trasformarlo, ma la sua filosofia sarà incompiuta.
Non c’è però in questa proposizione nessun intento demolitorio. Semmai l’implicito invito a riaprire i laboratori marxiani, dopo che la sconfitta si è depositata. Galli, in poche pagine, segnala percorsi di ricerca messi in campo in questi anni. Dalla ripubblicazione di nuove edizioni critiche delle opere marxiane, all’incontro di Marx con altri teorici della modernità capitalista. Da chi propone la critica dell’economia politica del capitalismo digitale e finanziario a chi vorrebbe deprovincializzare e decolonizzare il pensatore di Treviri. Tutti percorsi aperti in sordina dopo la grande sconfitta, ma che segnalano la vivacità della riflessione marxiana.
FORSE IL MODO MIGLIORE per ricordare Marx è alimentare i laboratori marxiani, entrare nuovamente negli atelier della produzione (così diversi da quelli industriali di fine Ottocento) e svelarne l’arcano. Producendo dunque teoria e producendo politica. Quella radical che si propone un programma minimo: l’abolizione dello stato di cose presenti.
Per uscire dal buio
Decalogo *
Parole rifondative: di un progetto, un’identità, una speranza di futuro. Nelle prossime settimane si riuniranno in tanti, a sinistra o da quelle parti: si comincia questa domenica con la marcia della pace Perugia-Assisi, cinquant’anni dopo la morte di chi la sognò, Aldo Capitini, scomparso il 17 ottobre 1968. Seguiranno nel Pd la Piazza Grande del nuovo aspirante leader Nicola Zingaretti, a Roma il 14 ottobre; e la Leopolda dell’ex ma sempre incombente Matteo Renzi, una settimana dopo. E le manifestazioni del 13 ottobre in tutta Europa, comprese molte città italiane, «contro il nazionalismo, per un’Europa unita» (www.13-10.org).
Si discuterà di nomi, sigle, contenitori, per provare a riempire il vuoto di presenza, il deserto di alternativa visibile. Quello che ancora manca è la battaglia di idee: una sida politica e culturale, popolare e non elitaria. Qualche settimana fa l’Economist ha offerto ai suoi lettori un manifesto per ripensare il liberalismo. L’Espresso, nel solco di questo dibattito italiano e europeo, ha chiesto ad alcune sue firme, diverse per cultura e esperienza, un decalogo di parole-chiave (altre ne seguiranno). Da “Noi e Tu” di Massimo Cacciari a “Tutti” di Francesca Mannocchi, il nostro alfa e omega. Un segno di luce, per uscire dal buio.
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Lavoro
di Aboubakar Soumahoro
Prima il lavoro, si dice, d’accordo. Ma prima del lavoro c’è il lavoratore. E, prima ancora, gli esseri umani. Oggi, nei convegni e nelle relazioni prodotte dai centri studi, si parla dei lavoratori come se fossero macchine, corpi senza anime, robot. Lavoratori senza legami sociali, atomizzati. Lavoratori isolati, ognuno per sé, senza una dimensione collettiva, senza relazioni umane in grado di creare solidarietà.
Si parla di intelligenza artificiale, ma sono gli esseri umani a finire progressivamente trasformati in automi. Partire dal lavoro significa allora restituire alle persone i loro diritti e la loro dignità, ma anche la possibilità di sentirsi protagonisti di una costruzione sociale. Il lavoro è impoverito, e impoveriscono i lavoratori, oppure è dequalificato, giovani iper-laureati oggi svolgono lavori dequalificati.
Nell’era digitale il lavoro ti impedisce di realizzare le tue aspettative e al tempo stesso colonizza il tempo di vita. Vale per tutti i lavoratori, gli operai e i braccianti, i precari, per quelli impegnati nel privato e per quelli che si muovono nella sfera del pubblico, dove anni di privatizzazioni, blocco delle assunzioni, appalti all’esterno di funzioni che appartengono allo Stato hanno creato una situazione di precarietà di vita e non soltanto di condizioni lavorative. Uno Stato che partecipa a fenomeni di sfruttamento e di abbrutimento.
Parlare del lavoro, dunque, significa parlare delle persone, nella loro quotidianità, nelle loro spese, nella fatica di portare a termine la giornata, non soltanto dal punto di vista economico. I bisogni vitali delle creature, come diceva Giuseppe Di Vittorio. Creature: è la parola più tipicamente umana, contiene in sé ogni cosa. Noi siamo da questa parte, lo dico anche nell’ottica di un sindacalista contemporaneo che vive in questo tempo e in questa stagione. Siamo dalla parte delle persone, senza disparità di pelle o di genere, dovrebbe essere la normalità, ma oggi sta avvenendo il contrario. Lavoro oggi significa cultura, emancipazione, rispetto, giustizia sociale. Significa battersi per evitare che il lavoro torni a coincidere con lo sfruttamento degli esseri umani, la loro alienazione. Vuol dire ricomporre valori comuni, oggi spezzati. Ricucire.
* l’Espresso, O7.10.2018
SOVRANITA’ (Costituzione), SOVRANISMI (Partiti), E ... “FORZA FRANCIA” (1994-2018)!!! IL SOGNO DI UNA COSA ...
Una nota "Sul sovranismo democratico" *
di Federico La Sala
Per mettere (per così dire) i piedi per terra (e la testa in aria), a mio parere, data la situazione storica presente in cui “naviga” l’Italia e l’intera Europa, considerato “il nuovo scenario come dominato dalla polarizzazione tra sovranisti e macroniani” (Paolo Costa, "Sul sovranismo democratico", "Le parole e le cose", 24.09.2018), mi sembra più che pertinente richiamare la lezione marxiana:
“Non basta dire come fanno i francesi che la loro nazione è stata colta alla sprovvista. Non si perdona a una nazione, come non si perdona a una donna, il momento di debolezza in cui il primo avventuriero ha potuto farle violenza. Con queste spiegazioni l’enigma non viene risolto, ma soltanto formulato in modo diverso. Rimane da spiegare come una nazione dì 36 milioni di abitanti abbia potuto essere colta alla sprovvista da tre cavalieri di industria e ridotta in schiavitù senza far resistenza” (K. Marx, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, 1852).
“Io mostro, invece, come in Francia la lotta di classe creò delle circostanze e una situazione che resero possibile a un personaggio mediocre e grottesco di far la parte dell’eroe”(K. Marx, cit., 1869).
SOVRANITA’ DEMOCRATICA E COSTITUZIONE ITALIANA. Prima di tutto, concepire e recuperare la nostra personale e politica “sovranità”: “Sàpere aude!” (Kant)! Presupposto fondamentale e necessario è che ogni cittadino e ogni cittadina della Repubblica (artt. 1, 2, 3), uscito dallo “stato di minorità”, sia un sovrano e una sovrana e, in quanto tale, rispetti come “re” e come “regina” il “patto di alleanza” (la Costituzione) sottoscritto e, all’interno di essa, come “suddito” e “suddita”, “obbedisca” alle decisioni del Governo (il “patto di sudditanza”).
A TUTTI I LIVELLI, (micro e macro!), in ogni società COSTITUZIONAL-MENTE organizzata, a questi DUE PATTI tutti e tutte si è legati/e... se non si vuole “vivere” nella guerra di tutti/e contro tutti/e. E, ovviamente, il “patto di alleanza” è quello fondante - in sua assenza, si è fuori dalla “grazia” di “Dio”, e nelle braccia di “Mammona”!
SOLO camminando SU QUESTA STRADA, forse, è possibile vincere il ” pessimismo antropologico che non mi sembra granché di sinistra e che la riduzione monologica del potere alla sovranità esemplifica alla perfezione. È quella roba che dai tempi della Thatcher si usa chiamare TINA - there is no alternative - e di cui paghiamo il prezzo politico (con interessi superiori a quelli del debito italiano) oggi” (P. Costa, cit.), e contrastare il misticismo politico del “sovranismo democratico”!
PURTROPPO “la semplicità - è difficile a farsi” (B. Brecht)! La “produzione” va avanti a pieno regime - e non c’è più solo qualcuno/a che vuole e pretende di essere al di sopra della Costituzione, della Legge, “come Dio”, un “Diavolo in persona”, e lavora per la “pace perpetua” di tutto il Pianeta!!!
CHE FARE?! Questa è l’alternativa: “Uno spettro si aggira per l’Europa (...) una lotta che è sempre finita o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società, o con la totale rovina delle classi in lotta”(“MEGA” - “Marx-Engels Gesamtausgabe”).
VOLONTA’ DI POTENZA E DEMOCRAZIA AUTORITARIA.... *
"Il Pci, oggi, verrebbe definito sovranista". Intervista al prof. Carlo Galli: "Condanna a Orban è controproducente"
Lo storico di dottrine politiche: "Il diavolo nega che il diavolo esista. Così tra destra e sinistra: la prima nega differenze, la seconda cade nel tranello"
di Nicola Mirenzi («Huffingtonpost.it», 13 settembre 2018)
«Il Pci, oggi, verrebbe definito sovranista, dai più accesi mondialisti». Storico delle dottrine politiche all’Università di Bologna, interprete del pensiero moderno e contemporaneo, il professor Carlo Galli sostiene che, dopo il crollo del muro di Berlino, l’adesione entusiastica alla globalizzazione dei partiti ex comunisti, socialisti e laburisti europei li abbia “impiccati” a un modello che si è “sfasciato”, facendogli perdere il senso dell’orientamento:
«La sovranità è un concetto talmente democratico che è richiamato nel primo articolo della nostra Costituzione. Oggi, invece, chiunque contesti la mondializzazione viene considerato un fascista. Storicamente, però, la sinistra ha, nei fatti, avversato il trasferimento del potere fuori dai confini dello Stato: basti pensare alla critica che i comunisti italiani opposero alla Nato e, per molti anni, al Mercato comune europeo».
Secondo Galli, la notizia della scomparsa della distinzione tra destra e sinistra è fortemente esagerata, e sabato 15 settembre, a Lecce, in occasione dele Giornate del Lavoro organizzate dalla Cgil, terrà una lectio magistralis - che anticipa ad HuffPost - per dimostrarlo: «Il diavolo per prima cosa nega che il diavolo esista. Così accade per la differenza tra destra e sinistra: la destra nega che esistano la destra e la sinistra. E la sinistra cade in questo tranello. Ci sarà sempre una differenza di potere tra chi controlla il capitale e chi dal capitale è controllato. Tra chi produce valore lavorando e chi di quel valore si appropria. Per questo la distinzione tra destra e sinistra non scomparirà mai, all’interno di questo paradigma economico e politico».
La contrapposizione tra popolo ed élite è falsa?
È vera, e si aggiunge alla tradizionale frattura tra destra e sinistra, attraversando entrambi i fronti. Ci sono movimenti cosiddetti populisti che, infatti, sono più di destra; e altri che sono più di sinistra.
Perché la sinistra è più in difficoltà allora?
Perché la sua pigrizia mentale le fa considerare la richiesta di protezione - che c’è nella società - come un istinto razzistico, o xenofobo.
Non ci sono queste pulsioni?
No, ci sono anche queste pulsioni nella società: ma è scellerato dare questo nome alle legittime richieste di sicurezza sociale che vengono da quelle persone le cui vite sono state sempre più esposte all’incertezza dalla crisi che è insita nel paradigma economico dominante.
Perché la sinistra non intercetta più queste domande?
Perché, soprattutto la sinistra italiana, ha smesso di analizzare la realtà: preferisce nascondersi dietro il vecchissimo copione dell’antifascismo moralistico e considerare più della metà dei cittadini italiani barbari che stanno assaltando le fondamenta della civiltà. Ma quello che sta accadendo - l’abbiamo visto alle elezioni del 4 marzo - non è una sventura inviataci dal cielo: è il prodotto di fenomeni che si sono verificati dentro la nostra società.
La destra è più capace di comprendere la realtà?
No, ma non ne ha bisogno, perché le basta essere spregiudicata. La destra politica riconosce e dà un nome alle inquietudini del nostro tempo, ma in realtà fornisce dei capri espiatori. Oggi sono gli immigrati, i complotti della finanza internazionale, il politicamente corretto. E se a volte la destra politica si spinge ad accusare il capitalismo finanziario, non giunge mai a una critica del capitalismo in quanto tale.
Perché il capitalismo dovrebbe essere considerato un nemico?
Il capitalismo, lasciato a se stesso, tende a distruggere la società. Compito della politica è costringerlo ad adattarsi alle esigenze della democrazia, regolandolo, mettendo dei limiti, tutelando gli interessi dei cittadini, lasciando che il conflitto sociale si manifesti.
A volte, però, gli Stati hanno meno forza delle multinazionali.
Ma spesso nemmeno provano a scontrarsi con questi colossi. Cedono preventivamente. Anche se non è detto che siano sempre destinati a perdere il duello.
Un’Europa più sovrana avrebbe più potere negoziale?
In teoria, sì.
E in pratica?
In pratica, nessuno Stato europeo ha veramente in agenda la costruzione di una sovranità europea. Anche perché la costruzione della sovranità è uno dei processi più distruttivi della storia umana. Le sovranità degli Stati si sono formate nel sangue della guerra civile o nel furore delle rivoluzioni. Mai una sovranità è nata perché qualcuno intorno a un tavolo ha trasferito pacificamente a un soggetto terzo il diritto di tassare, di formare un esercito, di detenere il monopolio della violenza, di individuare gli interessi strategici di una comunità.
Senza sangue l’Europa politica non nascerà mai?
È molto difficile che la formazione di una sovranità europea possa accadere senza conflitto; anzi, se si guarda alle carneficine che sono avvenute nella storia, è difficile augurarsi che ciò accada.
Eppure, il parlamento europeo ha condannato uno dei suoi membri, l’Ungheria di Viktor Orbán.
Orbán è un leader detestabile, degno erede della lunga tradizione autoritaria ungherese. Tuttavia, la condanna europea è controproducente, e perciò sbagliata. Ogni volta che un’entità sovranazionale ha giudicato e punito uno Stato - pensi alle sanzioni inferte dalla Società delle nazioni al regime fascista - non ha ottenuto altro risultato che compattare la nazione intorno al proprio capo. Anche nel caso del giudizio espresso dall’Onu sull’Italia («è un Paese razzista»), si deve evitare di cadere nel ridicolo.
Qualcuno l’ha mai accusata di essere un populista?
No, anzi sono stato spesso tacciato di élitismo. Ma le élites devono capire e guidare la società, non condannarla.
Nella scorsa legislatura è stato eletto con il Pd.
Ne sono uscito dopo due anni e mezzo per entrare prima nel gruppo di Sinistra italiana, poi di Articolo 1, dal momento che nel partito democratico è rimasto assai poco della tradizione di sinistra.
Lei, invece, che cosa conserva?
Il metodo di analisi della realtà che viene da Gramsci, benché in modo non dogmatico e arricchendolo di altri apporti.
In che cosa consiste?
Nel comprendere i fenomeni politici e sociali e le loro contraddizioni senza dare giudizi morali, poiché la politica non si fa con i padre nostri.
Sogni e realtà
di Carlo Galli (Ragioni politiche, 05.09.2018)
Se il Pd è un partito di sinistra, e se la sua rinascita è indispensabile alla rinascita di questa, allora c’è poco da stare allegri: il suo orizzonte è infatti diviso fra chi non ammette alcun errore e incolpa i cittadini di avere sbagliato a votare, chi vuole cambiare nome come se non si dovesse anche cambiare politica, e chi, come Veltroni non trova nulla di meglio che identificare la sinistra con il «sogno» e la «speranza».
Nel momento di più cupo smarrimento e di più evidente mancanza di strategia, si propone quindi come soluzione della crisi lo stile politico che l’ha generata: uno stile sovrastrutturale, centrato sulla comunicazione e sull’illusione mediatica - al più, corretto dall’ammissione che il Pd non ha saputo stare «vicino a chi soffre», detto con un linguaggio che ricorda più la beneficenza che la politica -; uno stile lontano da ciò che è veramente la sinistra: teoria e prassi, analisi e lotte, materialismo e realismo, disegno di una società futura che parte dall’assunto che la struttura economica, e la cultura che la esprime, è conflittuale e non neutrale, e che quindi la liberal-democrazia non è una universale panacea formalistica che realizza l’accordo di tutti i cittadini ma il risultato, in equilibrio dinamico e precario, di tensioni e di contraddizioni che non si possono togliere né superare in «narrazioni» e in «visioni».
Come lascia assai poco a sperare la decisione - che accomuna il Pd a molta opinione “progressista” - di cercare la via d’uscita dalla impasse politica nella sempre più acuta polemica “antifascista” contro il governo; una mossa che esprime una lettura “azionista” cioè moralistica - o, se si vuole, “liberal” - della politica, a cui la sinistra dovrebbe preferire la analisi storica ed economica sullo stile di Gramsci. Non lo sdegno ma la comprensione dei processi è il solo inizio possibile se la sinistra vuole avere qualche chance di non scomparire.
In realtà, quindi, il sogno e l’antifascismo, che sembrano l’uno opposto all’altro, sono le due facce di una medesima mancanza di analisi radicale, di un pensiero pigro, stereotipato, privo di spessore storico, che impedisce al Pd di comprendere se stesso, il proprio ruolo, i propri errori (non quelli occasionali ma quelli strategici), un pensiero che procede per slogan e che non afferra la realtà; e che si espone al rischio o della inefficacia o di innescare una reale dinamica amico/nemico - a ciò infatti si giunge se si prende l’antifascismo sul serio -. Infine, questa politica infondata, inerte e al contempo pericolosa, è tatticamente un errore: non pare infatti utile a (ri)trovare voti e consenso l’attitudine a definire «fascisti», «barbari» e «nemici» i cittadini che hanno votato per i partiti di governo. Criminalizzare la maggioranza degli italiani non è una buona politica: è vittimismo arrogante e subalterno, che unisce la pretesa di superiorità morale alla implicita denuncia della impotenza della sinistra.
Soprattutto, una sinistra liberal che mette insieme il capitalismo più spregiudicato e le sue vittime, i licenziati e i licenziatori, che si prefigge uno schieramento «da Macron a Tsipras», non vede le proprie interne contraddizioni e le rigetta sul “nemico” fascista: il cleavage fascismo/antifascismo serve a occultare la vera natura del Pd, ovvero che questo è il partito dell’establishment, e che quindi è stato travolto dalla crisi di questo, e non solo è incapace di mettere in campo un’alternativa di pensiero e di azione, ma anche di rendersi conto della propria situazione storica reale.
Che è di essere un partito che difende il neoliberismo e l’ordoliberalismo quando questi sono in crisi - o meglio, quando producono crisi sempre più acute -; che resta attaccato alla Ue quando questa è ormai solo il cozzo delle sovranità e il teatro dell’egemonia tedesca attraverso l’euro; che scommette sulla liberaldemocrazia dopo avere contribuito a svuotarne il senso materiale - lo Stato sociale, l’allargamento del ceto medio, la ragionevole gestione delle disuguaglianze sociali, la sicurezza (a tutto tondo, cioè come garanzia della pienezza delle aspettative di vita) per la grande maggioranza dei cittadini -; che non sa vedere il cambiamento politico e culturale che stiamo vivendo. L’Occidente privo della presenza dell’America; l’Europa priva di progetti che non siano gli utili degli Stati (delle élites economiche e politiche che vi si sono insediate) e i sacrifici per i popoli; la globalizzazione “povera”, ovvero la sovranazionalità dell’economia e al contempo l’assenza, il fallimento, della società aperta; il liberalismo nutrito di privatizzazioni oligarchiche, divenuto liberismo senza persone e senza popolo, che per di più si meraviglia se il popolo lo abbandona in cerca di protezione - probabilmente illusoria - presso i “populisti”.
No. Proprio non si possono definire “barbari” quelli che non credono più alla civiltà “atlantica” del dopoguerra; questa non è crollata per l’irruzione dei popoli delle steppe, ma sta morendo di propria mano, per le proprie contraddizioni. Le cure tecnocratiche e rigoriste, dopo l’euforia della new economy, hanno ferito le società, rescisso il legame sociale, le appartenenze collettive (non diciamo la coscienza di classe), e consegnato i singoli alla rabbia e al rancore, alla paura e al confinamento entro i recinti egoistici della famiglia.
Chi non voglia inseguire ipotesi qualunquistiche e autoritarie - che sono più il sintomo che non la cura di questi mali - dovrà almeno riconoscere la verità; dovrà sapere da dove iniziare un nuovo corso culturale e politico; e non potrà fare opposizione con sermoni e prediche, con manifestazioni di piazza; chi come alternativa alla destra sa offrire solo l’elogio del vecchio mondo, o l’anatema delle nuove realtà che emergono, per quanto spiacevoli, pensando di esorcizzarle con qualche sdegnata narrazione, ignora che il grande passaggio storico in cui ci troviamo prenderà forma - dopo una fase di disorientamento, di comprensibile affannosa ricerca di protezione, dopo una lunga e ibrida transizione - grazie al combinarsi (come sempre è avvenuto) di idee e di interessi concreti: e che compito della sinistra è individuare gli interessi progressivi - cioè rivolti all’emancipazione dal bisogno dalla sofferenza dall’insicurezza -, e dare loro forza e idee. Soprattutto, l’idea che l’economia crea problemi che non sa risolvere, la cui soluzione sta nella politica “sovrana”. Ovvero nella politica capace di esprimere un comando legittimo davanti a cui anche la potenza dell’economia debba fermarsi. Gli Stati - e anche l’Europa sovrana, se mai ci sarà - non si governano con i padrenostri.
Finché la sinistra saprà opporre a Salvini soltanto i sogni e le speranze, il ribaltamento dei rapporti di forza resterà appunto un sogno - un informe, inconsapevole «sogno di una cosa» -. E Salvini la potrà lasciare sognare, e anzi augurarle «sogni d’oro». Si preoccuperà, invece, se e quando un leader di sinistra nuovo e credibile - portatore non di sogni ma di idee, nutrita di analisi cruda della realtà e non di edificanti narrazioni - saprà sfidarlo per dare all’Italia protezione dallo sfruttamento e non solo dai migranti.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
FILOSOFIA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO
MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI?! POCO CORAGGIOSI A SERVIRSI DELLA PROPRIA INTELLIGENZA E A PENSARE BENE "DIO", "IO" E "L’ITALIA", CHI PIÙ CHI MENO, TUTTI VIVONO DENTRO LA PIÙ GRANDE BOLLA SPECULATIVA DELLA STORIA FILOSOFICA E POLITICA ITALIANA, NEL REGNO DI "FORZA ITALIA"!!! Un’inchiesta e una mappa
Federico La Sala
POLITICA, FILOSOFIA, E MERAVIGLIA... *
Al Parini l’insegnante ci parlava di Mao in classe
«Il problema della sinistra è che si alza tardi al mattino. Eco era meglio del cabaret»
di Pier Luigi Vercesi (Corriere della Sera, 26.08.2018)
Professor Salvatore Veca, filosofo militante: posso definirla così? Oltre all’insegnamento universitario, ai famosi seminari della Fondazione Feltrinelli, alla creazione di nuove istituzioni accademiche, alla stesura della Carta di Milano in occasione dell’Expo, sono quarant’anni che lancia granate nell’accampamento della sinistra. Tra un po’ rischia di non trovare più nemmeno una capanna, non crede?
«La sinistra potrebbe sparire. A meno che non cominci a guardare oltre il proprio ombelico. Un’idea ce l’avrei, è sotto il naso di tutti da settant’anni, basterebbe metterla in pratica».
Vale a dire?
«L’articolo 3 della Costituzione: pari dignità per tutti e l’impegno a rimuovere gli ostacoli al pieno sviluppo della persona. Non è un discorso di sinistra? Però bisogna tornare a essere credibili, contrastando le povertà, garantendo cibo adeguato per tutti, abbattendo le diseguaglianze entro e tra le società, avviando politiche di crescita con lavoro dignitoso. Con questa classe dirigente non credo sia possibile, ci vogliono ragazzi nati nel nuovo mondo. Io, ad esempio, sono un vecchio signore del Novecento che può solo alzare la mano e dare qualche spunto di riflessione».
Marx è morto, le ideologie sono morte, il buonismo ha fatto danni e i dirigenti del Pd sono in coma. Resta il buon senso, mi pare di capire. Non è un po’ poco per ripartire?
«Sa qual è il problema? La sinistra si sveglia sempre troppo tardi la mattina. Ne so qualcosa. Per sette anni ho ingaggiato un corpo a corpo con Marx: nel ’77 scrissi che aveva pregi e limiti. Polverone a sinistra. Cercai allora di dare il mio contributo per innovare una cultura ossificata con il libro La Società giusta. Altro casino. Al Gramsci di Bologna mi processarono: traditore della classe operaia, riformista! In un’intervista a L’Espresso mi chiesero, con ironia, cosa significasse “società migliore”: “L’ho tratta da John Dewey e da un film con Robert Redford, The Runner, dove il candidato ripete: siamo il Paese più potente del mondo, perché nelle nostre scuole c’è l’apartheid, perché se uno si ammala e non ha soldi crepa? Ci sarà un modo per rendere migliore questa società”. Nell’89, con Michele Salvati, proponemmo di cambiare nome al Pci. Fabio Mussi alzò il sopracciglio e rispose che certe cose si fanno solo per cambiamenti epocali. Se il crollo del Muro di Berlino non bastava... Occhetto alla fine fece ciò che non poteva non fare. Allora cominciai a pensare che una sinistra democratica dovesse ispirarsi ai valori di una società aperta con l’obiettivo primario dell’equità e della qualità della vita. Ma la sinistra era impegnata nelle solite battaglie intestine per accorgersi che la gente si stava incazzando. Così, nella società della sfiducia, gli impresari della paura hanno inventato il popolo omogeneo delle brave persone e replicato la celebre massima di Nietzsche: “Non ci sono fatti ma solo interpretazioni”. Dunque, nulla di nuovo. La mia email ai giovani è questa: non mollate!».
Ma il mondo oggi è troppo diverso da quello in cui si è formato lei...
«Vero: la Milano della mia infanzia era disciplinata, frammentata in ceti e culture omogenee. I tempi erano scanditi dall’apertura delle fabbriche. Oggi prevale il disorientamento: mentre noi parliamo, gli algoritmi creano vincenti e perdenti. Non creda però che il Novecento sia stato una scampagnata. Mio padre era ufficiale a Civitavecchia e l’8 settembre i tedeschi lo arrestarono e lo spedirono in un campo di concentramento in Polonia, dove tentò due volte la fuga e venne inscenata la sua fucilazione. Alla fine del 1944 firmò una falsa accettazione della Repubblica di Salò per tornare in Italia. Io sono nato due mesi dopo la sua deportazione e l’ho visto solo dopo la Liberazione. Papà era affettuoso ma erogava un senso di disciplina. Appena mi vide con i boccoli da putto disse: “Fategli tagliare i capelli”. Nel frattempo era nato mio fratello Alberto e cominciai a frequentare le scuole elementari alla Leonardo Da Vinci. La mia maestra, Maria Bertin, mi insegnò a imparare e quel bagaglio mi aiutò fino agli anni del ginnasio al Carducci. In prima liceo studiavo poco e prendevo voti alti. Mio padre si insospettì e mi trasferì al Parini, struttura austera e gerarchica. Il professor Pelosi, insigne grecista, mi accolse chiedendomi: “Adesso anche i barbari entrano al Parini?”. Avevo finito di vivere di rendita».
Divenne «di sinistra» per reazione?
«Al Parini c’era un preside autoritario ma anche Maria Teresa Torre Rossi, la prof accusata di parlare di Mao in classe. Fu lei a svegliare la mia vocazione. Era legata al Piccolo di Paolo Grassi e Giorgio Strehler. Un giorno ci portò a teatro e ci fece scrivere un tema. Grassi lesse il mio e volle conoscermi: “Ti piacerebbe collaborare con noi?”. Era una macchina da guerra disciplinatissima: qualsiasi cosa facessi, Grassi ti mandava un biglietto con complimenti o critiche. Dava il meglio di sé nelle telefonate in cui esibiva, con nonchalance, il tal teatro di Zurigo o l’Ensemble di Brecht. Lo spiazzò il ’68: non poteva accettare di essere messo sotto inchiesta, come se, preservando tradizioni e istituzioni, fosse per ciò stesso autoritario. Si confondeva autorevolezza con autorità».
Ma preferì la filosofia: come accadde?
«Mi iscrissi a Lettere alla Statale. I docenti erano giganti: Mario Fubini per Letteratura italiana, Ignazio Cazzaniga Letteratura latina, Enzo Paci Filosofia teoretica, Ludovico Geymonat Filosofia della scienza... Cesare Musatti teneva le lezioni alle 8 di mattina per scoraggiare l’enorme afflusso di studenti. Enzo Paci trasmetteva una sorta di eros per la filosofia. Fu così che me ne innamorai».
Lei era già troppo grande nel Sessantotto?
«Ero assistente volontario. Io e Pier Aldo Rovatti negoziammo con Salvatore Toscano, Mario Capanna e Luca Cafiero la richiesta di contro-corsi: “Va bene, affianchiamoli ai corsi”. Capanna disse: “Sì, così finisce il Movimento. Noi dobbiamo rilanciare continuamente per mettere in moto una spirale crescente di consenso studentesco”».
Come ebbe il primo incarico?
«Una mattina, a Cervinia, rincoglionito perché avevo fatto notte, scesi a prendere i giornali e mi sentii chiamare: “Dottor Veca, anche lei qui?”. Era Norberto Bobbio, mi aveva visto una volta a Torino e si ricordava di me. “Facciamo una passeggiata”, disse: era un gran camminatore, io gli banfavo dietro; a ogni passo indicava una montagna, “quello è il Grandes Jorasses...”, ma se non le conosci, le cime sembrano tutte uguali. Col fiatone cercavo di interloquire: “Sì, sì magnifico”. Poi si fermò, mi fissò e disse: “All’università della Calabria cercano professori”. Nel 1973-74 ebbi il primo incarico e a Cosenza incontrai il più grande amico della mia vita, Marco Mondadori: ne avrei sposato la sorella».
Nicoletta, figlia di Alberto, primogenito di Arnoldo e fondatore del Saggiatore...
«Marco mi invitava spesso nella loro villa di Camaiore. Nell’estate del ’76, pochi mesi dopo la morte del padre, una sera mi capitarono in mano foto di Nicoletta. Non l’avevo mai vista, sapevo solo che aveva tre bambini e si stava separando dal marito. Qualche mese dopo, a casa di Marco, arrivò con un enorme carico di tende bianche. “Piacere Salvatore”: emanava un’attrazione magnetica col sorriso, la voce e quel suo modo di navigare nel mondo. Cominciammo a frequentarci. La sera andavamo al Tencitt, in via Laghetto. Suonavano sempre Genova per noi. Tra un gin tonic e un gin fizz correvano fiumi di storie. Dopo Natale passammo un weekend a Camaiore, io avevo una Renault 4, lei una 850 scassata. Al rientro bucammo una ruota, e la cambiai. Poco dopo se ne forò un’altra. Si fermò un tir francese. “Andiamo a Milano, in viale Tunisia”. “Mais oui, Tunìsia”. Da allora andai a vivere da lei in Tunìsia, con l’accento sulla prima “i”».
Dopo la Calabria il Dams di Bologna, quindi Milano e infine Firenze. Com’era insegnare al fianco di Umberto Eco?
«Serate esilaranti. Si usciva a cena con Furio Colombo e qualche assistente. Umberto e Furio insieme erano un numero di cabaret. I loro cavalli di battaglia erano il sottomarino e l’uomo cacciatore; cominciavano con luoghi comuni e andavano avanti inanellando battute. Eco aveva l’intelligenza di un funambolo. Lo conobbi a Villadeati a casa di Inge Feltrinelli; suonò il flauto fino alle tre di notte, poi disse: “Vado a dormire, domani devo dare un articolo al Manifesto e voglio scriverlo in latino”. La mattina dopo, alle 11, mi allungò un foglio con un testo che imitava lo stile delle encicliche».
Anche Eco è morto, non ci resta che tornare al presente.
«Ha ragione, le cose passate sono risucchiate in un tempo che non c’è più, ma senza il passato non c’è futuro e la malattia del nostro tempo si chiama presentismo».
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
POLITICA, FILOSOFIA, E MERAVIGLIA.
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89). Un omaggio a Kurt H. Wolff e a Barrington Moore Jr.
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ. Al di là dell’Egoismo etico e dello Stato etico .... *
La questione Stirner
di Armando Torno (Il Sole-24 Ore, Domenica, 06 maggio 2016)
Quando a metà degli anni Quaranta dell’Ottocento in Germania uscì “L’Unico e la sua proprietà” di Max Stirner, pseudonimo di Johann Caspar Schmidt, la censura non intervenne. I funzionari che dovevano vigilare sulla circolazione delle idee ritennero l’opera incomprensibile, frutto di una mente folle, malata o qualcosa del genere; decisero perciò di non bloccarla, perché nessuna persona normale avrebbe potuto ricevere danno da questo professore di un istituto femminile di 39 anni. Il quale, dopo l’uscita del libro, avrebbe perso il posto.
L’”Unico” non passò inosservato. Marx ed Engels ne scrissero subito, anche se le loro pagine saranno pubblicate soltanto all’inizio del Novecento; la cerchia degli amici che con Stirner avevano seguito le lezioni di Hegel, non tacque; per le correnti anarchiche divenne ben presto un riferimento. Negli Stati Uniti Warren, in Francia Proudhon, in Russia Bakunin e poi Kropotkin, per ricordare alcuni classici riferimenti di questa corrente, tennero necessariamente conto di codeste pagine.
Un’opera che a volte si ripete ma che è sempre dominata da una tensione senza eguali. Si apre e si chiude con un’affermazione forte: “Io ho fondato la mia causa su nulla!”. E non è difficile incontrare frasi come questa: “Io che al pari di Dio e dell’umanità sono il nulla di ogni altro, io che sono il mio tutto, io che sono l’unico!”.
Max Stirner distrugge la filosofia del suo tempo, esalta l’egoismo (“nessuna cosa mi sta a cuore più di me stesso!”), sbugiarda il potere, attacca ogni religione, propone qualcosa di irrealizzabile ma tutti i grandi lo mediteranno, a cominciare da Dostoevskij e Nietzsche.
E oggi? Un libro, curato da Marcello Montalto e pubblicato da Mimesis con il titolo “La questione Stirner” (pp. 224, euro 20), raccoglie i primi critici dell’”Unico”. Si tratta di preziosi e poco noti testi ottocenteschi scritti da Moses Hess (un precursore del sionismo), Feuerbach, Kuno Fischer, Szeliga (ovvero Franz Zychlin von Zychlinski, che diventerà generale dell’armata prussiana) e le repliche dello stesso Stirner: mostrano tutti i fraintendimenti a cui fu soggetta l’opera e il suo autore.
Montalto ricorda nell’ampia e documentata introduzione che Stirner era tutt’altro che astratto dalla realtà e ignaro dei meccanismi sociali ed economici (critica di Hess), soprattutto rammenta un’intuizione di Carl Schmitt che in un giudizio lapidario e tagliente affermò: “Max sa qualcosa di molto importante. Sa che l’io non è più oggetto di pensiero”.
Che aggiungere? Fichte, il gran sacerdote dell’io, era morto da tempo e anche i dogmi della filosofia idealistica tedesca ormai avevano lasciato i cuori e abitavano soltanto nelle biblioteche. Stirner mostrò il mondo attuale: egoista, senza ideali, pronto a diventare nulla.
Egoismo etico. Sullo sfondo del problema dell’emancipazione umana, ritorno di interesse per il filosofo tedesco in un’epoca in cui la questione dell’individuo è ridiventata centrale
Quell’asociale di Stirner
di Michele Ciliberto (Il Sole-24 oRE, Domenica, 19.08.2018)
Alla morte di Hegel, come si sa, la sua scuola si spezzò in due tronconi : da un lato, la destra; dall’altro la sinistra, della quale fecero parte, con autonomia e originalità di pensiero, personalità di primissimo piano come Bruno Bauer, Carlo Marx, Max Stirner, autori di opere che hanno lasciato un solco profondo nella storia del pensiero del XIX secolo. Escono, in generale, tra la fine degli anni trenta e i primi anni quaranta, ed hanno in genere al centro la critica della religione , come principio di una riflessione generale sulla condizione umana. L’Unico di Stirner viene pubblicato nel 1844 (sul frontespizio si legge però 1845); la Tromba dell’ultimo giudizio contro Hegel ateo e anticristo. Un ultimatum, di Bauer, nel 1841, mentre al 1843 risale un’altra sua opera fondamentale, La questione ebraica che, a sua volta, è oggetto di una immediata , e dura, discussione da parte di Marx, il quale pur riconoscendo il valore dell’avversario, ne critica a fondo le tesi, alla luce delle posizioni messe a fuoco in un’altra opera essenziale di questo periodo, la Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico. Qui Marx utilizza, e sviluppa sul piano politico, la critica che Feuerbach aveva rivolto alla filosofia hegeliana mettendo al centro della sua analisi il rovesciamento tra soggetto e predicato operato, a suo giudizio, da Hegel.
L ’essenza del cristianesimo, come si intitola il libro di Feuerbach, esce nel 1841 - lo stesso anno del testo di Bauer - ed ebbe uno straordinario successo. Come dice Federico Engels, molti anni dopo, leggendolo diventammo tutti “feuerbachiani”, rievocando il senso di liberazione che il testo di Feuerbach aveva generato in lui come in tutta la sua generazione.
Del resto, basterebbe leggere la Critica della filosofia del diritto hegeliano o le pagine finali della Questione ebraica di Marx per comprendere in presa diretta quanto Feuerbach abbia inciso a fondo sui principali esponenti della sinistra
hegeliana, a cominciare proprio da Marx: la critica della politica e della concezione della figura del legislatore di Rousseau che chiude la Questione ebraica e la critica della filosofia hegeliana attuata nella Critica hanno come riferimento principale da un lato la concezione dell’uomo come “ente generico”; dall’altro, la critica del rovesciamento tra soggetto e predicato- entrambi architravi del pensiero di Feuerbach. Come a suo tempo dimostrò Cesare Luporini in un saggio memorabile, è Feuerbach l’interlocutore principale di Marx in questi testi.
In tutti questi pensatori - da Bauer a Marx a Stirner - il problema centrale è quello della emancipazione umana, con un conseguente spostamento della critica dal piano della religione a quello della politica. E questo sia per motivi sia teorici che di ordine storico: nel 1840 era asceso al trono di Prussia Federico Guglielmo IV, figura complessa e contraddittoria, che attutì, non valutandone le conseguenze, la censura sulla stampa, come conferma la nascita , in questo periodo, di riviste importanti ma nettamente critiche dell’esistente, quale la Reinische Zeitung, pubblicata a Colonia dal gennaio 1842 al marzo 1843, alla quale collaborano sia Marx che Stirner. Sono, questi, anni di straordinarie battaglie in Germania per l’emancipazione religiosa, politica e sociale.
Se il problema è quello della emancipazione si tratta però di comprendere di quale emancipazione abbia bisogno l’uomo, ed è qui che le strade divergono in modo radicale : per Bauer, nella Questione ebraica, l’emancipazione non deve essere dell’ebreo in quanto ebreo, ma dell’uomo in quanto uomo, e deve essere essenzialmente di tipo politico; per Marx l’emancipazione deve essere di ordine sociale: è solo agendo su questo piano che l’uomo può effettivamente emanciparsi, oltrepassando la separazione moderna tra stato e società civile, tra borghese e cittadino; per Stirner occorre andare al di là sia della politica e dello stato che della società, dello stesso concetto dei “diritti umani”- tutti fantasmi, spettri,astrattezze di cui liberarsi - assumendo come principio della liberazione il concetto dell’Unico, quale archetipo di una nuova concezione dell’uomo e del suo destino. A Stirner non interessano né la comunità, né la società: gli altri sono mezzi e strumenti da adoperare come proprietà del singolo.
Rispetto a interlocutori del calibro di Marx e Bauer, Stirner, stravolgendo in chiave individualistica “egoistica” e nihililistica il concetto moderno di potere, e connettendolo a quello di proprietà, si situa in un punto di vista totalmente altro, suscitando per la radicalità delle sue posizioni l’interesse di pensatori come Nietzsche, che ne riprende il concetto di volontà di potenza. Anche se - come ha scritto Roberto Calasso - è quella di Stirner «la vera “filosofia del martello” , che Nietzsche non sarebbe mai riuscito a praticare , perché troppo irrimediabilmente educato...».
«Si dice di Dio:”Nessun nome ti nomina”. Ciò vale anche per me: nessun concetto mi esprime, niente di ciò che di indica come mia essenza mi esaurisce: sono soltanto nomi..» . L’Unico di Stirner agisce solo per sè, situandosi al di fuori di qualunque apparato costruttivo: l’ Unico, se lo ritiene opportuno, può associarsi , ma il concetto di associazione è del tutto diverso da quello di stato, il quale non ha alcuna legittimità e al quale Stirner è totalmente avverso . Come è avverso al nazionalismo, al liberalismo, allo statalismo, al comunismo, ed anche all’umanismo....In Stirner il nihilismo si realizza in maniera compiuta :«Io - scrive, riprendendo un verso di Goethe - ho fondato la mia causa sul nulla..».
Si capisce che Marx nella Ideologia tedesca abbia sottoposto a una critica radicale il pensiero di San Max, come lo chiama : sono posizioni polari. Non è concepibile per Marx l’opposizione tra individuo e società, l’uomo si determina nei rapporti sociali. E si capisce anche perché Stirner abbia avuto fortuna presso posizioni di tipo anarco-individualistiche, ed anche perché il suo pensiero susciti particolare interesse in un tempo come il nostro nel quale sono in crisi tutti i principi “moderni“ contro cui Stirner conduce una lotta senza quartiere, e quella dell’individuo è ridiventata una questione centrale.
In questo senso, le sue pagine sono singolarmente attuali e possono essere rilette in modo nuovo, al di fuori di vecchi e nuovi pregiudizi . È stato perciò assai opportuno ripubblicare, con testo tedesco a fronte, questo grande libro nella “bella” e “fedele” traduzione di Sossio Giametta, che vi ha premesso anche una originale e limpidissima Introduzione. Stirner ha messo a fuoco aspetti della condizione umana che oggi, mentre un intero mondo si dissolve, appaiono in piena luce. Molto più di quanto sia apparso in passato. Come diceva il vecchio Hegel, è la fine che illumina il principio e il suo sviluppo.
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89). Un omaggio a Kurt H. Wolff e a Barrington Moore Jr.
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
DONNE, UOMINI E VIOLENZA: "Parliamo di FEMMINICIDIO". Dalla democrazia della "volontà generale" alla democrazia della "volontà di genere". L’importanza della lezione dei "PROMESSI SPOSI", oggi.
CRITICA DELL’ECONOMIA TEOLOGICO-POLITICA. " Me ne stavo seduto pensieroso, misi da parte Locke, Fichte e Kant e mi dedicai a una profonda ricerca per scoprire in che modo una lisciviatrice può essere connessa al maggiorascato, quando mi trapassò un lampo (...)" (K. Marx, "Scorpione e Felice").
GIOACCHINO, DANTE, E LA "CASTA ITALIANA" DELLO "STATO HEGELIANO" - DELLO STATO MENTITORE, ATEO E DEVOTO ("Io che è Noi, Noi che è Io"). Appunti e note
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
PSICHIATRIA E RAZZISMI
Storie e documenti
La sistematica di Linneo
di Luigi Benevelli (POL.IT, 14 gennaio, 2014)
Il pensiero occidentale è contrassegnato dalla prepotenza. Il grande sviluppo della sistematica ebbe pienamente luogo solo nel Settecento, con il botanico Carl Nilsson Linnaeus (1707-1778), che cominciò a organizzare le specie raggruppandole in generi, e quindi raggruppando i generi in una serie di categorie superiori basandosi sulle somiglianze morfologiche e anatomiche.
Da quando nel 1735 venne introdotta la sua nomenclatura binomiale - basata sul modello aristotelico di «genere prossimo» e di «differenza specifica» - si è iniziato a declinare in latino il genere e la specie degli organismi.
Linneo ha teorizzato un sistema di classificazione in cui il genere HOMO, posto in cima al regno animale, viene suddiviso in due specie: l’uomo «diurno», o homo sapiens, e l’uomo «notturno» o homo troglodytes, altrimenti detto uomo delle foreste o orangutan.
È curioso come la nostra cultura abbia sempre teso a vedere la luce come il divino, l’alto, il sublime, e il buio come il demoniaco, il basso, il territorio dei bruti. Secondo il sistema delle similitudini e analogie, il Sole - simbolo platonico del Bene, che sempre nella sua corsa, tende a occidente - segna l’uomo occidentale.
Il secolo dei Lumi, nelle retorica settecentesca, porta la ragione nelle menti ottenebrate dalla superstizione e dall’ignoranza; allo stesso modo, nella retorica coloniale del secolo successivo, dall’uomo occidentale procede la civilizzazione che porta la luce nel “cuore di tenebra” dei continenti selvaggi. Il che è perfettamente in sintonia con la classificazione linneiana di Homo sapiens in sei decrescenti varietà diurne, quattro varietà di «uomini normali», catalogabili secondo la provenienza geografica, il colore della pelle e le corrispettive «qualità morali», e due varietà di «uomini anormali».
Nella tassonomia di Linneo abbiamo
Nella decima edizione del Systema naturae (1758), compare la classe dei primati, che sostituisce il precedente Anthropomorphae; qui avviene l’abbinamento del genere Homo con la specie sapiens. Dopo la scoperta dei fossili nella valle tedesca di Neanderthal, l’Homo sapiens divenne sapiens sapiens.
Sul tema, nel sito, cfr.:
PIANETA TERRA. Fine della Storia o della "Preistoria"? "Pietà per il mondo, venga il nuovo sapere" (M. Serres, Distacco, 1986). Tracce per una svolta antropologica
OCCIDENTE, AGONISMO TRAGICO, E MENTE ACCOGLIENTE.
Federico La Sala
FrancoAngeli traduce il saggio sui confini del politologo tedesco che riflette sulla necessità di rendere umana l’economia
Perché ci salverà la filosofia
Julian Nida-Rümelin teorizza un’etica della migrazione. Ma cosa intende per pensiero?
di Emanuele Severino (Corriere della Sera, 07.08.2018)
Ci sono problemi che vanno risolti subito. Ad esempio se ci troviamo vicini a una persona che sta affogando. Ne sanno qualcosa le navi che tra Libia e Sicilia vedono centinaia di migranti in pericolo immediato di morte. Ma ancora più spaventosa è la sorte delle centinaia di milioni di esseri umani che rimangono nei Paesi poveri: sono i più deboli, ben lontani dal disporre dei duemila dollari per il viaggio verso l’Europa. E molti di loro sono vicini alla morte, ora, per fame e malattie, tanto quanto lo sono coloro che si trovano su un barcone che sta affondando.
L’opinione pubblica e i mass media prestano attenzione soprattutto alle vicende del primo di questi due gruppi, collegate come sono alle ripercussioni che hanno sulle società ricche e quindi sull’Europa.
Ma nella riflessione culturale sul fenomeno della migrazione i problemi relativi al secondo gruppo sono già da tempo discussi. Notevole impulso a questa discussione è stato dato dall’economista Paul Collier con la pubblicazione del suo saggio Exodus, tradotto in Italia nel 2015 da Laterza. Anche le sofferenze del secondo gruppo andrebbero affrontate subito. La potenza raggiunta dalla tecnica consentirebbe di eliminarle in gran parte (quasi cent’anni fa Keynes lo riteneva già fattibile), ma la gestione della tecnica da parte dei ricchi lo rende impossibile.
Sui problemi della migrazione - quindi anche su coloro che non possono andarsene dalle terre d’origine - si sofferma anche Julian Nida-Rümelin nel suo Pensare oltre i confini. Un’etica della migrazione, del 2017 e pubblicato quest’anno in Italia da FrancoAngeli (a cura di Giovanni Battista Demarta, che dello stesso autore ha curato, per FrancoAngeli, Per un’economia umana, 2017).
Ma, come appare dal titolo, diversa è l’impostazione. Collier parla da economista, Rümelin da filosofo (insegna Filosofia e teoria della politica all’Università di Monaco di Baviera). L’«etica» è infatti il modo in cui la filosofia si rivolge all’agire dell’uomo. Ma Rümelin è stato anche ministro della Cultura nel primo governo Schröder. Cooperazione di efficienza capitalistica e di tutela del lavoro, cioè un’«economia umana», è a suo avviso il progetto che ha determinato l’affermazione della Germania in Europa e che egli consiglia anche all’Italia. All’intento di indicare i fondamenti filosofici di un’«economia umana» appartiene anche questa sua importante etica della migrazione.
Mi sembra che essa si proponga di chiarire in che misura la filosofia possa contribuire anche alla soluzione dei problemi che, come quello della migrazione, richiedono una risposta immediata. Questo proposito coinvolge un modo di concepire la filosofia, che tuttavia, per quanto attraversato da spunti originali, è sostanzialmente allineato ai criteri con i quali la filosofia è oggi intesa nel mondo.
In un tempo in cui l’economia e la tecno-scienza stanno al centro della scena mondiale l’importanza attribuita alla filosofia da un intellettuale e politico come Rümelin è interessante. Come interessanti sono le sue tesi che la democrazia non possa prescindere dalla «verità» e che l’etica debba tener conto del modo in cui essa è stata elaborata da Platone e da Aristotele. Ma il suo modo di intendere la filosofia e la «verità» è quello che gli è consentito dallo spirito del nostro tempo.
Egli sostiene, insieme a filosofi come Ronald Dworkin e Thomas Nagel, un «realismo etico» per il quale «ci sono ragioni buone e ragioni cattive, e ciò che è una buona ragione o una cattiva ragione non si risolve in ciò che volta per volta pensiamo e preferiamo (...). Io tento piuttosto di scoprire che cosa dovremmo fare, non ciò che comunemente si ritiene che andrebbe fatto» (pagina 13). Le «ragioni buone» esistono; ma per lui, come per tutta la cultura dominante, la bontà delle ragioni non può essere la loro verità incontrovertibile; e ciò che dovremmo fare non discende da un principio indiscutibile.
Ma in che modo Rümelin stabilisce la preferibilità delle «ragioni buone»? Sembra a volte che per lui una «buona ragione» consista, contrariamente a quanto abbiamo sentito, in ciò che comunemente si ritiene di dover fare. Scrive ad esempio (pagina 49): «Abbiano delle buone ragioni per prenderci cura delle nostre amiche e dei nostri amici, per accudire i nostri figli come genitori, per percepire una responsabilità nei confronti dei nostri allievi come insegnanti, e così via. Se una teoria etica è inconciliabile con tutto questo, allora è la teoria etica a fallire, non questa prassi diffusa nel mondo della vita».
Ora, in questo passo, la «teoria etica» è la filosofia; ma «questa prassi» è, propriamente, l’insieme di regole a cui in vaste aree del globo l’uomo contemporaneo per lo più si è abituato ad adeguarsi (ma con eccezioni sempre più rilevanti); e il «mondo della vita» è quello che i Paesi ricchi sono riusciti a realizzare da due o tre secoli (se si va ancora più indietro, tale modo di vivere è sempre meno «diffuso»); e le «buone ragioni» che abbiamo per fare quel che facciamo sono l’insieme di preferenze che è stato adottato da questo tipo d’umanità prevalendo su altre forme di preferenza.
La filosofia deve avere quindi come fondamento, modello, pietra di paragone le convinzioni di questa umanità e si riduce a essere una sistemazione della «verità» costituita da tali convinzioni; così come, in campo epistemologico, oggi si ritiene per lo più che la «verità» sia il sapere scientifico, che la filosofia debba essere al massimo una riflessione su di esso e che con esso non possa mai essere inconciliabile. E come la filosofia non può essere qualcosa di inconciliabile con le convinzioni delle società ricche del Nord del Pianeta, così non può trovarsi a essere inconciliabile con esse nemmeno quell’aspetto della filosofia che è l’«etica della migrazione». Anche in questo campo sono il buon senso e le «buone ragioni» di quelle società a dettar legge alla filosofia.
Secondo il leitmotiv della cultura filosofica oggi dominante anche Rümelin prende congedo dal senso originario della filosofia, sviluppatosi lungo l’intera tradizione dell’Occidente: la filosofia come sapere incontrovertibile, e quindi come critica del mito, del senso comune, delle «buone ragioni», delle convinzioni che di volta in volta i popoli hanno avuto. (Un congedo, osservo, che è sì inevitabile ma è anche estremamente più complesso di quanto ritengano e riescano a rendersi conto quasi tutti coloro che affermano di congedarsi). Rispetto all’idea di un sapere incontrovertibile, infatti, per quanto argomentate e coerenti tali convinzioni sono pur sempre opinioni, abitudini, congetture, forme di fede. Certo, sono le opinioni che tutti noi, sembra, condividiamo, ma «tutti noi» apparteniamo a quel tipo d’umanità che è sì riuscita a prevalere sulle altre, ma non per questo le sue convinzioni hanno cessato di essere opinione e fede.
Rümelin afferma che il principio capitalistico dell’«ottimizzazione» (l’aumento indefinito del profitto) spinge il mondo verso l’eliminazione dei confini tra gli Stati nazionali, cioè verso la globalizzazione economica e quindi è promozione di un flusso migratorio senza limiti, che consente di ridurre sempre di più il costo del lavoro. Ed egli mostra la catastrofe che questo principio, lasciato a sé stesso, produrrebbe nei migranti, nel mondo ricco, nel capitalismo stesso. La politica avrebbe allora il compito di salvaguardare i confini, ma senza eliminare l’efficienza dell’economia di mercato. Il compito etico sarebbe appunto di rendere «umana» questa forma di economia, impedendo alle concezioni assolutistiche del filosofare di rendere inefficaci le «buone ragioni». Un capitalismo sano non è, per lui, un’utopia. E infatti, oggi, quasi nessuno crede più in una fuoriuscita dal capitalismo.
Uno dei motivi principali di questa convinzione è lo straordinario sviluppo tecnologico di cui soprattutto il capitalismo si avvale. Ma in questo modo si continua a confondere capitalismo e tecnica. Che invece (lo vado mostrando da tempo anche su queste colonne) hanno anime profondamente diverse. Il capitale (più o meno «umano») crede di poter continuare a servirsi della tecnica, ma ha nemici esterni e interni (la concorrenza) e quindi è costretto a potenziare sempre di più questo suo formidabile strumento. E allora non è forse inevitabile che tale potenziamento divenga esso, e non l’incremento del profitto, lo scopo dell’agire capitalistico - di un agire che pertanto non potrà più essere «capitalistico»? E non è quindi inevitabile che a gestire i problemi della migrazione non possa essere né il capitalismo né un’«etica della migrazione», ma abbia a essere la crescente potenza tecnica, divenuta, da mezzo delle forze che oggi si credono alla guida del mondo, lo scopo di ogni agire dell’uomo?
E, d’altra parte, i più grandi e duraturi cambiamenti dell’Occidente non sono forse determinati dalla filosofia, cioè dal pensiero che non si propone di risolvere immediatamente i problemi? Tutte le complessità concettuali e pratiche della storia occidentale non sono forse cresciute all’interno dei significati fondamentali portati alla luce dal pensiero filosofico («verità», «scienza», «errore», «opinione», «fede»,«fondamento», «dimostrazione», «essere», «non essere», «divenire», «nulla», «eternità», «etica», «politica», ecc.)?
La scienza moderna si distacca dalla filosofia, ma come chi nasce si distacca dalla madre: rimanendo tuttavia qualcosa che essa ha generato e che di essa è quindi il prolungamento. E la pratica capitalistica - stando a una tesi tuttora chiarificante di Max Weber - non deriva forse dall’etica protestante, cioè da un innesto del pensiero filosofico nel pensiero religioso?
L’Unione Sovietica e il comunismo mondiale non sono forse un prodotto della filosofia marxista (che ha alle sue spalle la filosofia di Hegel, la quale a sua volta raccoglie in sé l’intera storia del pensiero filosofico della tradizione occidentale)?
POLITICA, FILOSOFIA, E MERAVIGLIA. Non è mai troppo tardi .... *
L’ appello
Prepariamoci alle Europee
di Massimo Cacciari (la Repubblica, 03.08.2018)
La situazione dell’Italia si sta avvitando in una spirale distruttiva. L’alleanza di governo diffonde linguaggi e valori lontani dalla cultura - europea e occidentale - dell’Italia. Le politiche progettate sono lontane da qualsivoglia realismo e gravemente demagogiche. Nella mancanza di una seria opposizione, i linguaggi e le pratiche dei partiti di governo stanno configurando una sorta di pensiero unico, intriso di rancore e risentimento. Il popolo è contrapposto alla casta, con una apologia della Rete e della democrazia diretta che si risolve, come è sempre accaduto, nel potere incontrollato dei pochi, dei capi. L’ossessione per il problema dei migranti, ingigantito oltre ogni limite, gestito con inaccettabile disumanità, acuisce in modi drammatici una crisi dell’Unione europea che potrebbe essere senza ritorno.
L’Europa è sull’orlo di una drammatica disgregazione, alla quale l’Italia sta dando un pesante contributo, contrario ai suoi stessi interessi. Visegrad nel cuore del Mediterraneo: ogni uomo è un’isola, ed è ormai una drammatica prospettiva la fine della libera circolazione delle persone e la crisi del mercato comune. È diventata perciò urgentissima e indispensabile un’iniziativa che contribuisca a una discussione su questi nodi strategici. In Italia esiste ancora un ampio spettro di opinione pubblica, di interessi sociali, di aree culturali disponibile a discutere questi problemi e a prendere iniziative ormai necessarie.
Perché ciò accada è indispensabile individuare, tempestivamente, nuovi strumenti in grado di ridare la parola ai cittadini che la crisi dei partiti e la virulenza del nuovo discorso pubblico ha confinato nella zona grigia del disincanto e della sfiducia, ammutolendoli.
Per avviare questo lavoro - né semplice né breve - è indispensabile chiudere con il passato ed aprire nuove strade all’altezza della nuova situazione, con una netta ed evidente discontinuità: rovesciando l’ideologia della società liquida, ponendo al centro la necessità di una nuova strategia per l’Europa, denunciando il pericolo mortale per tutti i paesi di una deriva sovranista, che, in parte, è anche il risultato delle politiche europee fin qui condotte.
C’è una prossima scadenza, estremamente importante, che spinge a mettersi subito in cammino: sono ormai alle porte le elezioni europee. C’è il rischio che si formi il più vasto schieramento di destra dalla fine della Seconda guerra mondiale. La responsabilità di chi ha un’altra idea di Europa è assai grande. Non c’è un momento da perdere. Tutti coloro che intendono contribuire all’apertura di una discussione pubblica su questi temi, attraverso iniziative e confronti in tutte le sedi possibili, sono invitati ad aderire.
Gli altri firmatari: Enrico Berti Michele Ciliberto Biagio de Giovanni Vittorio Gregotti Paolo Macrì Giacomo Manzoni Giacomo Marramao Mimmo Paladino
Sul tema, nel sito, si cfr.:
FILOSOFIA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO
MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI?! POCO CORAGGIOSI A SERVIRSI DELLA PROPRIA INTELLIGENZA E A PENSARE BENE "DIO", "IO" E "L’ITALIA", CHI PIÙ CHI MENO, TUTTI VIVONO DENTRO LA PIÙ GRANDE BOLLA SPECULATIVA DELLA STORIA FILOSOFICA E POLITICA ITALIANA, NEL REGNO DI "FORZA ITALIA"!!!
UNITÀ D’ITALIA E FOLLIA: EMERGENZA LOGICO-POLITICA EPOCALE. PER UN CONVEGNO E UNA RIFLESSIONE SUL CONCETTO DI ’UNITÀ E DI SOVRANITÀ (SOVRA-UNITÀ). Materiali sul tema
Federico La Sala
LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico. ... *
Disobbedienza, cattolici più avanti della sinistra
di Michele Prospero (il manifesto 27.07.2018)
Vade retro, Salvini si presenta ai lettori con questo titolo, forte e pieno di coraggio civile, il settimanale Famiglia cristiana. Il ministro degli interni lepenista è affrontato senza remore. Con il suo volto in copertina, il leader padano viene indicato come bersaglio esplicito di un mondo cattolico che non tentenna neanche ora che i sondaggi danno il governo oltre il 62 per cento e pure le toghe sono in sintonia con il vento nuovo della destra al comando.
Famiglia cristiana non è sola nella sua azione di denuncia. Anche sul quotidiano Avvenire, molto sensibile ai temi sociali, la comprensione critica del fenomeno delle destre di governo è molto acuta.
Le stesse pratiche di resistenza civile, abbozzate nei giorni scorsi dalle camicie rosse, sono state promosse da don Ciotti e hanno visto quindi la presenza in prima fila del cattolicesimo. Molti e autorevoli sono poi i pronunciamenti di prelati e della stessa gerarchia, che non rimane indifferente alle prove di regime, con tracce inequivoche di etnopopulismo sperimentate nei palazzi del potere.
C’è, in questo impressionante esercizio dell’etica della convinzione da parte dell’universo cattolico, un fatto di straordinaria rilevanza e novità: la fede come assunzione di responsabilità pubblica contro gli abusi del potere che nella costruzione del nemico indossa i simboli del sacro. I cattolici non avvertono esitazione alcuna a scagliarsi contro un potente che, in maniera blasfema, brandisce il rosario per incitare all’inimicizia verso l’altro.
Nessuna giustificazione è possibile per chi, coltivando le ambizioni di un consenso facile, gioca con la vita dei profughi. L’indignazione dell’uomo di fede è incontenibile quando il vice presidente del consiglio, che vuole il censimento degli zingari giusto per esibire la forza persuasiva della ruspa sui loro campi, e si scaglia contro il buonismo della «Corte di Strasburgo sui diritti dei rom», per fondare su solide basi etiche il respingimento dei naufraghi propone di esibire un crocefisso nei porti chiusi.
Scrittori, sindacalisti, intellettuali di sinistra hanno votato in gran numero per il non-partito padronale di Casaleggio e ora sono afoni dinanzi alle regressioni di civiltà promosse dal governo del cambiamento. La confusione è così grande, sotto il cielo di una sinistra ormai perduta nelle idee, che lo scrittore Domenico Starnone si meraviglia perché «nel decreto dignità ci sono un bel po’ di cose che così di sinistra ce le eravamo dimenticate».
Le apparenti (e modiche) aperture in campo sociale sono sempre necessarie alle destre radicali quando inaspriscono il volto repressivo del potere e conferiscono una pericolosa curvatura etnica alle loro politiche. I cattolici questo nesso eversivo lo hanno colto e per questo si indignano dinanzi a un governo che nella gestione del potere esibisce i simboli del sacro per delimitare una comunità etnica che si ritrova solo se si difende dallo straniero. A sinistra invece si balbetta sui principi e non manca chi contrappone l’anima sociale (!) del governo a una componente più di destra e suggerisce di differenziare e civettare con i grillini per impedire che la mucca si trasformi in toro.
Si spiega con la riluttanza ad assumere le implicazioni definitive del contratto di governo, l’incapacità della sinistra di rispondere alle provocazioni della destra con il gusto della rottura simbolica, della disobbedienza. Al potere ci sono due forze, le unisce una sola cultura, che ha i tratti inconfondibili di una destra postmoderna. Le ossessioni a sfondo etnico di Salvini, che intende destinare alla polizia i soldi tolti ai rom e ai migranti, sono le stesse di Grillo che nel suo blog difese la sacralità dei confini e scrisse che le invasioni dei rom erano la vera «bomba sociale».
Peraltro quando l’imprenditore Casaleggio prospetta che solo tra qualche lustro il parlamento deve essere chiuso come un ente inutile, svela con trasparenza assoluta la vocazione illiberale del suo non-partito a proprietà privata: alla fine della guerra, urlava già Grillo nelle piazze, solo uno deve rimanere. E appunto la chiusura di Montecitorio evoca un mondo ideale senza più partiti, pluralismo, organizzazioni in conflitto. Uno solo al potere, con il popolo passivizzato che fa un clic sulla piattaforma e nel cassetto conserva una pistola.
Per tornare al popolo e riconquistare le periferie a sinistra c’è chi pensa persino di scoprire il nucleo di verità del salvinismo che denuncia una mutazione antropologica degli italiani per le invasioni dei neri.
La strada più giusta è quella indicata da settori di un mondo cattolico che non va verso il popolo, sfida il suo popolo sedotto dal male, come è necessario in fasi di regressione etico-politica.
La sinistra deve fare lo stesso, organizzarsi come minoranza dalle grandi idealità che punge il governo e strattona il suo popolo di un tempo e la sua classe dormiente che ora inneggia a Salvini e a Grillo. La disobbedienza, il terreno della resistenza culturale e civile, in attesa che si riscaldi quello sociale, sono i cardini di una controffensiva possibile dopo la catastrofe che prepara una democratura a cemento etno-populista.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA TEOLOGIA DI "MAMMONA" ("caritas"), LA LEZIONE DI MARX, E IL MESSAGGIO EVANGELICO ("Charitas").
VIVA L’ITALIA!!! LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico. Una nota (del 2006)
IL SONNO MORTIFERO DELL’ITALIA. In Parlamento (ancora!) il Partito al di sopra di tutti i partiti.
Federico La Sala
CON DECENZA PARLANDO: LA PRIVATIZZAZIONE DEL NOME "ITALIA" E IL POPULISMO. "Ghe Pensi Mi"!
Una nota*
SICCOME QUI SI TOCCANO TEMI di tranquillizzazione politica (con tutti i suoi risvolti teologici e costituzionali) e di "superomismo" populistico ("stai sereno!" - "scuscitatu" vale come "senza pensieri, senza preoccupazioni": cioè, "Ghe Pensi Mi"), e c’è da svegliarsi e riappropriarsi della propria *dignità* (politica e *costituzionale*, e non solo economica) di cittadini e di cittadine, è bene ricordare che per "stare sereni" troppo e troppo a lungo, come cittadini italiani e cittadine italiane, abbiamo perso la stessa possibilità di "tifare" per noi stessi e stesse, per se stessi e per se stesse, sia sul piano sportivo sia sul piano *costituzionale*: non solo perché la nostra NAZIONALE è fuori dai MONDIALI DI CALCIO ma, anche e soprattutto, perché il NOME della NAZIONE (di tutti e di tutte) è diventato il "Logo" della "squadra" di un Partito e di un’Azienda.
IL LUNGO SONNO DELLA RAGIONE COSTITUZIONALE CONTINUA ...
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USCIRE DALLA CAVERNA, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI “DIO” CONCEPITO COME “UOMO SUPREMO”. La Fenomenologia dello Spirito di Alexandre Kojève ... *
Ai tempi della fisica quantistica che bisogno c’è di un Assoluto?
Per la prima volta in italiano il testo sul “determinismo” che Kojève scrisse negli Anni 30 un geniale tuffo ermeneutico nell’universo paradossale teorizzato dalla scienza moderna
di Marco Filoni (La Stampa, TuttoLibri, 16.06.2018)
Il destino dei filosofi è spesso segnato: studio, libri, una pensosa solitudine. Vite di un’umile classicità conferita dal tempo. E poi ci sono le illustri eccezioni: esistenze svolazzanti e sinuose, sottratte dal dominio del normale. Come nel caso di Alexandre Kojève.
La sua fu una vita in quattro atti. Il primo, a Mosca, dove era nato nel 1902 da una ricca famiglia di commercianti (era nipote del pittore Kandinskji), e da dove fuggì dopo la Rivoluzione bolscevica perché altrimenti sarebbe stato fucilato almeno tre volte - e ci andò vicino, a soli quindici anni, sorpreso a vendere bigiotteria al mercato nero: rischiava il plotone d’esecuzione, ma fu liberato dopo una notte in cella soltanto perché lo zio era il medico personale di Lenin.
Secondo atto: la Germania, dove studiò a Berlino e a Heidelberg, addottorandosi con Karl Jaspers.
Poi Parigi, il terzo atto: qui negli anni Trenta diede una lettura vertiginosamente faziosa - e altrettanto geniale - di Hegel, salendo sul trono di «maestro» per un’intera generazione di intellettuali (da Queneau a Bataille, da Lacan a Raymond Aron, e poi Merleau-Ponty, Roger Caillois, Henry Corbin, Hannah Arendt e molti altri ancora).
Infine l’atto finale: dopo la guerra, quando tutti si aspettavano di vederlo tornare in cattedra, lui con nonchalance andò a fare l’alto funzionario del Ministero per gli Affari Esteri francese, dove passò felicemente gli ultimi vent’anni della sua vita fra l’élite della diplomazia mondiale e dell’alta finanza - che, secondo lui, avevano sostituito la vecchia aristocrazia.
Eppure non abbandonò mai lo studio e scrisse un’impressionante quantità di opere rimaste perlopiù inedite. Fra queste ve ne è una, scritta in Francia nel 1932, che vede finalmente la luce in italiano grazie all’editore Adelphi. Si intitola L’idea di determinismo nella fisica classica e nella fisica moderna (traduzione di Sofia Moreno), ed è curata da Mauro Sellitto che firma un’interessante e precisa postfazione. Il tema è decisamente insolito per un filosofo «classico», ma quando si tratta di Kojève non ci si dovrebbe stupire di nulla.
Chissà se Einstein quando affermava che «l’intera scienza non è che un affinamento del pensiero quotidiano» aveva coscienza che, all’epoca, fosse vero anche il contrario. Ecco infatti Kojève, nell’aprile del ’29, assistere alla conferenza di Enrico Fermi dedicata alla teoria dei quanti, e poi annotare nei suoi quaderni di appunti: il mio tema.
Da qui nascono queste pagine: Kojève si confronta con la questione del determinismo - banalizzando: l’idea sottesa che l’accadere degli eventi non sia semplicemente accidentale - tornata vigorosamente al centro della discussione con la teoria dei quanti. Ha ragione Sellitto quando scrive che il libro ci offre l’opportunità di vedere all’opera una delle menti più brillanti del Novecento alle prese con la meccanica quantistica - considerando, inoltre, che molte delle interpretazioni di oggi traggono origine proprio da quel dibattito e che, nonostante sia passato circa un secolo, i problemi sono rimasti fondamentalmente immutati.
Prendiamo ancora Einstein: per lui la meccanica quantistica era filosoficamente inaccettabile. Pur avendo contribuito alla sua nascita, la criticò dal punto di vista concettuale: era inconcepibile che una teoria fisica potesse essere valida e completa pur descrivendo una realtà in cui esistono mere probabilità di osservazione. Seguendo l’autorevole dichiarazione di Henri Poincaré, insomma, la scienza «era determinista o non era affatto».
Kojève non è d’accordo. Il filosofo intravede una nuova idea di determinismo nata con le scoperte della teoria dei quanti, e cerca di dimostrare che non vi sono «ragioni filosofiche a priori che possano obbligarci a rigettare o accettare queste nuove teorie». Per questo critica l’idea classica di determinismo, poiché l’ipotesi dei quanti dimostra l’inaccettabilità del postulato di universalità e di verificabilità sperimentale della causalità classica, che fino ad allora permetteva previsioni esatte sempre più numerose rispetto ai fenomeni reali e fisici.
Kojève è fra i primi pensatori a comprendere la portata delle mutazioni che le scoperte di allora implicavano sulle nozioni di fenomeno, oggetto, esperienza, conoscenza. E lo fa con una radicale messa in questione del determinismo causale esatto, riassunto nel celebre passaggio di Laplace nel quale è evocata l’idea di un osservatore universale onnisciente.
Secondo il filosofo, la teoria dei quanti conduce necessariamente a una concezione indeterminista del reale: viene quindi a cadere l’esigenza di un Assoluto che abbia una funzione nel mondo reale. E aggiunge, quasi a margine, che la nuova fisica moderna implica un ateismo di fondo. Come a dire: se c’è chi cercava la fisica di Dio, io Kojève con questo testo ho scovato la fisica dell’ateismo.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LA VIA DI KANT: USCIRE DALLA CAVERNA, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI “DIO” CONCEPITO COME “UOMO SUPREMO”. Note per una rilettura della “Storia universale della natura e teoria del cielo”
ETICA DELL’ATEISMO?! AL DI LA’ DEI FONDAMENTALISMI LAICI E RELIGIOSI: UNA SECONDA RIVOLUZIONE COPERNICANA
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
MATEMATICA, TEOLOGIA POLITICA, E ANTROPOLOGIA...
Api matematiche, riconoscono lo zero
Come delfini, pappagalli e scimpanzè
di Redazione Ansa*
Anche le api entrano a far parte del club molto esclusivo di animali che sanno cos’è lo zero, insieme a delfini, pappagalli, scimpanzè e bambini in età prescolare: si tratta di una scoperta sorprendente, considerata la complessità del concetto matematico astratto del nulla, e apre a nuovi e più semplici approcci per lo sviluppo dell’intelligenza artificiale. Lo studio, pubblicato sulla rivista Science, è stato coordinato dall’Università di Melbourne in Australia (Rmit), in collaborazione con l’Università francese di Tolosa.
La scoperta solleva non poche domande su come una specie così diversa e lontana dagli esseri umani, con meno di un milione di neuroni a confronto degli 86 milioni del cervello umano, possa condividere un’abilità così complicata: infatti lo zero è un concetto molto difficile che i bambini impiegano anni ad imparare e che era assente in alcuni sistemi numerici di antiche civiltà.
I ricercatori guidati da Scarlett Howard hanno attirato gli insetti verso una parete con piccoli fogli bianchi, ognuno con un numero da due a cinque di forme nere disegnate. Dopo aver addestrato le api tramite ricompense di cibo a scegliere i fogli con un minore o un maggior numero di forme, i ricercatori hanno introdotto due numeri nuovi, uno e zero: a quel punto gli insetti hanno dimostrato di sapere che lo zero è minore di uno.
"Se un’ape riesce a riconoscere lo zero con meno di un milione di neuroni", dice Adrian Dyer dell’Università di Melbourne, uno degli autori, "allora devono esserci modi più semplici ed efficienti per insegnare lo stesso concetto ai sistemi di Intelligenza Artificiale. Ad esempio - prosegue - per noi è semplice attraversare la strada quando non passa nessuno, ma per un robot risulta un compito molto più difficile".
Sul tema, nel sito, si cfr.:
CONTARE E PENSARE: MARE, "NUMERO E LOGOS".
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
MATEMATICA, TEOLOGIA POLITICA, E ANTROPOLOGIA: CONTIAMO E PENSIAMO ANCORA COME SE FOSSIMO NELLA CAVERNA DI PLATONE. NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN
Federico La Sala
POLITICA, FILOSOFIA, E MERAVIGLIA. Il Narcisismo e l’uso lucidissimo come arma politica dell’"antinomia del mentitore" ... *
Narcisismo e democrazia
di Sergio Benvenuto (Doppiozero, 06 giugno 2018)
Il libro di Giovanni Orsina, La democrazia del narcisismo. Breve storia dell’antipolitica (Marsilio) si inserisce in un filone di studi che chiamerei, parafrasando Gibbon: Declino e (possibile) Caduta della Democrazia. Insomma, Orsina tematizza uno dei maggiori problemi della nostra epoca: la crisi della democrazia pluralista e liberale.
Una crisi che non a tutti appare evidente. Perché è vero che 25 paesi negli ultimi 18 anni sono retrocessi, per dir così, dalla democrazia al dispotismo - compresi Russia, Turchia e Venezuela - ma in Occidente la democrazia può sembrare ben salda. In effetti, le tre grandi catastrofi degli ultimi due anni - Brexit, elezione di Trump, vincita dei partiti anti-politica in Italia - si sono prodotte rispettando in tutto i meccanismi democratici. Non è un caso, però, che molti commentatori, anche in Italia, abbiano deprecato la decisione di Cameron di indire un referendum sull’appartenenza del Regno Unito all’Europa: “non è materia su cui ha da decidere il popolo”, hanno detto. -Insomma, molti democratici cominciano ad aver seriamente paura della democrazia. E ne hanno le ragioni, perché sappiamo che talvolta le democrazie uccidono democraticamente se stesse: fu questo il caso del fascismo italiano nel 1923, del nazismo in Germania nel 1933, delle elezioni algerine del 1991, e più di recente delle elezioni russe (Putin), turche (Erdogan) e venezuelane (Maduro). Il presupposto di onniscienza politica della democrazia è smentito storicamente. Un popolo può liberamente decidere di rovinarsi, come accade a certi individui, che decidono liberamente di rovinarsi; ne conosciamo tanti.
Ma per Orsina come per altri (incluso il sottoscritto) il sintomo della crisi della democrazia in Occidente è l’avanzare dei cosiddetti partiti populisti, ovvero “anti-politici”. Partiti o movimenti ossimorici, perché attaccano il potere politico proponendo se stessi come potere politico. Ma il merito di Orsina è di situare questo retreat della liberal-democrazia non come evento nuovo, congiunturale, ma come il manifestarsi di una contraddizione fondamentale nel genoma stesso della democrazia. Così, Orsina si appella all’analisi, così ambivalente, di Tocqueville della democrazia americana nell’800.
Potremmo dire che questo filone di studi cerca di fare nei confronti della democrazia quel che Karl Marx fece nei confronti del capitalismo. Per Marx il capitalismo non sarebbe caduto per la rivolta indignata delle classi oppresse, ma per un’implosione interna, per il venire al pettine dei nodi di una contraddizione fondamentale del capitalismo stesso. Analogamente, la democrazia comporta una contraddizione fondamentale che sta per venire al pettine. Siccome la profezia marxiana del crollo del capitalismo non si è (finora) verificata, c’è solo da augurarsi che, analogamente, il crollo della democrazia non si verifichi. Ce lo auguriamo perché dopo tutto pensiamo come Churchill, che la democrazia è il peggiore dei sistemi politici, a esclusione di tutti gli altri.
Va detto che Orsina, professore di Storia contemporanea alla LUISS, non si rifà tanto a sociologi e politologi accademici, quanto piuttosto a testi e ad autori del mondo filosofico e poetico: a La rivolta delle masse di José Ortega y Gasset, a Nelle ombre del domani di Johan Huizinga, a Massa e potere di Elias Canetti, a Montale, a Marcel Gauchet. È tra quelli che pensano che non bastino fatti e statistiche per capire il mondo in cui viviamo: occorrono anche le intuizioni, le folgorazioni intellettuali, di scrittori e filosofi.
Del resto, sin dal titolo - che riecheggia il bestseller anni 70 La cultura del narcisismo di Christopher Lasch - Orsina usa un concetto non ‘sociologico’, quello di narcisismo. Concetto freudiano più che mai, anche se l’autore non cita Freud ma i sociologi e i pensatori che, oltre Lasch, hanno sdoganato il concetto di narcisismo nella cittadella sociologica (Tom Wolfe, Richard Sennett, Gilles Lipovetski).
Ora, per narcisismo Orsina non intende egoismo e nemmeno individualismo. Quest’ultimo, diceva Tocqueville, “è un sentimento ponderato e tranquillo”, è il valutare oculatamente i costi e benefici, e difatti tutte le teorie liberali si basano sull’individuo come homo rationalis, come buon calcolatore dei propri personali vantaggi. Il narcisista invece è una personalità fondamentalmente irrazionale (ho cercato di descrivere il narcisismo secondo Freud qui). Non è tranquillo, anzi, tende all’ira e alla protesta perenne, divorato da una frustrazione che lo assilla. In modo stringato, possiamo dire che il narcisista è chi si crede. Chi crede solo nella propria opinione, e che crede soprattutto nei propri desideri. Ma siccome nella vita sociale ci sarà sempre qualcuno al di sopra di lui, sentirà conficcate nella sua pelle “le spine del comando” (dice Orsina citando Canetti) ogni volta che ubbidirà a qualche ordine, e tutte queste spine costituiranno “un duro cristallo di rancore”. Perciò le democrazie sono caratterizzate da un cumulo di rabbia contro chi “comanda”, come ha visto il filosofo Peter Sloterdijk in Ira e tempo, dove parla di partiti e movimenti politici come “banche dell’ira”.
In effetti la democrazia non è solo un sistema per scegliere chi deve governare, essa si basa su una Promessa fondamentale, implicita o esplicita che sia: l’auto-determinazione di ciascun uomo e di ciascuna donna. Ovvero, non c’è alcun criterio che trascenda la volontà di ciascuno, sia esso la religione, la patria, il re, la classe sociale... “Il popolo è sovrano”, quindi ciascuno si sente sovrano nel pensare e nell’odiare. Ormai contano le opinioni dei singoli, ovvero la loro somma, non l’autorevolezza delle opinioni: se un’opinione è diffusa, diventa ipso facto autorevole. Se un libro si vende bene, allora è un capolavoro. Se un leader cialtrone prende una barca di voti, diventa ipso facto un grande uomo politico. Da qui l’esplosione dei sondaggi d’opinione: essi servono non solo a sapere quel che la gente pensa, ma a stabilire, appunto, che cosa vale e che cosa no. Ora, ciascuno è convinto che la propria opinione sia quella giusta, anche se in realtà non sa nulla di ciò di cui ha un’opinione. In democrazia, dicevano gli antichi greci, prevale la doxa, l’opinione, non l’epistheme (il sapere). Dico qui a parole mie quel che mi sembra il succo del libro di Orsina.
Decenni fa le persone semplici, non colte, mi chiedevano spesso “Professore, ma per chi devo votare?” Non rispondevo, ligio all’ideale democratico per cui il “professore” non deve esercitare un’autorità intimidente sull’elettore. Oggi invece le persone senza cultura non sanno che farsene non solo delle mie idee politiche, ma di quelle di tutti i professori. Del resto, per ogni opinione, per quanto becera, si riesce a trovare sempre qualche “esperto” che la puntelli o la legittimi. Si scoprono “specialisti” i quali dicono che vaccinare i bambini fa male, per esempio, quando si spande il rumor secondo cui vaccinare fa male. Il narcisismo è insomma l’arroganza dei propri desideri e delle proprie opinioni; non conta più il percorso - di studio, riflessione, informazione, confronto con esperti - che porta ad avere un’opinione che pesi.
Così, scrive Michel Crozier (citato da Orsina):
Insomma, il principio di autodeterminazione di ciascuno porta a un indebolimento progressivo della politica. Da qui il crescente discredito dei politici: essi fanno da capro espiatorio di questa contraddizione fondamentale. Vengono applauditi solo i politici che si dichiarano anti-politici... Il narcisista moderno esige dalla politica che risolva i propri problemi, ma siccome la politica deve cercare di risolvere anche i problemi degli altri, qualunque cosa un politico farà sarà sempre insoddisfacente. Ogni misura politica pesta sempre i piedi a qualcuno. Ogniqualvolta un politico agirà politicamente, tenendo conto quindi dei vari interessi tra loro spesso contrapposti, sarà sempre considerato fallimentare, anzi un corrotto.
Si prenda il caso esemplare della lotta all’evasione fiscale: questa dovrebbe essere popolare perché permette allo stato di avere più fondi per i servizi pubblici, per il sistema sanitario..., ma essa comporta una decurtazione del reddito di chi prima evadeva. Solo questa decurtazione viene vista, e biasimata.
Il paradosso è che la credibilità dei politici si abbassa sempre più man mano che essi si convertono alla demagogia, diventando “cantastorie” come dice Orsina, ovvero aizzano richieste specifiche anche se irrealistiche al fine di guadagnare voti e potere. Sempre più abdicano a una funzione che i politici di vecchio stampo esercitavano: quella di presentare agli elettori anche gli oneri che un sistema politico-economico esige, i vincoli che vengono dall’economia, dal sistema internazionale delle alleanze. Oggi i politici promettono sempre di più a tutti, non mettono mai gli elettori di fronte alla complessità e alla durezza dei problemi sociali. Ma la demagogia dà un vantaggio effimero: prima o poi, l’elettore capisce che le promesse non vengono mantenute. E si volgerà a un altro demagogo...
Si è denunciato il fatto che il nuovo governo della Lega e del M5S in Italia si basi su due progetti praticamente contraddittori: da una parte la flat tax, che di fatto regala soldi ai più ricchi; dall’altra il reddito di cittadinanza, che dovrebbe andare ai più poveri. Ma se lo stato rinuncia a una parte cospicua delle tasse, gli sarà impossibile dare un reddito a chi non lavora.
Il fatto che questi due progetti abbiano trovato una sorta di affinità elettiva è un’allegoria della contraddizione della democrazia narcisista: dallo stato, ovvero dalla politica, si chiede che da una parte esso dia sempre più, ma dall’altra gli si vuole dare sempre meno. Esigo che lo stato spenda sempre più per me, ma mi rifiuto sempre più di dargli questi soldi da spendere. Il segreto dell’esplosione del debito pubblico in Italia, che ha raggiunto il 130% del PIL nazionale, è tutto qui (esso è il frutto di decenni di politiche che hanno comprato consenso di massa indebitando però i nostri figli fino al collo).
Da qui il paradosso: lo stato italiano è fortemente indebitato, mentre i patrimoni e i risparmi personali sono altissimi. In Italia abbiamo uno stato quasi alla bancarotta, e una ricchezza privata cospicua.
Come nota Orsina, i pericoli della democrazia del narcisismo hanno portato gli stati, nel corso degli ultimi decenni, a sottrarre spazi al controllo democratico (cosa che viene denunciata dai populisti). Le banche centrali si sono autonomizzate sempre più dal potere politico, difendono la moneta del paese senza subire le pressioni dei governi, i quali esprimono le esigenze confuse di chi li ha eletti. Orsina legge il distacco crescente della magistratura dal potere politico come un altro segno di questa secessione di parti dello stato dal controllo democratico (sempre più, in quasi tutti i paesi, i magistrati fanno la loro politica; come abbiamo visto in Brasile oggi con Lula, la magistratura può opporsi fermamente alla volontà popolare). Egli nota, ad esempio, che tra il 1969 e il 1976 la quota di budget federale americano sul quale la politica conservava un controllo discrezionale si è dimezzato, scendendo dal 50 al 24%. Le istituzioni europee, di fatto, tolgono spazi all’autodeterminazione dei singoli paesi, imponendo a ciascuno parametri entro cui operare. Va detto che questo controllo della tecnocrazia europea sui destini nazionali non ha funzionato sempre. Non ha impedito il crack della Grecia nel 2016 né l’esplosione del debito pubblico italiano e portoghese fino a oggi.
Molti denunciano questo crescente potere tecnocratico e rivendicano più democrazia, ma non si rendono conto del fatto che la secessione di molte funzioni dalla “politica” - banche centrali, magistratura, FMI, WTO, ecc. - è proprio un ammortizzatore della democrazia frutto della democrazia stessa: rispetto all’autodeterminazione di tutti contro tutti, le istituzioni non elette, “tecniche”, pongono dei paletti fondamentali che impediscano le derive. Così, le costrizioni esterne imposte dai trattati internazionali, che il narcisista delle democrazie rigetta rivendicando la propria autodeterminazione nazionale (o regionale), rientrano.
“Il basso continuo” (è l’espressione di Orsina) dei populismi, rivendicando la propria sovranità nazionale di contro ai vincoli che pone a una nazione il tessuto europeo (o, per gli Stati Uniti, il NAFTA e altri trattati internazionali), titilla il desiderio di autodeterminazione di ciascuno. Si dice “Se noi italiani potessimo decidere tutto quello che vogliamo, senza tener conto dell’Europa, saremmo più liberi...” Si tratta ovviamente di un’illusione, perché rinunciare ai vincoli volontari non evita affatto i vincoli involontari, quelli imposti dai mercati internazionali, ad esempio. Rinunciare ai vincoli con altri stati ci mette in balia di forze economiche e politiche internazionali per noi ancor più incontrollabili.
Vent’anni fa ci fu una forte reazione alla globalizzazione “da sinistra”. Ma la sinistra, soprattutto marxista, è globalista per vocazione. Il vero grande attacco alla globalizzazione - di cui Trump e la Brexit sono gli episodi più salienti - viene però oggi da destra, o dai “populismi”. Dilaga la tendenza a negare l’evidenza di un mondo globalmente interconnesso, tornando alle vecchie identità, nazionali o regionali.
Ora, questa esigenza di autodeterminazione va sempre più spezzettandosi: ogni regione potrà pensare che sia meglio decidere da sola, senza avere i lacci nazionali che la legano ad altre regioni, magari più povere, ecc.
Lo abbiamo visto con la Lega Nord, prima che svoltasse verso un nazionalismo neo-fascista. Accade così che da una parte la Gran Bretagna decide di separarsi dall’Europa, ma dall’altra questo spingerà scozzesi e nord-irlandesi a volersi separare a loro volta dalla Gran Bretagna, ecc. ecc. Alla fine di questo processo ricorsivo di separazioni, nel quale ci si illuderà di diventare sempre più liberi... c’è solo l’individuo solo, narcisista. Che non vuole legami né costrizioni. Ma non si può vivere da soli. A meno di non fare come il protagonista del film Into the Wild di Sean Penn: se ne va a vivere completamente isolato, autarchico, sovrano, in Alaska, per morirvi. Anche la prospettiva delle nostre società potrebbe essere la morte, quella della democrazia.
Questo di Orsina è un libro che evade dal recinto di molto dibattito politico di oggi, diviso tra neo-marxisti, neo-liberisti e neo-populisti. Un dibattito ormai stereotipato, dove già si sa prima che cosa ciascuno dirà.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
RIPENSARE L’EUROPA. PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
Il populismo senza popolo al potere
Disordine nuovo. È il prodotto della fine di tutte le precedenti aggregazioni socio-politiche. Non ci sono più il «popolo di sinistra», né il «popolo padano», né più quello del «vaffa»
di Marco Revelli (il manifesto, 02.06.2018)
«Disordine nuovo» titolava il manifesto del 29 maggio scorso. E fotografava perfettamente il carattere del tutto inedito del caos istituzionale e politico andato in scena allora sull’ «irto colle» e diffusosi in un amen urbi et orbi.
Ma quell’espressione va al di là dell’istantanea, e non perde certo attualità per la nascita del governo Conte.
Con la sua doppia allusione storica (all’ordinovismo neofascista ma anche all’originario Ordine Nuovo gramsciano) ci spinge anzi a riflettere da una parte sul potenziale dirompente del voto del 4 marzo, reso assai visibile ora che è esploso fin dentro il Palazzo provocandone una serie di crisi di nervi.
Dall’altra sul carattere anche questo «nuovo» del soggetto politico insediatosi nel cuore dello Stato: sull’ircocervo che sta sotto la bandiera giallo-verde e che per ora è difficile qualificare se non in forma cromatica. Perché quello che è andato abbozzandosi «per fusione» nei quasi cento giorni di crisi seguita al terremoto del 4 di marzo, e infine è diventato «potere», forse è qualcosa di più di una semplice alleanza provvisoria. Forse è l’embrione di una nuova metamorfosi (potenziata) di quel «populismo del terzo millennio» su cui dalla Brexit e dalla vittoria di Trump in poi i politologi di mezzo mondo vanno interrogandosi. Forse addirittura è una sua inedita mutazione genetica che, fondendo in un unico conio vari ed eterogenei «populismi», farebbe ancora una volta del caso italiano un ben più ampio laboratorio della crisi democratica globale.
SBAGLIANO QUANTI liquidano l’asse 5Stelle-Lega con le etichette consuete: alleanza rosso-bruna, coalizione grillo-fascista, o fascio-grillina, o sfascio-leghista, e via ricombinando. Sbagliano per pigrizia mentale, e per rifiuto di vedere che quello che va emergendo dal lago di Lochness è un fenomeno politico inedito, radicato più che nelle culture politiche nelle rotture epocali dell’ordine sociale. Altrimenti dovremmo concludere che (e spiegare perché) la maggioranza degli italiani - quasi il 60% - è diventata d’improvviso «fascista». E sarebbe assai difficile capire come e per quale occulta ragione l’elettorato identitario della Lega si è così facilmente rassegnato al connubio con la platea anarco-libertaria grillina, e viceversa come questa si sia pensata compatibile con i tombini di ghisa di Salvini...
È DUNQUE per molti versi un oggetto misterioso quello che disturba i nostri sonni. E in questi casi, quando si ha di fronte un’entità politica che non ci dice da sé «chi sia», è utile partire dall’indagine delle cause. Dalla «eziologia», direbbero i vecchi padri della scienza politica, prendendo a prestito il termine dalla medicina, come se appunto di malattia si trattasse. Da dove «nasce» - da quale sostrato, o «infezione», prende origine -, questa «cosa» che ha occupato il centro istituzionale del Paese, destabilizzandolo fino al limite dell’entropia?
UNA MANO, FORSE, ce la potrebbe dare Benjamin Arditi, un brillante politologo latino-americano che ha usato, per il populismo del «terzo millennio», la metafora dell’”invitado incomodo”, cioè dell’ospite indesiderato a un elegante dinner party, che beve oltre misura, non rispetta le buone maniere a tavola, è rozzo, alza la voce e tenta fastidiosamente di flirtare con le mogli degli altri ospiti... È sicuramente sgradevole, e «fuori posto», ma potrebbe anche farsi scappare di bocca «una qualche verità sulla democrazia liberale, per esempio che essa si è dimenticata del proprio ideale fondante, la sovranità popolare». È questo il primo tratto identificante del new populism: il suo trarre origine dal senso di espropriazione delle proprie prerogative democratiche da parte di un elettorato marginalizzato, ignorato, scavalcato da decisioni prese altrove... Son le furie del (popolo) Sovrano cui per sortilegio è stato sfilato lo scettro il denominatore comune delle pur diverse anime. E queste furie (confermate purtroppo dalle recenti improvvide esternazioni istituzionali) attraversano la società in tutte le sue componenti, sull’intero asse destra-sinistra.
IL SECONDO FATTORE è lo «scioglimento di tutti i popoli». Può sembrare paradossale, ma è così: questo cosiddetto populismo rampante è in realtà senza popolo. Anzi, è il prodotto della fine di tutte le precedenti aggregazioni socio-politiche. Nella marea che ha invaso le urne il 4 di marzo non c’è più il «popolo di sinistra» (lo si è visto e lo si è detto), ma neppure più il «popolo padano» (con la nazionalizzazione della Lega salviniana), e neanche il «popolo del vaffa» (con la transustanziazione di Di Maio in rassicurante uomo di governo): c’è il mélange di tutti insieme, sciolti nei loro atomi elementari e ricombinati. Così come ci sono ben visibili le tracce di tutti e tre i «populismi italiani» che nel mio Populismo 2.0 avevo descritto nella loro successione cronologica (il telepopulismo berlusconiano ante-crisi, il cyberpopulismo grillino post-Monti e il populismo di governo renziano pre-referendario), e che ora sembrano precipitare in un punto solo: in un unico calderone in ebollizione al fuoco di un «non popolo» altrimenti privo di un «Sé».
PER QUESTO CREDO di poter dire che siamo lontani dai vari fascismi e neofascismi novecenteschi, esasperatamente comunitari in nome dell’omogeneità del Volk. E nello stesso tempo che viviamo ormai in un mondo abissalmente altro rispetto a quello in cui Gramsci pensò il suo Ordine Nuovo fondando su quello l’egemonia di lunga durata della sinistra. Se quel modello di «ordine» era incentrato sul lavoro operaio (in quanto espressione della razionalità produttiva di fabbrica) come cellula elementare dello Stato Nuovo, l’attuale prevalente visione del mondo trae al contrario origine dalla dissoluzione del Lavoro come soggetto sociale (si fonda sulla sua sconfitta storica) e dall’emergere di un paradigma egemonico che fa del mercato e del denaro - di due entità per definizione «prive di forma» - i propri principii regolatori. È appunto, nel senso più proprio, un «disordine nuovo». Ovvero un’ipotesi di società che fa del disordine (e del suo correlato: la diseguaglianza selvaggia) la propria cifra prevalente.
A QUESTO MODELLO «insostenibile» il soggetto politico che sta emergendo dal caos sistemico che caratterizza la «maturità neoliberista» non si contrappone come antitesi, ma ne trasferisce piuttosto lo statuto «anarco-capitalista» nel cuore del «politico». Non è il corpo solido piantato nella società liquida. È a sua volta «liquido» e volatile. Continuerà a quotare alla propria borsa l’insoddisfazione del «popolo esautorato», ma non gli restituirà lo scettro smarrito. Continuerà a prestare ascolto alla sua angoscia da declino e da marginalizzazione, ma non ne arresterà la discesa sul piano inclinato sociale (scaricandone rabbia e frustrazione su migranti, rom e homeless secondo la tecnica consumata del capro espiatorio). Condurrà probabilmente una lotta senza quartiere contro le attuali «oligarchie» (per sostituirsi ad esse) ma non toccherà nessuno dei «fondamentali di sistema». È pericoloso proprio per questo: per la sua adattabilità ai flussi umorali che lavorano in basso e per la sua simmetrica collusione con le logiche di fondo che operano in alto. E proprio per questo personalmente non farei molto conto sull’ipotesi che a breve tempo il loro governo vada in crisi per le sue contraddizioni interne. O per un conflitto «mortale» con l’Europa, che non saranno loro ad affossare con un’azione deliberata e consapevole (sta già facendo molto da sola, con la sua tendenza suicida).
SE VORREMO combatterli dovremo prepararci ad avere davanti un avversario proteiforme, affrontabile solo da una forza e da una cultura politica che abbia saputo fare, a sua volta, il proprio esodo dalla terra d’origine: che sia preparata a cambiarsi con la stessa radicalità con cui è cambiato ciò che abbiamo di fronte. Non certo da un fantasmatico «fronte repubblicano», somma di tutte le sconfitte.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Il Narcisismo e l’uso lucidissimo come arma politica dell’"antinomia del mentitore" --- "Popolo e democrazia" (Yascha Mounk): il populismo come requiem della democrazia liberale (di Nello Barile).
Storia e memoria
Non basta dire “io c’ero” per ricostruire che cosa è stato il ’68
di Giovanni De Luna (La Stampa, 25.05.2018)
I protagonisti del ’68 furono tutti giovani o giovanissimi. È logico quindi che molti siano presenti nel dibattito pubblico che si è acceso in occasione del 50° anniversario, proponendo una memoria che affida la propria autorevolezza a due frasi simbolicamente efficaci: «io c’ero» e «mi ricordo perfettamente». Si tratta di testimonianze che - come è successo in questi mesi - rischiano di entrare in conflitto con le ragioni di una ricostruzione storica meno emotiva e più consapevole.
Le ragioni per diffidare di quei ricordi e di quelle memorie sono molte: «io c’ero», ad esempio, rischia di produrre testimonianze che spesso sconfinano in un narcisismo fine a sé stesso, incapace di comunicare quell’esperienza a chi, appunto, «non c’era»; così come «mi ricordo perfettamente» può nascondere le giravolte di una memoria selettiva, che vuole trattenere solo qualcosa e non tutto, che cambia così come cambiano le fasi che scandiscono le biografie dei protagonisti, man mano sempre più indulgenti verso i ricordi della propria giovinezza.
“Vele attorcigliate ma distinte”
Pure, opporre semplicemente le ragioni della storia a quelle della memoria sarebbe riduttivo, anche perché da quella stagione è affiorata un’agguerrita generazione di storici così che spesso ci si confronta con posizioni e tesi interpretative elaborate da chi è contemporaneamente sia storico sia testimone.
In realtà, come ha scritto Paul Ricoeur, storia e memoria, «alberi maestri dalle vele attorcigliate ma distinte», appartengono «alla stessa imbarcazione, destinata a una sola e unica navigazione» e a una meta comune, «rappresentare il passato e permetterci di conoscerlo». Il testimone ci propone l’immediatezza delle sue percezioni, restituendoci lo spirito del suo tempo e svelandoci il ’68 così come è stato vissuto e rielaborato a caldo dai suoi protagonisti; lo storico arriva dopo, con il senno di poi, sa «come è andata a finire» ed è in grado, attraverso le fonti e i documenti, di far emergere quello che allora non era possibile sapere. Alla fine, però, una storia senza le testimonianze diventa un esercizio astratto, un racconto del passato esangue, aridamente nozionistico; e una testimonianza, non inserita in un contesto storiografico, diventa prigioniera di due stereotipi ampiamente presenti in questo 50° anniversario: da un lato «anni formidabili», dall’altro una folla di figli di papà, scansafatiche, pronti a imboccare qualsiasi scorciatoia pur di far carriera.
La sintesi tra storia e memoria è particolarmente efficace se si guarda al ’68 come a uno dei classici eventi globali della nostra contemporaneità, eventi, cioè, con una spazialità non riconducibile a un singolo luogo o a una specifica realtà, ma che rimbalzano in simultanea da tutti gli angoli del mondo, in una cronologia affollata di date. La dimensione geografica del ’68 (dalla Cina agli Usa, da Praga a Berlino, da Parigi all’America del Sud, da Roma a Berlino) fu così straripante da sottrarsi, proprio per questo, a ogni interpretazione riduttiva e obbligare chiunque voglia studiarlo a confrontarsi con un corpus di fonti altrettanto vasto, eterogeneo, multiforme.
I mezzi di comunicazione di massa, ad esempio, «costruiscono» il ’68, lo fanno parlare e ci permettono di conoscerlo più dei tanti documenti politici prodotti allora dal movimento. La rottura generazionale che allora spaccò le famiglie della borghesia fu anticipata e descritta dai film di Bertolucci (Prima della rivoluzione, 1964) e Bellocchio (I pugni in tasca, 1965); il rifiuto della forma partito tradizionale e l’accento posto sulla dimensione individuale dell’agire politico si trovano già tutti in Godard (La chinoise, 1967); il confronto con la violenza della polizia è raccontato in Fragole e sangue di Stuart Hagmann (1970).
Dalla forza alla fragilità
E poi. Le fotografie di Tano D’Amico e di Uliano Lucas; le canzoni di Paolo Pietrangeli; le vignette di Buonfino o di Zamarin; i manifesti che colorarono i muri di Parigi e di Torino; i grandi concerti, primo fra tutti quello di Woodstock (agosto 1969): su quel prato si discuteva di politica, si ballava, si consumavano le prime droghe «di gruppo», soprattutto marijuana e Lsd e una comunità giovanile si autorappresentava come altra e separata rispetto al resto del mondo, scegliendo una dimensione esistenziale fondata sulla libertà (intesa come trasgressione) e sull’assenza di regole (come principio normativo).
Ecco, solo dopo essersi immerso nello spirito di quel tempo, lo storico può lasciare il testimone al proprio destino emergendo dall’oceano delle percezioni di allora per proporre una compiuta storicizzazione di quell’evento. Ed è proprio Woodstock a suggerirne i termini: il ’68 fu un evento globale; ebbe come protagonista una generazione che visse la propria giovinezza non come una tappa di passaggio ma come il punto più alto della propria biografia; una generazione che fece della disobbedienza il tratto unificante di quell’esperienza e che sul rifiuto delle regole costruì dapprima la sua forza, poi la sua fragilità.
SCHEDA EDITORIALE *
Sessantotto. La festa della contestazione
di Agostino Giovagnoli
C’è chi esalta il Sessantotto, identificandolo con la propria gioventù, e chi gli imputa colpe pesanti, compreso il terrorismo rosso degli anni di piombo. In realtà la stagione della contestazione fu molto breve, dal Free Speech Movement di Berkeley nel 1965 al maggio francese del 1968.
In questo libro se ne raccontano alcuni momenti significativi: la mobilitazione per i diritti civili negli Stati Uniti, le lotte degli studenti di Sociologia a Trento, la "battaglia" di Valle Giulia a Roma, l’occupazione della Sorbona... E se ne ricostruiscono le radici. Attraverso i canali sotterranei delle avanguardie artistiche come i beat o il rock’n’roll ballato da milioni di persone, i giovani percepirono che, grazie ai nuovi processi di globalizzazione, ’The times they are a-changin’, come cantava Bob Dylan. Dal conflitto nucleare alla decolonizzazione, dalla lotta contro il razzismo in America del Nord alle rivoluzioni in America del Sud, dalla guerra del Vietnam alla corsa alla conquista dello spazio.
Il Sessantotto è stato un movimento antiautoritario e anti-istituzionale che ha scosso il mondo degli adulti. Ma se ha potuto farlo è perché quel mondo era già in crisi.
La contestazione non fu una rivoluzione ma, anzitutto, una festa. Una travolgente esperienza collettiva di incontri con l’"altro" che superavano barriere sociali e culturali o differenze etniche e ideologiche, confini rigidi tra sanità e malattia o separazioni secolari tra pubblico e privato. Fu una reazione al progressivo svuotamento di legami familiari, sociali, istituzionali e una risposta alle ardue sfide dell’individualismo radicale imposto dalla società consumista. Preparato da mutamenti profondi, come quelli fatti emergere dal Vaticano II all’interno del cattolicesimo, il Sessantotto rivelò anche un’apertura al trascendente che però non venne compresa e ascoltata.
50 anni dopo
Il Sessantotto. Agostino Giovagnoli (storico): “Profondo legame con il Concilio che ne ha anticipato alcuni tratti”
I legami tra Concilio Vaticano II e Sessantotto sono più profondi di quanto si sia portati a ritenere. Il Concilio ha infatti "preparato" in certa misura il terreno al grande movimento di contestazione. Intervista a tutto campo con lo storico Agostino Giovagnoli
diGiovanna Pasqualin Traversa (Agenzia SIR, 26 aprile 2018)
Gli anni Settanta hanno rappresentato un passaggio cruciale nella vita della Chiesa in Italia. Sono gli anni della recezione del Concilio e sono al tempo stesso attraversati da tensioni e polarizzazioni legate al Sessantotto. Fede e politica intrecciate fra loro? Se sì su quali premesse e con quali sviluppi? Lo abbiamo chiesto ad Agostino Giovagnoli, docente di storia contemporanea all’Università cattolica di Milano
Fra le trasformazioni della Chiesa cattolica legate al Vaticano II e gli eventi del ‘68 c’è stato un intreccio?
Sì; più profondo, soprattutto in Italia, di quanto abitualmente si ritenga.
La contestazione del 1968 si è intersecata in modi diversi con un’evoluzione del mondo cattolico italiano già in corso da tempo.
Non è strettamente sul livello politico che si è sviluppato l’influsso del Concilio sulla società e sulle sue trasformazioni. Il Concilio ha in realtà toccato questioni di grande rilievo, ha aperto una riflessione di fondo sull’organizzazione istituzionale della Chiesa cattolica all’interno di un’ampia trasformazione della società europea e occidentale che stava mettendo in discussione le proprie istituzioni ecclesiastiche, politiche, sociali e familiari. Il ‘68 è stato soprattutto una contestazione anti-istituzionale ed è su questo terreno che è ravvisabile il nesso che lega i due fenomeni.
Il Concilio ha dunque “preparato in qualche modo il terreno” al Sessantotto?
La Chiesa cattolica ha anticipato una trasformazione che poi si è presentata in modo convulso nel 1968, nel senso di un ridimensionamento del peso delle istituzioni all’interno della società. Da questo punto di vista il dissenso cattolico ha rappresentato un fenomeno specifico e forse anche marginale. Ha ripreso alcune modalità della contestazione studentesca ma non è qui il cuore più profondo del rapporto che investe aspetti più globali.
Qual è stata l’intuizione di Giovanni XXIII?
L’avere compreso che la Chiesa aveva bisogno di mettersi in ascolto del mondo e di se stessa. Nella modalità conciliare ha in qualche modo superato la rigidità istituzionale che l’aveva caratterizzata per cinque secoli sul modello tridentino. In questo senso il Concilio ha avviato un processo di cui ravviso alcuni tratti anche nel 1968.
Lo storico gesuita Michel de Certeau, che ha partecipato al “maggio francese” a Parigi, ha scritto che nel ’68 “è stata presa la parola come nel 1789 è stata presa la Bastiglia”. Un’immagine metaforica che sottolinea la liberazione della parola, tipica di quel movimento. L’analogia è profonda perché il Vaticano II ha a modo suo “liberato” la parola, in questo caso la Parola di Dio, da una Chiesa che l’aveva rinserrata all’interno di schemi organizzativi e istituzionali che la rendevano in certa misura marginale e l’ha riportata al centro della vita ecclesiale. E’ dalla Parola di Dio che rinasce la Chiesa.
In che modo il ’68 ha influito su associazioni e movimenti del laicato cattolico?
Per l’Azione cattolica un cambiamento importante è cominciato con il pontificato di Giovanni XXIII e soprattutto con l’elezione di Paolo VI nel 1963. La nomina di mons. Franco Costa quale assistente ecclesiastico generale e di Vittorio Bachelet quale presidente nazionale segnano il definitivo distacco dal modello geddiano. Il rinnovamento si è realizzato pienamente con il nuovo statuto (1969) che ha prodotto una vasta riorganizzazione e ha soprattutto affermato “la scelta religiosa” dell’Ac, espressione che sottolinea la fine di ogni collateralismo con qualsiasi partito politico. L’impatto del Sessantotto sull’Ac è stato soprattutto indiretto e probabilmente ha influito sul calo degli iscritti che dal 1964 al 1974 passano da 3,5 milioni a 600mila.
E per quanto riguarda le Acli?
Anche qui si deve parlare di un impatto indiretto. La trasformazione delle Acli era cominciata all’inizio degli anni Sessanta, in stretto rapporto con l’evoluzione economico-sociale della realtà italiana e il nuovo ruolo assunto dai sindacati. Un’ulteriore svolta è avvenuta a seguito dell’“autunno caldo” nelle grandi fabbriche italiane del 1969 con l’adozione della cosiddetta ipotesi socialista alla quale seguì una richiesta di chiarimenti da parte della presidenza della Cei, una presa di posizione critica del Pontefice e il ritiro dell’assistente ecclesiastico. La contestazione del ’68 ha invece riguardato in modo più diretto Gioventù studentesca, ramo dell’Ac che aveva iniziato un percorso originale, soprattutto in Lombardia, a seguito dell’iniziativa assunta da don Luigi Giussani nel 1954. In questo contesto nasce Comunione e Liberazione.
Il Sessantotto ha dunque interferito con un’evoluzione in atto nell’associazionismo cattolico degli anni Sessanta?
Sì. Forse l’impatto maggiore ha riguardato le grandi questioni internazionali con particolare riferimento al terzo mondo: guerra in Vietnam, Cuba, Biafra, lotte per i diritti civili degli afroamericani negli Usa. I membri dell’associazionismo cattolico, soprattutto giovani, furono molto sensibili a queste cause e, più in generale, a quella della pace.
Su questo terreno maturarono una sensibilità simile a quella di molti altri giovani di altra provenienza culturale e ideologica, che fece cadere molti steccati tradizionali.
Ci furono infine esperienze nuove che nacquero al di fuori dall’associazionismo cattolico o del rapporto con la Dc, nel clima del Sessantotto, come la Comunità di Sant’Egidio a Roma, segnata fin dall’inizio da un forte rapporto con il Vangelo e i poveri.
Che giudizio ha del Sessantotto?
Ha avuto peso non tanto quale fenomeno politico, ma piuttosto come istanza culturale e sociale di “inventare” un mondo nuovo affrontando le grandi sfide del tempo, le sfide di un mondo terrorizzato dall’arma atomica e in cerca di pace, che vuole dare la parola a tutti, che affronta le gravi disuguaglianze economiche e sociali. Si è disperso di fronte a forze più grandi; in fondo è stato un movimento di studenti, non avrebbe potuto cambiare il mondo, però ci ha provato ed è questa la sua eredità più preziosa.
Pensare al ’68 ci fa bene perché ci ricorda che possiamo anche non subire il mondo in cui viviamo.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
IL PAPA [GIOVANNI XXIII, 1962] HA DECISO DI DARE IL VIA AD UN NUOVO CONCILIO, AL CONCILIO ECUMENICO VATICANO II. PACE E E DIALOGO SU TUTTA LA TERRA, TRA TUTTI GLI ESSERI UMANI, TUTTE LE RELIGIONI, TUTTI I CREDENTI E I NON CREDENTI. QUESTA LA DICHIARAZIONE DI APERTURA
UN NUOVO CONCILIO, SUBITO. 95 TESI? NE BASTA UNA SOLA! Cattolicesimo, fascismo, nazismo, stalinismo: il sogno del "regno di ‘dio’" in un solo ‘paese’ è finito.
UNA MEMORIA DI "VECCHIE" SOLLECITAZIONI. Il cardinale Martini, da Gerusalemme, dalla “città della pace”, lo sollecita ancora!!!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
CONFRONTI. Dialogo con la filosofa ungherese sulla modernità (non solo l’attualità dell’autore del «Capitale», ma di Freud, Kierkrgaard, Nietzsche), e sul futuro della democrazia. «Al contrario di quel che si crede il nostro continente è estraneo al liberalismo. Profondamente radicato qui, invece, è il nazionalismo»
Marx è un messia
conversazione di Donatella Di Cesare con Agnes Heller (Corriere La Lettura 20.05.2018)
DONATELLA DI CESARE - Nel 1944 suo padre Pàl Heller, ebreo austriaco, fine intellettuale, uscì e non tornò più. Fu deportato ad Auschwitz e ucciso il 16 gennaio 1945. Lei fu reclusa nel ghetto di Budapest a 15 anni e sopravvisse solo perché Eichmann aveva deciso di deportare prima gli ebrei sparsi fuori dalla città. Sebbene lei si dichiari laica, il suo rapporto con l’ebraismo mi pare molto profondo.
ÁGNES HELLER - Essere ebrea era per me ovvio. Come sarebbe stato possibile altrimenti negli anni della persecuzione? Avevo 10 anni quando in Ungheria, nelle università e nelle scuole, fu introdotto il numero chiuso. Non mi fu possibile studiare, se non al liceo ebraico. Dal momento che ero cresciuta in una famiglia non religiosa, pensai di provocare il rabbino Sámuel Kandel, un uomo straordinario. Mi rivolsi a lui con sfrontatezza: «Io non credo in Dio». Mi aspettavo un finimondo. E invece mi raccontò una storia ambientata ai tempi dei pogrom in Ucraina. «Un cosacco, responsabile di quei massacri, sfidò il rabbino dello shtetl, la piccola città, intimandogli: “Sono pronto a salvare i superstiti della tua comunità, se riuscirai a riassumere l’essenza dell’ebraismo stando in piedi su una gamba sola”. Il rabbino disse d’un fiato: “Ama il prossimo tuo come te stesso”». La storiella mi turbò; ancora oggi avverto quel sentimento. «E tu - chiese il rabbino - ami il prossimo tuo come te stessa?». Replicai: «Ci provo; non so se ci riesco». «Bene - proseguì - allora sei una brava ebrea. A Dio non interessa che tu creda o no, ma che tu segua le sue leggi».
Per anni fui convinta che fosse solo un’idea di Kandel; solo dopo mi accorsi che la storiella fa parte della tradizione e capii che l’ebraismo non si occupa dell’esistenza di Dio, bensì dell’agire in conformità alla legge. Non ci sono dogmi, ma interpretazioni. In questo senso posso dire che sono religiosa, provo ad esserlo. Per anni studiai allora la Torah e la storia del popolo ebraico. Poi ci fu l’occupazione tedesca e l’olocausto degli ebrei ungheresi. Quasi tutta la mia famiglia venne sterminata; persi anche molti amici d’infanzia. Il rabbino Kandel fu assassinato con la moglie dai nazisti ungheresi.
DONATELLA DI CESARE - Trovo molto importante quello che lei osserva nel libro Breve storia della mia filosofia, che il grande problema è perché mai sia esistita ed esista una «questione ebraica». Giustamente lei connette antisemitismo e antiebraismo nel bel libro Gesù l’ebreo. Rivendicando la figura di Gesù all’ebraismo («Gesù non ha infranto la legge, l’ha radicalizzata») si chiede perché questo fatto sia stato così a lungo taciuto.
ÁGNES HELLER - Il mio libro è legato al rabbino Kandel, che ci parlava di Gesù sostenendo che apparteneva alla corrente ebraica degli esseni. Per me Gesù non è mai diventato un biondo tedesco, ma è sempre rimasto un amato profeta. Sebbene questo primo amore abbia contribuito in modo decisivo al mio interesse per la sua figura, quel che mi ha spinto allo studio non è stata un’esperienza personale, bensì un interrogativo storico e filosofico. Perché non solo i cristiani, ma anche gli ebrei hanno dimenticato per secoli il Gesù ebreo? La questione filosofica riguarda la memoria e l’oblio - la memoria di una comunità e l’oblio collettivo. Perché i testi - ad esempio i testi evangelici - sono stati letti in modo selettivo e ha prevalso sempre un’unica interpretazione? In che modo questa lettura ha finito per alimentare un terribile e ingiustificato odio contro gli ebrei? E perché negli ultimi 70 anni è stato riscoperto il Gesù ebreo?
DONATELLA DI CESARE - Lei ha più volte rivendicato il diritto di richiamarsi a Marx senza essere marxista. E lo ha pagato a caro prezzo con persecuzioni e vessazioni. Il suo ultimo libro su Marx, appena uscito in italiano, ha un titolo per alcuni versi sorprendente: Marx. Un filosofo ebreo-tedesco. Che cosa c’è di ebraico nell’opera di Marx? Questo lei si chiede. E la risposta è: la «liberazione dell’umanità». Lei inserisce Marx in una prospettiva messianica. Quasi come Walter Benjamin... Il ruolo messianico è quello del proletariato.
ÁGNES HELLER - All’università, dal 1946 in poi, sono stata allieva di György Lukács, famoso marxista. Quella è stata la mia formazione. Tuttavia, a parte il primo volume del Capitale, non conoscevo altro. Per quanto possa apparire paradossale, non c’erano in quel tempo molte possibilità di studiare Marx, perché fino al 1953 tutti i suoi libri erano «materiale secretato». Solo in seguito, quando cominciai a leggere Marx, diventai una vera marxista, ma critica e selettiva. Lasciai perdere il Marx economista e scelsi invece quello giovane dei manoscritti di Parigi, che profetizza il nuovo Messia, e cioè i «proletari di tutto il mondo». Alcune importanti tesi di Marx, come il paradigma della produzione, mi sono sempre parse lontane ed estranee. Era quasi obbligatorio allora definirsi marxista o postmarxista. Ho imparato infine, grazie a Michel Foucault, che la filosofia è personale (non privata!) e non è quindi necessario identificarsi in uno dei tanti «ismi», per essere riconosciuti come filosofi.
DONATELLA DI CESARE - La sua teoria dei bisogni, che proprio in Italia ha avuto negli anni Settanta grande successo, resta più che mai attuale. A partire da Marx, lei identifica nei «bisogni radicali» - una vita piena di senso, un lavoro gratificante, l’esigenza di tempo libero, cultura, amore - i bisogni che, proprio perché mirano a una liberazione radicale, non possono essere soddisfatti in una società ingiusta. Sono perciò antitetici ai bisogni alienanti - il consumo di merci gratificanti, la necessità di conformarsi - che creano sempre ulteriore assoggettamento. Nell’egocentrismo illimitato del tardo capitalismo manca infatti sempre qualcosa.
ÁGNES HELLER - Continuo a vedere in Marx una delle voci più radicali del pensiero moderno che insieme a Kierkegaard, Nietzsche e Freud, ha influenzato profondamente il mondo di oggi. In particolare Marx e Nietzsche, loro malgrado, sono stati oggetto di una ricezione per certi versi esiziale. Nietzsche è stato utilizzato dai nazisti, Marx da Stalin. Ma non si è responsabili di una recezione contro cui non è possibile farsi valere (semplicemente perché non si è più in vita).
DONATELLA DI CESARE - Sebbene lei abbia difeso una «filosofia radicale», il suo atteggiamento verso la democrazia liberale non è critico come si potrebbe immaginare. Lei sostiene che non c’è bisogno di trasformazione rivoluzionaria e che le istituzioni democratiche odierne hanno un potenziale nascosto che non siamo riusciti ancora a liberare.
ÁGNES HELLER - Prima con la teoria dei bisogni, poi con il saggio sulla rivoluzione della vita quotidiana ho preso questa posizione avvicinandomi alla Nuova Sinistra. Si è trattato anzitutto di un cambio di paradigma nell’interpretazione di Marx.
DONATELLA DI CESARE - Nel suo libro Paradosso Europa, lei ha più volte sottolineato giustamente la contraddizione tra diritti del cittadino e diritti dell’uomo che segna la democrazia occidentale almeno dalla rivoluzione francese. Nel frattempo questa contraddizione è divenuta - io credo - un vero contrasto, anzi un conflitto: quello fra i cittadini di uno Stato-nazione e i migranti. Di qui la crisi dei diritti umani, calpestati ovunque, che si è tradotta in criminalizzazione di chi, fra gli Stati, tenta ancora di innalzare il vessillo della solidarietà. Tengo a dire che considero la prospettiva dell’universalismo cosmopolita un fallimento; penso che occorra guardare a un’articolata politica dell’accoglienza e allo sviluppo di comunità aperte. Mi pare che su questo punto lei assuma una posizione che non condivido, quando sostiene - più o meno apertamente - che i cittadini sono sovrani, che hanno insomma il diritto di escludere, di respingere. Per lei è valida la distinzioni tra profughi politici e immigrati economici, che io considero invece fittizia, un retaggio della guerra fredda. Di più: lei afferma che l’Europa si deve difendere, deve chiudere le porte a coloro che sono «estranei» alla sua civiltà e che ne metterebbero a repentaglio il futuro. Non le sembra una posizione reazionaria?
ÁGNES HELLER - La Rivoluzione francese ha proclamato i diritti dell’uomo e quelli del cittadino. Sappiamo già da tempo che i diritti umani possono essere preservati solo dove sono garantiti i diritti dei cittadini - come fa lo Stato. Negli ultimi anni è all’ordine del giorno la questione del conflitto tra questi due tipi di diritti a causa della crisi migratoria. Per quel che riguarda i diritti umani, tutti sono nati liberi e hanno il diritto di vivere lì dove vogliono. Ma per quel che riguarda lo Stato, i cittadini possono e devono decidere con chi coabitare. Sono contraria a recinti e confini; ma occorre riconoscere questo diritto dei cittadini che limita purtroppo i diritti umani. C’è il rischio di conflitti e guerre. Ma temo soprattutto che paure, legittime e comprensibili, verso un altro che non conosciamo, possano essere strumentalizzate dai populisti.
DONATELLA DI CESARE - Lo Stato nazionale mostra però oggi il suo lato peggiore, più aggressivo e violento. Basti pensare ai muri, ai fili spinati, ai campi di internamento per i migranti. La xenofobia dilaga, in Ungheria, ma anche in Italia.
ÁGNES HELLER - Sì, il razzismo è presente ovunque, in forme vecchie e nuove. L’antisemitismo è in particolare odio per Israele. La miccia che ha riacceso il nazionalismo è stata la crisi economico-finanziaria. I leader populisti hanno raggiunto grandi consensi fomentando l’odio e attingendo ai sentimenti più bassi. Il populismo autoritario ha precedenti in quello che chiamo «bonapartismo», un fenomeno inaugurato da Napoleone. Di fronte a problemi complessi, che richiederebbero condivisione, responsabilità, solidarietà, si ricorre all’uomo forte, che incarna lo Stato, rivendica verità, promette soluzione a tutto quel che affligge il «popolo». In realtà rappresenta interessi parziali e agisce senza scrupoli. La scorciatoia del bonapartismo resta purtroppo una tentazione, malgrado la rovina portata da tutti quei leader populisti che promettevano salvezza. Nel mio Paese, l’Ungheria, il populismo di Orbán ha assunto caratteri autoritari e sempre più preoccupanti. Ma vedo che ormai rischia di non essere un’eccezione in Europa...
DONATELLA DI CESARE - Il sovranismo populista, che si nutre di complottismo, odio per l’altro, stereotipi razzisti, non è più una tendenza marginale, ma sta diventando forza di governo.
ÁGNES HELLER - L’espressione «populismo» è fuorviante. Perón è stato un populista, una sorta di dittatore, che tuttavia aveva la sua forza nei sindacati. I populisti attuali, come Trump o Orbán, sono appoggiati dalle oligarchie, più o meno velate. Oggi viviamo in società dove i tiranni possono essere votati liberamente. Gli interessi di classe non hanno più un ruolo significativo in campo elettorale; le ideologie, invece, sono decisive. In Europa vedo nei prossimi anni lo scontro tra due forze: da una parte la tradizione autoritaria, dall’altra il federalismo, di cui il primo esempio fu Roma antica. Certo, i partiti populisti possono vincere le elezioni, ma non governare a lungo. La democrazia, intesa come governo di maggioranza, non basta a garantire la libertà.
DONATELLA DI CESARE - Lei ha fatto ritorno in Europa, malgrado il lungo esilio, prima in Australia, poi in America. Vuol dire che ripone ancora speranze nel vecchio continente... Io penso che l’Europa avrebbe dovuto diventare una forma politica postnazionale. E invece è rimasta un agglomerato di Stati nazionali.
ÁGNES HELLER - L’Europa si è ridotta a mero progetto burocratico. L’occasione mancata è la Costituzione europea, senza la quale appare difficile fermare le derive populiste e autoritarie. Al contrario di quel che si crede, l’Europa, con il suo passato tetro, è estranea alla democrazia liberale. Profondamente europeo è, invece, il nazionalismo che oggi si riafferma. Il motivo? È mancata una coscienza europea, la costruzione di un’identità unificante. Non si possono incolpare solo i governi; anche i cittadini hanno perseguito interessi nazionali.
DONATELLA DI CESARE - La liberazione delle donne è forse le rivoluzione più significativa, perché rimuove l’unica disuguaglianza che nei secoli è stata ritenuta ovvia, naturale. Perciò lei ha scritto, non senza una punta di provocazione, che lo stato di minorità delle donne è oggi «autoinflitto». Che cosa intende? Si riferisce alla paura della libertà?
ÁGNES HELLER - Sì. La liberazione delle donne è stato anche obiettivo della Nuova Sinistra. Sono molte le «ovvietà» dominanti messe in questione. È una lunga e difficile storia. Ma dal 1968 a oggi noi donne abbiamo ottenuto più riconoscimento di quanto fosse mai avvenuto prima.
DONATELLA DI CESARE - «Oggi sosteniamo che la Nuova Sinistra è stata sconfitta, ma è una sciocchezza». Così lei ha scritto qualche anno fa precisando che «le speranze rivoluzionarie non possono essere realizzate, ma ciò non significa che la rivoluzione sia un inganno». Lo pensa ancora?
ÁGNES HELLER - La Nuova Sinistra mi ha attirato per molti motivi. Sin dall’inizio è stata ostile al comunismo sovietico. Inoltre al suo interno non era necessario concordare su tutto. Infine è sempre stata internazionale - è fiorita in Francia, in Italia, negli Usa, in Sudamerica. I suoi obiettivi erano concreti e diversi. Sotto il profilo filosofico ha contribuito al passaggio dal moderno al postmoderno. Questa rivoluzione per me non è sconfitta né tanto meno conclusa, nonostante le disillusioni e, anzi, proprio per questo. Ma è chiaro che serve mobilitare la società civile sia per ridistribuire le ricchezze sia per coinvolgere tutti in un grande impegno per l’istruzione. Altrimenti attecchiranno i populismi.
DONATELLA DI CESARE - Contro i becchini della filosofia, che vanno proclamandone ormai da tempo la fine, lei dice che la filosofia non è morta, a patto che non si riduca a puro gioco speculativo.
ÁGNES HELLER - Occorre essere cauti quando si parla di futuro, specie nel campo della filosofia. Nell’epoca postmetafisica le opere filosofiche di maggior rilievo sono state prodotte nell’ambito della fenomenologia e dell’ermeneutica. Adesso sembra quasi che il pensiero creativo si sia esaurito. Mentre i filosofi analitici non fanno che risolvere enigmi, gli storici coltivano una filosofia da museo. Tutto ciò serve a poco - come i nodi di un fazzoletto che dovrebbero ricordarci quel che non vorremmo dimenticare... Vedo però anche nella filosofia continentale, in cui mi riconosco, il rischio di un’eccessiva popolarizzazione.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
EUROPA: LA CRISI UNGHERESE E NOI. Per il dialogo. quello vero!!!
"Forza" ITALIA ... e "Forza" UNGHERIA!!! Il paradosso del politico mentitore. Una grande LEZIONE TEOLOGICO-POLITICA, all’altezza della nostra cultura e della nostra dignità di cittadini-sovrani e di cittadine-sovrane. Un’analisi di BARBARA SPINELLI.
Karl Marx, laboratori politici per il presente
KARL MARX. In occasione del bicentenario, percorso di letture sul pensatore di Treviri
di Benedetto Vecchi (il manifesto, 17.05.2018)
Una ricorrenza iniziata in sordina. Alcuni articoli diffusi in Rete, l’annuncio di prossime uscite da parte di alcune case editrici, notizie frammentarie sullo stato dell’arte per quanto riguarda le nuove traduzioni ed edizioni delle sue opere. Ma in occasione del primo maggio il ritmo degli interventi sulla sua eredità è diventato frenetico. Difficile, a questo punto, censire tutti i testi, saggi, libri e articoli dedicati fin qui al bicentenario della nascita di Karl Marx e altrettanto impossibile è segnalare gli annunci per la seconda parte del 2018. Va però ricordato che in Italia il filosofo di Treviri è stato festeggiato in anteprima ad aprile con la proiezioni del film del regista haitiano Raoul Peck dedicato all’«esilio» prima parigino e successivamente belga dell’autore de Il Capitale durante il quale Marx ha scritto saggi rilevanti come Miseria della filosofia e quello firmato con Engels, ma dalla elaborazione corale, collettiva passato alla storia come Il manifesto del partito comunista.
IL TESTO che con radicalità si pone la domanda sull’attualità dell’opera marxiana e che va dunque segnalato è quello della filosofa americana Wendy Brown che ha caratterizzato il suo percorso teorico nell’analisi della crisi dei sistemi politici liberali a partire da una prospettiva femminista. Scritto tre anni fa per la rivista «Dissent» (www.dissentmagazine.org/article/marxism-for-tomorrow-wendy-brown) all’interno di un numero speciale sulle prospettive presenti e future di una sinistra e riproposto agli inizi di maggio propone un ritratto di Marx come autore imprescindibile per comprendere la natura di classe del potere politico nel capitalismo maturo e per mettere a fuoco che la produzione della ricchezza è basata sullo sfruttamento del lavoro. E tuttavia Wendy Brown non esita ad affermare che l’opera marxiana non riesce a svelare l’arcano dell’«era della finanziarizzazione». Questo non significa però gettare alle ortiche Marx. Piuttosto, propone la filosofa americana, si tratta di riaprire il laboratorio marxiano frettolosamente chiuso durante gli anni dell’egemonia neoliberista e di colmare le assenze e i limiti di un’opera maturata duecento anni fa e che non poteva certo prevedere gli attuali sviluppi del capitalismo.
Un Marx, quello di Wendy Brown, che non ha dunque nulla di profetico. Semmai è un filosofo senza il quale è difficile, se non impossibile orientarsi in un mondo certo complesso ma che non cancella, bensì accentua le disuguaglianze sociali e di potere. Dunque un autore da leggere e rileggere al di là della miseria rappresentata dalla sua demonizzazione. È questa la stessa «metodologia» - leggere Marx oltre la polemica politica corrente - che muove il volume di Jonathan Wolff, un altro filosofo, questa volta però inglese, che insegna alla Oxford University.
IL SAGGIO, da poco pubblicato dalla casa editrice Il Mulino, può essere considerato espressione del cosiddetto marxismo analitico anglosassone così chiamato perché che unisce le tesi di Marx sullo sfruttamento alla riflessione liberal sulla forma stato capitalista. Il libro, dal titolo Perché leggere Marx (pp. 120, euro 12) è un compendio dell’opera marxiana pensato per studenti e lettori che poco sanno chi era e cosa ha scritto Marx. Vengono così illustrati i concetti di classe sociale, lavoro, plusvalore, evidenziandone l’attualità nella spiegazione di come funziona il capitalismo.
Wolff dichiara sin dall’introduzione i suoi timori che le lezioni preparatorie a questo testo incontrassero l’indifferenza dei suoi studenti a causa della frequentazione facoltative, cioè svincolate dal corso universitario. Sono ormai vent’anni che il docente inglese organizza seminari su Marx e il numero degli studenti è aumentato nel tempo nonostante si siano svolti nel pieno della controrivoluzione neoliberista che ha visto l’egemonia culturale del partito conservatore e il tentativo del New Labour di cancellare la sua tradizione politica socialista.
Il saggio di Wolff attinge esplicitamente alla tradizione laburista inglese, testimoniata dall’omaggio che l’autore fa allo storico delle idee Jerry Cohen, il capostipite proprio del marxismo analitico inglese. Quasi inesistenti, invece, i riferimenti alla new left degli anni Sessanta e Settanta, al decano del marxismo inglese Eric J. E. Hobsbawm, mentre sono significativamente citati i libri e le biografie di Marx maturati nel marxismo italiano vicino al Pci.
Chi invece propone una lettura genealogica dell’opera marxiana è la filosofa ungherese Agnes Heller con il libro, da poco pubblicato da Castelvecchi, Marx. Un filosofo ebreo-tedesco (pp. 230, euro 22). Nella descrizione della costellazione culturale del filosofo di Treviri, le sue origini ebraiche di Marx sono propedeutiche a mettere in evidenza la dimensione messianica, profetica della sua critica dell’economica politica, cioè quell’elemento indispensabile affinché, come hanno sostenuto Walter Benjamin e Ernst Bloch, il materialismo storico possa sviluppare una filosofia della Storia alternativa a quella dominante. Ma gran parte di questi saggi, scritti quando l’allieva di Gyorgy Lukacs non aveva ancora preso le distanze dal marxismo, approfondiscono non tanto la necessità di uno spirito dell’utopia o di un messianesimo rivoluzionario, bensì i temi che hanno reso Agnes Heller un’autrice nota fuori dai confini ungheresi.
LA TEORIA DEI BISOGNI, ovviamente, ma anche lo sviluppo di una antropologia filosofica che prenda l’avvio da una fenomenologia dei sentimenti. Ne emerge una visione dell’opera fortemente ancorata al panorama filosofico e culturale degli anni Settanta e Ottanta, dove Marx viene salvato dall’oblio per la sua attitudine utopica. Insomma, un classico della filosofia ottocentesca da leggere ma che ha ben poco da dire sul presente, mentre fallimentari sono stati tutti i tentativi di tradurre operativamente la sua critica al capitalismo.
Più spregiudicata, e utile, è invece la riproposizione di due classici di Karl Marx. La prima è della casa editrice Feltrinelli - l’editore milanese ha recentemente pubblicato un importante saggio di David Harvey, Marx e la follia del capitale (recensito dell’edizione del manifesto del 18/04/2018) - che sta per mandare in libreria la ristampa dei Manoscritti economico-filosofici del ’44 curati da Enrico Donaggio e Peter Kammerer e corredati da alcuni materiali poco conosciuti in Italia che Marx scrisse sulle tesi di James Mill e che i due curatori ritengono utili per comprendere cosa il filosofo intendesse per un lavoro che superasse l’alienazione che lo contraddistingue nella sua forma salariata. ù
LA SECONDA riproposta riguarda invece L’Introduzione alla critica dell’economia politica del ’57 della casa editrice Shake di Milano. Un libro importante, sia per l’introduzione che ricostruisce la rilevanza di queste pagine per comprendere il metodo usato da Marx nella sua critica all’economia politica che per i materiali che ricostruiscono la ricezione, travagliata, di questo scritto marxiano firmati da Sergio Bologna, Raf Valvola Scelsi, Franz Mehring e Eval’d Vasil’evic Il’enkov, lo studioso marxista che per primo curò la diffusione di queste pagine marxiane.
Due volumi che hanno l’obiettivo di rendere attuale l’opera marxiana. In attesa delle pubblicazioni annunciate da molte altre case editrici, va segnalata la nuova edizione del Manifesto comunista per Ponte alle Grazie (pp. 350, euro 19, 80) che si compone, oltre del testo di Marx ed Engels, di una lettura interlineare del manifesto svolta dal collettivo c17 e dai saggi di Etienne Balibar, Sandro Mezzadra, Slavoj Zizek, Veronica Gago. Alisa Del Re, Silvia Federici, Michael Hardt, Pierre Dardot, Christian Laval, Toni Negri (il manifesto del 03/05/2018 ha anticipato il brano di Etienne Balibar). Il volume manifesta la forte intenzionalità teorica-politica non solo per l’attualizzazione della riflessione marxiana, ma per aprire collettivamente un vero e proprio laboratorio marxiano che eviti le trappole del passato - il Marx maturo contrapposto al Marx giovane, la scientificità o meno dell’opera marxiana, la tenuta o meno della teoria del valore/lavoro -, approfondire la critica dell’economia politica nell’era del capitalismo cognitivo, della globalizzazione e della crisi dello stato-nazione.
Come argomenta il sito di Dinamo Press (www.dinamopress.it/news/marx-finalmente/) nel presentare il volume non si tratta di ribadire la fedeltà a Marx o meno, ma di mettere in opera la cassetta degli attrezzi marxiana. Cioè, come sostiene Paolo Virno, di ribadire la piena leggibilità di Marx, oltre e in buona parte contro il marxismo consolidato dalla tradizione del movimento operaio.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
Federico La Sala
MAGGIO 68. LA BRECCIA. E. Morin: «una breccia sotto la linea di galleggiamento di quel transatlantico magnifico che sembrava avviato verso un radioso futuro ... una delle rare estasi della storia, in cui tutti improvvisamente stanno benissimo...» *
Edgar Morin
Torno a raccontare il Sessantotto. La rivoluzione non è finita
dii Mario Baudino (La Stampa, 13.05.2018)
Edgar Morin pubblica per Cortina una raccolta di scritti sul ’68 e la intitola La breccia. È la metafora che il grande sociologo francese usò fin da subito, cronista in diretta del Maggio, antropologo della rivolta studiata dall’interno, in due lunghi articoli su Le Monde. Ora, a distanza di cinquant’anni, lui che nato Edgard Nahoum nel 1921 ha vissuto adolescente il ’36 e la esaltante vittoria delle sinistre nella Francia pre-bellica, ha combattuto nella Resistenza (trasformano il suo nome di battaglia in cognome anagrafico), ha partecipato ai movimenti che contestavano la guerra d’Algeria e soprattutto non ha mai smesso di studiare le dinamiche sociali e culturali, è convinto che quella breccia non si è ancora chiusa.
In che senso, professore?
«Nel senso che il Maggio francese non fece certo crollare la società borghese e forse non la cambiò di molto, ma aprì una breccia sotto la linea di galleggiamento di quel transatlantico magnifico che sembrava avviato verso un radioso futuro. La nave della società pareva solidissima, e invece scoppiò una rivolta generazionale. Gli adolescenti rivendicarono un’utopia libertaria, che contagiò tutti, gli operai, i borghesi, gli intellettuali. Finì presto, con la ricomposizione del vecchio sistema sociale e la deriva marxista leninista, ma quel che accadde fra il 3 e il 13 maggio rappresenta una delle rare estasi della storia, in cui tutti improvvisamente stanno benissimo, nessuno va da più dallo psicanalista o dal medico, nessuno ha più problemi nervosi».
Una sospensione improvvisa, ludica e fragilissima, del freudiano disagio della civiltà?
«Le cui tracce, oggi, si vedono però nel volontariato, nel mondo dell’economia solidale, nella volontà di una vita migliore senza inquinamento e senza sopraffazione. Questa è la breccia ancora aperta, la vera eredità, anche se la società è cambiata da allora. Pensi al mito del progresso».
In quel momento, non solo in Francia ma un po’ in tutto il mondo, una generazione di giovanissimi cominciò a dubitarne.
«Negli Anni Sessanta si era formata una bio-classe, con una cultura comune, valori condivisi, persino un certo modo di vestire. La loro fu una rivolta contro gli adulti, che coinvolse e trascinò con sé gli adulti. Il fenomeno non si è più ripetuto. E oggi, in tutti i Paesi, sappiamo che la legge del progresso non è più vera. Il futuro non significa automaticamente un miglioramento, ma semmai incertezza e angoscia. Le conquiste sociali di un tempo non esistono più, il dubbio coinvolge persino l’idea di democrazia e dei suoi valori. Tutto questo, senza che i più ne avessero la percezione, è cominciato allora».
Nostalgia?
«No, nostalgia mai. Ma ricordo la prima delle giornate del Maggio, il clima di festa, di libertà, di originalità. Il Super-Io dello Stato e della società si erano paralizzai, erano spariti. Sono momenti speciali, rarissimi. Ne ho vissuti anche altri: la liberazione di Parigi nel ’44, la rivoluzione dei garofani in Portogallo nel ’74, la caduta del Muro nell’89»
Le primavere arabe?
«Nei primi giorni, anche se poi, a differenza di questi altri momenti storici, si sono drammaticamente trasformate nel loro contrario».
Una lettura in prospettiva dal ’68 a oggi sembra dirci che l’utopia libertaria è destinata a essere sconfitta dal ritorno della politica e dell’ideologia.
«Oggi c’è la necessità di ripensare la politica, di lavorare alla ricostruzione di un pensiero politico: guardi i nostri due Paesi. Macron, con la sua avventura personale, ha decomposto la vecchia politica, ma non è riuscito nella ricomposizione di un pensiero nuovo. In Italia siete alla compiuta decomposizione dei partiti storici, e anche qui la necessità di una ricomposizione è evidente, anche se al momento non se ne vede la prospettiva. In gran parte dell’Europa trionfano forze di destra, revansciste, nazionaliste, populiste».
Nel suo Insegnare a vivere (uscito due anni fa sempre per Cortina) lei punta sull’insegnamento. Non su una ennesima riforma della scuola o dell’Università, ma su un nuovo orizzonte che superi la barriera tra saperi tecnologico-scientifici e formazione umanistica.
«Ci sono molte vie d’uscita dalla nostra attuale situazione, ma questa resta per me la principale».
Anche contro chi rivendica la propria ignoranza come un valore?
«Viviamo in una società di illusioni, come quella che ha appena citato. Un solo fatto è certo: la vera educazione per vivere non esiste ancora. Neppure io so quale sia. Ho scritto un libro. Spero che la si scopra insieme».
*
SCHEDA-libro
COSMOLOGIA E CIVILTA’. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO.... *
Polemiche
SALONE DEL LIBRO
Carlo Sini: una cultura dispersa è l’anticamera del conformismo
Il filosofo denuncia: nelle scelte dell’editoria le logiche commerciali prevalgono sui criteri scientifici
di Cristina Taglietti (Corriere della Sera, 12.05.2018)
TORINO Niente come una fiera, e il Salone del Libro in particolare, con il suo corollario di voci e rumori, a volte di musiche assordanti, sembra incarnare meglio lo spirito del nostro tempo votato, dice il filosofo Carlo Sini, alla dispersione. Eppure, nella vetrina dei saperi, dove lo spazio delle riflessione sembra compromesso, gli incontri filosofici hanno un pubblico tenace e neppure tanto piccolo. Molti visitatori, ieri, sono rimasti fuori dalla lectio magistralis di Sini, ma anche dall’incontro in cui Danco Singer, del Festival della Comunicazione di Camogli, ha messo a confronto lo storico Alessandro Barbero e il filosofo Maurizio Ferraris, su un tema, Visioni, che guarda avanti verso il futuro e indietro verso il passato incrociando i saperi.
Il pubblico che segue gli incontri filosofici ha caratteristiche molto peculiari. Si va alla fiera come a lezione, con il quaderno degli appunti e i testi dei filosofi, non soltanto quelli dei relatori: La scienza della logica di Hegel, le opere di Platone, l’immancabile Derrida sono alcuni dei titoli visti tra le mani. E alla fine molti chiedono, più che il firmacopie, un supplemento di spiegazione, l’approfondimento su un’opera citata o su un concetto espresso, come se fossero studenti desiderosi di ben figurare.
Venerdì l’editore Mimesis ha dedicato, con Massimo Donà, Giuliano Compagno e Gianni Vattimo, un omaggio a Mario Perniola, scomparso lo scorso gennaio, figlio elettivo di due padri, Luigi Pareyson e Guy Debord, e alla sua capacità di guardare al contemporaneo con uno sguardo obliquo, libero da condizionamenti. Oggi arriveranno Umberto Galimberti (in dialogo con Enzo Bianchi e poi con Nadia Fusini), Giulio Giorello (a riempire con nozioni di filosofia per ragazzi il format chiamato L’ora buca, assieme a Giancarlo De Cataldo che, invece, farà lezione di diritto), mentre Simone Weil (1909-1943) «parlerà» attraverso le lettere, pubblicate da Adelphi, con il fratello matematico André.
Sini, che conosce bene il Salone, vede tutto ciò come uno degli effetti tutto sommato positivi della dispersione. «Queste manifestazioni la rappresentano bene. Siamo colmati da una molteplicità di voci. Questo è il posto canonico, il luogo della totale dispersione. Da uno stand all’altro la cultura è esplosa: c’è tutto, dalle arti marziali ai francobolli cinesi. Ma sarebbe sciocco dire che è un male. Io propongo una lettura positiva. È la vita stessa, la ricchezza è nella molteplicità».
È quella che nel libro Del viver bene (edito da Jaca Book che sta pubblicando le Opere di Sini, 6 volumi in 11 tomi) definisce «la democrazia delle occasioni». «Se non dà un accesso il più possibile diffuso al maggior numero di persone è una finzione, è pura retorica». Ma, è il pensiero del filosofo, più esplode la molteplicità, più si mette in movimento qualcosa di paradossale che ha come risultato l’omogeneità: «Tutto è differenziato, niente è differente. -Il conformismo è l’altra faccia della dispersione. Tutto si adegua alla produzione di merci che, intendiamoci, non sono il diavolo. Ma questo modello è stato così potente che ha assimilato a sé anche il modello culturale. La desertificazione delle culture nazionali ne è una delle conseguenze».
Così, se nella formazione domina il modello anglofono, tecnico-scientifico, al difetto omogeneizzante non sfugge neppure l’editoria. «C’è un’unica editoria - dice Sini - si copiano tutti tra loro, gli autori sono sempre gli stessi che fanno il giro, nessuno osa niente. Non c’è coraggio, non c’è scoperta, si propone un prodotto uniforme, ripetitivo. D’altronde i direttori scientifici sono diventati direttori commerciali, attenti al marketing».
Un discorso che Sini fa pensando anche alla produzione filosofica. «Prima andava di moda Deleuze, adesso è il momento degli anglosassoni. Per venire pubblicati devono aver sfondato un certo livello di riconoscibilità, magari per ragioni biografiche. Lo stesso Sartre è diventato famoso con L’essere e il nulla, poi è stato dimenticato».
La riflessione sulla dispersione, e sulla moltiplicazione delle verità, delle competenze, dei saperi, è al centro della riflessione del filosofo che, anche nella sua lectio, nata in risposta a una delle domande lanciate dal Salone (Chi voglio essere?), ne ha illustrato gli effetti negativi. «Oggi domina l’interdisciplinarità, mentre dovremmo parlare di transdisciplinarità. Il progetto che ci incalza è quello di tentare una riunificazione dei saperi che non sia contraria alla specializzazione, ma che la riconduca a un nucleo condiviso. Un tempo non è che Kant non capisse Newton. Oggi è così: tra filosofi e scienziati non ci intendiamo perché non abbiamo più un sapere comune».
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
KANT, NEWTON, E POPE. Note (di avvio) per una rilettura della “Storia universale della natura e teoria del cielo”
COSMOLOGIA E CIVILTÀ. "PER LA CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA" DELLA RAGIONE ATEA E DEVOTA KARL MARX RISPONDE A SALVATORE VECA, PRENDE LE DISTANZE DA ENGELS E RENDE OMAGGIO A FULVIO PAPI. Alcune precisazioni sulla sua intervista impossibile
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
Archivi digitali
Uno spettro si aggira per il web. Karl Marx tra archivi e collezioni online a 200 anni dalla nascita
di Dario Taraborrelli (Red. ANAI - Il mondo degli archivi, 05 Maggio 2018)
«Happy Birthday, Karl Marx. You Were Right!», «Karl Marx, il ritorno del profeta», «Un pensatore che ci interroga, Karl Marx ha duecento anni ma non li dimostra», «Karl Marx è l’icona pop del XXI secolo»... con l’avvicinarsi del 5 maggio 2018 e il bicentenario della sua nascita il dibattito sul web riscopre Marx.
Non è un caso, quindi, che lo storico Donald Sassoon, ormai 15 anni fa, chiuse la sua Intervista immaginaria con Karl Marx proprio con la presenza online del filosofo tedesco:
Nel contesto di questo anniversario segnato da una straordinaria quantità di attività, eventi, articoli e contributi che vanno popolando le pagine web, spesso centrati rapporto tra Marx e Marxismi o sulla riscoperta dell’attualità del suo pensiero dialettico e del materialismo storico, proviamo a seguire un percorso spesso poco conosciuto, quello tra archivi e i documenti legati a Marx disponibili online.
La prima tappa di questo viaggio sono le Karl Marx / Friedrich Engels Papers dell’Istituto Internazionale di Storia Sociale di Amsterdam (Internationaal Instituut voor Sociale Geschiedenis) che rappresentano la più recente e accurata digitalizzazione dei manoscritti e dell’archivio di Marx ed Engels disponibile online: 2673 documenti provenienti dall’Archivio storico del Sozialdemokratische Partei Deutschlands, il Partito Socialdemocratico tedesco.
L’archivio dell’istituto nasce nella metà degli anni Trenta, dapprima come strumento ausiliario allo studio dei movimenti e delle organizzazioni legate al movimento operaio e immediatamente dopo come luogo di salvataggio e conservazione della memoria materiale della costellazione di organizzazioni, personalità, partiti e sindacati della grande famiglia socialista allargata (dagli utopisti allo spartachismo) contro la minaccia nazifascista in espansione.
Sul nuovo portale online dell’istituto sono disponibili dal 2015 le immagini digitali e l’inventario degli scritti di Marx, della sua famiglia e di Engels, tra cui alcuni manoscritti del Capitale, le bozze di buona parte degli scritti giovanili, documenti, fotografie, manifesti, volantini e numerose carteggi.
La rocambolesca storia di questo archivio vale la pena di essere ripresa: alla morte di Engels (1895), che aveva conservato buona parte delle carte di Marx, l’intero archivio venne diviso in più parti che furono progressivamente acquisite dal Parteiarchiv, la sezione archivistico-bibliotecaria dell’SPD. Nel 1901 buona parte delle carte di Marx ed Engels erano così custodite nell’archivio dell’SPD a Berlino e rimasero aperte alla consultazione degli studiosi del marxismo fino alla scalata del potere da parte dei nazisti.
Durante gli anni Trenta l’archivio venne portato fuori dalla Germania in segreto e ricomposto a Copenaghen, presso la Arbejdernes Landsbank (Banca nazionale dei lavoratori danesi), mentre l’SPD in esilio a Parigi si trovò obbligato ad organizzare la sua vendita. Inizialmente il principale interessato all’acquisto dell’intero archivio fu l’Istituto del Marxismo-Leninismo di Mosca, che però non arrivò mai alla trattativa finale per via dell’arresto e dell’esecuzione del capo della delegazione sovietica, Nikolaj Bucharin nel marzo del 1938, nel corso del grande terrore staliniano.
Nel maggio del 1938 arrivò la proposta del Istituto internazionale di storia sociale che acquisì l’archivio per 72.000 fiorini olandesi (un valore stimato di €643.000) e iniziò il suo trasferimento ad Amsterdam. Alla fine del 1938, tutti gli archivi e la biblioteca dell’Istituto vennero, però, spostati in Inghilterra (dapprima a Harrogate nello Yorkshire e poi a Oxford) per timore dell’imminente invasione da parte della Germania nazista. Nel 1946 gli archivi tornarono ad Amsterdam dove vennero arricchiti con copie e altri documenti originali provenienti dall’URSS.
Oltre alle carte di Marx ed Engels l’IISG conserva anche gli archivi (o parte di essi) di Rosa Luxemburg, Mikhail Bakunin, Karl Kautsky, Lev Trotsky e recentemente ha acquisito parte degli archivi di Greenpeace e Amnesty International.
Una risorsa molto particolare disponibile online è il Marxists Internet Archive (MIA), un sito web che raccoglie una vastissima collezione oltre 50.000 di testi e documenti trascritti di 600 autori marxisti, socialisti, comunisti e anarchici, da Marx ed Engels a Bakunin, da Proudhon a Ernesto Guevara. Il portale è l’evoluzione di un sito in protocollo gopher costruito all’inizio degli anni Novanta che ha progressivamente raccolto e messo a disposizione la quasi totalità del corpus degli scritti di Marx.
Nella sezione a lui dedicata, il Marx Engels Archive, si possono trovare tutte le opere principali, il ricchissimo repertorio dell’attività giornalistica di Marx e dell’epistolario. Una delle funzioni più utili che offre il portale è quella di poter effettuare ricerche testuali e organizzare cronologicamente e tematicamente l’intero corpus degli scritti.
Sebbene questa ricchezza di materiali conservati nelle pagine del sito rappresenti un utilissimo strumento per approcciare gli scritti marxiani, soprattutto per quanto riguarda le opere “minori”, il limite dell’operazione (oltre alla dubbia denominazione di “archivio”) è rappresentato dal carattere “amatoriale” nella selezione e dell’elaborazione dei testi, e, in particolare dalla mancanza di un apparato critico di interpretazione. Nonostante ciò importanti istituzioni culturali come WorldCatalog e la British Library hanno deciso di integrare il sito nella propria campagna di web archiving, considerandolo un progetto rilevante nei campi di studio della storia e della filosofia.
Un differente ambito di indagine, molto ricco di materiali digitalizzati online, è quello dell’attività di Karl Marx come giornalista, attività che non amava molto ma che gli consentì di sopravvivere durante la vita da esule nella Londra di metà Ottocento. Come già ricordato il MIA conserva la trascrizione di buona parte di questa attività ma negli ultimi anni si sono aggiunti due progetti che permettono di seguire due momenti molto importanti nella biografia marxiana: la collezione della Neue Rheinische Zeitung. Organ der Demokratie del 1848/1849 e quella della New York Daily Tribune dal 1852-1861.
La collezione digitale online della Neue Rheinische Zeitung fa parte del progetto Deutsche Textarchiv (DTA), che dal 2007 raccoglie nei suoi archivi più di 600.000 pagine di testi in lingua tedesca estratti da edizioni originali pubblicate tra il 1600 e il 1900 e annotate linguisticamente, e che permette di ricercare e visualizzare i testi dei 301 numeri del quotidiano che uscirono tra il 1848 e il 1949.
La Neue Rheinische Zeitung venne fondata a Colonia da Marx ed Engels in seguito alla chiusura della Rheinische Zeitung da parte della censura prussiana nel 1843 e fornisce una cronaca giornaliera e puntuale dei moti rivoluzionari del 1848 in Germania. Sebbene la navigazione nelle pagine sia non sempre semplice il lavoro di digitalizzazione e revisione dei testi, confrontabili con le immagini digitali delle pagine originali, rappresenta una delle fonti più complete e ricche di informazioni sul periodo del giornalismo in lingua tedesca di Marx. Una parte degli articoli della Neue Rheinische Zeitung tradotti in Inglese è disponibile sul MIA, tra i quali la celebre ultima pubblicazione del quotidiano prima della soppressione da parte della censura e dell’esilio di Marx, stampata completamente in inchiostro rosso il 19 maggio 1849.
Per quanto riguarda la New York Daily Tribune, uno dei quotidiani di più antica fondazione degli Stati Uniti, di ispirazione progressista e liberale, per la quale Marx scrisse come corrispondente da Londra dal 1852 fino al 1861, oggi è possibile ricercare l’intera pubblicazione di quegli anni grazie al progetto Chronicling America della Library of Congress.
Chronicling America raccoglie più di 13.000.000 di pagine digitalizzate di quotidiani statunitensi pubblicati tra il 1789 e il 1963 ed è possibile effettuare ricerche testuali ed estrarre il testo de singoli articoli. Dato che non sempre Marx firmava per esteso i suoi articoli e non è presente un indice degli articoli per gli anni precedenti al 1870 è molto utile l’elenco predisposto dal MIA, che permette agevolmente di rintracciare tutti i 300 suoi scritti. Per i lettori italiani è stato pubblicato un agile e-book nel 2016 Dal nostro corrispondente a Londra. Karl Marx giornalista per la New York Daily Tribune (traduzione e cura di G. Vintaloro, Corpo60, ebook) che offre un’interessante selezione di articoli.
Queste non sono che alcune delle più interessati raccolte di documenti e archivi oggi disponibili online, una piccola finestra su un mondo molto più vasto e come ha scritto in uno dei suoi ultimi saggi lo storico Eric Hobsbawm:
Nell’occasione del bicentenario questi archivi e documenti permettono di riprendere un tema vecchio e nuovo allo stesso tempo: i testi e la parola di Marx.
Un tema vecchio e nuovo poiché l’intero Novecento ha inseguito l’obiettivo sfuggente di una edizione critica completa degli scritti marxiani, dalle edizioni interpretative figlie dei marxismi e della contingenza storica, a una ricerca “scientifica” che negli ultimi anni trent’anni si è concentrata sulla dimensione filologica attorno la parola di Marx.
Ancora oggi la monumentale impresa della MEGA-2, la prosecuzione dell’edizione completa Marx-Engels-Gesamtausgabe, si pone l’obiettivo di trovare un punto fermo in questa ricerca sulla parola e ha generato di conseguenza una serrata riflessione sulla validità delle traduzioni delle categorie nelle opere marxiane maggiori, come ha scritto Roberto Fineschi a margine dell’edizione critica in Italiano del primo volume del Capitale:
Tenendo in considerazione l’attenzione alla parola, ma provando a fare un passo oltre la dimensione puramente filologica e vale la pena assumere un punto di vista archivistico: spostare l’attenzione dal testo al contesto.
In questo senso gli archivi disponibili online che abbiamo brevemente illustrato, seguendo la suggestione di Sassoon sulla presenza dello “spettro” marxiano sul web, forse rappresentano nuovi “luoghi” della conservazione e della fruizione per confrontarsi con la documentazione legata Karl Marx e l’occasione di mettere in prospettiva il suo pensiero senza i filtri della storia del XX secolo.
La feconda storia di un lessico critico
Tra passato e presente. Un’anticipazione dal libro «Il sogno di una cosa. Per Marx», che esce con DeriveApprodi e viene presentato sabato al festival di Bologna, organizzato dalla casa editrice
di Alberto Burgio (il manifesto, 04.05.2018)
Nello schema che Marx consegna alla «Prefazione» a Per la critica dell’economia politica riflettendo sulla vicenda delle rivoluzioni borghesi, un processo di transizione da una «formazione economico-sociale» a un’altra si verifica in quanto nel quadro dei processi riproduttivi di una data «formazione sociale» hanno luogo dinamiche conflittuali dirompenti: tali da provocarne - in capo a uno svolgimento di lungo periodo - lo scardinamento e la sostituzione da parte di una «formazione economico-sociale» basata su un diverso «modo di produzione». (...) Questa pagina della «Prefazione» del ’59, oggettivamente centrale nell’architettura complessiva della teoria marxiana, ha sempre attratto attenzione e suscitato riserve.
UNA POLEMICA RICORRENTE, e a prima vista consistente, concerne la (apparente) «centralità del terreno economico», che Marx sembrerebbe considerare in ogni epoca determinante. Come se l’assunto-base della filosofia storico-materialistica (la «costante» funzione fondativa attribuita all’«attività produttiva» nei confronti dell’«organizzazione sociale» e della sfera politico-istituzionale) disperdesse la consapevolezza storica dell’essenziale diversità delle logiche riproduttive proprie delle singole «formazioni sociali». (...)
Hannah Arendt, la studiosa delle rivoluzioni e della «condizione umana», sostiene per esempio che, prendendo «a prestito» da Hegel «l’idea secondo cui ogni vecchia società contiene i semi delle successive», Marx affermi la «sempiterna continuità del progresso nella storia». Lo stesso Debord, per solito concorde senza riserve con la posizione marxiana, ritiene che lo sforzo di legittimare l’aspirazione rivoluzionaria della classe operaia evocando rivoluzioni già avvenute (a cominciare da quelle borghesi) «offuschi, dai tempi del Manifesto, il pensiero storico di Marx, facendogli sostenere un’immagine lineare dello sviluppo dei modi di produzione» (...).
UN’ALTRA CRITICA, connessa con questa, prende di mira le implicazioni del suo (presunto) economicismo. La stessa Arendt rivolge a Marx proprio questa critica. Convinta della superiorità dell’agire politico (l’unico a suo giudizio degno dell’essere umano), vede nell’analisi marxiana una manifestazione della patologia della modernità consistente nell’esaltazione della dimensione produttiva del lavoro umano e nella conseguente tragica illusione demiurgica che la prosperità materiale e lo sviluppo tecnico siano garanzie di progresso. (...)
Questa critica costituisce in una qualche misura un corollario integrativo della prima in quanto esplicita il presupposto del naturalismo imputato a Marx. Il quale paradossalmente assolutizzerebbe la realtà borghese perché «travolto», al pari di altri grandi interpreti della modernizzazione (Locke e Adam Smith), «dalla produttività senza precedenti del mondo occidentale». (...)
SI TRATTA DI ARGOMENTAZIONI a prima vista fondate. (...) È tuttavia inverosimile che proprio Marx abbia potuto «perdere di vista» quella specificità della borghesia e del capitalismo che, prima di chiunque altro, ha colto e analizzato. (...) Bisogna quindi cercare di capire come e perché la precisa percezione della cesura storica prodotta dalla dominanza del rapporto sociale capitalistico non impedisca a Marx di «assumere come fondamento di tutta la storia» - così l’Ideologia tedesca - l’ambito delle relazioni connesse alla «produzione materiale della vita immediata». Forse una spiegazione di questa apparente inconseguenza c’è, meno complicata di quanto si possa immaginare.
MARX PENSA che in ogni epoca storica lo svolgimento delle attività attraverso cui le società umane si riproducono generi effetti decisivi ai fini della costruzione (e della specifica configurazione) della forma sociale complessiva (...). Al tempo stesso, segnala che la borghesia è l’unica classe sociale che dell’attività produttiva fa (con crescente consapevolezza) il cuore della propria identità, della propria cultura, del proprio mondo, della propria azione storica. A ben guardare, non vi è contraddizione tra le due tesi, poiché la prima concerne un aspetto oggettivo (la logica generale dello sviluppo storico in relazione alla quale il momento economico marca quella che Lukács definisce una «priorità ontologica»); la seconda, aspetti soggettivi (gli stili di vita e la mentalità specifici della borghesia). Se la centralità del produrre è «oggettivamente» una costante dell’intero processo (un fattore «trans-storico» invariante), essa compie un salto di qualità nella modernità in quanto nella «formazione economico-sociale» borghese (capitalistica) l’insieme delle attività produttive diviene «anche soggettivamente» l’epicentro della vita individuale e collettiva, la principale fonte di senso e di valore dell’esistenza.
Quel che conta - se questa interpretazione è corretta - è cogliere l’intuizione sottesa a questa posizione. Con ogni probabilità Marx intende sostenere che la borghesia sia il primo soggetto sociale la cui cultura materiale e il cui mondo simbolico e valoriale coincidono con la logica oggettiva dello sviluppo storico. Mentre faraoni, imperatori e sovrani competevano per la potenza militare e per l’onore, dal XV secolo e con crescente coerenza ed efficacia mercanti e banchieri, maestri d’arte e capitani d’industria competono invece per il profitto e per l’espansione dei propri imperi economici, col vantaggio non trascurabile di consacrare ogni sforzo all’attività «in ultima istanza» determinante ai fini della dinamica sociale. Non è improbabile che tale sintonia tra fattori soggettivi e oggettivi abbia contribuito in misura rilevante alla particolare duttilità e resistenza del potere borghese: al suo dinamismo e alla sua capacità di adattamento.
RIMANE DA SPIEGARE perché mai Marx privilegi il terreno delle attività produttive, al punto di ritenerle in ogni epoca decisive ai fini della configurazione delle forme di vita sociali. (...) Che Marx ponga il «produrre» al centro della dinamica storica è innegabile. Che ciò consegua alla sopravvalutazione della dimensione economica sembrerebbe altrettanto evidente. (...) Nondimeno, l’accusa di economicismo in generale e le argomentazioni arendtiane in particolare trascurano un aspetto cruciale del problema e affrontano quest’ultimo sulla base di una petizione di principio.
Come abbiamo visto, nel riflettere sulla logica del processo storico Marx parla di «attività produttiva», non soltanto di economia. Parla di lavoro, non certo esclusivamente di merci e scambi mercantili. Ciò non deve sembrare casuale né banale, poiché questa scelta lessicale riflette un aspetto teorico di primaria importanza. Essa è indice del fatto che l’ipotesi storico-materialistica pone al centro - rovesciando, a guardar bene, la prospettiva economicistica - la complessità e la ricchezza specifiche (benché di norma soltanto potenziali) del produrre umano: precisamente il suo (virtuale) eccedere l’ambito ristretto (economico) dell’elaborazione materiale dei mezzi di sussistenza e degli strumenti utili a garantire il dominio dell’uomo sulla natura.
Per Marx - qui più che mai attento alla lezione hegeliana - la «produzione» è anche costruzione di conoscenze e abilità, di pensieri e strategie pratiche. È di certo anche «necessità» imposta dalla natura, dalla dinamica di riproduzione della vita; ma è altresì elaborazione di soggettività nei diversi ambiti in cui gli esseri umani hanno modo di esprimersi, agire e interagire. Quindi anche produzione di rapporti sociali. (...)
ASSISTIAMO COSÌ, come accade quando non si intende la cifra critica di un’argomentazione, a un interessante paradosso. L’estensione e valorizzazione della categoria di «produzione» e la sua collocazione al centro della dinamica storica sono, nella prospettiva di Marx, mosse critiche decisive. Volte a fare emergere, in generale, la brutale mortificazione imposta al lavoro umano nel corso dell’intero sviluppo storico e, in particolare, la reificazione del lavoro subordinato nella società moderna. Non comprendere il senso di questo gesto comporta una serie di conseguenze imbarazzanti.
Non solo implica che si fraintenda di sana pianta l’intenzione critica sottesa al paradigma storico-materialistico. Non soltanto comporta l’attribuzione a Marx - a dir poco implausibile - di quegli stessi errori (il naturalismo, il riduzionismo, il determinismo economicistico) che Marx per primo e con ineguagliata potenza critica ha individuato al fondamento della tradizione economico-politica. Ma soprattutto impedisce di lavorare produttivamente nel solco della sua ricerca e di metterne a valore la potenzialità critica ancora inespressa.
Due secoli di Marx
Un dio chiamato Capitale
Non è stata l’economia politica il cuore della rivoluzione del grande pensatore. Ma l’Economico come categoria dello spirito. La vera potenza che mette all’opera il mondo
di Massimo Cacciari (l’Espresso, 29.04.2018)
Tacete economisti e sociologi in munere alieno. Marx non è affare vostro, o soltanto di quelli di voi che ne comprendano la grandezza filosofica, anzi: teologico-filosofica. Marx sta tra i pensatori che riflettono sul destino dell’Occidente, tra gli ultimi a osare di affrontarne il senso della storia. In questo è paragonabile forse soltanto a Nietzsche. Ma “Il Capitale”, si dirà? Non è l’economia politica al centro della sua opera? No; è la critica dell’economia politica. Che vuol dire? Che l’Economico vale per Marx come figura dello Spirito, come espressione della nuova potenza che lo incarna nel mondo contemporaneo. L’Economico è per Marx ciò che sarà la Tecnica per Heidegger: l’energia che informa di sé ogni forma di vita, che determina il Sistema complessivo delle relazioni sociali e politiche, che fa nascere un nuovo tipo di uomo. Nessuna struttura cui si aggiungerebbe una sovra-struttura a mo’ di inessenziale complemento - l’Economico è immanente in tutte le forme in cui l’agire e il pensare si determinano; ognuna di esse è parte necessaria dell’intero.
Marx è pensatore del Tutto, perfettamente fedele in questo al suo maestro Hegel. Il Sistema è più delle parti, irriducibile alla loro somma. Chi intende l’Economico come una struttura a sé, autonoma, che determinerebbe meccanicisticamente le altre, non ha capito nulla di Marx. Marx non è pensatore astratto, e cioè non astrae mai l’Economico dall’intero sistema delle relazioni sociali, culturali, politiche.
La sua domanda è: quale potenza oggi governa l’Intero e come concretamente essa si esprime in ogni elemento dell’Intero? L’Economico è infinitamente più che Economico. Esso rappresenta nel contemporaneo la potenza che mette all’opera il mondo.
Il mondo della “morte di Dio”. Ogni opera deve essere valutata sul metro del lavoro produttivo di ricchezza e ogni uomo messo al lavoro per questo fine. Non è concesso “ozio”; nessuno può essere “lasciato in pace”. Il processo stesso di specializzazione del lavoro viene compreso in questo grandioso processo: più avanza la forma specialistica del lavoro, più l’Opera appare complessiva e distende il proprio spirito sull’intero pianeta; più il lavoro appare diviso, più in realtà esso funziona come un unico Sistema, dove ogni membro coopera, ne sia o meno consapevole, al fine universale dell’accumulazione e riproduzione. Fine che si realizza soltanto se al lavoro è posto prioritariamente il cervello umano. La vera forza del lavoro sta infatti nell’intelligenza che scopre, inventa, innova. La differenza tra teoretico e pratico si annulla nella potenza del cervello sociale, Intelletto Agente dell’intero genere, che si articola in lavori speciali soltanto per accrescere sempre più la propria universale potenza.
Per Marx è questo il “nuovo mondo” che il sistema di produzione capitalistico crea, non certo dal nulla, ma certo sconvolgendo dalle radici forme di vita e relazioni sociali, insomma: l’ethos dell’Occidente, la “sede” in cui l’Occidente aveva ino ad allora abitato È il mondo dove il Logos della forma-merce si incarna in ogni aspetto della vita, per diventarne la religione stessa. E Marx ne esalta l’impeto rivoluzionario. È questo impeto che per lui va seguito, al suo interno è necessario collocarsi per comprenderne le contraddizioni e prevederne scientificamente l’aporia, e cioè dove la strada che esso ha aperto è destinata a interrompersi - per il salto a un altro mondo. Qui bisogna intendere bene: la contraddizione non viene da fuori, da qualcosa che sia “straniero” al Sistema.
Contraddittorio in sé è il capitalismo stesso. Il capitalismo è crisi, è fatto di crisi. Funziona per salti, che ogni volta mettono inevitabilmente in discussione gli equilibri raggiunti. Non vi è riproduzione senza innovazione. Questo è noto anche agli economisti.
Ma Marx aggiunge: il capitalismo è crisi perché si costituisce nella lotta tra soggetti antagonisti. Il capitale è la lotta tra capitalisti e classe operaia. In quanto forza-lavoro la classe operaia è elemento essenziale del capitale stesso - ma quell’elemento che ha la possibilità di assumere coscienza di sé e lottare contro la classe che detiene l’egemonia sull’intero processo, che lo governa per il proprio profitto, metro del proprio stesso potere.
È anche e soprattutto in forza di questa intrinseca contraddizione che il capitalismo è innovazione continua, produzione di merci sempre nuove e produzione del loro stesso consumo (la produzione più importante, quest’ultima, dice Marx). Tuttavia, ecco la metamorfosi: proprio diventando cosciente di questa sua funzione la forza-lavoro si fa soggetto autonomo rispetto al capitale, autonomo rispetto al carattere rivoluzionario di quest’ultimo. La lotta di classe di cui parla Marx è lotta tra rivoluzionari. Vera guerra civile.
Questa contraddizione muove tutto. E ognuno è imbarcato in essa. L’idea di poterne giudicare “dall’alto” costituisce per l’appunto quella ideologia, che Marx sottopone a critica in dalle prime opere. Se la realtà dell’epoca è contraddizione inscindibilmente economica e politica, ogni interpretazione che la riduca a fatti naturalisticamente analizzabili la mistifica. Non è possibile cogliere la realtà del Sistema che collocandosi in esso, e dunque collocandosi nella contraddizione. Soltanto in questa prospettiva l’Intero è afferrabile. Non si comprende la realtà del presente se non in prospettiva e perciò a partire da un punto di vista determinato. Impossibile oggi un sapere astrattamente neutrale. La pretesa all’avalutatività è falsamente scientifica; l’epoca costringe a prender-parte, all’aut-aut. A porsi in gioco, alla scommessa anche. Il momento, o il kairòs, della decisione politica viene cosi a far parte della stessa potenza dell’Economico, resta immanente in essa.
È l’ideologia propria del pensiero liberale, per Marx, che cerca di convincere a una visione de-politicizzante dell’Economico, a separare Economico e Politico, conferendo appunto all’Economico l’aspetto di un sistema naturale di relazioni.
Poiché concepisce la storia dell’Occidente come conflitto, e conflitto determinato dal suo carattere di classe, e poiché intende il presente alla luce dell’intrinseca contraddittorietà della stessa potenza rivoluzionaria del Sistema tecnico-economico, Marx pensa di aver posto saldamente sui piedi il pensiero dialettico dell’idealismo. Le epoche della Fenomenologia hegeliana dello Spirito non trovano conclusione in un Sapere assoluto che tutte accoglie e accorda, in una suprema Conciliazione, ma nella insuperabile contraddizione tra la potenza universale del Lavoro produttivo divenuto cosciente di sé e la sua appropriazione capitalistica. Si tratta di ben altro che di calcoli su valore e plusvalore.
L’analisi del meccanismo dello sfruttamento, tanto bombardata dagli economisti e da filosofi dilettanti, sarà pure la parte caduca della grande opera di Marx. Ciò che conta in essa è la questione: il prodotto di questa umanità al lavoro (e questo significa “classe operaia”, altro che semplice “operaismo”!), di questo cervello sociale che inventa e innova, appartiene a chi? Come se ne determina la distribuzione? Chi la comanda? Può la sua potenza rinunciare a esigere potere? E se essa funziona riducendo sempre più il lavoro necessario per unità di prodotto o di prestazione, non si dovrebbe pensare nella prospettiva di una liberazione tout-court da ogni forma di lavoro comandato?
Il comunismo risponde per Marx a queste domande. È l’idea della suprema conciliazione del soggetto col suo prodotto; il compito di superare nella prassi ogni estraneità. Comunismo significa la stessa “missione dell’uomo”. In questo senso, il capitalismo opera per il suo stesso superamento, poiché il suo sistema si fonda su quel cervello sociale-classe operaia che per “natura” è destinato a non sottostare ad alcun comando. Che deve diventare libero. Il comunismo è il Sistema della libertà.
Marx sembra non avvedersi che tale “risoluzione” dell’aporia del capitalismo riproduce esattamente la conclusione della Fenomenologia hegeliana e, forse ancor più, del Sistema della scienza di Fichte. Ed è l’idea di un potere assoluto sulla natura, in cui la “comunità degli Io” sottopone al proprio dominio tutto ciò che le appaia “privo di ragione”.
La quintessenziale volontà di potenza dell’uomo europeo ispira perciò in tutto anche Marx e la sua violenza rivoluzionaria. Marx appartiene all’Europa “rivoluzione permanente”, all’Europa “leone affamato” (Hegel). Il suicidio di questa Europa lungo il tragico Novecento spiega lo spegnersi dell’energia politica scaturita dal marxismo assai più di quelle colossali trasformazioni sociali e economiche che hanno segnato il declino del soggetto “classe operaia”.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
RIPENSARE L’EUROPA!!! CHE COSA SIGNIFICA ESSERE "EU-ROPEUO". Per la rinascita dell’EUROPA, e dell’ITALIA. La buona-esortazione del BRASILE. Una "memoria"
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN ...
La critica radicale del presente: l’eredità di Marx
di Maurizio Viroli (Il Fatto, 28.04.2018)
Non saprei dire quanti altri giovani della mia generazione misero in soffitta Karl Marx dopo aver letto l’articolo Esiste una teoria marxista dello Stato? che Norberto Bobbio pubblicò nel 1975 su Mondoperaio, e ripubblicò nel 1976 nel libro Quale socialismo?, ma sospetto siano stati molti.
La risposta di Bobbio era netta: negli scritti di Marx e di Friedrich Engels, “una vera e propria teoria socialistica dello Stato non esiste”. A nulla valsero le centinaia di pagine scritte dagli intellettuali ‘organici’, come si diceva allora, al Partito comunista per confutare Bobbio e salvare Marx. Se Marx non aveva fornito una teoria dello Stato, come poteva essere guida intellettuale di un partito che aspirava a guidare lo Stato democratico?
Messo da parte Marx, cercammo altri maestri che potessero aiutarci a credere nel socialismo senza essere marxisti. Trovammo per nostra fortuna Carlo Rosselli e il suo Socialismo liberale che proprio Bobbio aveva curato in una bella edizione Einaudi del 1973. La prima pagina di quel libro aveva il valore di una rivelazione o di una conferma di quanto già pensavamo, vale a dire che il limite maggiore della teoria sociale e politica di Marx era la pretesa (rafforzata e popolarizzata dal buon Friedrich Engels) di essere dottrina scientifica : “L’orgoglioso proposito di Marx fu quello di assicurare al socialismo una base scientifica, di trasformare il socialismo in una scienza, anzi nella scienza sociale per definizione [...] Doveva avverarsi, non poteva non avverarsi; e si sarebbe avverato non per opera di una immaginaria volontà libera degli uomini, ma di quelle forze trascendenti e dominanti gli uomini e i loro rapporti che sono le forze produttive nel loro incessante svilupparsi e progredire.”
Rosselli capì che il Manifesto del Partito comunista aveva immensa forza d’ispirazione perché era profezia travestita da scienza: “Quale pace, quale certezza dava il suo linguaggio profetico ai primi apostoli perseguitati! “
Ma già agli inizi del Novecento, dopo la disputa sul revisionismo aperta dal libro di Eduard Bernstein, uscito nel 1899 (che Laterza ha pubblicato in traduzione italiana nel 1974 con il titolo I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia), i più intelligenti giudicarono la scienza di Marx del tutto incapace di spiegare la realtà economica e sociale, e non trovarono più né conforto né guida nella profezia ormai irrigidita in stanche formule ripetute meccanicamente. Eppure, molte pagine di Marx, soprattutto del giovane Marx, offrono ancora, se le leggiamo senza i vecchi condizionamenti ideologici, elementi per una teoria dell’emancipazione sociale.
La lettera che Marx spedisce ad Arnold Ruge da Kreuznach, nel settembre del 1843, poi pubblicata nei Deutsch-Französische Jahrbücher del 1844, ad esempio, è un testo che ci insegna i lineamenti di una critica sociale e politica intransigente: “Costruire il futuro - scrive Marx - e trovare una ricetta valida perennemente non è affar nostro, ma è certo più evidente ciò che dobbiamo fare nel presente: la critica radicale di tutto l’esistente”. Critica radicale perché senza riguardi, senza paura né dei suoi risultati né del conflitto coi poteri attuali. E ci insegna che la lotta per la libertà e per la giustizia deve essere in primo luogo lavoro paziente di educazione delle coscienze: “Indi il nostro motto sarà: riforma della coscienza, non con dogmi, bensì con l’analisi della coscienza mistica, oscura a se stessa, in qualunque modo si presenti (religioso o politico)”.
L’emancipazione politica e sociale non era per il giovane Marx risultato di tendenze oggettive della storia, ma conquista di coscienze emancipate che sanno riscoprire il sogno o la profezia di giustizia che l’umanità ha coltivato in varie forme nella sua lunga storia: “così si vedrà che da tempo il mondo sogna una cosa, di cui deve solo aver la coscienza per averla realmente. Si vedrà che non si tratta di tracciare una linea fra passato e futuro, ma di realizzare le idee del passato. Si vedrà infine come l’umanità non inizi un lavoro nuovo, bensì attui consapevolmente il suo antico lavoro”.
Nello stesso fascicolo (l’unico che vide la luce) Marx pubblicò anche un’Introduzione a Per la critica della Filosofia del diritto di Hegel, dove sostiene che il proletariato è la sola classe sociale che emancipando se stessa emancipa l’intera società e che la filosofia può trovare nel proletariato “le sue armi materiali”. La filosofia (ovvero gli intellettuali) è dunque la “testa di questa emancipazione”; “il suo cuore è il proletariato”. Due illusioni nobili, queste del giovane Marx, ma pur sempre illusioni.
Il proletariato, allora come oggi, è una classe oppressa e umiliata, ma resta una classe particolare che nella sua storia ha lottato e sofferto per finalità di emancipazione generale, ma ha anche sostenuto demagoghi autoritari. Attribuire al proletariato il semplice ruolo di cuore e forza materiale dello sforzo di emancipazione e agli intellettuali quello di cervello, significa aprire la strada, come la storia ha abbondantemente dimostrato, a freddi professionisti della rivoluzione e del governo, incapaci di condividere le sofferenze e le speranze degli oppressi e dunque pronti a diventare non compagni di lotta, ma nuovi dominatori.
In questo saggio, nato in un contesto segnato da appassionati dibattiti su religione e emancipazione sociale (ben documentato dalla recente biografia scritta da Gareth Stedman Jones, Karl Marx. Greatness and Illusion, Harvard University Press, 2016) Marx ha consegnato alla storia la sua celebre critica dell’alienazione religiosa: “L’uomo fa la religione, e non la religione l’uomo. [...] Essa è la realizzazione fantastica dell’essenza umana, poiché l’essenza umana non possiede una realtà vera. La lotta contro la religione è dunque mediatamente la lotta contro quel mondo, del quale la religione è l’aroma spirituale. La miseria religiosa è insieme l’espressione della miseria reale e la protesta contro la miseria reale. La religione è il sospiro della creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, così come è lo spirito di una condizione senza spirito. Essa è l’oppio del popolo”. Sarebbe facile osservare che la religione, in particolare la religione cristiana, ha sostenuto importanti esperienze di liberazione politica e sociale.
Ma dalla critica alla religione, Marx trae due conclusioni di straordinario valore morale e politico: la prima consiste nel principio che “l’uomo è per l’uomo l’essere supremo”; la seconda nell’“imperativo categorico di rovesciare tutti i rapporti nei quali l’uomo è un essere degradato, assoggettato, abbandonato, spregevole”. Un principio e un imperativo da riscoprire in questo nostro tempo che ha completamente perso l’idea stessa, e anche la speranza, dell’emancipazione sociale.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LO STATO DEL FARAONE, LO STATO DI MINORITA’, E IMMANUEL KANT "ALLA BERLINA" - DOPO AUSCHWITZ
"LEZIONE SU KANT" A GERUSALEMME: PARLA EICHMANN "PILATO", IL SUDDITO DELL’"IMPERATORE-DIO". Il ’sonnambulismo’ di Hannah Arendt prima e di Emil Fackenheim dopo.
EICHMANN A GERUSALEMME (1961). “come fu possibile la hitlerizzazione dell’Imperativo Categorico di Kant? E perché è ancora attuale oggi?” (Emil L. Fackenheim, Tiqqun. Riparare il mondo).
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
COLLOQUIO. Nasceva duecento anni fa l’autore del «Manifesto del partito comunista»: sul suo pensiero abbiamo interpellato il sociologo Immanuel Wallerstein, che ne rivendica l’attualità. Non può fare a meno di lui una sinistra globale che voglia rappresentare l’80% più povero degli abitanti della terra
«Il capitalismo non è eterno. E Marx è ancora necessario»
conversazione tra Marcello Musto e Immanuel Wallerstein (Corriere della Sera, La Lettura, 08.06.2018)
Immanuel Wallerstein, senior research scholar alla Yale University (New Haven, Usa) è considerato uno dei più grandi sociologi viventi. I suoi scritti sono stati molto influenzati dalle opere di Karl Marx ed egli è uno degli studiosi più adatti per riflettere sul perché quel pensiero sia ritornato, ancora una volta, di attualità
MARCELLO MUSTO - Professor Wallerstein, quasi trent’anni dopo la fine del cosiddetto «socialismo reale», in quasi tutto il globo tantissimi dibattiti, pubblicazioni e conferenze hanno come tema la persistente capacità da parte di Marx di spiegare le contraddizioni del presente. Lei ritiene che le idee di Marx continueranno ad avere rilevanza per quanti ritengono necessario ripensare un’alternativa al capitalismo?
IMMANUEL WALLERSTEIN - Esiste una vecchia storia su Marx che dice che ogni volta che si cerca di buttarlo fuori dalla porta, lui rientra dalla finestra. È quanto sta accadendo in questi anni. Marx è ancora fondamentale per quanto scrisse a proposito del capitalismo. Le sue osservazioni furono molto originali e completamente diverse da ciò che affermarono altri autori. Oggi affrontiamo problemi rispetto ai quali egli ha ancora molto da insegnarci e tanti editorialisti e studiosi - non certo solo io - trovano il pensiero di Marx particolarmente utile in questa fase di crisi economica e sociale. Ecco perché, nonostante quanto era stato predetto nel 1989, assistiamo alla sua rinnovata popolarità.
MARCELLO MUSTO - La caduta del Muro di Berlino ha liberato Marx dalle catene degli apparati statali dei regimi dell’Est Europa e da un’ideologia sideralmente lontana dalla sua concezione di società. Qual è il motivo centrale che suscita ancora tanta attenzione verso l’interpretazione del mondo di Marx?
IMMANUEL WALLERSTEIN - Io credo che, se chiedessimo a quanti conoscono Marx di riassumere in una sola idea la sua concezione del mondo, la maggior parte di essi risponderebbe «la lotta di classe». Io leggo Marx alla luce del presente e per me «lotta di classe» significa il perenne conflitto tra quella che io chiamo la «sinistra globale» - che ritengo possa ambire a rappresentare l’80% più povero della popolazione mondiale - e la «destra globale» - che rappresenta l’1% più ricco. Per vincere questo scontro bisogna conquistare il restante 19%; bisogna cercare di portarlo nel proprio campo e sottrarlo a quello dell’avversario. Viviamo in un’era di crisi strutturale del sistema mondo. Credo che il capitalismo non sopravvivrà, anche se nessuno sa con certezza da che cosa potrà essere sostituito. Io sono convinto che vi siano due possibilità. Una prima è rappresentata da quello che chiamo lo «spirito di Davos». L’obiettivo del Forum economico mondiale di Davos è quello di imporre un sistema sociale nel quale permangano le peggiori caratteristiche del capitalismo: le gerarchie sociali, lo sfruttamento e, soprattutto, il dominio incontrastato del mercato con la conseguente polarizzazione della ricchezza. L’alternativa è, invece, un sistema più democratico e più egualitario di quello esistente. Per tornare a Marx, dunque, la lotta di classe costituisce lo strumento fondamentale per influire sulla costruzione di ciò che, in futuro, sostituirà il capitalismo.
MARCELLO MUSTO - Le sue riflessioni circa la contesa per ricevere il sostegno politico della classe media ricordano Antonio Gramsci e il suo concetto di egemonia. Tuttavia, credo che per le forze di sinistra la questione prioritaria sia come ritornare a parlare alle masse popolari, ovvero quell’80% a cui lei fa riferimento, e come rimotivarle alla lotta politica. Questo è particolarmente urgente nel «Sud globale», dove è concentrata la maggioranza della popolazione mondiale e dove, negli ultimi tre decenni, a dispetto del drammatico aumento delle diseguaglianze prodotte dal capitalismo, partiti e movimenti progressisti si sono indeboliti. Lì l’opposizione alla globalizzazione neoliberista è spesso guidata dai fondamentalismi religiosi e da partiti xenofobi, un fenomeno in crescita anche in Europa. La domanda è se Marx può aiutarci in questo scenario. Libri di recente pubblicazione offrono nuove interpretazioni della sua opera. Essi rivelano un autore che fu capace di esaminare le contraddizioni della società capitalista ben oltre il conflitto tra capitale e lavoro. Marx dedicò molte energie allo studio delle società extra-europee e al ruolo distruttivo del colonialismo nelle periferie del sistema. Allo stesso modo, smentendo le interpretazioni che assimilano la concezione marxiana della società comunista al mero sviluppo delle forze produttive, l’interesse per la questione ecologica presente nell’opera di Marx fu ampio e rilevante. Infine, egli si occupò in modo approfondito di numerose tematiche che molti studiosi spesso sottovalutano o ignorano quando parlano di lui. Tra queste figurano le potenzialità emancipatrici della tecnologia, la critica dei nazionalismi, la ricerca di forme di proprietà collettive non controllate dallo Stato, o la centralità politica della libertà individuale nella sfera economica e politica: tutte questioni fondamentali dei nostri giorni. Accanto a questi «nuovi profili» di Marx - che suggeriscono come il rinnovato interesse per il suo pensiero sia un fenomeno destinato a proseguire nei prossimi anni - potrebbe indicare tre delle idee più conosciute di Marx a causa delle quali questo autore non può essere accantonato?
IMMANUEL WALLERSTEIN - Innanzitutto, Marx ci ha insegnato meglio di chiunque altro che il capitalismo non corrisponde al modo naturale di organizzare la società. Già in Miseria della filosofia , pubblicato quando aveva solo 29 anni, schernì gli economisti che sostenevano che le relazioni capitalistiche si fondavano su «leggi naturali, indipendenti dall’influenza del tempo». Marx scrisse che gli economisti avevano riconosciuto il ruolo svolto dagli esseri umani nella storia quando avevano analizzato le «istituzioni feudali, nelle quali si trovavano rapporti di produzione del tutto differenti da quelli della società borghese». Tuttavia, essi mancarono di storicizzare il modo di produzione da loro difeso e presentarono il capitalismo come «naturale ed eterno». Nel mio libro Il capitalismo storico ho tentato di chiarire che il capitalismo è un sistema sociale storicamente determinato, contrariamente a quanto impropriamente sostenuto da alcuni economisti. Ho più volte affermato che non esiste un capitalismo che non sia capitalismo storico e, a tal proposito, dobbiamo molto a Marx. In secondo luogo, vorrei sottolineare l’importanza del concetto di «accumulazione originaria», ossia l’espropriazione della terra dei contadini che fu alla base del capitalismo. Marx capì benissimo che si trattava di un processo fondamentale per la costituzione del dominio della borghesia. È un fenomeno che persiste ancora oggi. Infine, inviterei a riflettere di nuovo sul tema «proprietà privata e comunismo». In Unione Sovietica, in particolare durante il periodo staliniano, lo Stato deteneva la proprietà dei mezzi di produzione. Ciò non impedì, però, che le persone fossero sfruttate e oppresse. Tutt’altro. Ipotizzare la costruzione del «socialismo in un solo Paese», come fece Stalin, costituì una novità mai considerata in precedenza, men che mai da Marx. La proprietà pubblica dei beni di produzione rappresenta una delle alternative possibili, ma non è l’unica. Esiste anche l’opzione della proprietà cooperativa. Tuttavia, se vogliamo costruire una società migliore, è necessario sapere chi produce e chi riceve il «plusvalore» - altro pilastro fondamentale della teoria di Marx. È questo il tema centrale. Va completamente mutato quanto si viene a determinare nei rapporti capitalistici di produzione.
MARCELLO MUSTO - Il 2018 coincide con il bicentenario della nascita di Marx e nuovi libri e film vengono dedicati alla sua vita. Quali sono gli episodi della biografia di Marx che lei considera più significativi?
IMMANUEL WALLERSTEIN - Marx trascorse una vita molto difficile, in perenne lotta contro una povertà terribile. Fu molto fortunato ad avere incontrato un compagno come Friedrich Engels, che lo aiutò a sopravvivere. Marx non ebbe nemmeno una vita affettiva semplice e la sua tenacia nel portare a compimento la missione che aveva assegnato alla propria esistenza - ovvero la comprensione del meccanismo di funzionamento del capitalismo - è davvero ammirevole. Marx non pretese né di spiegare l’antichità, né di definire come avrebbe dovuto essere la futura società socialista. Volle comprendere il suo presente, il sistema capitalistico nel quale viveva.
MARCELLO MUSTO - Nel corso della sua vita, Marx non fu soltanto lo studioso isolato dal mondo tra i libri del British Museum; fu un rivoluzionario sempre impegnato nelle lotte della sua epoca. Da giovane, a causa della sua militanza politica, egli venne espulso dalla Francia, dal Belgio e dalla Germania e, quando le rivoluzioni del 1848 vennero sconfitte, fu costretto all’esilio in Inghilterra. Fondò quotidiani e riviste e appoggiò, in tutti i modi, le lotte del movimento operaio. Inoltre, dal 1864 al 1872 fu il principale animatore dell’Associazione internazionale dei lavoratori, la prima organizzazione transnazionale della classe operaia, e nel 1871 difese strenuamente la Comune di Parigi, il primo esperimento socialista della storia.
IMMANUEL WALLERSTEIN - Sì, è vero, è essenziale ricordare la militanza politica di Marx. Egli ebbe un’influenza straordinaria nell’Internazionale, un’organizzazione composta da lavoratori fisicamente distanti tra loro, in un’epoca in cui non esistevano mezzi che potessero agevolare la comunicazione. Marx fece politica anche attraverso il giornalismo, impiego che svolse per tanta parte della sua vita. Certo, lavorò come corrispondente del «New-York Daily Tribune» prima di tutto per avere un reddito, ma considerò i propri articoli - che raggiunsero un pubblico molto vasto - come parte della sua attività politica. Essere neutrale non aveva alcun senso ai suoi occhi - il che non vuol dire che mancò di rigore nelle sue analisi. Fu sempre un giornalista impegnato e critico.
MARCELLO MUSTO - Lo scorso anno, in occasione del centesimo anniversario della rivoluzione russa, alcuni studiosi sono ritornati a discutere sulle distanze tra Marx e alcuni suoi autoproclamatisi epigoni che sono stati al potere nel XX secolo. Qual è la maggiore differenza tra loro e Marx?
IMMANUEL WALLERSTEIN - Gli scritti di Marx sono illuminanti e molto più sottili e raffinati di molte interpretazioni semplicistiche delle sue idee. È sempre bene ricordare che fu lo stesso Marx, con una famosa boutade, ad affermare dinanzi ad alcune interpretazioni del suo pensiero: «Quel che è certo è che io non sono marxista». Marx, a seguito dei suoi continui studi, non di rado mutò idee e opinioni. Si concentrò sui problemi che esistevano nella società del suo tempo e, a differenza di tanti che si sono richiamati al suo pensiero, fu profondamente antidogmatico. Questa è una delle ragioni per le quali Marx è una guida ancora così valida e utile.
MARCELLO MUSTO - Per concludere, che messaggio le piacerebbe trasmettere a quanti, nella nuova generazione, non hanno ancora letto Marx?
IMMANUEL WALLERSTEIN - La prima cosa che vorrei dire ai più giovani è di leggere direttamente gli scritti di Marx. Non leggete su Marx, ma leggete Marx. Solo pochi - fra tutti quelli che parlano di lui - hanno veramente letto le opere di Marx. È una considerazione che, peraltro, vale anche per Adam Smith. In genere, con la speranza di risparmiare tempo, molte persone preferiscono leggere a proposito dei classici del pensiero politico ed economico e, dunque, finiscono per conoscerli attraverso i resoconti di altri. È solo uno spreco di tempo! Bisogna leggere direttamente i giganti del pensiero moderno e Marx è, senza dubbio, uno dei principali studiosi del XIX e XX secolo. Nessuno gli è pari, né per la molteplicità delle tematiche da lui trattate, né per la qualità della sua analisi. Alle giovani generazioni dico che è indispensabile conoscere Marx e che per farlo bisogna leggere, leggere e leggere direttamente i suoi scritti. Leggete Karl Marx!
Dalla parte della storia
La giovinezza di Marx ed Engels, raccontata in un film solo all’apparenza biografico, ma che si concentra sulla congiuntura per mostrare il punto singolare dell’emergenza di una storia, individuale e collettiva
di Pietro Bianchi (Dinamo Press, Cult, 5 aprile 2018)
Bruxelles, 1848, ovvero il momento in cui Karl Marx e Friedrich Engels scrivono il manifesto del Partito Comunista. È così che finisce Il giovane Karl Marx di Raoul Peck: un biopic atipico, sentimentale, fatto da un regista haitiano tra i più intelligentemente politici degli ultimi anni e che riprende giusto una manciata di anni nella vita di Marx durante gli anni Quaranta dell’Ottocento fino appunto alla redazione del più famoso manifesto programmatico della storia moderna.
Fare un film su una figura così ingombrante come Marx è un progetto che metterebbe paura a chiunque (Ėjzenštejn, per dire, non c’era riuscito) eppure Raoul Peck riesce a passare dalla porta stretta che vi è tra la fedeltà alla ricostruzione storica (il racconto è molto più meticoloso, anche nei dettagli secondari, di quanto ci si potrebbe attendere da una produzione del genere) e un racconto di estrema semplicità e efficacia su un giovane intellettuale e militante che attraversa uno dei momenti cruciali della storia europea. L’idea è proprio quella di togliere a Marx quelle sembianze da icona che ci sono state tramandate dalla celebre fotografia con la barba lunga e di ricollocarlo invece nella contingenza della storia.
Ecco che allora Marx e Engels - il centro del film è la storia della loro amicizia - sono due giovani bohémiens che passano da Parigi a Londra, da Bruxelles alla Germania per organizzare e conoscere quel proletariato che per la prima volta si era affacciato in quegli anni sulla scena della storia e stava cambiando definitivamente la realtà che si aveva di fronte agli occhi. Ma nel film non ci sono solo le fabbriche di Manchester o le assemblee della Lega dei Giusti, i dibattiti con Proudhon e quelli con Wilhelm Weitling: ci sono anche i bar frequentati dagli operai tra risse e fiumi di alcol, le burrascose relazioni sentimentali e le improvvise colluttazioni con le autorità di giustizia.
Perché come è stato scritto da Lorenzo Rossi su Cineforum il rischio di un film che vuole rappresentare dei personaggi tanto rilevanti dal punto di vista storico è quello di pensare che abbiano avuto una sorta di incontro inevitabile con il proprio destino. È il tipico inganno di vedere le cose après-coup, a partire dai loro effetti: ed ecco che allora l’impressione che abbiamo è che quello che è accaduto non poteva non accadere. Se noi però portiamo il nostro sguardo sul presente della scelta - come avviene in questo film - le cose acquistano un aspetto molto diverso, perché tutto “sarebbe potuto essere diverso da quello che poi è stato”.
Vedere allora Marx seduto a un tavolo che scrive “un fantasma si aggira per l’Europa” ha l’effetto non tanto celebrativo di illustrare un momento che poi si rivelerà storico, quanto quello di far vedere che la storia si costruisce sempre a partire da una radicale contingenza. Insomma, le cose sarebbero anche potute andare diversamente e in ogni singolo momento la scelta si è sempre compiuta sullo sfondo di una sospensione radicale di ogni garanzia o necessità. Ecco che allora lo sguardo che Peck ci spinge ad adottare non è quello di chi ha costruito la storia perché “non poteva che andare così”, ma di chi è stato in grado di farlo solo perché vi era immerso completamente.
È per questo che Il giovane Karl Marx è un film tanto riuscito, nonostante la difficile restituzione della ricchezza del dibattito filosofico di quegli anni (che rimane quasi sempre sullo sfondo), nonostante il “vero” Marx - quello che ha davvero innovato la modernità con un’analisi inedita nel metodo e nel merito del modo di produzione capitalistico - inizi soltanto dopo il 1848, quando cioè il film finisce. Nel film quello che emerge è molto più semplicemente il fatto che Marx e Engels volessero qualcosa che andasse oltre a una prospettiva blandamente egualitaria di fratellanza tra gli uomini, come veniva espressa ne La lega dei Giusti (organizzazione socialista-utopista di cui il film ricostruisce splendidamente il momento del Congresso del giugno 1847 in cui cambia il nome in Lega dei Comunisti) e che il comunismo dovesse porre il problema di un soggetto sociale che per la prima volta mostrava nella storia i paradossi e i limiti dell’egualitarismo borghese: il proletariato.
Alla fine, quando la lettura di alcuni passi de Il Manifesto del Partito Comunista si sovrappone a dei tableau vivant di proletari del 1848 che guardano in macchina, il film termina con uno splendido cartello che dice quella che è forse la verità più decisiva del film: Marx dopo il 1848 inizia a lavorare alla sua opera più importante, Il Capitale, che rimarrà incompiuta, proprio perché l’oggetto di cui si occupa è costantemente in movimento nella storia.
L’opera di Marx insomma non è una dottrina, ma un’opera aperta, e ciò che Il giovane Karl Marx ci spinge a fare è di non ridurre la vita Marx a un’agiografia ma di essere fedeli allo spirito della sua vita: cioè, pensare quell’oggetto storico che chiamiamo capitalismo non con la freddezza e il distacco del ricercatore, ma con la partecipazione di qualcuno che sa che di quella storia è inevitabilmente parte.
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Il giovane Marx. Come si diventa rivoluzionari
Esce sugli schermi italiani in questi giorni di aprile il film di Raoul Peck sulla turbolenta giovinezza di Karl Marx e il suo decisivo incontro con Friedrich Engels: tutto nel segno del “comune” dalla polemica sui furti di legna alla stesura del Manifesto
di Augusto Illuminati (Dinamo Press, Cult, 5 aprile 2018)
Il bel film (2017) del regista haitiano, autore di Lumumba (2000) e I Am Not Your Negro (2016), tratta gli anni giovanili di Marx (Augusto Diehl) ed Engels (Stefan Konarske) e delle loro compagne, l’aristocratica Jenny von Westphalen (Vicki Krieps) e l’operaia irlandese Mary Burns (Hannah Steele) - dai primi articoli marxiani del 1842-1843 sulla “Rheinische Zeitung” di Colonia e sui “Deutsch-franzősische Jahrbücher” editi da A. Ruge a Parigi fino alla stesura a quattro mani del Manifesto del partito comunista nel 1847-1848, passando per tutte le peripezie degli anni di Parigi, Bruxelles, Londra: espulsioni, censure, polemiche, congressi fondativi, scissioni e vicende familiari.
Peck, che è anche sceneggiatore insieme a P. Bonitzer e P. Hodgson, non tratta Marx ed Engels come “personaggi concettuali” - riservando tale veste piuttosto al “comunismo” nelle sue varie e contraddittorie declinazioni (dal “furto” di legna iniziale all’umanitarismo della Lega dei Giusti, dalle astrazioni proudhoniane alle pratiche di lotta operaia e alla definizione del Manifesto) - ma ne restituisce un’immagine pubblica e privata molto sciolta e bohémienne, mostrandoli come esponenti di una controcultura romantica in via di rapida politicizzazione.
Tale era infatti la cerchia dei giovani hegeliani e dei loro corrispondenti europei. Approccio che risalta nei dettagli aneddotici - la ribellione contro la censura prussiana, le fughe dai controlli polizieschi di Guizot, la partita a scacchi di Marx con Courbet, le turbolente riunioni nelle osterie del Fbg. Saint-Antoine, le incursioni dell’innamorato Engels nei bassifondi di Manchester, il sogno schilleriano in cui i contadini della Mosella rimossi dagli usi civici ritornano in sogno come briganti alla notizia dell’attentato a re di Prussia - e naturalmente colorisce anche i rapporti dei due protagonisti con le donne, segnandoli in modo diverso.
Qui subentra un elemento più analitico e sostanziale, così come nel rapporto fra le due donne, la moglie Jenny e la compagna Mary - che implica in sottinteso anche quello fra Jenny e la fedele cameriera e altro, Lenchen, abbreviativo di Helene Demuth.
Entrambe le donne (e pure Lenchen) furono prodighe non solo di cure ma anche di informazioni e consigli politici ai due redattori del Manifesto e il ruolo di Mary nell’ideazione stessa nel 1845 della Situazione della classe operaia in Inghilterra di Engels (fondamentale per la svolta di Marx dalla filosofia all’economia) è stata ampiamente riconosciuto, in primo luogo dallo stesso autore. Engels non mancò di tributare un elogio, nel 1890 in occasione dei funerali, anche al contributo di Lenchen, che aveva preso in casa dopo la morte di Marx. Per di più, nel 1851, aveva riconosciuto come proprio il figlio che Lenchen aveva avuto da Marx, Freddy rinnegato per non rovinare con uno scandalo l’armonia e il prestigio familiare...
Nel film la complicità fra Jenny e Lenchen addolcisce una brutta storia patriarcale, così come vengono forse migliorati i rapporti fra Karl e Mary, occultando l’egoismo marxiano, che si manifestò in modo penoso alla notizia della morte di Mary - ben oltre i limiti cronologici del film. Che in compenso insiste molto anche sui suggerimenti di Jenny, omaggio di stagione al femminismo su una materia che certamente Marx si guardò bene dal documentare. -Nel grande dialogo d’invenzione sulla spiaggia di Ostenda fra Jenny e Mary, la prima esprime una prospettiva tradizionale su figli e famiglia, mentre la seconda rivendica il suo diritto alla libertà da quei vincoli e vuole restare povera come è nata per essere rivoluzionaria (la prima, invece, accetta di impoverirsi per amore di Karl).
Passano sullo schermo Ruge, Hess, il sarto Weitling, profeta della fratellanza mistica della Lega dei Giusti, Proudhon, Bakunin e tanti altri, vediamo la fabbrica della famiglia Engels che è insieme la fonte di reddito di Marx e il modello reale della sua teoria economica - decisiva fu infatti la spinta di Friedrich per far passare Karl dalla critica filosofica della società e dello stato alla critica dell’economia politica borghese. Das Kapital restituisce gli esborsi di capitali dell’amico e compensa storicamente (non individualmente) la parte egocentrica e convenzionale della personalità dell’autore.
Nel film il passaggio decisivo (l’effetto Manchester, l’effetto Friedrich e Mary) è il congresso del giugno 1847, quando Marx ed Engels trasformano a forza la Lega dei Giusti in Lega dei Comunisti, di cui il Manifesto sarà il programma. Non più fratellanza egualitaria ma rapporti di produzione e lotta di classe, non più “umanità” ma “proletariato”: comunismo è il movimento reale che sopprime lo stato di cose esistenti e dunque si rinnova ogni volta contro ogni stato di cose, contro ogni processo di accumulazione per recinzione del comune ed estrazione del valore dalla cooperazione sociale. Da allora a oggi, mai ripetendosi. Dunque si passa dai volti dei proletari d’epoca alle scene delle lotte del Novecento su scala mondiale, mentre in colonna sonora, dopo le citazioni salienti del Manifesto e i titoli di coda, scorre il dylaniano Like a Rolling Stone, un susseguirsi sempre aperto, di rimbalzo in rimbalzo, delle immagini di Vietnam, ’68, Allende, Mandela, riots Usa, Lumumba, Guevara...
Karl Marx torna di moda: svelato il mistero della sua barba
di Viktor Gaiduk (Il Sole-24 Ore, Domenica, 18 marzo 2018)
La storia dimostra che i barbuti hanno sempre avuto un ruolo significativo nella società, soprattutto dopo la caduta di Napoleone. Karl Marx, l’autore dell’opera più nota e discussa dell’economia politica, Il Capitale, il prossimo 5 maggio compirà i 200 anni. Prima di tanti articoli ufficiali e valutazioni accademiche, diremo semplicemente che egli segnò l’inizio del movimento socio-politico noto come “marxismo” e fu costantemente riprodotto con la sua barba. Ora riprendendo un’immagine conservata negli archivi di Mosca, lo possiamo vedere non come un vecchio professore ma come giovane studente. E in tal modo torna alla ribalta tra i giovanotti di oggi, moscoviti e pietroburghesi.
Tranquillo e con un’espressione da buono, Marx si addormentò per sempre su una poltrona nel suo appartamento di Londra (1883). Sia questa poltrona mortuaria, sia la copia dell’identikit di polizia prussiana del 1836, raffigurante Marx studente e ribelle, oggi si trovano nell’Archivio di Mosca della Storia Sociale e Politica (RGASPI), in un bunker sotterraneo fatto costruire da Stalin dalle acciaierie tedesche Krupp. È il caso di ricordare che il nome di battaglia di Stalin viene dalla parola russa che significa acciaio, “Stal”.
Questo è un archivio unico, con dei fondi che contengono un gran numero di documenti e oggetti museali, testimoni della storia europea (secoli XVII-XX). Oggetto di notevole interesse per le ricerche, tale luogo conserva tra l’altro innumerevoli carte essenziali per vicende legate a rivoluzioni e a innovazioni. Tra faldoni e manoscritti qui conservati, oltre al Manifesto del partito comunista (1848), si può scoprire Il Manifesto dei barbuti della stessa data. Una celebre battuta di Marx aiuta a chiarire quanto scrivo: «La rivolta degli uomini moderni con la barba sta minando le basi su cui la borghesia focalizza la sua attenzione. Con ciò la borghesia scava la tomba a se stessa. La sua caduta e la vittoria della barba sono ugualmente inevitabili».
Herbert Wells (1866 -1946), sostenitore del socialismo democratico, visitando Mosca per parlare con Lenin e Stalin, giunse a questa conclusione: «Il Capitale di Marx è un volume folto e denso come la barba dell’autore. Un bel giorno mi armerò di forbici e gliela taglierò».
Ma Marx, ovviamente, anche nelle foto che si vedevano tradizionalmente negli uffici moscoviti del tempo che fu, è rimasto con la sua barba. Anche se, date le chiacchiere che circolarono sul suo conto sia quando era vivo sia quando fu morto, sappiamo (grazie agli archivi di Mosca e a una foto tanto citata e mai trovata) che il fondatore del marxismo fu sepolto senza la sua celebre barba. Insomma, era ben rasato. Il segreto fu custodito fino all’ultimo respiro del sistema sovietico. Forse quella foto fu distrutta, forse è ancora nascosta da qualche parte. Che cosa accadde?
Poco prima della sua morte, Karl Marx decise di iniziare una “nuova vita”. Di che cosa si trattasse esattamente non è chiaro, ma a sostegno della sua scelta e delle sue intenzioni, si privò della barba e abbandonò l’aspetto del profeta-pensatore. A meno di un anno dalla morte, il 28 aprile 1882, in viaggio in Algeria, Marx scrisse a Engels di essersi recato da un barbiere locale e di essersi fatto rasare. Fu questo Marx senza l’onor del mento che, il 17 marzo 1883, venne sepolto in un cimitero a Londra nella stessa tomba dove riposava sua moglie, scomparsa poco più di un anno prima.
Si diceva a Mosca, e si ripete ancor oggi, che la CIA - come tutti i servizi segreti riuscì a volte a essere seria fino al limite del ridicolo - pianificò con l’aiuto di uno shampoo speciale la possibilità far cadere la celebre barba di Fidel Castro, privandolo così anche dell’autorità rivoluzionaria. In effetti, potete immaginare Karl Marx, Fidel Castro, Giuseppe Mazzini o Lev Tolstoj senza barba?
Tra i documenti dell’Archivio Marx e Engels di Mosca è conservato un dagherrotipo: vediamo il vecchio Karl con una barba completamente bianca. È l’ultima sua effige. Marx senza barba è paragonabile a Marx senza marxismo. Del resto, quando in Russia proprio il marxismo ha cessato di essere la dottrina ufficiale, si è conosciuta anche l’immagine di Marx imberbe ribelle, con quattro peli non ancora rivoluzionari. Qualcuno ipotizza che quando si fece depilare dal barbiere di Algeri, smise a sua volta di essere marxista. Forse perché si era stancato, prima di molti altri, dei suoi seguaci e adoratori.
Filosofia
Veca, lezioni su utopia e realismo.
La storia non è una via obbligata
di Maurizio Ferrera (Corriere della Sera, 16.03.2018)
Il discorso politico contemporaneo, soprattutto in Europa, è sempre più intriso di «necessità». La globalizzazione, si dice, impone conformità alle logiche di mercato. Le tecnostrutture sovranazionali dettano regole vincolanti basate su semplici numeri. Il motto di Margareth Thatcher - there is no alternative - domina le scelte di governo e sempre più anche quelle individuali (pensiamo al mercato del lavoro). È il trionfo di quella colonizzazione del «mondo della vita» da parte degli «imperativi sistemici» di cui parlano da molto tempo autori come Jürgen Habermas o Axel Honneth. Una dinamica che genera inevitabilmente nuove diseguaglianze: le capacità e le opportunità di adattamento non sono equamente distribuite. Gli elettori esprimono disagio e protesta. Ma se non si danno alternative reali e credibili, il confronto democratico degenera in una inconcludente agitazione.
Nel suo ultimo libro Il senso della possibilità (Feltrinelli), Salvatore Veca indica una strada per uscire da questo vicolo cieco. Di fronte alla dittatura del presente e delle sue supposte necessità, sostiene, occorre recuperare appunto il «senso della possibilità». L’idea che non vi siano alternative nasce dalla nostra ignavia, dal mancato esercizio di spirito critico nei confronti dello status quo, dei paradigmi dominanti e delle loro false necessità. E, soprattutto, dalla diffusa rinuncia a usare l’immaginazione, a elaborare futuri possibili, a «prenderci per mano, ragionare e operare per forme più decenti di convivenza».
Salvatore Veca è uno dei più noti e originali filosofi contemporanei. Il volume presenta i risultati di una nuova fase delle sue ricerche, che lo avevano portato a riflettere prima sull’incertezza (su che cosa è il mondo e su ciò che vale) e poi sull’incompletezza (sulla natura e i limiti delle nostre interpretazioni del mondo). Per certi aspetti, il «senso della possibilità» si può considerare la pars construens del pensiero di Veca. Ai margini dell’incertezza e dell’incompletezza si aprono infatti i varchi del possibile. Una modalità dell’essere che lo sottrae al necessario, che conferisce al presente (all’attualità) un carattere plastico e che apre margini per scegliere il futuro.
I capitoli del libro sono spesso tecnici, si confrontano con teorie e modelli situati alla frontiera del dibattito filosofico. Anche chi non padroneggia gli strumenti della filosofia e della logica trova però nel volume spunti di estremo interesse. Il «senso della possibilità» può essere usato come una chiave per aprire due «scatole» da cui sono scaturiti molti di quei discorsi sulla necessità di cui oggi ci sentiamo prigionieri.
La prima scatola è quella della storia, dello sviluppo umano nel tempo. Noi siamo inevitabilmente immersi nel presente: l’attuale ha priorità su passato e futuro. Ciò che è stato non può essere disfatto. E questo pone alcuni vincoli ineludibili (dunque necessari) per costruire ciò che sarà. Eppure il presente è circondato dal possibile. Lo è retrospettivamente, innanzitutto. Le cose avrebbero potuto andare altrimenti. La realtà di oggi (compresi i famosi «imperativi sistemici») non è che il distillato, nel bene e nel male, di mondi possibili che abbiamo di volta in volta scartato nel passato in base a fattori e scelte contingenti.
Il mondo attuale è l’unico sopravvissuto. Ma il senso della possibilità ci sottrae all’incubo dei destini inevitabili, degli ingranaggi storici che ci relegano al ruolo di automi. Usato in ottica prospettica, il senso della possibilità ci rende invece liberi di immaginare un’ampia gamma di scenari futuri e ci sprona all’impegno per valutarli e realizzarli.
La seconda scatola è quella della politica. Si tratta della sfera di attività umana che gestisce il presente, lo guida nel mare aperto delle possibilità. La chiave di Veca fa però fatica ad entrare in questa scatola. Gli imperativi della necessità hanno come bloccato la serratura, soffocando il più potente generatore di mondi possibili che siamo riusciti a inventare come umani: la liberaldemocrazia. La colpa non è del «sistema», intendiamoci, che è contingente nella sua genesi e non necessitante rispetto al futuro. Il generatore liberaldemocratico si è inceppato perché è stato usato in modo irresponsabile sia dai governati sia dai governanti. Questi ultimi non hanno poi fatto adeguata manutenzione (pensiamo al deficit democratico della Unione Europea).
Possiamo sbloccare la serratura? Ovviamente sì, ma l’esercizio richiede alcuni atti di equilibrismo. Chi governa il presente deve riappropriarsi del senso di possibilità, sfidando i tanti sacerdoti del «non si può fare altrimenti». Chi agita l’inquietudine dei governati (pensiamo ai leader populisti) deve a sua volta calibrare la propria immaginazione in base ai materiali disponibili, oggi, nel reale. I mondi possibili sono tanti, ma non tutti sono accessibili dal punto in cui ci troviamo. E, come ricorda Veca, alcuni non sono neppure desiderabili.
MESSAGGIO EVANGELICO E ILLUMINISMO, OGGI: "SAPERE AUDE!" (I. Kant). AL DI LA’ DELLA LOGICA E DELLA DIALETTICA "SERVO-PADRONE"...
La parabola dei talenti
di ENZO BIANCHI (Monastero di Bose, 19 novembre 2017)
La parabola dei talenti proposta dalla liturgia odierna è una parabola che, secondo il mio povero parere, oggi è pericolosa: pericolosa, perché più volte l’ho sentita commentare in un modo che, anziché spingere i cristiani a conversione, pare confermarli nel loro attuale comportamento tra gli altri uomini e donne, nel mondo e nella chiesa. Dunque forse sarebbe meglio non leggere questo testo, piuttosto che leggerlo male...
In verità questa parabola non è un’esaltazione, un applauso all’efficienza, non è un’apologia di chi sa guadagnare profitti, non è un inno alla meritocrazia, ma è una vera e propria contestazione verso il cristiano che sovente è tiepido, senza iniziativa, contento di quello che fa e opera, pauroso di fronte al cambiamento richiesto da nuove sfide o dalle mutate condizioni culturali della società. La parabola non conferma neppure “l’attivismo pastorale” di cui sono preda molte comunità cristiane, molti “operatori pastorali” che non sanno leggere la sterilità di tutto il loro darsi da fare, ma chiede alla comunità cristiana consapevolezza, responsabilità, laboriosità, audacia e soprattutto creatività. Non la quantità del fare, delle opere, né il guadagnare proseliti rendono cristiana una comunità, ma la sua obbedienza alla parola del Signore che la spinge verso nuove frontiere, verso nuovi lidi, su strade non percorse, lungo le quali la bussola che orienta il cammino è solo il Vangelo, unito al grido degli uomini e delle donne di oggi quando balbettano: “Vogliamo vedere Gesù!” (Gv 12,21).
Leggiamo allora con intelligenza questa parabola la cui prospettiva - lo ripeto - non è economica né finanziaria; essa non è un invito all’attivismo ma alla vigilanza che resta in attesa, non contenta del presente ma tutta protesa verso la venuta del Signore. Egli non è più tra di noi, sulla terra, è come partito per un viaggio e ha affidato ai suoi servi, ai suoi discepoli un compito: moltiplicare i doni da lui fatti a ciascuno. Nella parabola, a due servi il Signore ha lasciato molto, una somma cospicua - cinque lingotti di argento a uno, due a un altro -, affinché la facciano fruttificare; a un terzo servo ha lasciato un solo lingotto, che comunque non è poco. In tutti egli ha messo la sua fiducia senza limiti, confidando loro i suoi beni. Spetta dunque ai servi non tradire la grande fiducia del padrone e operare una sapiente gestione dei beni, non di loro proprietà ma del padrone, il quale al suo ritorno darà loro la ricompensa. A ciascuno il padrone da in funzione della sua capacità, e il suo dono è anche un compito: custodire e far fruttificare.
Al di là dell’immagine dei talenti, che cos’è questo dono, in definitiva? Secondo Ireneo di Lione è la vita accordata da Dio a ogni persona. La vita è un dono che non va assolutamente sprecato, ignorato o dissipato. Purtroppo - dobbiamo constatarlo - per alcuni la vita non ha alcun valore: non la vivono, anzi la sprecano e la sciupano “fino a farne una stucchevole estranea” (Konstantinos Kavafis), e così si lasciano vivere. Eppure si vive una volta sola e il farlo con consapevolezza e responsabilità è decisivo al fine di salvare una vita o perderla! Secondo altri padri orientali, i talenti sono le parole del Signore affidate ai discepoli perché le custodiscano, certo, ma soprattutto le rendano fruttuose nella loro vita, le mettano in pratica fino a seminarle copiosamente nella terra che è il mondo. Di nuovo, è questione di vita, di “scegliere la vita” (cf. Dt 30,19).
“Dopo molto tempo” - allusione al ritardo della parusia, della venuta gloriosa del Signore (cf. Mt 24,48; 25,5) - il padrone ritorna e chiede conto della fiducia da lui riposta nei suoi servi, i quali devono mostrare la loro capacità di essere responsabili, in grado cioè di rispondere della fiducia ricevuta. Eccoli dunque presentarsi tutti davanti a lui. Colui che aveva ricevuto cinque talenti si è mostrato operoso, intraprendente, capace di rischiare, si è impegnato affinché i doni ricevuti non fossero diminuiti, sprecati o inutilizzati; per questo, all’atto di consegnare al padrone dieci talenti, riceve da lui l’elogio: “Bene, servo buono e fedele, ... entra nella gioia del tuo Signore”. Lo stesso avviene per il secondo servo, anche lui in grado di raddoppiare i talenti ricevuti. Per questi due servi la ricompensa è proporzionalmente uguale, anche se le somme affidate erano diverse, perché entrambi hanno agito secondo le loro capacità.
Viene infine colui che aveva ricevuto un solo talento, il quale mette subito le mani avanti, manifestando il pensiero che lo ha paralizzato: “Da quando mi hai dato il talento, io sapevo che sei un uomo duro, esigente, arbitrario, che fa ciò che vuole, raccogliendo anche dove non ha seminato”. Con queste sue parole (“dalle tue parole ti giudico”, si legge nel testo parallelo di Lc 19,22) il servo confessa di essersi fabbricato un’immagine distorta del Signore, un’immagine plasmata dalla sua paura e dalla sua incapacità di avere fiducia nell’altro: egli considera il padrone come qualcuno che gli fa paura, che chiede una scrupolosa osservanza di ciò che ordina, che agisce in modo arbitrario. Avendo questa immagine in sé, ha scelto di non correre rischi: ha messo al sicuro, sotto terra, il denaro ricevuto, e ora lo restituisce tale e quale. Così rende al padrone ciò che è suo e non ruba, non fa peccato... Ma ecco che il Signore va in collera e gli risponde: “Sei un servo malvagio (ponerós) e pigro (oknerós). Malvagio perché hai obbedito all’immagine perversa del Signore che ti sei fatta, e così hai vissuto un rapporto di amore servile, di amore ‘costretto’. Per questo sei stato pigro, inaffidabile, non hai avuto né il cuore né la capacità di operare secondo la fiducia che ti avevo accordato. Non hai fatto neanche lo sforzo di mettere il talento in banca, dove sarebbe stato fruttuoso, dandomi interessi. Non hai avuto cura del mio bene affidato a te”.
Sì, lo sappiamo: è più facile seppellire i doni che Dio ci ha dato, piuttosto che condividerli; è più facile conservare le posizioni, i tesori del passato, che andarne a scoprire di nuovi; è più facile diffidare dell’altro che ci ha fatto del bene, piuttosto che rispondere consapevolmente, nella libertà e per amore. Ecco dunque la lode per chi rischia e il biasimo per chi si accontenta di ciò che ha, rinchiudendosi nel suo “io minimo”. Questo servo non ha fatto il male; peggio ancora, non ha fatto niente! Dunque davanti a Dio nel giorno del giudizio compariranno due tipi di persone:
chi ha ricevuto e ha fatto fruttificare il dono,
chi lo ha ricevuto e non ha fatto niente.
I servi fedeli entreranno nella gioia del Signore; chi invece è stato “buono a nulla” (achreîos) sarà spogliato anche dei meriti che pensava di poter vantare!
Ma a me piacerebbe che la parabola si concludesse altrimenti: così sarebbe più chiaro il cuore del padrone, mentre il cuore del discepolo sarebbe quello che il padrone desidera. Oso dunque proporre questa conclusione “apocrifa”:
Venne il terzo servo, al quale il padrone aveva confidato un solo talento, e gli disse: “Signore, io ho guadagnato un solo talento, raddoppiando ciò che mi hai consegnato, ma durante il viaggio ho perso tutto il denaro. So però che tu sei buono e comprendi la mia disgrazia. Non ti porto nulla, ma so che sei misericordioso”. E il padrone, al quale più del denaro importava che quel servo avesse una vera immagine di lui, gli disse: “Bene, servo buono e fedele, anche se non hai niente, entra pure tu nella gioia del tuo padrone, perché hai avuto fiducia in me”.
Anche così la parabola sarebbe buona notizia!
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MESSAGGIO EVANGELICO E ILLUMINISMO, OGGI: "SAPERE AUDE! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza" (I. Kant).
LA PAURA DI PENSARE E LA PARABOLA DEI TALENTI. Perché chiudere la nostra vita in una scatola? Una riflessione di Angelo Casati
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
La durezza del Capitale
Ricorrenze. L’11 settembre l’opera di Karl Marx compirà i suoi primi 150 anni. La stesura del libro, iniziata nel 1862, venne funestata dalla povertà economica dell’autore e dalla sua precaria salute
di Marcello Musto (il manifesto, 08.09.2017)
L’opera che, forse più di qualunque altra, ha contribuito a cambiare il mondo, negli ultimi centocinquant’anni, ebbe una lunga e difficilissima gestazione. Marx cominciò a scrivere Il capitale solo molti anni dopo l’inizio dei suoi studi di economia politica. Se aveva criticato la proprietà privata e il lavoro alienato della società capitalistica già a partire dal 1844, fu solo in seguito al panico finanziario del 1857, iniziato negli Stati Uniti e poi diffusosi anche in Europa, che si sentì obbligato a mettere da parte le sue incessanti ricerche e iniziare a redigere quella che chiamava la sua «Economia».
CON L’INSORGERE della crisi, Marx presagì la nascita di una nuova stagione di rivolgimenti sociali e ritenne che la cosa più urgente da fare fosse quella di fornire al proletariato la critica del modo di produzione capitalistico, presupposto essenziale per il suo superamento. Nacquero così i Grundrisse, otto corposi quaderni nei quali, tra le altre tematiche, egli prese in esame le formazioni economiche precapitalistiche e descrisse alcune caratteristiche della società comunista, sottolineando l’importanza della libertà e dello sviluppo dei singoli individui. Il movimento rivoluzionario, che egli credeva sarebbe sorto a causa della crisi, restò un’illusione e Marx non pubblicò i suoi manoscritti, consapevole di quanto fosse ancora lontano dalla piena padronanza degli argomenti affrontati. L’unica parte data alle stampe, dopo una profonda rielaborazione del «Capitolo sul denaro», fu Per la critica dell’economia politica, testo che uscì nel 1859 e che venne recensito da una sola persona: Engels.
Il progetto di Marx era quello di dividere la sua opera in sei libri. Essi avrebbero dovuto essere dedicati a: capitale, proprietà fondiaria, lavoro salariato, Stato, commercio estero, mercato mondiale. Quando, però, nel 1862, a causa della guerra di secessione americana, la New York Tribune licenziò i suoi collaboratori europei, Marx - che aveva lavorato per il quotidiano americano per oltre un decennio - e la sua famiglia ritornarono a vivere in condizioni di terribile povertà, le stesse patite durante i primi anni del loro esilio londinese. Non aveva che l’aiuto di Engels, al quale scrisse: «ogni giorno mia moglie mi dice che vorrebbe essere nella tomba con le bambine e, in verità, non posso fargliene una colpa, poiché le umiliazioni e le pene che stiamo subendo sono davvero indescrivibili».
La sua condizione era così disperata che, nelle settimane più buie, vennero a mancare il cibo per le figlie e la carta per scrivere. Cercò anche di ottenere un impiego in un ufficio delle ferrovie inglesi. Il posto, però, gli venne negato a causa della sua pessima grafia. Pertanto, per poter fare fronte all’indigenza, il lavoro di Marx continuò a subire grandi ritardi.
Ciò nonostante, in questo periodo, in un lunghissimo manoscritto intitolato Teorie sul plusvalore, compì un’accuratissima disamina critica del modo in cui tutti i maggiori economisti avevano erroneamente trattato il plusvalore come profitto o rendita. Per Marx, invece, esso costituiva la forma specifica mediante la quale si manifesta lo sfruttamento nel capitalismo. Gli operai trascorrono una parte della loro giornata a lavorare gratuitamente per il capitalista.
QUEST’ULTIMO CERCA in tutti i modi di generare plusvalore mediante il pluslavoro: «non basta più che l’operaio produca in generale, deve produrre plusvalore», ovvero deve servire all’autovalorizzazione del capitale. Il furto di anche solo pochi minuti sottratti al pasto o al riposo di ogni lavoratore significa lo spostamento di un’immensa mole di ricchezza nelle tasche dei padroni. Lo sviluppo intellettuale, l’adempimento di funzioni sociali, il tempo festivo sono per il capitale «fronzoli puri e semplici». Après moi le déluge! era per Marx - anche in considerazione della questione ecologica (da lui presa in considerazione come pochi altri autori del suo tempo) - il motto dei capitalisti, anche se poi, ipocritamente, si opponevano alla legislazione sulle fabbriche in nome della «piena libertà del lavoro». La riduzione dei tempi della giornata lavorativa, assieme all’aumento del valore della forza-lavoro, costituivano, dunque, il primo terreno sul quale andava combattuta la lotta di classe.
NEL 1862, Marx scelse il titolo per il suo libro: Il capitale. Credeva di poter dare subito inizio alla stesura in forma definitiva, ma alle già durissime vicissitudini finanziarie si aggiunsero i gravissimi problemi di salute. Comparve, infatti, quella che la moglie Jenny definì «la terribile malattia», contro la quale Marx avrebbe dovuto lottare per molti anni della sua vita. Fu affetto dal carbonchio, un’orrenda infezione che si manifestava con l’insorgenza, in più parti del corpo, di una serie di ascessi cutanei e di estese, debilitanti foruncolosi. A causa di una profonda ulcera, seguita alla comparsa di un grande favo, Marx fu operato e «rimase, per parecchio tempo, in pericolo di vita». La sua famiglia fu, più che mai, sull’orlo dell’abisso.
IL MORO (era questo il suo soprannome), però, si riprese e, fino al dicembre del 1865, realizzò la vera e propria stesura di quello che sarebbe diventato il suo magnum opus. Inoltre, a partire dall’autunno del 1864, partecipò assiduamente alle riunioni dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori, per la quale redasse, durante otto intensissimi anni, tutti i principali documenti politici. Studiare di giorno in biblioteca, per mettersi al passo con le nuove scoperte, e portare avanti il suo manoscritto nel corso della notte: fu questa la sfibrante routine alla quale si sottopose Marx fino all’esaurimento di ogni energia e allo sfinimento del suo corpo.
Anche se aveva ridotto il suo progetto iniziale di sei libri a tre volumi sul capitale, Marx non voleva abbandonare il proposito di pubblicarli tutti insieme. Scrisse, infatti, a Engels: «non posso decidermi a licenziare nulla prima che il tutto mi stia davanti. Quali che siano i difetti che possono avere, questo è il pregio dei miei libri: essi costituiscono un tutt’uno artistico, risultato raggiungibile soltanto grazie al mio sistema di non darli alle stampe prima che io li abbia interamente davanti a me».
Il dilemma di Marx - «ripulire una parte del manoscritto e consegnarla all’editore o finire di scrivere prima tutto completamente» - venne risolto dagli eventi. Marx fu colpito da un altro attacco di carbonchio, il più virulento di tutti, e fu in pericolo di vita. A Engels raccontò che ne era «andata della pelle»; i medici gli avevano detto che le cause della sua ricaduta erano stati l’eccesso di lavoro e le continue veglie notturne: «la malattia veniva dalla testa». A seguito di questi avvenimenti, Marx decise di concentrarsi sul solo Libro Primo, quello inerente il «Processo di produzione del capitale».
TUTTAVIA, I FAVI continuarono a tormentarlo e, per intere settimane, Marx non fu nemmeno in grado di stare seduto. Egli tentò persino di operarsi da solo. Si procurò un rasoio ben affilato e raccontò a Engels di essersi «estirpato lui stesso quella cosa dannata». Stavolta, il completamento dell’opera non venne procrastinato a causa «della teoria», ma per «ragioni fisiche e borghesi».
Quando, nell’aprile del 1867, il manoscritto venne finalmente ultimato, Marx chiese all’amico di Manchester - che l’aveva aiutato incessantemente per un ventennio - di inviargli il denaro per poter disimpegnare «il vestiario e l’orologio che si trovano al Monte dei pegni». Marx era sopravvissuto con il minimo indispensabile e senza quegli oggetti non poteva partire per la Germania, dove era atteso per la consegna del manoscritto da dare alle stampe.
Le correzioni delle bozze si protrassero per tutta l’estate e quando Engels fece notare a Marx che l’esposizione della forma del valore risultava troppo astratta e che «risentiva della persecuzione dei foruncoli», questi gli rispose: «spero che la borghesia si ricorderà dei miei favi fino al giorno della sua morte».
Il capitale venne messo in commercio l’11 settembre del 1867. Un secolo e mezzo dopo la sua pubblicazione, è annoverato tra i libri più tradotti, venduti e discussi della storia dell’umanità.
Per quanti vogliano comprendere cosa sia davvero il capitalismo, e anche perché i lavoratori debbano lottare per una «forma superiore di società, il cui principio fondamentale sia lo sviluppo pieno e libero di ogni individuo», Il capitale è, oggi più che mai, una lettura semplicemente imprescindibile.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. MARX, IL "LAVORO - IN GENERALE", E IL "RAPPORTO SOCIALE DI PRODUZIONE - IN GENERALE".
DELLO SPIRITO DI ALEXANDRE KOJÈVE (Mosca 1902 - Parigi 1968).
PORTARE LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO DI "DUE IO" AL DI LA’ DELLE MAGLIE DELLA DIALETTICA HEGELIANA.
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89). Un omaggio a Kurt H. Wolff e a Barrington Moore Jr.
Federico La Sala
CINEMA E STORIA. LO "STATO" SONNAMBOLICO DELL’ITALIA E LA CULTURA CHE SERVE PER UN CAMBIO DI SCENA.... E DI REGIA!!!
La corazzata Potëmkin, la rivolta e i «necrotweet» su Fantozzi
A cura di Wu Ming 1 *
Sera del 26/06/17, Piazza Maggiore, Bologna. Migliaia di persone - non meno di quattromila - applaudono in piedi La corazzata Potëmkin di Sergej Michajlovič Ėjzenštejn, film breve e dritto al punto, avvincente, popolare, bellissimo. Film girato novantadue anni fa.
La moltitudine ha appena seguito col cuore in gola la storia di un celebre ammutinamento avvenuto durante la rivoluzione russa del 1905, della solidarietà di un’intera città (Odessa) agli ammutinati, e della violentissima repressione che la popolazione subisce per mano dell’esercito zarista.
L’orchestra filarmonica del Teatro comunale di Bologna ha appena eseguito la partitura composta per il film da Edmund Meisel nel 1927 - una forza che staccava da terra sedie e culi - e ora si gode la lunga ovazione.
È stata la serata più intensa di quest’edizione, la trentunesima, del festival Il cinema ritrovato. Io ho portato qui mia figlia preadolescente, che si è emozionata, si è commossa, si è stretta a me durante le scene più violente, si è entusiasmata nel finale.
«FRATELLI!»
«Fratelli» è la parola chiave del film, appare all’inizio, scatena l’ammutinamento e annuncia il grande atto di solidarietà di classe nel finale.
La corazzata Potëmkin fu censurato in molti paesi per timore che scatenasse rivolte popolari e spingesse i soldati all’insubordinazione. Anche in URSS, al principio, non fu proiettato nei cinematografi ma soltanto nei circoli operai. Il poeta Majakóvskij minacciò fisicamente alcuni burocrati perché avesse una regolare distribuzione.
E il film si rivelò presto un grande successo.
Oggi è considerato una delle più grandi opere cinematografiche del Novecento, viene riproiettato di continuo in tutto il mondo, nel 2004-2005 lo hanno sonorizzato i Pet Shop Boys.
E in Italia?
Qui da noi, come ha scritto qualcuno, il film è stato «segnato da un destino davvero imprevedibile, che lo ha trasformato in qualcosa di diverso da quel che è.» Ma procediamo con ordine.
La corazzata Potëmkin è stato una grande sorpresa per la maggior parte dei presenti in piazza. Sui lati c’era chi all’inizio ridacchiava, qualcuno che mormorava la frase «cagata pazzesca» (sentito con le mie orecchie e più volte) e pensava di fermarsi pochi minuti, farsi un sogghigno e andare via, e invece è rimasto lì in piedi per oltre un’ora, magnetizzato, e magari ha pianto, di certo era tra chi ha partecipato alla lunghissima standing ovation, e magari era tra i volti fotografati da Lorenzo Burlando durante la proiezione.
Molti altri erano aficionados del festival o comunque si sono fidati della Cineteca, unica istituzione pubblica di Bologna non disprezzata dai più, anzi, oltremodo rispettata.
La Cineteca, appunto. Nei giorni precedenti, ha voluto fare una piccola e divertente campagna di “debunking”, con video e altri mezzi. Una troupe ha intervistato gente per le vie del centro, e molti erano convinti che il film durasse tre o quattro ore, se non di più. In realtà dura 70 minuti.
Bisogna sfondare il muro del pregiudizio. Non è vero che questo e altri film d’antan sono film per pochi, non è vero che «la gente non capisce». Se gli dài l’occasione di vederli, capisce eccome.
La differenza rispetto ad altri film d’antan è che La corazzata Potëmkin molti credono di sapere com’è anche senza averlo visto. Lo associano a qualcosa che credono di conoscere - cioè l’intento di Luciano Salce e Paolo Villaggio nella celeberrima scena de Il secondo tragico Fantozzi (1976) - e quell’associazione ha tenuto a distanza il film. La corazzata Potëmkin è divenuta, a torto marcio, emblema di lunghezza e pesantezza.
[Intermezzo. Alcuni «necrotweet» seguiti alla morte di Villaggio:
«Ci lascia l’unico che ha detto la verità sulla Corazzata Potemkin»;
«La corazzata Potëmkin è veramente una cagata pazzesca. Aveva ragione anche in quel caso»;
e fallo sapere anche lassù che la corazzata potemkin è una cagata pazzesca»;
«Oggi più che mai la corazzata potemkin è una cagata pazzesca!!!»
E altre centinaia di commenti così.]
Dice: - Villaggio è riuscito in quello che Dalí e Warhol avevano fallito con la Gioconda: non riuscire più a guardarla senza pensare al loro sberleffo.
Rispondo: - Non proprio. Qui è come se si sbeffeggiasse preventivamente la Gioconda senza averla mai vista.
Mi piace pensare che almeno quattromila persone, la sera del 26 giugno, vedendo il film, abbiano capito il vero significato della scena della rivolta al cineforum.
Sì, perché solo vedendo La corazzata Potëmkin si capisce che il bersaglio di Salce e Villaggio non erano banalmente le cose «pesanti» e «difficili», non erano gli «intellettuali», ma il potere - rappresentato dalla Megaditta che tutto controlla - che ingloba e svuota la cultura, anche la cultura della rivolta.
Qui è necessaria un’avvertenza: qualunque cosa abbia dichiarato nei decenni successivi (e ha detto ogni cosa e il suo contrario, anche su La corazzata Potemkin), ricordiamo sempre che all’epoca dei primi due Fantozzi Villaggio era all’estrema sinistra. Ancora undici anni dopo si candidò alle elezioni politiche con Democrazia Proletaria.
A forza di dire che la famosa scena prende in giro la cultura dei cineforum di sinistra, i tic degli «intellettuali di sinistra» eccetera, ci si è dimenticati che quello rappresentato nel film non è un cineforum di sinistra: è il cineforum della Megaditta, rivolto non a compagni ma a colletti bianchi “apolitici”. Guidobaldo Maria Riccardelli non è un compagno né un intellettuale di sinistra: è un uomo dell’azienda, del capitale.
L’unico marxista che appare nel mondo di Fantozzi è Folagra, che guardacaso non partecipa al cineforum aziendale ed è relegato in un sottoscala.
Folagra.
[Chissà quanti, oggi, capiscono che Folagra è l’unico personaggio positivo della saga. Proprio nelle intenzioni, non «ex post». È l’unico che dice a Fantozzi qualcosa di vero sulla sua condizione.
Tuco: - Oggi (quasi) tutti considerano un personaggio positivo Calboni, e vorrebbero essere come lui.
WM: - In fondo berlusconismo e renzismo sono minime varianti ideologiche di questo «voler essere Calboni».
IAmOst: - È il collega d’ufficio che nessuno vorrebbe avere, ma che tutti vorrebbero essere. Forse il più “italiano” di tutti.]
La corazzata Potëmkin - nel film di Salce parodiato in «Kotjomkin» - narra una rivolta, ma la rivolta è addomesticata, disinnescata, la cornice del cineforum aziendale e la modalità di fruizione la sviliscono, e la visione stessa è sminuzzata, non c’è più l’insieme, solo dettagli: «L’occhio della madre... La carrozzella...» E così sono gli impiegati a rivoltarsi, e poiché Salce e Villaggio sanno il fatto loro, la rivolta contro il film ripete quella nel film.
L’episodio del cineforum è un sottile remake del film di Ėjzenštejn, un’allegoria “a chiave” che ne ripercorre tutti e cinque gli atti:
il cineforum è la corazzata;
Fantozzi è il marinario Vakulenčuk che per primo grida la verità su quel che sta accadendo;
gli spettatori sono i marinai insorti;
l’odioso Riccardelli è gli ufficiali spodestati;
la sala occupata è Odessa;
la polizia che «s’incazza davvero» ha il ruolo dei cosacchi che reprimono.
Il finale, però, è molto diverso: gli insorti non hanno scampo e sono condannati a mettere in scena e subire ad nauseam la repressione zarista/aziendale.
Il fatto che in quest’allegoria il ruolo della carne marcia imposta ai marinai ce l’abbia - in una vertiginosa mise en abyme! - il film dove si narra la rivolta che gli impiegati ripetono rende l’intero episodio complessissimo.
Siamo di fronte a una parodia colta e, al fondo, per nulla anti-intellettuale.
Chi non ha mai visto il film di Ėjzenštejn non può rendersene conto.
Molti spettatori del 1976 lo avevano visto.
L’episodio, per il pubblico di allora, aveva una carica critica ad alto voltaggio, che però col tempo si è esaurita. Non poteva che esaurirsi: il contesto che rendeva l’episodio comprensibile in tutti i suoi aspetti e livelli - l’Italia degli anni Settanta, dei movimenti radicali, delle grandi lotte operaie -, quel contesto non c’è più.
E cosa rimane di quella critica, oggi, nell’interpretazione corrente di quella scena?
Pressoché nulla.
La scena, tolta dal suo contesto, rivista e ri-rivista da sola come frammento, citata e stracitata come semplice gag, col tempo ha cambiato significato: oggi è evocata per rigettare la cultura stessa e tutto ciò che è «difficile», in nome del parla-come-magni (detto quasi sempre da gente che mangia malissimo) e del solito «E fattela ‘na risata!»
Come abbiamo scritto in tempi non sospetti:
L’eterna ripetizione della gag ha diffuso l’idea che La corazzata Potëmkin duri molte ore e altri miti che il film manda in frantumi, se solo si supera il pregiudizio e lo si guarda. Ma il pregiudizio c’è, inutile negarlo. Un danno culturale c’è stato. Sì, danno culturale. L’arma della critica è stata girata e puntata contro la critica stessa, allo stesso modo in cui Riccardelli, gerarchetto della Megaditta, aveva girato e puntato il cinema di Ėjzenštejn contro i suoi sottoposti.
Qualcuno ci ha attaccati per aver fatto queste riflessioni sul film, la sua parodia e le diverse ricezioni di quest’ultima il giorno stesso della morte di Villaggio - VERGOGNA!!1!! - come se si trattasse tout court di un attacco al caro estinto.
Quel caro estinto, da molto tempo non lo stimavamo più. Eppure questa riflessione è l’omaggio più serio che potessimo dedicargli. Nondimeno...
«...VERGOGNA!!1!!»
Non è solo pavlovismo da «necrotweet day». C’è qualcosa di più profondo, che verrà capito meglio in futuro, da antropologi e storici delle mentalità che con ogni probabilità non sono ancora nati.
Oggi l’obbligo contro cui ribellarsi non è quello di guardare La corazzata Kotjomkin. Semmai, al contrario, è quello di non prendere mai nulla sul serio. Il «farsi una risata» come risposta a tutto, l’essere sempre ironici per non mostrarsi mai troppo coinvolti in nulla, perché coinvolti equivale a vulnerabili, e dunque ironia sempre, cinismo e disincanto, non devi dare mai l’impressione di credere fino in fondo a quel che dici. Soprattutto, fai vedere che ti stanno sul cazzo gli «intellettuali». Risulta molto più facile se adotti l’espediente di chiamare «intellettuali» tutti quelli che ti fanno sentire vulnerabile. Chiama «pippone» qualunque cosa scrivano o dicano.
In un simile clima culturale - che ci auguriamo venga spazzato via al più presto da un’immane tormenta - un film come quello di Ėjzenštejn, che mostra la fratellanza nella rivolta e a volte fa sarcasmo sul potere ma mai ironia sulla rivolta stessa, deve per forza essere considerato una «cagata pazzesca». Vige l’obbligo di conformarsi alla lettura più decontestualizzata e banale dell’episodio fantozziano.
È contro quest’obbligo che dobbiamo ribellarci, proprio come Fantozzi si ribellò al cineforum aziendale.
E gli applausi di Piazza Maggiore non saranno durati 92 minuti, ma bastano a convincerci che siamo nel giusto. «Братья!»
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* Questo post è la sintesi di una lunga discussione avvenuta su Twitter il 4 luglio 2017, e incorpora riflessioni di diverse persone. Grazie a tutte e tutti, anche a chi, senza pensarci un momento, è partito subito con gli insulti. La stolidità altrui ci spinge a fare meglio, a sforzarci di essere più chiari.
Fonte: http://www.wumingfoundation.com/giap/2017/07/potemkin/#more-29691 (ripresa parziale).
Adam Smith sbagliava perché le reti sociali precedono l’economia
Siamo figli del dono e non del baratto
di Adriano Favole (Corriere della Sera, La Lettura, 18.06.2017, p. 9)
Il dono assomiglia a uno di quei corpi celesti che in teoria dovrebbero esistere, di cui si danno cioè segni di presenza, ma che risulta impossibile vedere con certezza. Guy Nicolas (Alfredo Salsano, Il dono perduto e ritrovato, Manifestolibri, 1994) lo definiva la faccia nascosta della modernità: se la ricerca dell’interesse, il calcolo, il profitto, insomma l’economia di mercato ha un carattere evidente, lineare e misurabile, il dono - che pur sorregge e struttura le relazioni sociali - è quanto mai sfuggente. Non poche narrazioni oggi riportano a galla le economie del dono, ma per intendere che cosa?
Il dono è il gesto disinteressato e generoso, l’anonimo che contribuisce a una campagna di raccolta fondi per i poveri oppure è quel principio di reciprocità mosso dalla triplice legge del dare-ricevere-ricambiare come diceva Marcel Mauss (Saggio sul dono, Einaudi, 2002) che non esclude in realtà il perseguimento dell’interesse e l’ostentazione del dare? Uno scambio di oggetti, servizi, favori è dono e non mercato quando manca la garanzia della restituzione o, meglio, quando essa è affidata al legame sociale e non a un contratto; è dono quando non c’è una misurazione oggettiva del valore. Il dono in questo caso è reciprocità ma tutto ciò ha ben poco a che fare con il dono «puro» e disinteressato.
Diversi libri pubblicati di recente provano a svelare il pianeta nascosto del dono, in una contemporaneità dominata dal paradigma economicista. Cosimo Marco Mazzoni per esempio considera il dono ambivalente, oscuro, contradditorio e lo definisce un «dramma» (Il dono è il dramma, Bompiani 2016). La gratuità in effetti induce sospetto: «Se è gratis c’è l’inganno», pensiamo; essa nasconde spesso dinamiche di potere per cui il donare apparentemente liberale schiaccia chi lo riceve. La beneficenza è un prodotto di società della diseguaglianza, in cui prima si accumula la ricchezza in poche mani che in seguito si presentano come generose (Jean Starobinski, A piene mani, Einaudi, 1995).
Abitante straniero di un continente dominato dal mercato, il dono presenta molti lati oscuri. Mazzoni però contribuisce a spiegarne la forza e la persistenza nella modernità: il dono consente riconoscimento e ri-conoscenza (reciproca). Soprattutto nella figura maussiana del dare, ricevere, ricambiare, donatori e riceventi si riconoscono a vicenda, ribadiscono attraverso la circolazione degli oggetti la loro «presenza» sulla scienza sociale. Il dono, in questo senso - ed è un vecchio tema dell’antropologia economica - fonda la persona relazionale.
Anche il libro di Matteo Aria I doni di Mauss (Cisu, 2016), che ricostruisce puntualmente i dibattiti che hanno accompagnato il dono all’interno della storia dell’antropologia culturale, ne mostra ambiguità e contraddizioni. Fin dal Saggio di Mauss, il dono oscilla tra interesse e gratuità, tra reciprocità e assenza di restituzione. I critici del dono lo vedono come un «camuffamento» della logica di mercato, come una testa d’ariete di un tardo capitalismo edulcorato e travestito. Donando, gli esseri umani perseguirebbero i propri interessi con altre modalità. Gli entusiasti del dono, riuniti nel movimento che porta l’acronimo M.A.U.S.S. ( Mouvement anti-utilitariste dans les sciences sociales) vi vedono invece l’ultima forma di resistenza contro la diffusione della specie invasiva dell’ homo oeconomicus, fattosi macchina calcolatrice e distruttrice di ambienti e relazioni sociali. Un tesoro nascosto fatto di volontariato, collaborazione informale, rapporti inter-generazionali che regge la vita delle società post-welfare state, dove è grazie ai rapporti di reciprocità che si supplisce al venir meno dello Stato madre che si prende(va) cura dei figli.
Per diradare le nebbie, Aria distingue il dono dalla «condivisione», nozione più adatta a esprimere quelle situazioni caratterizzate dallo «stare» e dal «fare» insieme, anche a prescindere dallo scambio. Si delineano così quattro diverse logiche dell’agire economico: la condivisione, la reciprocità (o dono), lo scambio-mercato e la redistribuzione garantita dallo Stato o comunque da un centro politico.
Un modo di avvicinarsi al pianeta del dono può consistere nel ritornare agli originali lidi oceaniani che ispirarono Mauss. Serge Tcherkézoff, antropologo francese, tra i più importanti esperti europei di Oceania, ha di recente pubblicato Mauss à Samoa (Pacific-Credo, 2016). I samoani, anche oggi, si scambiano cibo, stoffe di corteccia e soprattutto finissime stuoie ottenute intrecciando foglie di pandano, soprattutto nel corso dei riti di passaggio (nascita, primo tatuaggio, matrimonio, accesso al ruolo di «capo villaggio», funerale). Il termine samoano più vicino all’idea di «dono» è sau. A Samoa, ci dice Tcherkézoff, sau significa «la felicità del donare e la capacità di creare la vita». Come sintetizzò un capo di alto rango a Tcherkézoff all’inizio degli anni Ottanta: «La nozione di sau è legata alla persona. Noi diciamo il sau della vita. Vuol dire: il tuo arrivo, il tuo essere qui è il sau della mia vita», per questo all’arrivo di qualcuno o di uno straniero gli si fa un dono.
Nella cultura samoana i doni, soprattutto le stuoie, simboleggiano la capacità dell’essere umano di «nutrire», avvolgere e dare la vita. L’economia dei doni esprime la dimensione relazionale dell’essere umano, la centralità del legame sociale che va anche oltre la dimensione dell’esistente, perché unisce i viventi con gli antenati e con coloro che stanno per nascere.
Si potrebbe dire che se i soldi non si portano nella tomba, i doni tutto sommato sì! E così oggi, la diaspora samoana verso la Nuova Zelanda, il Regno Unito e la costa pacifica degli Usa, si accompagna alla diffusione delle stuoie di pandano che simboleggiano la profondità genealogica dei gruppi e la rete orizzontale che lega tra loro le famiglie samoane.
Fin qui antropologi, giuristi, sociologi: ma che ne pensano gli economisti del dono? Quale spazio gli riservano nei loro studi? Nel recente Economics as social science (Routledge, 2016), Roberto Marchionatti e Mario Cedrini ribaltano la tesi di Adam Smith: «La scoperta di Mauss - scrivono - è la mano invisibile dello scambio dono, vale a dire la fondazione socio-politica delle società, da cui dipende la loro dimensione economica (e razionale)».
L’errore di Adam Smith, replicato all’infinito dai suoi discendenti, è stato quello di porre all’origine delle economie umane il baratto, concepito come una forma arcaica di logica di mercato che dimostrerebbe l’universale (e immutabile) natura umana, ovvero il perseguimento dell’utile e dell’interesse individuale.
In realtà, come già ha chiaramente argomentato David Graeber (Il debito, Il Saggiatore, 2011), all’origine furono il dono e il debito, non il baratto. L’economia è incastonata nelle reti sociali e non viceversa. Uscire dall’imperialismo della scienza economica che da tempo si è chiusa in un’isola separata dalle altre scienze sociali, significa insomma mettere al centro nozioni come quelle di dono, condivisione e redistribuzione, la cui complessità rende ragione di un essere che «ancora non è diventato una macchina calcolatrice», come scriveva Mauss.
Le spine di C17
di Franco Berardi Bifo (alfapiù, 21 gennaio 2017)
In singolare e spiritosa coincidenza con l’inizio della prima presidenza del Ku Klux Klan, comincia oggi a Roma una conferenza dal titolo C17. Si svolge in parte al centro sociale ESC, dove parlerà una folta schiera di pensatori contemporanei, da Saskia Sassen a Silvia Federici a Christian Marazzi e tanti altri. E in parte si svolge alla Galleria d’arte moderna dove ci saranno performance di vario genere, a cominciare con Franco Piperno che ci insegna come leggere il cielo e ci racconta come si è letto il cielo nel corso dei secoli e dei millenni. Guardare il cielo in modo consapevole e immaginativo è il modo migliore di cominciare, perché così il tema del comunismo si ripresenta nella sua cornice più vasta, quella che contiene la sensibilità, l’immaginazione e il desiderio (che d’altra parte è parola che scende etimologicamente dalle stelle).
La questione del comunismo ritorna?
Il comunismo del ventesimo secolo è morto, questo è fuori discussione.
La tragedia del secolo passato ha avuto tre attori protagonisti: il comunismo il fascismo e la democrazia. Il fascismo apparve sconfitto, morto e sepolto dopo la fine della seconda guerra mondiale. Poi venne l’epoca della guerra fredda: i due attori sopravvissuti si contesero l’egemonia sul mondo fino al collasso finale del comunismo sovietico e al trionfo della democrazia.
Il comunismo apparve allora definitivamente liquidato, irreversibilmente condannato perché la democrazia prometteva di rispondere alle domande cui il comunismo sovietico non aveva dato risposta: benessere, pace, allegria.
Il decennio novanta cominciò però subito con una spiacevole sorpresa. Invece della pace promessa la democrazia americana lanciò la guerra nel Golfo.
E nel secolo nuovo anche la promessa di benessere economica è andata svanendo, così che la miseria si è diffusa insieme alla rabbia e all’impotenza.
Molti hanno allora cominciato a pensare che la democrazia non può convivere a lungo con il capitalismo senza diventare un’odiosa ipocrisia.
L’odio per l’ipocrisia democratica ha allora riportato il fascismo sulla scena.
E poiché le sorprese non finiscono mai, in pochi anni partiti razzisti, autoritari quando non apertamente fascisti si sono impadroniti del potere in gran parte del mondo.
Hitler ritorna? Se ritorna è moltiplicato per dodici e per di più ha la bomba nucleare. E poiché la democrazia si è rivelata un’illusione, una maschera dietro cui si nasconde la violenza economica del capitalismo finanziario globale, dobbiamo riconoscere che il comunismo è urgente.
L’urgenza la sentono molti, forse la maggioranza della società, ma molto pochi chiamano quest’urgenza con il suo vero nome: comunismo.
La sofferenza si diffonde, ma pochi sanno che la cura non è farmacologica, perché la cura si chiama comunismo.
Artisti attivisti e pensatori si sono quindi dati appuntamento a Roma, e sarebbe bello se riuscissero a trovare parole, gesti e forme capaci di nominare questa urgenza.
Ci riusciranno?
Io sono andato a leggermi alcuni documenti che introducono questa conferenza e particolarmente le pagine che sono uscite sul Manifesto una settimana fa, una intervista di Benedetto Vecchi con Sandro Mezzadra e una di Francesco Raparelli con Toni Negri.
Confesso che entrambe queste interviste mi hanno molto deluso, come chi fosse invitato ad un pranzo succulento e si trovasse a dover sorbire un’insipida minestrina da ospedale.
Negri ci ha ripetuto negli ultimi anni che la moltitudine si oppone all’impero. Ma la moltitudine oggi si esprime votando per i peggiori nazionalisti o respingendo i profughi che fuggono dalla guerra e dalla fame, e costruendo campi di concentramento lungo le coste del Mediterraneo.
Ora, in questa intervista sul Manifesto dice che occorre trasformare la sofferenza del bisogno in un noi desiderante, e siamo tutti d’accordo naturalmente. Ma questa frase, che è il centro del suo ragionamento, è un’ovvietà poco interessante, perché vorremmo sapere come questo passaggio dalla miseria psichica e sociale dell’oggi può trasformarsi in solidarietà felice.
Mezzadra ripete alcune cose che abbiamo sentito mille volte negli ultimi anni ma sembra dimenticarsi che nel frattempo, proprio in questo ultimo anno, in questo maledetto anno dell’apocalisse 2016, tutte la parole degli ultimi decenni sono diventate vecchie perché il razzismo si è impadronito del governo del mondo.
Negri e Mezzadra (e tutti i documenti che introducono questo appuntamento C17) dimenticano di pronunciare il nome dell’uomo del Ku Klux Klan che proprio in questi giorni si insedia al governo del mondo.
La rimozione non ci sarà di nessun aiuto, eppure è sotto il segno della rimozione che questo appuntamento comincia.
La sintesi di queste interviste sembra essere in un titolo scelto dal Manifesto: I movimenti saranno una spina nel fianco del potere.
Ma questa sintesi è sconsolante. La spina? Il fianco? Ma di che stiamo parlando?
I movimenti sono scomparsi e non ritorneranno, perché sono stanchi di essere una spina in un fianco tanto pingue che della spina neppure se ne accorge.
Speriamo che questi giorni di discussioni e di sperimentazioni ci permettano di intravvedere un orizzonte un po’ più originale ed efficace di questo.
NOTA:
LE SPINE DEL "C17" 0 DEL "C22"?! CHI SIAMO NOI IN REALTA’?!
CONCORDO PIENAMENTE CON L’INTERVENTO DI BIFO ...
A PRIMO MORONI, IN MEMORIA. E ALLA SUA LIBRERIA "CALUSCA", IN UNA BREVE "LETTERA", nel marzo del 2000, così scrivevo:
=[...] "Caro Primo, su questa strada, mi sembra, è la via d’uscita (sul tema, cfr. Michael Walzer, Esodo e rivoluzione, Milano, Feltrinelli, 1986) dall’Egitto capitalistico e la ‘chiave’, consegnataci dal Dio dei nostri padri e delle nostre madri, per entrare nella Terra... promessa e abitarla in spirito di pace, giustizia, e amicizia. Il comunismo è la cosa semplice, più difficile a farsi.
Dar vita a quello che Tu, nella piccola terra-libreria - lo specchio della tua identità e della tua libertà, il grande spazio aperto e accogliente della Calusca prima e della Calusca City Lights dopo, superando difficoltà e mai perdendo il coraggio e la lucidità, hai saputo far accadere, e mostrarne la possibilità: esseri umani che si incontrano nella libertà, nel rispetto reciproco, e, amichevolmente, fanno Uno (la Relazione Chiasmatica) e questo Uno illumina, spezza le catene e apre i recinti, trasforma le relazioni (a riguardo, ricordo la ‘magica’ giornata - una per tutte, simbolicamente - in cui, in [via] Conchetta, si presentò e si discusse il lavoro di Giorgio Antonucci, Critica al giudizio psichiatrico, Roma, Edizioni Sensibili alle foglie, 1993), e realizza un nuovo rapporto sociale di produzione (di esseri umani, di idee, e di cose), apre a una nuova, chiasmatica, prassi e a una nuova misura di tutti gli affari umani.
Nonostante gli inevitabili errori e inciampi, molti sono stati i LUMHI (Libera Università di Milano e del suo HInterland “Franco Fortini”), i nuclei di microutopie (cfr. Sergio Bologna, Due parole tanto per..., in AA. VV., Lezioni sul revisionismo storico, Cox 18 Books, Calusca City Lights, Milano 1999), da te accesi e disseminati per le strade (del mondo e) della Milano che fa male [...]
Forse è bene riprenderla e rileggerla, questa Lettera. Il suo titolo è proprio sul tema "Chi siamo noi in realtà. Relazioni chiasmatiche e civiltà" (cfr. http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=3920). E, fondamentalmente, non lo sappiamo ancora!
Federico La Sala
Pietro Bianchi
Quest’anno se ne festeggiano 100 anni, eppure non è la prima volta che viene celebrato un anniversario del cosiddetto “Ottobre” - cioè la ricorrenza che ricorda la conquista del Palazzo d’Inverno con cui i Bolscevichi presero il potere in Russia la notte tra il 7 e l’8 Novembre 1917 (il 25/26 Ottobre del calendario giuliano allora in uso) e instaurarono il primo potere comunista della storia. La prima celebrazione, e probabilmente quella che ancor’oggi si può considerare come la più famosa, avvenne già tre anni dopo, nel 1920. Lo stato sovietico volle allora celebrare in grande stile l’evento inaugurale di una nuova epoca della Storia e allestì di fronte al vero Palazzo d’Inverno uno dei più grandi happening teatrali di massa che siano mai stati fatti. 125 ballerini, 100 circensi, 1750 comparse, 260 attori secondari e 150 assistenti - oltre a tank, blindati e al celebre incrociatore Aurora - “ricrearono” a soli tre anni di distanza l’evento culmine della rivoluzione sovietica di fronte a 100mila persone in delirio. Non è difficile immaginare l’entusiasmo e la confusione che poteva creare una “rappresentazione” a cui presero parte gran parte molti dei protagonisti che nel “vero” ‘17 erano effettivamente fuori dal Palazzo d’Inverno con i fucili.
Che il confine tra realtà e finzione non fu così chiaro lo dice anche un dettaglio targicomico: si dice che morirono più persone per il re-enactment del 1920 di quante non ne morirono effettivamente nell’evento rivoluzionario del 1917 (dato che in realtà il governo provvisorio di Kerenskij abbandonò il palazzo senza quasi sparare un colpo). Ancora oggi molti libri di storia riportano la foto della rappresentazione del ‘20 come la foto autentica che documenta l’evento dell’Ottobre. Insomma, è come se la presa del Palazzo d’Inverno fosse nata già subito come un rappresentazione. Il ‘17 ha avuto già da subito l’aspetto di un fantasma.
È forse per quello che la storia di 100 anni di comunismo è stata costellata da così tanti fantasmi: già dal “fantasma che si aggira per l’Europa” con cui si apre il Manifesto del Partito Comunista di Marx e Engles, al ruolo cruciale che ebbero le “ombre cinematografiche” - come ricordava Chris Marker - nell’esperienza sovietica, fino agli “spettri” di Marx di cui scrisse Derrida nel 1993. Ma furono anche spettrali per tantissimi aspetti anche i regimi del socialismo burocratico, i processi-farsa staliniani degli anni Quaranta così come diventarono letteralmente degli spettri le migliaia di oppositori politici cancellati fisicamente e simbolicamente dalla storia sovietica. È allora particolarmente appropriato che anche oggi, a distanza di 100 anni, si celebrino i 100 dell’Ottobre con un manifesto dove un piccolo fantasma che abbraccia falce e martello vola in avanti verso il futuro.
Communism17, che si è conclusa ieri mattina a Roma dopo 5 intensissimi giorni di dibattiti, mostre, conferenze, workshop, installazioni e performance, ha richiamato a Roma migliaia di persone tra la Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Esc Atelier (una delle più straordinarie esperienze autogestite di produzione culturale e politica attualmente in circolazione in Italia) e ha provato a ragionare e a rilanciare la più inattuale delle parole politiche oggi in circolazione.
Alcuni forse si stupirebbero di vedere ricercatori e attivisti di mezza Europa e non solo venire appositamente a Roma a discutere con pensatori come Saskia Sassen, Sandro Mezzadra, Étienne Balibar, Bruno Bosteels, Luciana Castellina, Jodi Dean, Peter Thomas, Bifo, Michael Hardt, Augusto Illuminati, Christian Marazzi, Morgane Merteuil, Antonio Negri, Maria Luisa Boccia, Alexei Penzin, Jacques Rancière, Enzo Traverso, Riccardo Bellofiore, Mario Tronti, Paolo Virno, Slavoj Žižek e molti altri: ma il primo paradosso di questa iniziativa è stato proprio questo.
La parola comunismo ben lungi dal richiamare un piccolo gruppo carbonaro di nostalgici, è stata invece in grado in queste giornate romane di radunare un’enorme comunità la cui diversità non risiedeva solo nella lingua, ma anche e soprattutto nei propri riferimenti culturali e d’immaginario. Il comunismo del 2017 non dimostra soltanto di essere tutt’altro che marginale, ma di essere tanto ampio da abbracciare un’enorme pluralità e un enorme spettro di differenze. Nel bene e nel male.
In questi giorni romani infatti, la parola comunismo più che farsi forte di alcune precise esperienze storiche è stato declinato soprattutto nella sua capacità di parlare al presente. L’ha ricordato Jacques Rancière per il quale “comunismo” vuol dire letteralmente creare uno spazio “comune”, e dunque scontrarsi con quelli che sono i sistemi di disciplinamento che assegnano modi e titolarità di appartenenza. La politica sarà allora in questo senso soprattutto estetica perché dovrebbe essere capace di creare delle nuove modalità di sentire, di vedere, di percepire il mondo che ci sta attorno. Le lotte che hanno costellato gli ultimi due secoli di storia, così come alcune invenzioni artistiche, letterarie o cinematografiche sono state capaci secondo Rancière di creare un nuovo “comune” tramite un diverso regime della sensibilità (ed è in questo senso che accanto a Communism 17 è stata organizzata una mostra chiamata Sensibile Comune. Le opere vive che ha sviluppato una riflessione su questo “comunismo del sensibile”).
Tuttavia il rivoluzionamento dei modi del nostro stare al mondo non passa solo attraverso la sensibilità e l’estetica, ma anche il lavoro, e la produzione e riproduzione sociale. Passa attraverso la complessa sedimentazione dei corpi intermedi della società (Peter Thomas), così come lo Stato (Bosteels, Mezzadra) e la produzione del corpo (Merteuil). È allora davvero possibile richiamarsi a una parola così ingombrante e così pregna di storia per leggere i conflitti della politica contemporanea? Molti interventi hanno riconosciuto una cosa: che nonostante spesso l’ideologia contemporanea si continui a compiacere della fine delle ideologie del Novecento (e di solito la patente di “ideologia” viene concessa solo a chi ha messo in discussione gli attuali rapporti sociali) il discorso dell’inattualità del comunismo andrebbe innanzitutto rovesciato: perché è soprattutto la parola capitalismo che in questi anni si è trovata drammaticamente in crisi. Non soltanto per una devastante crisi economica che ha peggiorato le condizioni dei lavoratori di mezzo mondo con un meccanismo di ripartizione della ricchezza che è sempre più diseguale; ma anche e soprattutto perché sembra che il capitalismo - che si è sempre fatto forte di una capacità camaleontica di continua trasformazione di se stesso - si sia negli ultimi anni inceppato: non è più in grado di generare investimenti e innovazione tecnologica se non attraverso bolle speculative e finanziarie sempre più squilibrate. Nel contempo - come ha ricordato Bifo nel suo intervento - l’esperienza di 8 anni di amministrazione Obama (ma la stessa cosa la si potrebbe dire di Hollande, Renzi etc.) mostrano sempre di più come il fronte social-democratico e quello cristiano-democratico o conservatore stiano sempre più convergendo verso una medesima gestione dell’attuale fase di austerity.
Ed è infatti particolarmente significativo che tutte queste riflessioni siano avvenute proprio mentre Trump si stava insediando alla Casa Bianca (con le oceaniche manifestazione di protesta che subito si sono riversate nelle strade delle maggiori città americane), così come in questi stessi mesi l’implosione dell’area euro, così come Erdoğan in Turchia, Modi in India, Orbán in Ungheria, al-Sisi in Egitto stanno creando delle condizioni per una sempre più preoccupante fascistizzazione dell’attuale fase politica globale (che vede nell’ascesa dei nazionalismi europei una delle sue forme più preoccupanti).
È di fronte a questa falsa alternativa tra un capitalismo in crisi e una risposta di tipo neo-sovranista e neo-nazionale che una nuova pratica comunista sembra trovare la sua più convincente espressione d’attualità. Cioè, come ha ricordato Sandro Mezzadra in una degli interventi più convincenti dell’evento, con la consapevolezza che di fronte a delle contraddizioni tanto epocali e tanti profonde non sia più possibile una risposta di tipo difensiva, ma che ci si debba porre la questione della trasformazione radicale dell’esistente.
Tuttavia i nodi da sciogliere sono tanti. Su tutti, il rapporto con il potere, con lo Stato, e con un capitale che ha moltissimi livelli di intermediazioni globali e che mette sempre più in difficoltà la capacità di risposta del sindacato (i cui successi, in alcuni paesi come gli Stati Uniti, sono comunque in ascesa, come ha ricordato Jodi Dean).
Communism 17 non ha voluto certo dare delle risposte in questo senso, ma soprattutto porre delle domande: in particolare su che cosa voglia dire un “partito” all’altezza del capitalismo del XXI secolo consci dei limiti che questa forma politica ha avuto nel Novecento. Come ha detto in altra sede Guido Mazzoni, la contraddizione dell’esperienza rivoluzionaria russa si è avuta quando la democrazia consigliare dei soviet si è dovuta confrontare con la sua capacità di innestarsi nella complessità e nell’ampiezza del territorio russo, quando cioè si è passati dai consigli di fabbrica alla collettivizzazione dell’agricoltura. È ancora oggi una delle contraddizioni più evidenti del contemporaneo, e lo si vede a partire dai dati impressionanti che vedono la classe operaia delle provincie sempre più vicina alle posizioni delle destre nazionalistiche. Se il fantasma del comunismo sarà capace di aggirarsi anche per le provincie del pianeta, è la grande scommessa per una politica che voglia porsi l’obiettivo della trasformazione dell’esistente.
Karl Marx, il risveglio del giornalista
di Fabrizio Denunzio (il manifesto, 05 Febbraio 2016)
Qualunque soggetto volesse tornare a mettere piede sul campo delicatissimo e strategicamente determinante dell’organizzazione politica delle masse, lo dovrebbe fare tenendo sempre presente le indicazioni fornite da Gramsci in quella nota del primo quaderno del carcere dedicata a Hegel e l’associazionismo. Ciò che si trova di operativo in queste annotazioni si riferisce non tanto a Hegel ma, naturalmente a Marx: «Marx non poteva avere esperienze storiche superiori a quelle di Hegel (almeno molto superiori), ma aveva il senso delle masse, per la sua attività giornalistica e agitatoria. Il concetto di Marx dell’organizzazione rimane impigliato tra questi elementi: organizzazione di mestiere, clubs giacobini, cospirazioni segrete di piccoli gruppi, organizzazione giornalistica».
Sebbene limitate dalle condizioni storiche del tempo, teoria e prassi dell’organizzazione di Marx vengono riportate da Gramsci al medium egemone dell’Ottocento: il giornale. Tradotta e operativizzata nel linguaggio di una qualunque media theory, questa geniale osservazione non vuol dire altro che Marx, lavorando come giornalista, faceva esperienza delle masse nella forma di quella del pubblico di lettori e che riversava, tra gli altri, il modello organizzativo dell’industria culturale giornalistica su quello dell’organizzazione operaia. Tornare a mettere piede sul terreno organizzativo significa, allora, riflettere sul modo in cui i media strutturano i pubblici e li fidelizzano e su come, debitamente riutilizzato, questo stesso modo può rilanciare le forme politiche dell’associazionismo collettivo.
Una febbrile attività
L’abbrivio sembra essere proprio l’esperienza giornalistica di Marx. Se oggi possiamo e dobbiamo tornare a rifletterci non è solo in funzione della riflessione abbozzata velocemente su di essa da Lukács nel suo Il giovane Marx (da poco ripubblicato da Orthotes), ma è soprattutto grazie a Dal nostro corrispondente a Londra. Karl Marx giornalista per la New York Daily Tribune (traduzione e cura di G. Vintaloro, Corpo60, ebook, euro 6,99). Il testo riunisce una serie di articoli scelti tra tutti quelli che Marx scrisse come corrispondente da Londra per la testata newyorkese dal 1852 al 1861. Anni sicuramente non facili. Arrivato nella capitale inglese nell’agosto del 1849 dopo essere stato espulso dalla Francia, il filosofo e la sua famiglia, al pari di quelle operaie inglesi, soffrono fame, miseria e morte.
La spia prussiana che riesce a farsi ricevere in questo periodo nella loro casa di Soho rimane colpita dalla sporcizia e dalla fatiscenza del mobilio, più in genere, dalla completa assenza di ogni comodità. Sebbene nell’arco di questo drammatico decennio Marx riesca a trovare il tempo per recarsi alla biblioteca del British Museum - una serie di ricerche che culmineranno nella «febbrile» stesura dei Grundrisse tra il 1857 e il 1858 - il lavoro giornalistico resta il principale impegno, l’unica fonte di mantenimento.
Dal nostro corrispondente a Londra, torna a raccogliere le «prove» di questa attività. Il libro lo si compra e scarica on-line nei formati epub o mobi; se ne arricchisce la lettura cliccando sulle parole «linkate»; permette di collegarsi alle versioni originali degli articoli. È come se i «vecchi» contenuti rivoluzionari del Marx giornalista non potessero trovare miglior riconfigurazione se non implementati in supporti e forme di lettura «nuovi» completamente rivoluzionati dalla tecnologia digitale. Il che ha un suo senso.
A ben guardare, però, quando si tratta di media, in questo caso stampa ottocentesca ed ebook del nuovo millennio, la distanza temporale non sembra misurabile più di tanto in secoli. Nello stesso modo in cui il formato digitale dei libri porta in primo piano la modalità di appropriazione della conoscenza, sarebbe a dire la capacità di lettura incorporata nel lettore, così, col giornalismo, Marx si trova a dover fare i conti con la soggettività culturale del pubblico dei lettori della New York Daily Tribune.
Questioni di stile ed egemonia
Scrivendo articoli per il giornale deve, cioè, implicare nel momento produttivo della scrittura anche quello ricettivo del consumo. Si riferiva a questo Gramsci quando parlava del senso delle masse acquisto da Marx durante la sua attività giornalistica: rivolgersi a un pubblico comporta tanto catturarne l’attenzione quanto riprodurne il consenso dato alla lettura. Se la prima è una questione di stile, il secondo è un problema di egemonia. Se la prima è deputata a «incantare» il lettore, la seconda ha come compito quello di fidelizzarlo. In questo senso, riutilizzare politicamente la strutturazione in pubblico delle masse ai fini dell’associazionismo collettivo, vuol dire fondare il momento organizzativo sulla «narrazione» piuttosto che sulla propaganda.
Ed è proprio nel registro stilistico-narrativo che si trova una delle più forti fonti d’interesse di questa raccolta. Prima di essa, però, se ne deve segnalare un’altra. Un po’ di questi articoli spesso, sul mercato editoriale italiano, li si è letti in raccolte tematiche, si pensi a quelli Sul Risorgimento Italiano o a India, Cina, Russia o, ancora, a La guerra civile negli Stati Uniti.
Decontestualizzati dall’ambiente giornalistico in cui sono stati prodotti e svincolati dal pubblico a cui erano destinati (non dimentichiamolo, un certo tipo di lettori progressisti come quelli della New York Daily Tribune), questi articoli sono diventati saggi di storia rivolti, nel migliore dei casi, al movimento operaio e ai comunisti, nel peggiore, ai soli «marxologi».
Dal nostro corrispondente a Londra, invece, ce li restituisce nel loro carattere primigenio, ci invia ad appropriarcene al di fuori delle «incrostazioni» che ogni tradizione culturale sedimenta, nel corso del tempo, sui testi originari che hanno contribuito a fondarla. Leggere i sedici articoli della raccolta come pezzi di giornale, da un lato li restituisce al loro essere «selvaggio», interventi pensati nella contingenza di eventi specifici (colonialismo e corruzione elettorale inglese; guerra di Crimea; imbrogli finanziari di Luigi Bonaparte; unità d’Italia), dall’altro potrebbe, esercizio ben più difficile, liberarli dalla loro «auraticità», rendendoli degni di quel disprezzo che Marx nutriva per essi nutrendolo, in genere, per quello stesso giornalismo che gli dava da mangiare ma che, al contempo, in modo del tutto inconsapevole, contribuiva a rivoluzionare definendone un modello militante animato dal dire la verità.
Miscelare la scrittura
È per questo motivo che le strategie stilistico-narrative del dire il vero, le cui gamme Marx scopre e sperimenta durante la sua attività di corrispondente da Londra, sono così importanti. Su questo punto si sofferma, con grande perizia, il curatore della raccolta al quale si deve, inoltre, il raffinato dettato della voce italiana di questo Marx giornalista. Vitaloro ci fa vedere come, nell’esercizio della sua professione, il filosofo tedesco passi dal periodare «piuttosto incerto e legnoso, con uno stile povero di subordinate e ricco di reminiscenze greco-romane tipiche dell’educazione ottocentesca centroeuropea» dei primi articoli a quello molto più curato nello scegliere aggettivi e incipit, nel miscelare le altezze della teoria con la trivialità della vita quotidiana degli ultimi interventi dei primi anni del 1860. Il tutto sempre puntellato da una profonda ironia sarcastica.
Così, ad esempio, nell’articolo del 15 aprile 1854, Dichiarazione di guerra. Sulla storia della questione orientale, Marx scrive del tentativo fatto per risolvere la drammatica convivenza degli ebrei di Gerusalemme con le altre religioni: «Per accrescere la miseria di questi giudei, l’Inghilterra e la Prussia hanno nominato nel 1840 un vescovo anglicano a Gerusalemme, il cui scopo dichiarato era la loro conversione. Nel 1845 fu selvaggiamente picchiato e insultato da giudei, cristiani e turchi allo stesso modo. Si potrebbe dire che sia stata la prima e unica causa di unione tra tutte le religioni in Gerusalemme».
Queste qualità stilistico-narrative, però, hanno senso solo perché sono messe al servizio della verità, ossia sono strumenti che servono ad articolare al meglio il dire il vero, sono, in breve, subordinate a una visione etica del fare giornalismo: «Non siamo degli ammiratori della condotta militare di Sua Signoria, e abbiamo criticato liberamente le sue cantonate, ma la verità ci richiede di dire che i terribili mali in mezzo a cui i soldati in Crimea periscono non sono colpa sua, ma del sistema su cui si basa l’establishment di guerra britannico» (Il disastro britannico in Crimea. Il sistema militare britannico, 22 gennaio 1855).
Il vero e il falso
In questo senso Marx non arriva del tutto sprovvisto di competenze alla collaborazione con la New York Daily Tribune poiché il modello etico di un giornalismo militante affinché il vero venga detto lo aveva già iniziato a mettere a punto fin dai tempi della direzione della «Gazzetta renana» nell’ottobre del 1842, esperienza che si concluderà nel marzo del 1843 a causa della repressione prussiana.
Il tutto porta inevitabilmente al problema dell’ideologia poiché il dire la verità, nel modello marxiano, comporta lo smascheramento della falsità di quelle idee con cui la classe dominante irretisce e soggioga la coscienza dei dominati. Questione annosa e cruciale.
Per affrontarla proponiamo di leggere questi articoli marxiani non più come azioni dirette verso la presa di coscienza, bensì come tecniche di risveglio da sogni oscuri all’ombra dei quali ciclicamente la coscienza collettiva europea torna ad addormentarsi. Solo fatto in questo modo il giornalismo ha ancora senso.
L’ultimo Marx
di Alfio Neri (Carmilla, 24 dicembre 2016)
Non era solo un vecchio malandato. La salute di Marx era malferma ma il suo cervello funzionava. Avere problemi fisici non significa essere rincoglioniti.
La tradizione marxista lo descrive come un vecchio infermo, un santo laico che aveva appena fatto in tempo a finire la sua immane opera.
La verità è diversa. Il vecchio tabagista non mollò mai, anche dopo aver smesso di fumare. Marx non fu mai la sfinge granitica dei monumenti sovietici e non ebbe mai la triste certezza dogmatica dei suoi peggiori seguaci.
Diffidò sempre delle dottrine tascabili sfornate dai suoi seguaci più ottusi.
Non recitò mai la parte del profeta barbuto che indica il sol dell’avvenire.
Dalle lettere si vede molto bene che non si fidava di parecchia gente; spesso gli stessi che, più avanti, avrebbero fatto del marxismo il loro mestiere.
Di Kautsky pensava che fosse una “mediocrità”1. Il suo giudizio sul futuro massimo dirigente della socialdemocrazia tedesca mostra il suo enorme intuito.
La leggenda che, alla fine della sua vita, il vecchio ex-tabagista avesse soddisfatto la propria curiosità intellettuale è falsa. Marx continuò a studiare e a proporre soluzioni nuove fino alla fine dei suoi giorni.
Nelle opere complete stanno per essere pubblicati gli ultimi duecento quaderni.
Il lavoro filologico ha riportato alla luce gli appunti personali di questi anni. Da questi materiali emerge un autore diverso da quello consueto. Il profilo intellettuale appare completamente nuovo.
I nuovi documenti e l’implosione dell’URSS hanno liberato Marx dalla necessità di interpretarlo alla luce della ragion di stato e del dogmatismo dottrinario.
Il rinnovato interesse sulla sua figura e il nuovo materiale fanno pensare che la reinterpretazione della sua opera sia destinata a continuare. Il punto di svolta ermeneutico, per Marcello Musto, inizia con la rilettura della parte terminale della sua opera.
In questa sede non bisogna adagiarsi sull’elegia.
La dignità della sua morte ricorda le trame di un racconto ottocentesco in cui le tragedie personali si intrecciano nelle grandi tempeste della storia moderna.
Tuttavia, al di là della questione umana, leggere la storia dell’ultimo Marx come il racconto storico di un uomo dalla vita romanzesca, non ha molto senso.
Per quanto si possa perdonare chi legge l’ultimo Marx con le lenti dell’analitica della finitudine umana, non è lecito proporre la vicenda intellettuale del vecchio Marx nell’ottica di un’estetica del tramonto. Il materiale mostra che il vecchio scorbutico (era davvero molto scorbutico) continua a combattere e studiare.
Nei suoi ultimi due anni, Marx studia antropologia, non passa il tempo a leggere romanzetti rosa.
La nascita di un movimento socialista in Russia lo pone di fronte a nuove importanti questioni. Vera Zasulič (fuggita dopo aver tentato di assassinare lo Zar) gli chiede se, nella sua opinione, sia possibile arrivare al socialismo senza passare per una fase di egemonia borghese.
Per dare una risposta alla questione inizia a studiare in profondità l’argomento ed entra in campi di studio che fino ad allora aveva trascurato.
I manoscritti inediti e le bozze delle lettere (inviate e non inviate) indicano che non era per niente soddisfatto delle risposte teoriche che aveva già formulato. Si accorge che la comunità rurale slava poteva essere lo strumento adeguato per passare dal feudalesimo al socialismo senza passare per il capitalismo2.
Marx non pubblica nulla di rilevante ma lo svolgimento dei materiali che elabora è antitetico a quello del marxismo storico.
Il percorso dialettico del suo pensiero gli evita di avvicinarsi alla questione in modo dottrinario e gli fa vedere subito cose che i suoi futuri seguaci non sarebbero mai stati capaci di comprendere.
Del resto è evidente che non si fidava di quelli che dicevano di ispirarsi ai suoi scritti. Sconfessa Hyndman perché era riformista3, ma le sue parole per i sedicenti discepoli ‘ortodossi’ non erano poi tanto diverse.
Di fronte a chi si dichiarava suo seguace, rispondeva con ironia “quel che è certo è che io non sono marxista”4. Il punto di partenza per rileggere Marx sono queste sue ultime parole.
Adesso è finalmente possibile fare un bilancio perché tutta la sua opera sta diventando finalmente accessibile5. Le nuove interpretazioni di Marx non possono che iniziare da qui, dalle sue ultime ricerche.
Nessuna elegia funebre, nessun interesse antiquario, nessuna estetica del tramonto, la posta in gioco è sempre la trasformazione del mondo.
Note
1. Cfr. p. 46. Nell’epistolario Marx definisce Kautsky saccente, sputasentenze e di vedute ristrette; per quanto diligente per Marx rimane un mediocre. Engels definisce Kautsky un pedante, un dottrinario e un cavillatore nato. Come lato positivo trova che abbia un gran talento nel bere. ↩
2. Cfr. pp. 49-75. ↩
3. Cfr. pp. 84-87. ↩
4. Cfr. p. 25. ↩
5. Fra le opere che possono essere un nuovo punto di partenza critico segnalo il notevole E. Dussel, L’ultimo Marx, manifestolibri, 2009 (dimostra come l’opera di Marx sia costitutivamente aperta) e il pionieristico M. Rubel, Marx critico del marxismo, Cappelli, 1981. ↩
Karl Marx ci insegna che la felicità è una forma di emancipazione politica
Paul B. Preciado, Libération, Francia *
In un’epoca nella quale la psicologia del successo si presenta come l’ultimo Graal del neoliberismo, per affrontare il sinistro festival di violenze politiche, economiche ed ecologiche nelle quali ci troviamo coinvolti, la biografia di Karl Marx, scritta dal polemico giornalista inglese Francis Wheen, può essere letta come un potente antidoto ai programmi di allenamento e di sviluppo personale.
Può darsi che, leggendo delle allegre sventure di Marx, vada creandosi un’antipsicologia dell’io per utenti di un mondo in decomposizione. La felicità, in quanto successo personale, non è altro che l’estensione della logica del capitale alla produzione della soggettività.
Interessandoci alla difficile e tumultuosa vita di Marx è possibile concludere che, contrariamente a quanto la psicologia dell’io e del miglioramento personale cercano di farci credere, la felicità non dipende dal successo personale, né dall’accumulo di proprietà o di ricchezze economiche.
La critica irriverente
La felicità non si trova grazie al “management” emotivo, non risiede nell’equilibrio psicologico inteso come gestione delle risorse personali e controllo degli affetti. E anche se è difficile ammetterlo, non dipende neanche dalla salute né dalla bellezza. Non coincide neppure con la bontà.
Marx ha trascorso buona parte della sua vita subendo persecuzioni politiche, malattia, fame e miseria. La sua carriera di autore comincia con la censura e si conclude con un fallimento editoriale. Il suo primo articolo, scritto a 26 anni, era una critica alle leggi sulla censura promulgate da re Federico Guglielmo sesto. Come avrebbe potuto intuire lo stesso autore (ma so per esperienza che il critico dimentica talvolta di essere a sua volta sottoposto alle leggi che critica), l’articolo fu immediatamente censurato dal quotidiano Deutsche Jahrbücher.
La stessa censura si abbatté sul primo articolo da lui scritto per il Rheinische Zeitung, il cui testo fu dichiarato una “critica irriverente e irrispettosa delle istituzioni governative”. La censura finirà per essere la grande editrice di Marx, perseguitandolo da una lingua all’altra, di paese in paese.
Se Marx fosse vissuto all’epoca di Facebook avrebbe avuto più detrattori che amici
La più lunga e più importante delle sue opere fu accolta nell’indifferenza di critica e lettori. La pubblicazione del primo volume di Il capitale, al quale aveva dedicato cinque anni della sua vita, lavorando in una sala di lettura del British museum di Londra, passò quasi del tutto inosservata e vendette solo, nel corso della vita dell’autore, alcune centinaia di copie. Lento nel suo lavoro di scrittura e molto malato, Marx non visse abbastanza da vedere la pubblicazione degli altri due volumi di Il capitale.
Marx non ebbe successo come autore, né si può dire che visse in condizioni confortevoli. Dal 1845, per oltre vent’anni, fu un rifugiato politico in tre diversi paesi, Francia, Belgio e soprattutto Regno Unito, con la moglie Jenny e i suoi figli.
Durante il suo periplo da esule Marx, che diceva lui stesso di non essere fisicamente e psichicamente adatto a nessun altro lavoro che non fosse quello dell’intellettuale, fu costretto a ipotecare tutti i suoi beni, compresi i mobili e le giacche. Due dei suoi figli furono uccisi da malattie dovute alla fame, dall’umidità e dal freddo. Lui stesso soffriva di coliche epatiche, di reumatismi, di mal di denti e di emicranie. Scrisse una gran parte dei suoi libri in piedi perché i suoi foruncoli gli impedivano di stare seduto. Marx era un uomo brutto e non si può dire che sia stato davvero un uomo buono. Condivideva la maggioranza dei pregiudizi razziali e sessuali della sua epoca e, per quanto d’origine ebraica, non esitava a utilizzare insulti antisemiti contro i suoi detrattori.
L’ottimismo dialettico
Wheen ritrae un Marx autoritario e sbruffone, incapace di accettare le critiche, costantemente coinvolto in litigi tra amici, nemici e avversari, ai quali inviava lunghe lettere d’insulti e contro i quali pubblicavi articoli satirici sulla stampa. Nel 1852, per esempio, consacrò un intero anno a redigere il voluminoso trattato I grandi uomini dell’esilio, una satira rivolta “ai più celebri somari” della diaspora socialista. Il libro fu un fiasco, che gli valse vari processi e numerose sfide a duello.
Marx non conobbe ne successo economico né notorietà, e se fosse vissuto all’epoca di Facebook avrebbe avuto più detrattori che amici. Eppure, contro ogni attesa, si può dire che Marx fu un uomo intensamente felice.
I cultori dello sviluppo personale potrebbero sostenere che la chiave del suo successo fosse il suo smodato ottimismo. È vero. Ma questa passione non aveva alcun legame con la stupida esortazione al “feel good” neoliberista. L’ottimismo di Marx era dialettico, rivoluzionario e quasi apocalittico. Era un pessimista ottimista. Marx non desiderava che tutto migliorasse, bensì che le cose peggiorassero fino al punto in cui la coscienza collettiva si rendeva conto della necessità di un cambiamento.
La felicità di Marx risiede nel suo incrollabile senso dell’umorismo
È per questo che sognava, nelle sue incessanti conversazioni con Engels, l’aumento dei prezzi e il crollo totale dell’economia che, secondo le sue previsioni (che oggi sappiamo essere false), avrebbero inesorabilmente condotto alla rivoluzione operaia.
Aveva solo 27 anni quando gli fu ritirato il passaporto prussiano, con l’accusa di mancata lealtà politica. Marx accettò l’annuncio del suo statuto di apolide con una dichiarazione che rigetta ogni forma di vittimismo: “Il governo”, scrisse, “mi ha restituito la libertà”. Non chiese di essere riconosciuto come cittadino, ma di usare in maniera esponenziale la libertà offertagli dall’esilio. Nelle riunioni di profughi di ogni nazionalità maturò l’idea dell’internazionale come forza proletaria trasversale, capace di sfidare l’organizzazione stato-nazione e i suoi imperi.
La felicità di Marx risiede nel suo incrollabile senso dell’umorismo - “Non credo nessuno abbia mai scritto così tanto sul denaro avendone così poco” -, nella passione infusa nel leggere Shakespeare ogni sera ai suoi figli, nelle conversazioni (non necessariamente cordiali ma sempre appassionate) con Engels e nel suo instancabile desiderio di comprendere la complessità del mondo che lo circondava.
La vita di Marx, luminosa e difficile, c’insegna che la felicità è una forma d’emancipazione politica: il potere di rifiutare le convenzioni morali di un’epoca e con esse il successo, la proprietà, la bellezza, la gloria o la dignità come le principali linee intorno a cui organizzazione un’esistenza.
La felicità sta nella capacità di percepire ogni cosa come facente parte di noi stessi, proprietà al contempo di tutti e di nessuno. La felicità sta nella convinzione che essere vivi significhi essere testimoni di un’epoca, sentendosi in questo modo responsabili, in maniera vitale e appassionatamente responsabile, del destino collettivo del pianeta.
(Traduzione di Federico Ferrone)
Il work in progress di una teoria
«I Grundrisse di Karl Marx. I lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica 150 anni dopo», a cura di Marcello Musto, edizioni Ets
di Stefano Petrucciani (il manifesto, 12.10.2016)
In quel grande cantiere che è l’opera di Marx, i Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica (ai quali ci si riferisce di solito con la prima parola del titolo tedesco, Grundrisse) occupano una posizione davvero molto peculiare. Oggi per chiarire il significato di questo testo, i suoi temi principali e, soprattutto, la storia della sua fortuna, possiamo servirci di un corposo volume curato da Marcello Musto (I Grundrisse di Karl Marx. I Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica 150 anni dopo, Ets) dove le questioni e le vicende di quest’opera marxiana sono ripercorse da molti e diversi punti di vista.
I Grundrisse sono un’opera importante e singolare per diverse ragioni. La principale è che essi costituiscono la prima esposizione del sistema marxiano della critica dell’economia politica. Come è noto, Marx scrisse e riscrisse più volte quello che poi sarebbe diventato Il Capitale. La prima edizione di questo testo, che uscì nel 1867, fu preceduta da un lungo lavoro preparatorio, di cui i Grundrisse, scritti a Londra tra il 1857 e il 1858, sono la prima e decisiva tappa; e fu seguita da una serie di rielaborazioni, alle quali Marx si dedicò per diversi anni della sua vita.
Il primo libro del Capitale fu da lui rimaneggiato nelle edizioni che seguirono alla prima, mentre il secondo e il terzo libro rimasero allo stato di abbozzo, e furono sistemati e completati solo da Engels dopo la morte dell’amico. La critica marxiana dell’economia è dunque un gigantesco work in progress, un lavoro non finito. E i Grundrisse - primo tentativo di esposizione sistematica della teoria - ci consentono proprio per questo di osservare molto da vicino questioni decisive e problemi essenziali, che nelle opere più compiute talvolta rimangono sotto traccia.
Ma c’è almeno un’altra ragione che rende i Grundrisse un testo così affascinante: ed è il fatto che, nei Lineamenti molto più che nel Capitale, il modo marxiano di esposizione segue assai da vicino il modello argomentativo che era stato sviluppato da Hegel, cioè si sforza di presentare i contenuti secondo uno svolgimento dialettico, dove ogni categoria economica viene sviluppata attraverso l’analisi delle contraddizioni di quelle che la precedono.
Questo è un punto fondamentale che implica diverse conseguenze. L’hegelismo che li pervade fa dei Grundrisse un testo destinato ad essere molto apprezzato dai filosofi; per il linguaggio e il modo di argomentare, infatti, è molto più vicino alla loro sensibilità di quanto non lo sia il Capitale. Un interessante interprete francese, Henri Denis, sostiene non senza qualche buona ragione (anche se forse radicalizza un po’ troppo la sua tesi) che Marx è costantemente combattuto tra Hegel e Ricardo e che, mentre nei Grundrisse prevale il primo, nel Capitale è il secondo ad avere la meglio. Molti interpreti marxisti non condividono questa tesi. Ma non ci sono dubbi che la fortuna dei Grundrisse sia stata anche legata alla affascinante dialettica hegelianizzante cui Marx dà vita in quelle pagine.
Nel volume curato da Musto, le vicende legata alla diffusione e alle traduzioni dei Grundrisse sono ripercorse con una ricchezza di informazione e di analisi che non è dato trovare altrove. Venti capitoli scritti da altrettanti studiosi (per l’Italia c’è Mario Tronti) sono consacrati alla disseminazione dei Grundrisse su scala planetaria, dall’Europa, all’Asia, all’America latina. È una storia molto interessante.
Pubblicati per la prima volta a Mosca nel 1939-1941, i Grundrisse cominciarono a entrare in circolo nella cultura europea diversi anni dopo, con l’edizione tedesco-orientale del 1953. Ma si trattava ancora di un testo accessibile a una ristretta cerchia di studiosi. Perché se ne avesse una conoscenza più ampia, si sarebbero dovute attendere le traduzioni nelle principali lingue europee, che erano ancora di là da venire.
Ciò che è interessante ricordare, però, è che dai Grundrisse vennero abbastanza presto estrapolati alcuni blocchi, che furono presi quasi come dei testi a sé. A parte la «Introduzione» relativa al metodo dell’economia politica, che era stata pubblicata da Kautsky già nel 1903, due soprattutto furono i frammenti dei Grundrisse che attirarono l’attenzione. In primo luogo quello dedicato alle Forme che precedono la produzione capitalistica, pubblicato in Italia nel 1956 e in Inghilterra nel 1964, con la prefazione di Hobsbawm: un testo dove si poteva trovare una versione del materialismo storico molto diversa da quella canonica.
Un altro brano che fece epoca fu il cosiddetto Frammento sulle macchine, che, come ricorda Tronti nel suo saggio, fu pubblicato nel 1964 da Raniero Panzieri sui «Quaderni rossi», nella traduzione di Renato Solmi. Un testo eccezionale e profetico, dove Marx preconizzava l’automazione della produzione, il superamento del lavoro materiale come base della ricchezza e la centralità del general intellect. Il Frammento è stato uno dei testi decisivi per l’operaismo italiano.
Ma è solo verso la fine degli anni 60 che i Grundrisse vengono finalmente letti nella loro interezza: in Italia nella traduzione di Enzo Grillo, che esce presso la Nuova Italia in due volumi, nel 1968 e nel 1970. In Francia vengono pubblicati nel 1967-68, ma un’edizione più affidabile arriva solo nel 1980 (come spiega nel suo contributo André Tosel). A seguire vennero tante altre edizioni in tutto il mondo, sulle quali il volume curato da Musto esaurientemente ci informa.
Ma il volume non è solo una storia della fortuna o degli effetti. Anzi, nella prima parte troviamo diverse analisi dedicate ai temi più rilevanti del testo marxiano, dovute a studiosi di alto profilo internazionale. Non li possiamo citare tutti, ma ricordiamo le riflessioni di Terrell Carver sull’alienazione, quelle di Enrique Dussel sul plusvalore, quelle di Ellen Meiksins Wood sul materialismo storico, di Iring Fetscher sulla società post-capitalistica; e per finire il testo di Moishe Postone che riassume la sua originale interpretazione del marxismo centrata sulla questione del governo del tempo.
Nel complesso, si tratta di un volume ricchissimo, frutto di un lavoro prezioso. Se un dubbio si può sollevare, è solo questo: tra tante analisi interessanti, sono poche quelle che mettono a fuoco difficoltà, aporie o punti deboli del testo marxiano. E invece anche questo è necessario, se con l’opera del pensatore di Treviri si vuole intrattenere un rapporto veramente critico.
Alla ricerca di un Politico nell’era dei piccoli Napoleone
Saggi. «La scienza politica di Gramsci» di Michele Prospero per Bordeaux edizioni. Da Grillo a Renzi, la nuova onda populista esprime la crisi della democrazia rappresentativa
di Leonardo Paggi (il manifesto, 09.07.2016)
Da tempo ormai immemorabile la bibliografia italiana su Gramsci è dominata dal tema dei suoi rapporti con il partito negli anni del carcere. L’esistenza di una difformità, peraltro da sempre largamente nota, tra i Quaderni e i coevi indirizzi culturali e politici del partito ha generato una ricerca sempre più ossessiva sul «tradimento» che sarebbe stato giocato ai danni del prigioniero. Sull’onda di una filologia avventurosa e spericolata si è persino ipotizzato un quaderno «mancante», fatto sparire dalla censura preventiva del Pci. Si accoglie pertanto quasi con sollievo un libro come quello di Michele Prospero (La scienza politica di Gramsci, Bordeaux) che torna a cimentarsi con una lettura diretta dei testi.
La tesi del libro è che la richiesta di un politico forte e auto centrato fa da contrappunto in Gramsci ad una analisi che indugia a lungo sui modi in cui un sistema liberale di tipo parlamentare può subire un processo di progressivo corrompimento e degrado fino alla negazione di fatto del principio della rappresentanza democratica. La crisi del partito, in quanto essenziale tratto di unione tra società civile e stato, è sempre il vero epicentro di una involuzione di sistema, destinata a sfociare, prima o poi, in un mutamento della stessa forma di governo.
Prospero ripercorre e commenta tutti i fondamentali passaggi dell’analisi gramsciana: la degenerazione burocratica, la disgregazione trasformistica, la fascinazione carismatica, la regressione nell’apoliticismo, l’involuzione cesarea, che può avanzare anche attraverso la formazione di grandi coalizioni di governo che tolgono al parlamento la sua precipua funzione di rappresentazione politica del conflitto sociale.
Una teoria dello Stato
Comprensiva di questa complessa fenomenologia è la più generale contrapposizione tra lo stato inteso come costituzione e il governo, tra la politica come forma in cui una società si organizza e si esprime in ottemperanza ai conflitti sociali da cui è percorsa, e la politica come macchina o tecnica (come governance nel linguaggio di oggi), ossia come potere esecutivo che ricerca nella sua separazione e nella sua razionalità esclusiva ed escludente il principio del proprio sviluppo. O ancora: tra lo stato che si allarga alla società civile e lo stato che si contrae nell’apparato burocratico.
Questa linea di conflitto attraverso cui matura sempre lo svuotamento di ogni forma di sovranità popolare, ha investito, per Gramsci, anche il nuovo potere nato dalla rivoluzione d’ottobre. In questo senso si può dire che nei Quaderni ci sono i fondamenti di una teoria unica dello stato. In qualsiasi contesto sociale la democrazia avanza solo con la diffusione e l’arricchimento del politico.
Gramsci non ha letto gli ultimi corsi di Foucault al Collége de France sulla contrapposizione tra stato e governamentalità. I suoi punti di riferimento sono da un lato La filosofia del diritto di Hegel, che, nelle sue parole, interpreta la società civile come «trama privata dello stato», dall’altro Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte di Marx, che vede nel potere dell’esecutivo, sempre più dilagante con lo sviluppo di rapporti capitalistici, la causa immanente di ogni involuzione autoritaria. Il passaggio da Napoleone il grande a Napoleone il piccolo sta a testimoniare l’esistenza di un potere separato che sovrasta e condiziona la politica. Per questo l’involuzione cesarea può avanzare senza il concorso di grandi personalità.
Dinanzi all’incapacità del pensiero liberaldemocratico classico di dire una parola sulla crisi della democrazia che stiamo vivendo, i Quaderni di Gramsci, che Norberto Bobbio volle tanto tenacemente mandare in soffitta, continuano ad avere un singolare potere di illuminazione sul presente. Oggi valutiamo meglio l’effetto disarmante di una visione della democrazia che si costruiva nella più completa ignoranza del legame di ferro tra potere economico e potere burocratico che la mondializzazione e lo stesso sviluppo del processo di integrazione europeo stava già allora saldando.
La lettura dei testi gramsciani che Prospero ci propone è legittimamente, ossia senza alcuna sollecitazione dei testi, orientata all’esperienza dell’oggi. Si può dire che in essa si definisce la prospettiva critica con cui egli guarda alla crisi italiana nel suo volume immediatamente precedente Il nuovismo realizzato. L’antipolitica dalla Bolognina alla Leopolda, Bordeaux.
Con particolare efficacia il capitolo intitolato «La rivoluzione passiva» suggerisce come nello smantellamento progressivo del partito politico, sempre incoraggiato e promosso dai poteri costituiti, si debba cogliere il tratto distintivo di una «crisi organica» che dall’inizio degli anni Novanta arriva, con le elezioni del febbraio 2013, al crollo del bipartitismo, assunto come principio fondante della seconda repubblica, per approdare (provvisoriamente!) all’Opa (offerta pubblica di acquisto) di Renzi sul Partito democratico.
Il ciclo populista genera un politico sempre più fragile e aleatorio, in cui il carisma di carta pesta inventato dai media si mescola con la degenerazione trasformista e con un discorso pubblico sempre più svuotato di ogni contenuto reale. Le affinità tra questi diversi episodi sono indubbiamente impressionanti. E tuttavia la fedeltà allo spirito della analisi gramsciana impone la ricerca di differenze che indiscutibilmente permangono. Con i leaderismo di Berlusconi si cementa una nuova destra di governo estranea e aggressivamente contrapposta a tutta la precedente storia repubblicana. Con il leaderismo di Grillo si esprime la protesta di vasti ceti popolari nei confronti di un sistema politico che ha abbassato drammaticamente il livello delle proprie prestazioni, disattendendo sistematicamente le aspettative della società civile. Con i leaderismo di Renzi giunge a conclusione la involuzione programmatica e politica del Partito democratico (a sua volta ultima metamorfosi del vecchio Pci) che è definitivamente precipitata nell’autunno del 2011 con il consenso dato alla formazione del governo Monti.
Stress da austerità
Nell’ondata populista che oggi investe tutti i sistemi politici europei sottoposti allo stress della politica di austerità si esprimono contenuti sociali spesso tra loro opposti. La protesta antipolitica di chi ha perso il lavoro rimane profondamente diversa da quella di chi non vuole pagare le tasse. Riuscire a mantenere il senso delle distinzioni è la vera posta in gioco sia dell’analisi che dell’iniziativa. La perenne saldatura tra contenuto e forma è in effetti il lascito più importante della metodologia gramsciana che questi due libri di Prospero ripropongono con grande forza all’attenzione della nostra cultura politica.
di Armando Massarenti (Il Sole-24 Ore, Domenica, 19.06.2016
Dopo la recente affermazione della destra xenofoba in Austria, a un passo dal vincere le elezioni, ho ripensato a ciò che scriveva Paul K. Feyerabend nella sua splendida autobiografia, intitolata Ammazzando il tempo e uscita per Laterza nel 1994, anno della sua morte, a 70 anni di età. Esordiva fin dalle prime pagine avvertendo degli strani scherzi che può fare la memoria: quelli in forza dei quali magari oggi ci si stupisce del rinascere di certe idee che pensavamo del tutto tramontate.
Aveva deciso di scrivere quel libro nel 1988, durante il cinquantenario dell’unificazione tra Austria e Germania. «Ricordavo che gli austriaci avevano accolto Hitler con straordinario entusiasmo, ma ora mi ritrovavo ad ascoltare condanne secche e toccanti appelli umanitari. Non che fossero tutti in malafede, eppure suonavano vuoti: lo attribuii alla loro genericità e pensai che un resoconto in prima persona sarebbe stato un modo migliore di fare storia. Ero anche piuttosto curioso. Dopo aver tenuto lezioni per quarant’anni in università inglesi e americane, mi ero quasi dimenticato dei miei anni nel Terzo Reich, dapprima come studente, poi da soldato in Francia, Iugoslavia, Russia e Polonia».
Persino lui, Paul K. Feyerabend, dunque, già allora quello spirito libero che poi sarebbe divenuto famoso come l’epistemologo dell’anarchismo metodologico, aveva subito una forma di attrazione per il regime, e aveva anche meditato di entrare nelle SS. «Perché? Perché un uomo delle SS aveva un aspetto migliore, parlava meglio e camminava meglio di un comune mortale: le ragioni erano estetiche, non ideologiche». Finalmente un libertario, un democratico capace di non cadere nelle trappole dell’ipocrisia! ho pensato ai tempi leggendo Ammazzando il tempo. E che ci fa capire meglio perché il nazismo potesse attrarre le giovani generazioni. Anche rivedere l’immagine stereotipata di Hitler era per Feyerabend un modo per capire meglio la realtà. Abbiamo visto mille volte spezzoni di documentari che ce lo mostrano come una macchietta in preda all’ira. Si tratta di una precisa scelta della propaganda post-bellica. Feyerabend descrive invece così la sua arte oratoria: «Hitler accennava ai problemi locali e a quanto era stato fatto fino ad allora, faceva battute, alcune abbastanza buone. Gradualmente cambiava il modo di parlare: quando si riferiva a ostacoli e inconvenienti aumentava il volume e la velocità del parlare. Gli accessi violenti che sono le uniche parti dei suoi discorsi conosciute in tutto il mondo erano preparati con cura, ben interpretati e utilizzati con umore più calmo una volta finiti; erano il risultato di controllo, non di rabbia, odio o disperazione».
Ancora oggi, se del nazismo non cerchiamo di capire le ragioni interne, e magari non ci spaventiamo a rileggere Mein Kampf, non sapremo mai perché esso ha appassionato così tante persone. E sarà anche più difficile difendere i nostri valori più cari: libertà, pluralismo, democrazia. Benché l’intelligenza critica di Feyerabend fosse già piuttosto acuta, al punto da commentare la lettura di Mein Kampf (ad alta voce alla famiglia riunita) come un «modo ridicolo di esporre un’opinione», «rozzo, ripetitivo, più un abbaiare che un parlare», egli stesso, pochi giorni dopo, avrebbe concluso un tema scolastico su Goethe legandolo proprio a Hitler. Non solo la memoria collettiva può fare brutti scherzi: anche la nostra attenzione critica è qualcosa di quanto mai fragile. Ma lo è ancora di più se ci rifiutiamo di rileggere senza ipocrisia le pagine più buie della nostra storia.
A proposito di «Quel che resta di Marx» di Giuseppe Vacca
di Valentino Parlato (il manifesto, 10.06.2016)
Ho letto e riletto Quel che resta di Marx. Rileggendo il Manifesto dei comunisti (Salerno Editrice, pp 98, euro 8,90), questo distillato libro di Giuseppe Vacca e mi ha molto intrigato. Provocatorio, il titolo sembrava indicare quel che di Marx andrebbe buttato nella spazzatura della storia e, invece, al contrario, Vacca ne ribadisce l’attualità del pensiero, fondandosi sulla lettura del Manifesto e senza arrampicarsi sui Grundrisse. La tesi di questo saggio - scrive Vacca a conclusione della sua premessa - è che la carenza di ricostruzioni soddisfacenti della storia mondiale contemporanea sia dovuta anche all’emarginazione del pensiero di Marx.
Tuttavia, invece di invocarne un generico ritorno, si vorrebbe dimostrare che «rimosso il continente Marx dal pensiero contemporaneo, questo funziona male perché non riesce a dare un fondamento storico e un respiro strategico all’agire politico». E, sempre su Marx, decisiva è l’insistenza di Vacca nel respingere la sua corrente riduzione a economista, per ribadire che Marx è un politico nel senso pieno della parola. Non un politicante (oggi il nostro mondo ne è pieno), ma un politico e un politico straordinario, che fonda il suo agire su una vasta cultura.
I grandi mutamenti realizzatisi con lo straordinario progresso tecnologico e, forse ancora di più, con la globalizzazione hanno cambiato la configurazione storica del movimento operaio, ma anche del capitalismo. Bisogna quindi costruire un «nuovo pensiero», che trova ancora una guida nel pensiero di Marx, che va studiato in rapporto alle trasformazioni del presente e alla sua complessità nella quale un causa può avere anche un effetto diverso da quello scontato.
Le pagine di Vacca vanno allora lette e rilette e sempre in rapporto col pensiero di Marx, quindi con una seria lettura dei suoi scritti: il mondo è in continuo cambiamento, ma Marx resta ancora in campo.
Destra e Sinistra
di DARIO BORSO e ELVIO FACHINELLI *
Premessa
di Dario Borso
1. Una psicanalisi della domanda invece che della risposta: questo fu in sintesi l’indirizzo che perseguì Elvio Fachinelli nella sua breve vita[1]. Quindi fondamentalmente interrogò - non solo i soggetti in analisi, e neanche solo gli individui in genere, interrogò la «realtà», quel fantasma che Jacques Lacan amava ridicolizzare e invece lui prendeva assai sul serio. Così il paziente suo più complicato fu l’Italia, e il trattamento più lungo fu della realtà italiana - esattamente dal 1966, appena conclusa con il decano Cesare Musatti l’analisi didattica, all’anno di morte 1989.
Di Musatti, ergo di Freud, Fachinelli adottò lo sguardo obliquo, lo scarto del cavallo che spiazzato sa spiazzare. E perciò dell’Italia, quasi fosse un quadro, seppe cogliere i particolari illuminanti, gli imprestiti da esperienze altrui, le persistenze di uno stile nell’alternarsi dei periodi: tre decenni tondi, che nella sua attività «giornalistica» sezionò e ricompose con sapiente tempestività.
Ciò che è noto, l’elenco intendo (rivolta studentesca, lotte operaie, speranze e accelerazioni negli anni Sessanta; terrorismo, derive autoritarie, progetti di autonomia, delusioni e tracolli nei Settanta; riflusso edonistico, innovazioni tecnologiche e nuove forme di sopravvivenza negli Ottanta), viene riscritto da Fachinelli per chiavi e spie assolutamente inedite, per brevi rilievi sismografici che segnalano pur senza spiegarla (senza risposta cioè) una realtà in continuo movimento, ossia un sommovimento. Non quindi storia, e men che meno enciclopedia - piuttosto un mosaico, o più ancora un puzzle.
2. Da presto egli aveva intuito che con Freud «si apre il campo di una ricerca sui rapporti interindividuali: comincia una sorta di nexologia umana (dal latino nexus: legame, intreccio), che include il corpo come parte in causa e interlocutore»[2]. Per Fachinelli dunque non si trattava né di integrare il dettato freudiano ibridandolo ad altre «scienze», né di restaurarlo nella sua ortodossa purezza, bensì di aprirlo, allargarlo. E se nexologia è la scienza a venire, la ricerca di nessi fu conoscenza in fieri, per vie varie e vieppiù complesse, ma sempre animata da: curiositas, Lebensinstinkt, eros[3].
Solo assai tardi, invece, capì di essersi staccato in qualche modo da Freud, seppure per completarlo: vide cioè che, essendosi Freud perlopiù impegnato a smantellare barriere psichiche, il suo apparato teorico aveva assunto i contorni analoghi di una fortezza, idonea più a controllare che ad accogliere[4].
Lo stacco ovviamente era stato progressivo, anzi si originava da una sua forma mentis, anteriore in quanto tale a ogni «teoria». Logico perciò che a coglierla, più che i lettori o i pazienti, siano stati i promiscui nella vita: colleghi, compagni di strada e soprattutto amici. Uno lo intervistò poco prima della morte. Gli chiese dei suoi inizi con Musatti, ed ebbe per risposta:
Dopodiché fu l’amico a evocare gli inizi del loro rapporto, Milano 1974, l’anno in cui Fachinelli aveva allestito un gruppo aperto di autoformazione, salvo poi scioglierlo in fretta: «quando, in privato, gli chiesi perché, mi rispose candidamente “non mi divertiva più!”»[6].
Ecco, lo spettro ampio di significati impliciti nel verbo «divertire», che va dall’imprevisto al gioco, basta a classificare l’attitudine di Fachinelli verso il reale, ovvero la sua forma mentis. Così, se Freud fu maestro nel «tenere fermo al mortuum», sulla sua scia lui fu più aperto al vivum, tant’è che la realtà gli si presentò infine come regalo:
Da questo punto di vista, il détournement predicato dai situazionisti è, prima che un enunciato teorico, un tentativo di recuperare e praticare il gesto infantile del gioco. E come nelle attività di provocazione situazionista, il bambino usa le occasioni della vita quotidiana, più che il mondo dei giocattoli a lui espressamente destinato dagli adulti. Cos’è mai il telefonino gracchiante di plastica rispetto al telefono in persona, misterioso organo tubante che secondo ogni verosimiglianza contiene in sé tante persone, delle quali lascia uscire soltanto la voce? Se guardiamo senza paraocchi i bambini più piccoli, meno addomesticati, li vedremo accorrere, nonostante i divieti, verso gli infiniti tasti bottoni pulsanti da premere, chiavi e chiavette da girare, rubinetti da aprire e chiudere, verso gli innumerevoli comandi che da vicino o da lontano spargono luci e suoni in ogni punto della nostra vita quotidiana. Mentre ci affanniamo a costruire per loro un universo fittizio, facsimile ridotto e talora grottesco, sempre insufficiente, del nostro mondo, e questo mondo ci appare difficile, inquinato ed esplosivo, i bambini aprono gli occhi sul più meraviglioso Paese dei Balocchi che si sia mai visto[7].
* * *
Destra e Sinistra [i]
di ELVIO FACHINELLI
Mi sia consentito di partire, per fissare i pochi punti del mio intervento, da un’osservazione storica a prima vista marginale, o tutt’al più laterale. Come certamente molti sanno, e come si legge nei testi di scienze politiche, la distinzione parlamentare tra destra e sinistra sembra risalire all’assemblea detta Costituente, durante la Rivoluzione francese: i rivoluzionari moderati sedevano alla destra del presidente, i rivoluzionari accesi alla sua sinistra. Rilevo questo particolare: i due lati erano e sono tuttora individuati rispetto al capo o centro dell’assemblea.
Non sarà allora azzardato supporre che in questa distribuzione spaziale abbia inconsapevolmente giocato un riferimento simbolico ben noto in tutto l’Occidente e singolarmente coerente sia nella tradizione greco-romana che in quella ebraico-cristiana. Alla destra del presidente: come alla destra del Signore stanno i santi e gli eletti; la destra, ossia il lato, secondo Eschilo, del braccio che brandisce la lancia; il lato maschile di Adamo, secondo i commenti rabbinici che vedevano nel primo uomo un androgino; il lato divino e diurno, secondo i teologi medievali; il lato dei buoni presagi, dell’abilità e del successo, secondo gli indovini romani. E la sinistra? Si può notare come i suoi principali predicati simbolici si dispongano fondamentalmente in opposizione a quelli della destra: la sinistra è il lato dei dannati e dell’inferno, di Satana e della notte; il lato femminile di Adamo; il lato dei cattivi presagi e degli insuccessi: sinister è passato a significare, in alcune lingue tra cui la nostra, l’incidente o la sciagura. È questa «assonanza», questo aparentamiento che Fidel Castro, pochi giorni fa, ha fatto notare a Enrico Berlinguer. Ma non si tratta di assonanza, o di affinità etimologica; si tratta di correlazione simbolica - e il simbolico è molto più ampio del verbale, e per sbarazzarsene non basta dichiarare, come ha dichiarato Berlinguer, che la gente sa distinguere[ii].
Se infatti la destra siede alla destra del Presidente-Signore, nella piena luce del successo virile e legittimo, a sinistra si dispongono gli altri, la massa confusa e tenebrosa di coloro che dicono di no, di coloro che sono votati allo scacco o che nel loro essere testimoniano, come una piaga, di una debolezza femminea. Nell’ambito di una società patriarcale, non mi par dubbio che la sinistra abbia assunto simbolicamente il posto della manchevolezza, quando non del Male che eternamente si oppone al Bene, del Male che eternamente dà l’assalto al cielo e ne viene ricacciato...
Si dirà che di questa collocazione simbolica non vi è traccia in alcuna delle definizioni che la sinistra politica ha dato o cercato di se stessa, comprese quelle che in questi giorni molti di noi stanno cercando. Ma se nessuno, a quel che so, ha evocato la coppia simbolica a cui ho accennato, è la storia stessa della sinistra da un centinaio d’anni che testimonia come essa ne abbia incarnato uno dei termini nel modo più intenso e radicale. Quando Marx circolava ancora sotto le bandiere rosse delle grandi sfilate, probabilmente pochi tra le centinaia di migliaia sapevano che oltre al Marx del Capitale c’era il Marx che aveva parlato del «comunismo dell’invidia»[iii] - e che cos’è l’invidia se non l’attacco maligno, anzi l’attacco del Maligno al Bene che lo sovrasta al punto da accecarlo? Pochi lo sapevano, ma nelle loro lotte quotidiane e persino nei loro più intimi pensieri essi erano nelle file del popolo di Satana o, se volete, dal lato della parte mancante.
Ciò che questo popolo si proponeva risulta chiaro: era la tramutazione in valori di quei disvalori che la simbolica della destra continuamente espelle da sé. La debolezza espulsa dalla forza doveva diventare solidarietà comune e giustizia; la fragilità femminile davanti alla virilità fallica doveva tramutarsi in delicatezza e finezza; l’oscurità rispetto al giorno doveva acquistare profondità così come, rispetto al centro, doveva prevalere l’eccentrico e al posto dell’uomo riuscito doveva comparire lo spostato, lo sbagliato, il nuovo protagonista di una inedita uguaglianza.
Che questo tentativo di rivincita nel simbolico si trovi oggi davanti a una situazione di grave scacco, risulta mi pare evidente a ciascuno di noi. Ed è appunto la situazione odierna che ce ne offre ripetute conferme. Nel campo politico in senso stretto, la polarità sinistra-destra è andata perdendo via via la sua forza di tensione ed è ormai adibita in prevalenza a operazioni di localizzazione spaziale, per così dire, di ripartizione e classificazione dell’esistente. Di sinistra è perciò quel che viene fatto o avviene nell’ambito di uno spazio politico occupato da forze di sinistra. Ciò che prevale insomma è un’attività nomenclatoria essenzialmente tautologica: sinistra è sinistra è sinistra[iv]...
Il depotenziamento della polarità sinistra-destra avviene dunque attraverso una sua prevalente spazializzazione e la perdita dell’incisività temporale. La sinistra rimedia, lavora nel presente, non è più in grado di operare in un orizzonte più ampio e lontano. E la sua spazialità è immobile, definita, coartata. Un indizio di questa situazione è facilmente leggibile nel terrore della mobilità che di fatto, a vari livelli, e con risultati indubbiamente notevoli, ha contraddistinto in Italia l’azione delle forze politiche di sinistra negli ultimi anni.
Se usciamo dall’ambito della politica in senso stretto, ci accorgiamo di come lo scacco nel simbolico si manifesti essenzialmente come un regime di sdoppiamento nei rapporti sociali, interpersonali e, di sicuro, anche intrapersonali: mentre in profondo si fa avanti la simbolica tradizionale della destra, in superficie prevale un luogo comune di sinistra, talmente esteso da ricoprire settori tradizionalmente estranei se non ostili alla problematica della sinistra.
Potrei moltiplicare gli esempi, ma per non superare i limiti di un intervento concludo in tre punti, che mi sembrano essenziali:
1. Come operazione preliminare di ogni compito intellettuale significativo, propongo il non uso, esplicito e implicito, della polarità sinistra-destra. Attenzione! Non ne propongo l’abolizione, sarebbe assurdo, trattandosi appunto di una polarità nel simbolico. Ne propongo il non uso, perché ciò che si è svolto nell’ambito della sinistra si è disegnato quasi per intero dentro un negativo, un disvalore complessivo disegnato dalla destra e, entro questi limiti, si è concluso con uno scacco. L’impiego attuale è puramente locativo, detemporalizzato e quindi profondamente paralizzante.
2. In via del tutto provvisoria, propongo l’uso implicito e il privilegio, in ogni valutazione intellettuale, di qualcosa che si potrebbe chiamare creatività-generatività, contrapposta a non creatività e a non generatività. Sarà facile notare come il valore simbolico della creatività-generatività sia fondamentalmente estraneo alla coppia sinistra-destra, che è dominata dall’elemento della potenza virile e dalle varie opposizioni a essa. La creatività-generatività esorbita da quest’ambito e si pone come criterio valutativo di esso. Inoltre, e soprattutto, essa costituisce uno spostamento nel campo simbolico: parlo di spostamento, e non intendo una creazione velleitaria di uno o pochi individui, perché questa coppia simbolica è già o è già stata attiva in masse storiche recenti.
3. Per una riflessione intellettuale e non, propongo di esaminare la necessità tragica, in cui si è trovata finora gran parte della specie, di ricorrere a una serie di polarità in forte tensione, di dicotomie simboliche che, variando di sostanza e figura, hanno sempre svolto un ruolo fondamentale nella storia. Basterà pensare alla dicotomia fedele-infedele, credente-non credente nell’ambito religioso; oppure alla dicotomia razza eletta-razza reietta nel successo della propaganda hitleriana. Ed è caratteristico di queste polarità il loro spostarsi spesso, con sempre maggiore intensità e crudezza, ad ambiti via via più ristretti e selezionati. Ci basti qui pensare alle scissioni che hanno successivamente segmentato tutto l’ambito della sinistra politica. Ma tale tipo di polarizzazione non risparmia nessun campo culturale se è vero, come sosteneva Freud, che si potrebbero avere guerre in nome della scienza[v]. Vi è qui un ambito di ricerche che può estendersi dalla scissione detta schizoparanoide nel bambino che succhia il latte, secondo le ipotesi di Melanie Klein[vi], fino al manicheismo adulto, sicuro di sé e in apparenza correttamente razionale.
NOTE
[1] Cfr. E. Fachinelli, Che cosa chiede Edipo alla Sfinge?, In «Quaderni piacentini», aprile 1970 (subito tradotto in francese su «Topique»).
[2] Continua: «Di essa, la psicanalisi comunemente intesa è solo un momento parziale, limitato, anche se di grande fecondità. La sua prima linea di sviluppo, non l’unica, è in direzione dell’analisi della struttura familiare», E. Fachinelli, Il deserto e le fortezze (parte II), in «L’erba voglio», aprile 1972, poi ripreso col titolo Il paradosso delle ripetizione in Id., Il bambino dalle uova d’oro, Feltrinelli, Milano 1974.
[3] Nell’accezione anche hegeliana («Vita è la connessione della connessione e della non-connessione») che da un punto di vista culturale Fachinelli integrò col concetto kierkegaardiano di Gjentagelse (cfr. S. Kierkegaard, La ripetizione, a cura di D. Borso, Guerini, Milano 1991).
[4] Il riferimento qui è a E. Fachinelli, La mente estatica, Adelphi, Milano 1989.
[5] Pubblicata postuma da Sergio Benvenuto col titolo Sull’impossibile formazione degli analisti in Aa.Vv., La bottega dell’anima, a cura di S. Benvenuto e O. Nicolaus, F. Angeli, Milano 1990.
[6] S. Benvenuto, La «gioia eccessiva» di Elvio Fachinelli, in E. Fachinelli, Intorno al ’68, a cura di M. Conci e F. Marchioro, Massari, Bolsena 1998.
[7] E. Fachinelli, Un regalo? La realtà, su «L’Espresso» del 16 dicembre 1984. [i] «Lotta continua», 27 ottobre 1981. Comunicazione presentata al convegno Il concetto di sinistra, Roma, 20-22 ottobre 1981. (Poi in Aa.Vv., Il concetto di sinistra, Bompiani, Milano 1982, pp. 21-24.)
[ii] La visita all’Avana del segretario nazionale del PCI si svolse a inizio ottobre 1981.
[iii] K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Einaudi, Torino 1949, p. 104: «L’idea di ogni proprietà privata come tale è rivolta contro la proprietà privata più ricca sotto forma di invidia e di tendenza al livellamento, tanto che questa stessa invidia e questa stessa tendenza al livellamento costituiscono l’essenza della concorrenza.Il comunista rozzo non è che il compimento di questa invidia e di questo livellamento».
[iv] Qui Fachinelli fa il verso a Rose is a rose is a rose is a rose di Gertrude Stein.
[v] Cfr. S. Freud, Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte (1915), in Id., Opere, cit., VIII.
[vi] Cfr. M. Klein, Invidia e gratitudine (1957), Martinelli, Firenze 1969.
“Al cuore delle cose. Scritti politici (1967-1989)” di Elvio Fachinelli a cura di Dario Borso, una raccolta di testi che offrono una chiave inedita per affrontare le questioni politiche
di Delia Vaccarello (l’Unità, 1 giugno 2016)
Psicanalisi e politica: due volti per un solo “cuore”. C’è un nesso stretto tra la psicanalisi che considera l’inconscio un “ospite interno”, straniero eppure intimo, e una visione secondo la quale «il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia». Due volti e una voce, quella di Elvio Fachinelli nella veste di giornalista che giunge a noi grazie alla raccolta Al cuore delle cose.
Scritti politici (1967-1989) a cura di Dario Borso (DeriveApprodi). Pagine attraversate da uno slancio che vede il pensiero, la clinica e la pratica politica in grado di lavorare per azzerare barriere ed esclusioni. Fachinelli crea, anticipa, interroga con quel coraggio che al contrario di Don Abbondio «uno se lo può dare». La sua politica, che vuole uscire dai problemi «tutti insieme», trova radici nelle innovazioni da lui proposte in psicanalisi. Ed è legata all’uso di una parola che è atto in grado di cambiare la realtà sia nelle stanze di analisi (quando il setting funziona) che nella politica degna di questo nome.
Nelle riflessioni “Sulla spiaggia”(“la mente estatica”, Adelphi) Fachinelli abbandona la psicanalisi come difesa pignola da un presunto pericolo interno, come fabbrica di armi ben appuntite e di corazze, per volgersi all’accoglimento dell’inconscio, a un modo «femminile» di andare al cuore delle cose. L’inconscio, ancora prima di esaminarlo, diventa un «ospite» da accogliere. Ma se il sistema di vigilanza-difesa è collegato con la impostazione virile, «allora accogliere: femminile? Il femminile sarebbe allora nel cuore, il cuore di molte e diverse esperienze». Sarebbe esporsi all’estasi laica e alla gioia, rinunciando all’illusione di padronanza. Tematica ripresa dalla «fachinelliana» Cristiana Cimino nel suo Il discorso amoroso (manifestolibri, del quale abbiamo parlato in queste pagine) dove proprio a partire dalla «posizione femminile», che implica l’accantonamento del primato della coscienza ed è strada praticabile da maschi e femmine senza prerogative di genere, c’è una possibilità di uscire da sé per intrecciare un legame intimo.
Con Fachinelli giornalista è come se ci trovassimo alla radice di un doppio registro: se non mi difendo dall’Altro che mi abita dentro, cioè dall’inconscio, ma lo accolgo, posso aprire gli occhi anche sull’Altro fuori di me e prendermi cura del legame sociale. Il cambiamento rispetto all’inconscio diventa «visione». Così una psicanalisi che è atto etico nei confronti dell’Altro può ispirare una politica che si muova nella stessa direzione. Messaggio attualissimo.
Pensiamo alla necessità di rapportarci agli esclusi di oggi, i migranti, che sono in mezzo a noi ma “estranei”, in cerca di casa e lavoro, ma sempre di passaggio. Ospiti. Specchio di una precarietà esistenziale che suscita inquietudine e angoscia. Sarebbe vitale una politica dell’immigrazione ispirata dall’etica di una vulnerabilità che riguarda tutti. I migranti di oggi sono, negli scritti politici di Fachinelli, i ragazzi che scrivono Lettera a una professoressa con Don Milani, e saranno tra le urgenze che lo spingeranno a immergersi nel ’68. «Trovai in quel libro», dice, «un richiamo alla eguaglianza delle condizioni e una prima denuncia delle deficienze della istituzione scolastica».
Di 56 alunni, dopo gli anni dell’obbligo, ne erano rimasti 16. Richiamo che lo portò nell’asilo autogestito di porta Ticinese ad analizzare il sorgere della società fascista o mafiosa: se manca la figura dell’adulto, a fare legge è la prepotenza, dice Fachinelli, o meglio “Elvio cacato”, come per un periodo fu chiamato da quei bimbi molti dei quali immigrati del nostro Sud. Articolo dopo articolo vediamo la psicanalisi offrire chiavi alla politica. Così ne Il desiderio dissidente, scritto comparso in Quaderni piacentini proprio nel ’68, «la società che soddisfa il bisogno ruba l’identità».
Allora, essenziale per i gruppi di giovani che si stavano formando proprio in quel momento è alimentare uno stato nascente: «il gruppo impara sempre meglio che essenziale per la sua sopravvivenza non è l’oggetto del desiderio ma lo stato di desiderio», laddove il desiderio appagato muore trascinando con sé il gruppo. Occhio ad incarnare il desidero nella figura del leader - che sia persona o valore -perché altrimenti si entra nella fissità del bisogno. Osservazioni fertili anche oggi se pensiamo alla trasformazione dei movimenti nati grazie al web in nome di una modalità orizzontale di rappresentanza e gestiti poi dalle logiche del leaderismo. Anni dopo, nel 1988, in “estasi metropolitane” la condizione estrema della mente, nella sua accezione laica diviene accessibile a tutti grazie al gusto della «velocità per la velocità» che attrae in quanto stravolgimento del tempo.
Una metropoli come New York permette l’estasi della promiscuità, l’appartenenza a una dimensione più vasta e la gioia. Se la voce di Fachinelli si fa graffiante e interrogante dinanzi al «suo paziente più complicato» che fu l’Italia, come sottolinea l’ottimo curatore , non è priva dei toni dell’indignazione e dello scacco. Una delle chiavi va trovata nell’uso del termine «prudenza», cioé viltà. Con i ragazzi di Barbiana Fachinelli concorda: si accettano consigli «purché siano per la chiarezza, si rifiutano i consigli di prudenza». Nel ’75 analizzando il nuovo rapporto tra operai e imprenditori, gli uni “pro tetti” gli altri “assistiti”anticipa la fisionomia della futura classe dirigente: «ne deriva un nuovo potere costretto a concentrare politica, economia e controllo sociale».
Così come una società frenata, immobile, che taccia di “imprudenza” i piccoli gruppi capaci di cambiamento: le femministe, i radicali per l’aborto. Toccante, infine, l’ultimo scritto della raccolta, Don Abbondio, “il vittorioso”. Fachinelli nota che Manzoni, mostrando il cuore nero (e avaro) dell’universo umano, ha cancellato dal lessico del curato viltà e coraggio, e «al posto della prima troviamo la prudenza». E’ il 1989, Fachinelli sta per morire, lasciandoci un buon itinerario per andare al «cuore delle cose» . E tutto il suo coraggio.
La nuova ’Storia del marxismo’ in Italia
di PAOLO FAVILLI (MICROMEGA, 10.05.2016)
Nella "Storia del marxismo" (Carocci, Roma 2015, 3 voll.) recentemente uscita a cura di Stefano Petrucciani si ripresenta la possibilità di riesaminare la storia del marxismo alla luce del sistema di relazioni che sorregge le sue diverse forme. Entro questo contesto sono almeno due i problemi che vanno posti: quello del rapporto fra riforme e rivoluzione e quello del nesso fra filosofia e marxismo.
1) I tre agili volumetti che compongono questa Storia del marxismo, pur inserendosi in una tradizione consolidata e di lungo periodo concernente i modi di fare storia dell’«oggetto» in questione, presentano interessanti spunti di originalità nel panorama complessivo della produzione storica frutto del clima della Marx Renaissance. Ho usato l’espressione produzione storica, ma, come vedremo proseguendo nel discorso, il termine storia, proprio nell’ambito della tradizione cui ho fatto sopra riferimento, necessita di essere meglio precisato. Qual è, però, il peso della dimensione storica nel contesto di quella riflessione generale su Marx ed il marxismo che è stata chiamata Marx Renaissance?
La Marx Renaissance è, indubbiamente, un fenomeno di estrema importanza che oggi ha travalicato anche l’ambito degli studi per diventare, ad esempio, elemento centrale di una delle più importanti manifestazioni artistiche mondiali: la Biennale di Venezia del 2015. Il «cardine» del programma è stato «l’imponente lettura dal vivo dei tre volumi di Das Kapital di Karl Marx. «Porto Marx alla Biennale perché parla di noi oggi», ha detto il curatore della mostra veneziana[1]. La sfera degli studi, la sfera dell’arte, la sfera dell’alta cultura in genere, però, appare separata dai processi di mutamento che interessano lo stato di cose presente.
Il fenomeno della Marx Renaissance comincia a delinearsi pochissimo tempo dopo la proclamata morte del pensatore di Treviri, non casualmente in concomitanza con i primi sinistri scricchiolii delle crisi finanziar-recessive degli anni Novanta. Un fenomeno che poi è cresciuto in maniera esponenziale a partire dagli inizi della «grande crisi» in cui siamo tuttora immersi. Le ragioni sono evidenti: l’impossibilità del pensiero economico mainstream, ormai quasi del tutto coincidente con l’«economia volgare», a spiegare le logiche profonde dei modi in cui si manifestano gli squilibri dell’«economia mondo», cioè del capitalismo mondo. Porsi le domande giuste e tentare qualche risposta di fronte all’attuale fase di accumulazione capitalistica, comporta la necessità di pensare il capitalismo come problema. È possibile farlo senza Marx?
Con tutta evidenza non lo è. Di qui la ripresa di una ricchissima pubblicistica, in gran parte scientifica, su Marx e il marxismo, quasi una nuova biblioteca che si aggiunge a quella vera e propria biblioteca di Alessandria (fortunatamente non scomparsa) che ha raccolto nel tempo gli infiniti contributi dedicati a problematiche marxiane e marxiste.
Il contributo italiano alla costruzione di questa nuova biblioteca è stato ed è tutt’altro che marginale. Studiosi di economia, di filosofia, di sociologia hanno prodotto una letteratura di alto livello. I testi fondamentali di Marx sono stati sottoposti a nuove ed accurate indagini filologiche. In particolare Il Capitale è stato oggetto di una recente ed importante edizione comprendente tutti i testi scritti da Marx con l’intenzione esplicita della realizzazione del I libro[2]. Il volume comprende anche tutte le principali varianti delle edizioni precedenti alla IV edizione tedesca, e permette, così, di entrare direttamente nel laboratorio marxiano. Un preliminare «lavoro filologico minuto e condotto col massimo scrupolo di esattezza, di onestà scientifica»[3], per dirla con Antonio Gramsci. Filologia messa al servizio dell’interpretazione critica della teoria[4]. Della teoria, appunto. Gli studiosi di storia, fino a questo momento, sono rimasti ai margini dei filoni centrali della Marx Renaissance; nel migliore dei casi ne hanno accompagnata la logica dominante.
L’amplissimo panorama di studi che la Marx Renaissance ha prodotto è stato recepito dagli storici soprattutto per lavori relativi a nuove interpretazioni di storia del pensiero, di storia dell’analisi, di storia delle idee in genere.
In Italia la storia della teoria ha una lunga tradizione di grande interesse. Il fatto che il contributo italiano al dibattito teorico sul marxismo sia stato di estrema rilevanza sia alla fine dell’Ottocento (Antonio Labriola), sia nel Novecento (Antonio Gramsci), non poteva non avere influenza su tutta una tradizione di studi. Inoltre sempre italiani erano gli interlocutori/avversari tanto sull’«economia pura» (Vilfredo Pareto) che sui «concetti puri» (Benedetto Croce), e si trattava di italiani che rappresentavano le punte alte internazionali vuoi della teoria economica che della filosofia idealistica.
Una tradizione che ha avuto ed ha importanti risultati conoscitivi. Nei «trenta gloriosi» seguiti al secondo dopoguerra si sono esplorati con varia fortuna i sentieri della storia sociale della cultura marxista. Questa impostazione storiografica non si è sostituita alla prima, vi si è affiancata e, nonostante alcune frizioni, l’insieme di rimandi tra le due dimensioni storiografiche ha rappresentato un indubbio arricchimento di quella cultura.
Dopo «fine del marxismo» e «fine della storia», diventata assai problematica la connessione con il «movimento reale», la storia della teoria ha ripreso nuovo vigore, ma con riferimenti del tutto esterni rispetto alle forme marxismo nel loro rapporto con le forme assunte dall’antitesi dei subalterni, tanto nella loro storia quanto nelle loro prospettive. D’altra parte la storia del marxismo si concretizza proprio nel sistema di relazioni tra le sue forme, le quali si presentano, a loro volta, come incroci, risultanti di percorsi molteplici
È possibile che lo scavo in atto nei materiali teorici marxiani sia propedeutico anche ad una storia rinnovata, ad una nuova sintesi, ma per ora le opere di carattere generale che sono uscite nel periodo della Marx Renaissance hanno riproposto il modello della storia delle teorie.
Allo stato attuale degli studi di storia del marxismo era impossibile pensare una storia di carattere generale, una storia addirittura globale, in grado di seguire la molteplicità delle forme marxismo al di fuori della forma marxismo teorico.
Come ha opportunamente ricordato Giorgio Cesarale, uno degli autori dell’opera in questione, ««il marxismo (...) se ha un valore conoscitivo è perché riposa su un complesso di forme (da quelle storiche e politiche a quelle più legate alla critica dell’economia politica)»[5]. E, seppure attraverso una declinazione sostanzialmente interna al marxismo teorico, i lineamenti dei volumi si snodano e si articolano secondo tale pluralità.
Gli ideatori dell’opera, il curatore, Stefano Petrucciani, sono perfettamente coscienti delle difficoltà insuperabili, anche rimanendo nell’ambito della sola forma marxismo teorico, per costruire una narrazione generale con tendenze sistematiche relativamente ad un oggetto definibile solo tramite storicamente determinati. Petrucciani nella Premessa parla esplicitamente della costruzione di una «mappa», e nel saggio introduttivo afferma «che una storia del marxismo non possa essere che selettiva e dunque per molti versi anche arbitraria»[6]. È quindi del tutto ovvio che la mappa in questione sia esile e che i suoi lineamenti si dipanino attraverso uno spazio talmente ampio da rendere impraticabile la possibilità di percorrere tutto il territorio. Sarebbe, però un’esercitazione non solo inutile, ma anche fuorviante, esercitarsi nella ricerca degli spazi non percorsi dalla «mappa» tracciata. Un’opera non va giudicata per quello che non c’è. Ed inoltre la ricerca delle «assenze» avrebbe il medesimo carattere «arbitrario» che Petrucciani ha indicato per la scelta delle «presenze». Un’opera va giudicata per quello che c’è, e in questa Storia del marxismo c’è molto, e di sostanza.
2) Tra le molte «forme» marxismo quella di «marxismo teorico» parrebbe avere una solida struttura di riferimento, e quindi caratteristiche di denotazione attraverso parametri certi. Dal punto di vista dell’analisi storica, invece, i parametri di definizione dell’oggetto di studio in questione non si delineano con nettezza. I loro confini sono sfumati sia in profondità che in ampiezza. Ci troviamo di fronte, infatti, a livelli diversi di «marxismo teorico». Diversi per capacità euristica, diversi per la scelta del punto ritenuto essenziale allo svolgimento della teoria, diversi infine per gli effetti su processi culturali di lunga durata.
Proprio la molteplicità dei modi in cui si manifesta la permeabilità dei confini del «marxismo teorico», implica l’impossibilità, in una storia, di ignorare nel contesto delle connessioni con il «marxismo politico». Il marxismo politico, infatti, dal punto di vista dell’analisi storica, e non solo, non è separabile dalle altre forme. Con queste, nel corso della sua storia, ha costituito un sistema di relazioni attraverso cui si è resa possibile l’amplissima diffusione di aspetti fondamentali delle forme stesse. Per più di un secolo partiti politici e poi persino Stati hanno posto il «marxismo» come elemento centrale della propria denotazione ed anche delle molteplici connotazioni, e dunque abbiamo necessariamente a che fare con dimensioni teoriche «impure».
Alcuni dei contributi dell’opera in questione hanno indagato accuratamente nel terreno della suddetta permeabilità, con risultati di notevole interesse. È il caso, ad esempio, dell’articolato itinerario di Nicolao Merker nell’universo del marxismo di lingua tedesca, dalla Spd all’austromarxismo, e di Guido Carpi nella centralità politica del marxismo russo e poi sovietico.
Merker sottolinea il ruolo fondamentale delle leggi antisocialiste di Bismarck nella formazione dei caratteri originari del marxismo. «Esibire dottrine ispirate a Marx - afferma - diventò importante per motivi anzitutto politici»[7]. Senza la pesante concretezza di questa contingenza storica la «cerniera che segna il passaggio da Marx al marxismo», la «cerniera»[8] engelsiana, avrebbe avuto maggiore difficoltà a chiudersi sull’orizzonte di una «filosofia per il socialismo».
Ed ancora, a proposito della permeabilità dei confini di cui si è detto, Merker cita Bruno Bauer che in un articolo politico del 1924 discute una tesi di fondo della Meccanica nel suo sviluppo storico (1883) di Ernst Mach[9]. E la discute, appunto, non in uno scritto di teoria della conoscenza, ma in un intervento sul terreno molto caldo dei tempi delle trasformazioni storiche, dei tempi delle rivoluzioni e della lentezza dei ritmi di trasformazione. E in tempi in cui il movimento operaio austriaco ed europeo su tali temi si sta dilaniando, e non solo metaforicamente.
Il marxismo russo è, con tutta evidenza, il luogo in cui l’intreccio tra marxismo teorico e marxismo politico finirà per assumere forme che incideranno profondamente nella vicenda dei socialismi novecenteschi. Merito del ricco ed analitico saggio di Guido Carpi è di avere tenuti ben stretti i lineamenti della particolare storia russa dell’Ottocento nel loro rapporto tanto con il marxismo precedente la rivoluzione d’ottobre che con quello seguente. Pur senza alcuna tentazione deterministica, Carpi coglie il peso di una storia profonda e di lunga durata nell’ambito di un complesso sistema di relazioni con i fenomeni legati a esigui gruppi di intelligencija. Anche il partito socialdemocratico russo (POSDR), prima della Grande guerra è partito di intelligencija. E sarà soprattutto dopo la guerra e la rivoluzione che la storia russa profonda, con protagonista il contadino-soldato, entrerà in collisione con la dimensione critica del marxismo. La belle pagine che Carpi dedica alla tensione tra quella vera e propria esplosione di sperimentazione artistica, culturale in genere, degli anni Venti e il prevalere del marxismo della ragione politica, sono, a questo proposito, di grande interesse.
Il grande scrittore sovietico Vasilij Grossman immagina una situazione in cui, nel 1943, un fisico teorico di grande rilevanza e famoso in tutto il mondo scientifico anche al di fuori della Russia, viene messo sotto accusa in quanto le sue teorie «contraddicevano le idee leniniste sulla natura della materia»[10]. Una situazione tutt’altro che immaginaria ed isolata nel marxismo di Stalin. In quella del Diamat (materialismo dialettico) dello «stalinismo maturo» - che, dice Carpi, «funziona e vuole funzionare come generatore e fondamento di una mitologia universale assoluta». Ed aggiunge: «Lungi dal rappresentare una mera deformazione del marxismo in senso platealmente deterministico - come vuole Lukács o, al contrario in senso pragmatico (come vuole Marcuse), il “materialismo dialettico” staliniano trapassa - qui davvero dialetticamente! - in arte divinatoria, demiurgica e polemologica: il nostro oggetto di studio si è così “tolto” (aufgehoben) in qualche cosa di altro da sé»[11].
Credo che sia una conclusione consolatoria. Anche questa era una forma marxismo, uno specifico e particolare storicamente determinato.
CONTINUAZIONE NEL POST SUCCESSIVO
3) Nei primi due volumi di quest’opera l’intreccio tra dimensione teorica e sua articolazione con lo svolgimento dei lineamenti politici si manifesta, e non poteva essere altrimenti, attraverso un fittissimo insieme di problemi. Mi soffermerò, brevemente, solo su un paio di temi che mi sembra abbiano a vedere in maniera particolare con questioni di fondo relative a tale intreccio:
a) l’ «antiriformismo» di Marx, b) filosofia/non filosofia in Marx e nel marxismo.
a) Secondo Stefano Petrucciani «non c’è dubbio sull’opzione antiriformista e rivoluzionaria di Marx»[12]. Un’affermazione che, a mio parere, ha bisogno di essere meglio precisata, e, quindi, inserita in un contesto di «distinzioni», per usare un’espressione di Delio Cantimori.
Soprattutto la distinzione tra le categorie analitiche del Capitale e le posizioni politiche di Marx, in particolare nel momento in cui la Spd tendeva ad assumere una identità «marxista».
Sul piano del miglioramento delle condizioni di lavoro degli operai, ad esempio, la teoria del salario veniva legata da una parte a quella del valore, dall’altra a quella dell’accumulazione, tramite la definizione dei meccanismi d’azione del saggio di plusvalore e del saggio del profitto. Perciò, per quanto concerneva le categorie strettamente analitiche, la grandezza del salario, lungi dall’essere legata ai minimi di sopravvivenza (e del resto Marx insisteva particolarmente sul carattere storico, non statico, di questi minimi), non trova limiti se non nell’insorgenza di gravi pericoli per la continuazione del processo di valorizzazione del capitale. Le variazioni del saggio del profitto tra un limite minimo ed uno massimo potevano essere assai ampie. «È chiaro - affermava Marx - che tra questi due limiti del saggio massimo del profitto è possibile una serie immensa di variazioni. La determinazione del suo livello reale viene decisa soltanto dalla lotta incessante tra capitale e lavoro»[13]. Ed è altrettanto chiaro che tra questi due limiti, nella tensione verso il limite superiore, sta tutta la storia del riformismo. Centocinquant’anni di storia economica e sociale dalla I edizione del Capitale, hanno dimostrato, ad abundantiam, la dinamica di quelle oscillazioni anche in relazione al fattore «movimento operaio».
Naturalmente non era certo questo l’orizzonte verso cui verso cui tendeva il «rivoluzionario» Marx, ma le sue principali categorie di analisi economica non possono esser considerate negatrici di percorsi gradualistici e quindi riformatori.
Per quanto riguarda, invece, la posizione politica espressa nella «importante lettera “antiriformista”»[14] del 1879, il contesto in cui si pone è, certamente, quello della «assoluta opposizione», cioè il contesto in cui, in seguito alle leggi antisocialista di Bismarck, l’ambiente socialista tedesco si trovò ad essere sottoposto a violente oscillazioni. La ricordata lettera-circolare del 1879 non è altro che una reazione nei confronti dell’oscillazione più radicale: dalla «lotta di classe» alla «filantropia». Nell’estate di quell’anno era uscita a Zurigo nell’appena fondato «Jahrbuch für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik», un articolo dal titolo Sguardi retrospettivi sul movimento socialista in Germania. Ne erano autori Höchberg, Schramm e Bernstein che però aveva aggiunto solo alcune righe secondarie. Questa una delle frasi chiave dell’articolo: « ... i tedeschi hanno commesso un errore trasformando il movimento socialista in un puro movimento operaio e attirandosi da sé, provocando inutilmente la borghesia. Il movimento dovrebbe essere portato sotto la direzione degli elementi borghesi e colti...».
In una lettera a Becker (8 settembre) Engels chiarirà il senso della circolare «antiriformista»: «Sarà ben presto tempo di farsi avanti contro i grandi e piccoli borghesi filantropici (...) che vogliono annacquare la lotta di classe del proletariato contro i suoi oppressori [trasformandola] in un istituto generale per la fratellanza umana, e questo nel momento in cui i borghesi, con i quali vogliono affratellarci, ci hanno dichiarato fuori legge, hanno distrutto la nostra stampa, disperso le nostre assemblee e ci hanno consegnati all’arbitrio poliziesco sans phrase. Difficilmente i lavoratori tedeschi parteciperanno a questo tipo di menzogna». Battaglia per l’autonomia politica e teorica del socialismo, dunque, esattamente la stessa operazione che più di un decennio dopo vedrà, in Italia, protagonista Filippo Turati contro tutti gli «affinismi».
b) «Quando si parla del rapporto tra “filosofia” e “marxismo” si viene nominando un oggetto non chiaramente intellegibile», in questi termini, del tutto condivisibili, Giorgio Cesarale imposta uno dei problemi che ha attraversato, ed attraversa, tutto il lungo percorso del «marxismo teorico».
Cesarale è ben cosciente della difficoltà (impossibilità?) di definire il sapere filosofico. Penso che potrebbe concordare con quest’affermazione di uno storico come Krzysztof Pomian: «La specificità della filosofia consiste proprio in questo, che essa non può realizzarsi se non in una pluralità di filosofie tra loro in conflitto». E gran parte di questi conflitti sono relativi al rapporto tra sapere filosofico e saperi particolari[15]. La questione del rapporto filosofia-Marx, filosofia-marxismo è del tutta interna a questo tipo di problema, la cui consapevolezza impronta di sé tutto il saggio di Cesarale.
«Karl Marx fu un filosofo tedesco»[16] afferma con decisione Kolakowski, e su questa base legge le categorie economiche marxiane come sostanziale frutto di una «antropologia filosofica»[17] e ribadisce che il Capitale «va compreso come opera filosofica»[18]. Ed, appunto, cercare una risposta alla questione della natura del sapere di Das Kapital, significa entrare nel nucleo centrale dell’operazione tanto metodologica che epistemologica del Marx maturo.
Marx è stato certamente anche un «filosofo tedesco» e alcuni dei problemi filosofici centrali del periodo giovanile, non sono certo scomparsi, nella maturità, dall’orizzonte della sua riflessione. Ma è altrettanto significativo che una volta giunto alla economia politica egli «studiò per vent’anni questa scienza (...) con un interesse assolutamente prevalente rispetto agli altri rami del sapere»[19]. Il Marx analitico della maturità è un economista politico. Il problema riguarda piuttosto la peculiarità della sua critica dell’economia politica.
Com’è noto Schumpeter insiste sulla natura «chimica» della fusione nel Capitale di sociologia, storia, economia. Diverso il caso della filosofia che, sempre secondo Schumpeter, al massimo avrebbe influenzato la «visione» di Marx, l’«atto conoscitivo preanalitico», mentre si potrebbe dimostrare che «ogni sua proposizione, economica e sociologica, come pure la sua visione del processo capitalistico in generale, o possono riportarsi a fonti non filosofiche (...) oppure considerarsi come risultato di una propria analisi rigorosamente empirica»[20]. Un’osservazione pregnante, sebbene non immune da quel fastidio nei confronti della filosofia, apportatrice di impurità nei paradigmi scientifici, tipico di una lunga tradizione di economisti per i quali nel migliore dei casi la filosofia doveva considerarsi nettamente separata dalla loro disciplina, nel peggiore considerarsi il luogo di complicate fanfaluche verbali.
In realtà la filosofia, nell’argomentazione del Capitale, ha un ruolo più rilevante di quello che Schumpeter le ha assegnato, senza che per questo l’analisi economica perda la sua specificità, e le categorie economiche appaiano come meri involucri di categorie filosofiche, così come Kolakowski le ha interpretate. La scelta del curatore della Storia del marxismo di affidare a Riccardo Bellofiore[21], uno degli economisti che con maggiore rigore e penetrazione ha indagato il rapporto filosofia/economia nel Capitale, il capitolo dedicato all’analisi il luogo sostanziale del problema (la teoria del valore), è stata, senza dubbio, lungimirante.
Cesarale, sulla questione, cita Balibar: «quella marxiana è piuttosto tanto un’antifilosofia (...) quanto una sorta si Überwindung, di oltrepassamento, della filosofia, una posizione teorica che nel suo costituirsi utilizza la filosofia, ma non la invera, non la eleva ad un grado superiore di sviluppo». Sempre dallo stesso libro cui si riferisce Cesarale si potrebbe citare anche questa tesi che l’autore definisce «un po’ paradossale»: «Non c’è e non ci sarà mai una filosofia marxista; di contro l’importanza di Marx per la filosofia è più grande che mai ( il corsivo è di Balibar)»[22].
Alla fine del XIX secolo un filosofo italiano, Antonio Labriola, proprio tramite studi economici, passa dalla «filosofia astratta»[23], alla convinzione che «la filosofia come un tutto a sé [sia] destinata a sparire»[24] (il corsivo è mio). Un lungo e intenso viaggio all’interno dell’economia politica durante il quale la sua concezione di filosofia si modifica radicalmente. Alla luce di quel viaggio, che poi fa tutt’uno con la sua adesione al marxismo, arriverà a questa conclusione: «Noi ora sappiamo che cosa la filosofia sia stata, che cosa non debba più essere, e in quali modesti confini d’ora innanzi si debba restringere»[25]. Per Labriola, in polemica con Croce proprio sulla concezione della filosofia, la scienza dei «concetti puri» si manifesta come sapere regressivo, rispetto ad un metodo, quello marxiano, che si oppone, da un lato all’assolutizzazione della scienza, sottoponendola ad una “critica” (nel Capitale, ad una “critica dell’economia politica” come scienza); dall’altro si oppone alla assolutizzazione della filosofia, rinviandola per i suoi contenuti a riflettere sulle scienze e sull’esperienza comune
Si è di fronte, direi, ad un modo d’intendere il lavoro teorico diverso dalla theoria (non è un bisticcio di parole) nelle sue implicazioni procedurali, conoscitive e pratiche, un modo che costituisce la risposta non alla classica (e infruttuosa) domanda ‘che cosa è la filosofia?’, ma alla domanda cruciale ‘come fare filosofia in mondo che cambia?’: per conoscerlo e per trasformarlo.
Paolo Favilli, già professore di Storia contemporanea e Teoria della conoscenza storica all’Università di Genova, già direttore del Dipartimento di Studi Umanistici di quell’Università, è studioso delle culture del socialismo. Alla storia del marxismo ha dedicato, oltre numerosi saggi, anche alcuni volumi: Il socialismo italiano e la teoria economica di Marx (1892-1902), Napoli, 1980, Herausgabe un Verbreitung der Werke von Karl Marx und Friedrich Engels in Italien, Trier, 1988, Storia del marxismo italiano. Dalle origini alla grande guerra, Milano, 1996; Marxismo e storia. Saggio sull’innovazione storiografica in Italia, Milano, 2006. Sono in corso di pubblicazione: Il marxismo e le sue storie, Milano, 2016 e The History of Italian Marxism. Leiden/Boston, 2016, traduzione inglese del libro del 1996.
NOTE
[1] «La Stampa», 3 marzo 2015.
[2] K. Marx, Il capitale. Critica dell’economia politica, Napoli, La città del sole, 2011. (Marx Engels Opere Complete, XXXI).
Cfr. http://ilrasoiodioccam-micromega.blogaut...
[3] A. Gramsci, Quaderni del carcere, Edizione critica, Torino, Einaudi, 1975, p. 420.
[4] R. Fineschi, Un nuovo Marx. Filologia e interpretazione dopo la nuova edizione storico-critica (MEGA2), Roma, Carocci, 2008.
[5] G. Cesarale, Filosofia e marxismo tra Seconda a Terza Internazionale, in Storia del marxismo, vol. 1, pp. 169-228. La cit. p. 225.
[6]S. Petrucciani, Premessa, e Da Marx al marxismo attraverso Engels, in Storia del Marxismo, cit,, pp. 9 e 12.
[7]N. Merker, Ortodossia e revisionismo nella socialdemocrazia, ivi, pp. 33-72. La cit. p. 33.
[8] S. Petrucciani, Da Marx al marxismo, attraverso Engels, ivi, pp. 11-32. La cit. p. 24.
[9] N. Merker, L’austromarxismo e i marxismi eterodossi, ivi, pp. 147-168. Il riferimento p. 150.
[10] V. Grosssman, Vita e destino, Milano, Adelphi, 2008, p. 542.
[11] G. Carpi, Il marxismo russo e sovietico fino a Stalin, in Storia del marxismo, cit, pp. 101-145. La cit. p. 141
[12]S. Petrucciani, Da Marx al marxismo attraverso Engels, cit., p. 18.
[13]K. Marx, Salario, prezzo, profitto, MEOC, vol. XX, p. 147. Il corsivo è mio.
[14] S. Petrucciani, Da Marx al marxismo attraverso Engels, cit., p. 18.
[15] K. Pomian, Filosofia/filosofie, in «Enciclopedia», vol. VI, Torino, Einaudi, 1981, pp. 153-207. La cit. p. 155.
[16] L. Kolakowski, Nascita, sviluppo, dissoluzione del marxismo, vol. I, I fondatori, Milano, SugarCo, 1980, p. 11.
[17]Ivi, p. 349.
[18]Ivi, p. 279.
[19] Intervento di B. Jossa in Marx e i marxismi cent’anni dopo, a cura di G. Cacciatore e F. Lomonaco, Napoli, Guida, 1987, p. 423.
[20]J. A. Schumpeter, Storia dell’analisi economica, Torino, Einaudi,1959, vol I, p. 52, vol. II, p. 506.
[21] R. Bellofiore, Capitale, teoria del valore e teoria della crisi, in Storia del marxismo, cit., vol. III, pp. 11-50
[22] E. Balibar, La filosofia di Marx, Roma, Manifestolibri, 1994, p. 7.
[23] Lettera a Friedrich Engels del 3 aprile 1890, A. Labriola, Carteggio, III, (1890-1895), a cura di S. Miccolis, Napoli, Bibliopolis, 2003.
[24] Lettera a Friedrich Engels del 13 giugno 1894, ivi.
[25] Ivi.
(10 maggio 2016)
L’incanto spezzato della dialettica
«Hegel e Spinoza» è il saggio di Pierre Macherey scritto intorno all’operazione compiuta da Hegel tesa a neutralizzare l’anomalia rappresentata dal filosofo olandese. Un esempio di limpida battaglia politica condotta attraverso un rigoroso lessico filosofico
di Giso Amendola (il manifesto, 15.04.2016)
Crea uno strano effetto avere oggi a disposizione in traduzione, grazie alla preziosa cura editoriale di Emilia Marra, un libro importante come l’Hegel ou Spinoza di Pierre Macherey, uscito nel 1979, quasi come ultimo frutto di lotte teoriche le cui coordinate sono oggi decisamente inattuali (Hegel o Spinoza, ombre corte, euro 19). Ma un testo teoricamente densissimo continua evidentemente a porre questioni, anche se probabilmente in direzioni molto diverse da quelle all’interno delle quali era nato.
Nella premessa all’edizione italiana, Macherey indica subito al lettore questo sfasamento temporale, almeno dal punto di vista del clima generale dell’epoca: scritto quando la trasformazione radicale dell’esistente sembrava ancora un ovvio terreno di impegno per la teoria, il libro incontra oggi lettori per cui la rivoluzione non sembra essere all’ordine del giorno, o, almeno, non allo stesso modo. E certo questo cambia il tipo di lettura che il testo riceve. Probabilmente, però, non si tratta solo della temperatura più o meno calda dell’epoca, parametro poi sempre piuttosto discutibile. Quello che davvero fa la differenza, è il fatto che il libro è concepito quasi come una mossa strategica compiuta all’interno di una serie di battaglie filosofiche molto precise.
La forza dell’astrazione
Ricostruiamo allora il campo in cui Hegel o Spinoza si collocava: Macherey veniva dal lavoro in comune con Louis Althusser che aveva portato al Lire le Capital, e alcune questioni lì aperte si andavano riproponendo e radicalizzando. Soprattutto, rimane in primo piano l’obiettivo principale di portare la «lotta di classe nella teoria», stabilendo un nuovo rapporto tra pratica teorica e pratica politica. Su questo versante, il testo di Macherey è un esempio magistrale di lotta «dentro» la filosofia: una modalità di affrontare i grandi classici calandoli in un preciso campo di battaglia teorico.
Leggere i testi per quello che dicono e per quello che non dicono, nei loro buchi, nei loro silenzi e nei loro errori, secondo un altro evidente apporto althusseriano, quello della lettura «sintomatica»: in questo, l’incrocio delle interpretazioni, l’inseguimento delle forzature e dei veri e propri imbrogli che Hegel gioca con il testo spinoziano, offrono un’immagine affascinante di lotta nella teoria. Certo, il prezzo da pagare è un apparente retrocedere della storia sullo sfondo: ma proprio la forza dell’astrazione mette in luce l’importanza cruciale di queste battaglie concettuali.
E la posta in gioco in realtà è altissima, e politicamente assai concreta: anch’essa legata evidentemente a un preciso snodo del progetto althusseriano. Si tratta di far saltare tutto quel che aveva sempre ricondotto ad una sintesi pacificata il conflitto dialettico, tutto quanto aveva trasportato la dialettica nei cieli dell’«Assoluto» idealistico, eliminando proprio quel «negativo» motore del processo e relegandolo ad una semplice «stazione» della riconquista del perfetto coincidere dell’origine con se stessa. L’obiettivo fondamentale è farla finita con il finalismo già iscritto da sempre nella dialettica idealistica: solo liberando la storia dalla teleologia si libererà il pensiero dall’incantesimo idealistico e lo restituirà alla lotta di classe.
In gioco, ovviamente, c’era la separazione di Marx da Hegel, dalla filosofia della storia, dalla dialettica idealistica, e la rivendicazione del Marx del «Capitale», il passaggio a una dialettica materialista, la rottura con lo storicismo. La perfetta macchina filologica, ma nel segno di una filologia che funziona come arma di lotta, messa a punto da Macherey con questo testo, si inserisce in uno snodo successivo di questa battaglia: quando la rivendicazione althusseriana del Marx maturo contro il Marx «idealista» incontrerà finalmente lo spinozismo. Per la riflessione ultima di Althusser, è la scoperta della corrente sotterranea del materialismo aleatorio e dell’atomismo: nel testo di Macherey, questa conquista si traduce nell’immagine di uno Spinoza che offre una resistenza anticipata al rapimento idealistico della dialettica operato da Hegel.
Discesa verso l’evanescenza
Hegel non può evitare la forza di questa resistenza, l’unica a portare la sfida direttamente all’origine, al problema del cominciamento filosofico, o, in termini hegeliani, del fondamento. E proprio perché non può ignorare la resistenza di Spinoza, deve falsificarla, occultarne i passaggi critici, inventarne di sana pianta altri.
Nasce così la fin troppo celebre immagine dello Spinoza «orientale»: la sostanza spinoziana è rappresentata come un assoluto senza capacità di articolazione, «una rigida immobilità», come Hegel scrive nelle Lezioni sulla storia della filosofia, «la cui unica operazione è di spogliare ogni cosa dalla sua determinazione, della sua particolarità, e ricacciarla nell’unica sostanza assoluta, dove non fa che dileguarsi». Ma, per sostenere questa famigerata tesi sull’«acosmismo» spinoziano, Hegel deve forzare all’inverosimile il sistema, e Macherey, fedele al metodo della lettura sintomatica, illustra gli «errori» palesi che deve commettere.
Così, Hegel costretto a rappresentare il processo di espressione della sostanza negli attributi e nei modi come un processo di progressiva degradazione, fin quasi a farne una sorta di «discesa» neoplatonica verso l’evanescenza, verso il caos di una finitudine abbandonata a una negatività senza possibilità di ritorno e di riscatto. O più precisamente: proprio perché gli attributi restano «esterni» alla sostanza, si riducono a una sorta di semplici punti di vista formali sulla sostanza stessa. A una sostanza chiusa nel suo assoluto isolamento, corrisponderebbe allora un’opposizione formale e astratta di realtà e pensiero. Il monismo di Spinoza, secondo Hegel, si rovescerebbe così nell’accettazione del dualismo di Cartesio. È quella che, con grande efficacia, Macherey definisce come «interpretazione negativista» di Spinoza.
Tutto è però troppo lineare in questo Spinoza hegeliano: a partire dalla «processione» dalla sostanza agli attributi che si presenta come un rapporto discendente e privativo dall’assoluto ad una realtà umbratile che si «determina» solo per separazione e negazione. Ma per costruire quest’immagine tutta ricalcata sulla caduta, Hegel deve cancellare ogni dismisura del pensiero spinoziano: deve cioè letteralmente far fuori ogni riferimento al conatus.
Proprio attraverso il conatus, la sostanza come potenza è e resta tutta presente in ciascuno dei modi, la determinazione qui è tutta nell’affermazione della potenza, ben lungi dall’immagine evanescente del «negativismo» dell’interpretazione hegeliana. Ma per il conatus non può esservi posto nella lettura di Hegel, proprio perché non può esservi posto per l’affermazione.
La negazione assoluta
La determinazione affermativa, la potenza del conatus, costituiscono appunto il vero nucleo forte della resistenza anticipata alla riconciliazione dialettica verso cui muove Hegel: è invece la negazione assoluta, la «negazione della negazione» che dovrebbe, per Hegel, salvare la realtà dallo scivolare verso il nulla. Sono negando dialetticamente se stessa, la realtà assume autentica consistenza. O, in altri termini: la sostanza acquista movimento e si salva dal decadere a fantasma solo se, autonegandosi, ritorna a sé come Soggetto. È la trappola hegeliana: occultare l’affermazione, la positività, l’immanenza tra ordine del finito e ordine dell’infinito, insomma tutta la vera lezione spinoziana, per affermare la dialettica idealistica del «Soggetto» quale negazione della negazione.
La sostanza è soggetto, esiste solo in quanto coscienza di sé, solo in quanto tutta finalisticamente già orientata al movimento verso la coscienza: ed è proprio tutto questo che Spinoza rifiuta in anticipo. Non c’è negazione della negazione, e non c’è soggetto, il quale, scrive significativamente Macherey, è solo un altro nome della negazione che ritorna su di sé. Non c’è, per Spinoza, nessuna necessità che la sostanza si muova verso il soggetto. La vita della sostanza si esprime fuori dall’orientamento teleologico alla coscienza o al soggetto: «applicando la nozione di conatus alle essenze singolari, Spinoza elimina la concezione di un soggetto intenzionale, che non è appropriato né per rappresentare l’infinità assoluta della sostanza, né per comprendere come essa si esprima nelle determinazioni finite». Questo non significa - può concludere Macherey - che non vi sia dialettica. Si apre, anzi, la possibilità di una dialettica materialista: nessun finalismo, nessuna contraddizione autorisolventesi, ma lotta aperta tra forze e tendenze, senza nessuna conclusione garantita.
Le determinazioni finite
La dialettica idealistica è finalmente spezzata: una rottura che avviene, in questa impresa potentemente liberatoria messa in piedi da Macherey, nel segno di una felice conquista di una dinamica aperta, aleatoria, secondo il tracciato di Althusser. Letto oggi il libro apre altri interrogativi, percorsi diversi. La distruzione della teleologia è sacrosanta: ma il conatus delle esistenze singolari ci parla non solo dell’incontro/scontro di forze e tendenze, ma in modo sempre più marcato dell’apertura del campo della produzione di soggettività. Oltre il Soggetto, senza nostalgia per la «coscienza di sé», ma anche oltre quel «processo senza soggetto» attorno al quale sembra ancora girare la pur straordinaria macchina montata da Macherey.
Macherey si tiene, infatti, piuttosto lontano dallo spingere la resistenza spinoziana su strade pienamente affermative e produttive: costruisce, per esempio, un gioco di specchi, un po’ troppo scopertamente simmetrico, tra l’interpretazione «negativista» hegeliana e quella «positivista» di Deleuze, per rigettarle simultaneamente. Ma il libro, appunto, arrivò come ultimo frutto di uno straordinario tentativo di liberarsi dalla cattiva dialettica, dall’orrore di un marxismo sequestrato dal «Dia-Mat».
Oggi, per un verso, i morti hanno seppellito i morti, e possiamo finalmente occuparci d’altro. E, per altro verso, è lo stesso dispiegarsi della sussunzione reale, è lo stesso capitalismo contemporaneo che mobilita e attraversa la produzione di soggettività e sfrutta direttamente la cooperazione sociale. Rotto ogni incanto finalistico e dialettico, è quindi proprio nel cuore di un’ontologia produttiva che ci troviamo già completamente collocati. Lo Spinoza della dialettica materialista e dell’aleatorio ci liberò dagli incubi peggiori, e aprì lo spazio del conflitto e della lotta senza false promesse per l’indomani e catture dialettiche: lo Spinoza della gioia della produzione e della pienezza ontologica ci può accompagnare a riappropriarci di autonomia e di democrazia assoluta nell’oggi.
I colpevoli roghi della storia europea e le lotte delle donne
«Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria» di Silvia Federici per Mimesis. Una lettura dell’accumulazione originaria di Marx, per riscoprirne centralità e tuttavia parzialità. E la narrazione politica della caccia alle streghe come «guerra di classe»
di Anna Curcio (il manifesto, 30.03.2016)
«Come le recinzioni espropriarono i contadini dalle terre comunali, così la caccia alle streghe espropriò le donne dal proprio corpo, liberato, a funzionare come una macchina per la produzione della forza-lavoro». Questa in sintesi l’ipotesi teorica che Silvia Federici propone in Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria, edizione riveduta e aggiornata di Il grande Calibano - classico del femminismo marxista che Federici scrisse con Leopoldina Fortunati negli anni Ottanta - finalmente anche in traduzione italiana (Autonomedia 2014, ora Mimesis, pp. 234, euro 30,00).
Ripensare lo sviluppo del capitalismo da un punto di vista femminista, considerando cioè l’accumulazione e riproduzione della forza-lavoro. Non solo dunque accumulazione di «lavoro morto» come beni espropriati con la recinzione delle terre o attraverso la razzia coloniale che Marx considera, seppur con peso tra loro differente, ma anche accumulazione di «lavoro vivo» sotto forma di esseri umani, resi disponibili allo sfruttamento dal controllo esercitato sul corpo delle donne.
Nell’assumere il proletariato industriale salariato quale protagonista dell’accumulazione originaria Marx ha perso di vista le profonde trasformazioni che il capitalismo ha introdotto nella riproduzione della forza-lavoro e nella posizione sociale delle donne. Intorno a questa ipotesi Federici intreccia la trama, spesso taciuta, delle lotte che hanno accompagnato la transizione al capitalismo. Così donne, contadini, piccoli artigiani e vagabondi, perlopiù cancellati dalla storia, assurgono in Calibano e la strega a veri protagonisti. Ripercorrendo la storia della caccia alle streghe nel Medioevo, il volume evidenzia i processi di criminalizzazione e degradazione sociale che colpirono le donne, il loro lavoro, i loro saperi e pratiche all’indomani della crisi demografica seguita alla Peste Nera europea. Allo stesso tempo, intreccia i destini delle streghe in Europa a quello dei sudditi coloniali nel Nuovo Mondo, insistendo sui processi di inferiorizzazione e sulla costruzione di gerarchie razziali che accompagnano l’espansione coloniale.
L’accumulazione capitalistica che Federici marxianamente indaga è soprattutto «di differenze», di ineguaglianze e gerarchie costruite sul terreno del genere e della razza; processi di segmentazione sociale costitutivi del dominio di classe. Per questo la femminista non ha dubbi: la caccia alle streghe è «guerra di classe portata avanti con altri mezzi».
Due secoli di «terrorismo di stato», tra il XVI e il XVII secolo, avrebbero dunque insegnato agli uomini a temere il potere delle donne, soprattutto il controllo esercitato sulla funzione riproduttiva. Mentre la donna «prodotta» come essere sui generis, «lussuriosa e incapace di governarsi» fu sottoposta al controllo maschile.
Federici ribadisce così il carattere artificiale dei ruoli sessuali nella società capitalistica. La stessa sessualità femminile venne sanzionata, criminalizzando quelle attività non orientate alla procreazione e al sostegno della famiglia; la prostituzione, la nudità e le danze furono proibite e la sessualità collettiva al centro della vita sociale nel medioevo divenne «incontro politico sovversivo» del sabba.
Le nuove coordinate della femminilità si orienteranno allora tra «lavoro di servizio all’uomo e all’attività produttiva», monogamia e una nuova concezione della famiglia «con il marito sovrano e la moglie suddita del suo potere», mentre il corpo della donna diventava macchina della riproduzione.
In questo senso, la caccia alle streghe è soprattutto «lotta contro il corpo ribelle»: il tentativo messo in atto da chiesa e stato per trasformare le capacità dell’individuo in forza-lavoro; cosa che mistificherà, da lì in avanti, il lavoro orientato alla riproduzione come destino biologico. Il corpo - l’utero in particolare - si fa dunque «macchina da lavoro»: bestia mostruosa da disciplinare da una parte, involucro e «contenitore» della forza-lavoro dall’altra, salendo alla ribalta del pensiero politico del tempo (da Hobbes a Descartes) come prerequisito per l’accumulazione capitalistica. Non sorprenderà allora che ogni pratica abortiva o contraccettiva sia stata condannata come maleficio, così le donne espulse da quelle attività come l’ostetricia o la medicina che avevano fin lì esercitato sulla base di saperi tramandati nel tempo.
Una vera e propria «politica del corpo» sottolinea Federici, in cui il corpo non è fattore biologico né il «soggetto universale, astratto, asessuato» della Storia della sessualità di Foucault, precisa, bensì è un corpo situato, denso di «rapporti sociali» (non solo di «pratiche discorsive») fonte di sfruttamento e alienazione e al contempo spazio di resistenza. E nella misura in cui, come Federici tra altri sottolinea, l’accumulazione originaria è un processo che si ripete in ogni fase dello sviluppo capitalistico e dentro le sue crisi, il corpo e le attività legate alla riproduzione restano oggi, come agli albori del capitalismo, un campo di battaglia. E qui si rintraccia l’estrema attualità di Calibano e la strega.
Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte
by Karl Marx, Giorgio Giorgetti (Editor), Palmiro Togliatti (Translator)
Vittorio Ducoli’s Reviews (Goodreads, 16 marzo 2013)
Attualità di Marx
L’altro giorno, 14 marzo, ricorreva il 130° anniversario della morte di Karl Marx.
Per puro caso, nello stesso giorno ho finito di leggere Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, che ritengo uno dei testi fondamentali per addentrarsi nelle idee di questo grandissimo pensatore e per apprezzarne appieno l’attualità, a dispetto della vulgata interessata che vorrebbe il pensiero marxiano solo un retaggio del passato.
Un primo elemento a favore di questo testo è il tema. Non si tratta di un trattato filosofico o di critica all’economia politica, la cui lettura spesso richiede un sostrato culturale molto solido, ma dell’analisi di Marx degli avvenimenti che tra il febbraio 1848 e il dicembre 1851 videro la Francia passare dalla fase rivoluzionaria che aveva portato alla caduta della monarchia di Luigi Filippo d’Orleans al trionfo della più bieca reazione con il colpo di stato attuato da Luigi Napoleone Bonaparte, il futuro Napoleone III. Si tratta quindi di un’analisi storica di fatti che hanno avuto conseguenze importantissime sull’intera storia europea, e non solo, dei decenni successivi.
Ho messo in corsivo l’aggettivo storica perché Marx scrive i testi che formano il libro pochissimo dopo, nel 1852: eppure la sua analisi è così compiuta, così lucida, così minuziosa e supportata da dati ed elementi oggettivi da assumere il carattere pieno dell’indagine storica.
Un altro elemento che caratterizza il 18 brumaio è la brillantezza della scrittura. A differenza di quanto si possa pensare, Marx non è affatto un autore pesante, ma una delle più brillanti penne del XIX secolo. Basta pensare a quante sue frasi, aforismi, paradossi facciano parte del nostro bagaglio culturale per rendersi conto di ciò; purtroppo, molti dei suoi testi riguardano argomenti ostici, trattati ed approfonditi con rigore, e questo ovviamente genera complessità: pregio di questo volume è di offrirci un Marx sicuramente non leggero ma scorrevole, per molti tratti appassionante, laddove gli avvenimenti si susseguono incalzanti e Marx ce ne disvela le ragioni vere e ultime.
Sì, perché il senso di questo libro è far capire, anche a noi oggi, la distanza che esiste tra le cause ideologiche dei conflitti e le loro cause vere che, ci dice Marx, vanno sempre ricercate nei conflitti tra le classi e i loro diversi interessi.
Marx, pagina dopo pagina, ci narra gli scontri di piazza e le lotte tra le diverse fazioni parlamentari che caratterizzarono il biennio, individuando oggettivamente le motivazioni vere che ne erano alla base. Così, l’acerrima lotta avvenuta nell’Assemblea legislativa tra Partito dell’Ordine (monarchici) e Montagna (repubblicani), lungi dall’essere una lotta sulla forma dello stato è una lotta tra gli interessi della grande borghesia e quelli dei borghesi medi e piccoli. Leggendo questo testo è quindi agevole comprendere in pratica la tesi marxiana per cui la storia è il risultato della lotta tra le varie classi sociali.
Forse però l’aspetto del libro che affascina di più è l’analisi delle motivazioni che portarono al colpo di stato di Luigi Napoleone. Marx parte dalla constatazione che la Repubblica è la forma di stato con cui la borghesia esercita direttamente il potere (come insegna la prima rivoluzione francese); eppure, favorendo oggettivamente ed anche attivamente il colpo di mano del Napoleone piccolo consegna questo potere ad altri, ai militari e ad una consorteria di avventurieri che aveva la sua base sociale nel lumpenproletariat rurale. Perché questa abdicazione?
La risposta di Marx è lucidissima, e si sarebbe purtroppo dimostrata vera molte altre volte nella storia. La borghesia si era accorta che la Repubblica borghese era il terreno di lotta ideale per il proletariato, che poteva progredire ed organizzarsi grazie alle libertà civili e politiche: aveva quindi preferito consegnare il potere a chi, pur non organico alla sua classe, potesse garantire ordine e tranquillità agli affari, piuttosto che rischiare una emancipazione proletaria. Quante volte, nel secolo successivo, questa logica avrebbe prevalso in varie parti dell’Europa e del mondo!
Quante volte la borghesia avrebbe consegnato interi popoli nelle mani di mascalzoni e di buffoni pur di salvaguardare la roba.
Fortunatamente Marx morì 130 anni fa, perché credo che altrimenti avrebbe dovuto nel tempo istituire una sezione d’analisi specificamente dedicata al nostro paese, dove la borghesia ha sempre assunto questo atteggiamento, sia pure in modi diversi, da Mussolini a Berlusconi.
Resta da spiegare il titolo, che è una delle grandi invenzioni di Marx: il 18 brumaio (9 novembre) 1799 Napoleone I abbatté il direttorio ed instaurò la sua dittatura, come farà il 2 dicembre 1851 il nipote Luigi Napoleone. Ma, ci avverte Marx nella prima pagina di questo libro, con una delle sue frasi fulminanti ”Hegel nota in un passo delle sue opere che tutti i grandi fatti e i grandi personaggi della storia universale si presentano, per così dire, due volte. Ha dimenticato di aggiungere: la prima come tragedia, la seconda come farsa”. Oggi noi sappiamo che i grandi fatti possono presentarsi più e più volte; sappiamo inoltre che anche quando si presentano come farsa spesso sono causa di grandi tragedie. Fortunatamente in Italia l’abbiamo imparato, e (almeno per ora) riusciamo a mantenerci sul terreno del burlesque.
Pensiero critico. Dal lontano Ottecento alle aspre dispute teoriche del secolo breve
Ai nodi irrisolti del presente. In tre volumi una accurata e mai consolatoria storia del marxismo per Carocci
di Roberto Finelli (il manifesto, 09.03.2016)
Stefano Petrucciani, studioso consolidato del marxismo, della Scuola di Francoforte, dell’opera di Jürgen Habermas, ha curato una articolata nuova Storia del marxismo che ora viene pubblicata dall’editore Carocci in una edizione in tre ampi, ma insieme maneggevoli, volumi.
L’impresa è di tutto rispetto, perché dopo la Storia del marxismo della Einaudi pubblicata ormai quasi cinquant’anni fa, si prova a ripensare, in un modo articolato e non riducibile a una prospettiva uniforme, «una mappa delle molte avventure di pensiero - come scrive il curatore - che, a partire più o meno dal 1883, l’anno della morte di Marx, si sono dipanate prendendo le mosse dalla sua eredità intellettuale».
Il primo volume (Socialdemocrazia, revisionismo, rivoluzione. 1848-1945) è dedicato alla stagione più classica dei marxismi: alla configurazione che Engels ha consegnato dell’opera di Marx alla tradizione socialista, al dibattito tra ortodossia e revisionismo nella socialdemocrazia, alla prima discussione sul marxismo in Italia tra Labriola e Croce, alla specificità e originalità del marxismo di Gramsci rispetto a quello sovietico, all’austromarxismo e alla nesso tra filosofia e marxismo tra Seconda e Terza Internazionale (con saggi di Merker, Mustè, Carpi, Cesarale, Liguori e lo stesso Petrucciani).
Il secondo volume (Comunismo e teorie critiche nel secondo Novecento) si occupa delle elaborazioni della tradizione marxista che hanno avuto luogo soprattutto a partire dal secondo dopoguerra. Cristina Corradi ha curato le Forme teoriche del marxismo italiano (1945-79), Manlio Iofrida Marx in Francia, Petrucciani e Eleonora Piromalli La Scuola di Francoforte, Giorgio Cesarale Filosofia e marxismo nell’Europa della Guerra fredda, Guido Samarani, Marxismo e rivoluzione in Asia, José Paulo Netto Il marxismo in America Latina, Alex Callinicos Il marxismo anglosassone. Il terzo volume (Economia, politica, cultura: Marx oggi) comprende una serie di saggi che intendono trattare della ricchezza e della fecondità del pensiero di Marx ancora oggi, nella connessione contemporanea tra marxismo e scienze sociali, in una varietà che va dall’economia e dalle teorie della crisi al pensiero politico, dall’estetica all’antropologia, dal femminismo agli studi postcoloniali, dalle analisi della globalizzazione alle teorie del sistema-mondo.
L’evoluzione delle idee
In questo terzo volume Riccardo Bellofiore ha scritto su Capitale, teoria del valore e teoria della crisi, di nuovo e insieme Petrucciani, Piromalli, Cesarale su Teoria dello Stato e della democrazia, Giulio Azzolini su L’analisi dei sistemi-mondo, Luca Basso su Il marxismo nelle scienze umane: psicologia, psicoanalisi e antropologia, Cinzia Arruzza su Il genere del capitale: introduzione al femminismo marxista, Stefano Velotti su Estetica, arte, cultura nella riflessione marxista. In tale ampio contesto di temi e di autori non è chi non veda ovviamente la utilità e la bontà di quest’opera, che intende proporsi come una vera e propria Enciclopedia del marxismo nella dimensione sia storica, della genesi e della evoluzione delle idee, sia teoretico-scientifica quanto a capacità dei marxismi di aver proposto e di continuare a proporre una visione del mondo, dell’essere umano, della storia, della cultura, della politica indispensabile per orientarsi nella vita del più prossimo passato e dell’oggi.
Gli autori, messi all’opera, sono tutti studiosi di ottimo livello e di profonda competenza nelle aree di loro specifico interesse e la capacità di attenzione e di scelta mostrata in tal senso dal curatore ha contribuito a dare a tutti i tre volumi un carattere didatticamente efficace e, nello stesso tempo, uno stile di facile lettura. Per queste caratteristiche questa Storia del marxismo merita di essere collocata non solo nelle biblioteche specializzate ma anche e soprattutto nelle biblioteche dei licei come ottimo strumento di introduzione e di divulgazione su temi e problemi fondamentali della modernità. Anche perché la ovvia diversità delle prospettive interpretative assunte dai diversi autori si ricompone ad unità nella comune distanza da qualsiasi atteggiamento di valorizzazione dogmatica ed arcaica della tradizione marxista.
L’altro Novecento
È ovvio, del resto, che anche questa Storia non può né vuole essere completa. Ci sono delle mancanze significative, soprattutto nella rassegna dei marxismi più up to date, più contemporanei e di attualità. Ma non si può pretendere esaustività da un’opera che copre uno spazio temporale e una tematica così ampia. Per altro anche da questo lato lo hegeliano Spirito del tempo ci aiuta. Perché non si può non citare, per chiunque volesse integrare e approfondire la lettura di questa Storia del marxismo, l’opera, di pari impegno, anche se di diversa impostazione, intrapresa dallo storico Pier Paolo Poggio, direttore della Fondazione Micheletti, con la pubblicazione di cinque poderosi volumi, assai utili per la profondità dei saggi proposti, su L’Altronovecento. Comunismo eretico e pensiero critico: di cui sono usciti finora tre tomi, passati quasi del tutto sotto silenzio mediatico, presso la casa editrice Jaca Book.
La lettura integrata di queste due opere collettive può ben valere, io credo, al ritorno a una discussione in una prospettiva di che non si vergogni di utilizzare categorie come «totalità», «globalizzazione», «sistemi»: e a trattare della privatezza dell’esistenziale e del personale in un dialogo con lo studio della sistematica economica e sociale della nostra realtà: che non è postmoderna quanto invece ipermoderna.
È lo Spirito del nostro tempo, con l’egemonia cioè e con la diffusione incontrastata dell’economia del capitale sull’intero globo, che ci obbliga a tornare a pensare secondo le categorie dell’universale Astratto e della monocultura. Che ci insegna quanto il tempo del postmodernismo sia ormai concluso, insieme alla retorica esaltata, che l’ha caratterizzato, del frammento, dell’ermeneutica, della risoluzione di ogni realtà in linguaggio, della decostruzione di ogni assetto complessivo di senso. Che ci dice quanto ormai sia esaurito il tempo dell’heideggerismo, sepolto alla fine dal suo medesimo antisemitismo, rivelatosi alla fine consustanziale - e non accidentale - a una filosofia, apparentemente irenica, ma sostanzialmente decisionistica e autoritaria come quella heideggeriana. Dato che, come ha ben argomentato ultimamente Francesco Fistetti, per la filosofia del «pastore dell’Essere» l’ebreo è l’apice stesso dell’essenza della «tecnica».
Cambio di prospettiva
Ci dice, insomma, lo spirito del tempo, che tutte le filosofie e gli orientamenti culturali che hanno preso alimento dalla differenza ontologica tra Essere ed Esserci hanno fatto riferimento a un pensiero, in ultima istanza, conservatore ed arcaico che poneva molto del suo sforzo più a ipostatizzare parole, come insegnava il vecchio e nobile maestro Guido Calogero, - e con ciò a creare miti ed illusioni che scambiano parole con realtà - anziché pensare e studiare la realtà medesima.
Il totalitarismo dell’universale capitalistico insomma ci dice che è ora di tornare a pensare le differenze reali che attraversano e strutturano l’essere umano: quella, orizzontale e sociale, delle differenze di classe, e quella, verticale, della differenza (auspicabilmente nell’integrazione) tra corpo emozionale e mente logico-discorsiva.
La Storia del marxismo diretta da Petrucciani può aiutarci a pensare insomma che il paradigma linguistico che ha preteso risolvere ogni realtà in linguaggio, e in cui si sono comunemente riconosciuti analitici e continentali, si sia ormai estenuato e che si possa ritornare a pensare il presente - al di là di tutte le rotture e apocalissi che l’operaismo e il postoperaismo marxista ci hanno propinato in varie salse durante questo trentennio - secondo il rigore della continuità nel divenire del passato e del futuro.
In tragedia e in farsa, la storia che raddoppia e non conclude
Una nuova edizione de «Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte», per Editori Riuniti. Un’analisi del bonapartismo la cui lettura è utile anche per indagare i fenomeni politici contemporanei. In una nuova edizione l’opera del 1852
di Francesco Marchianò (il manifesto, 30.01.2016)
Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte (Editori Riuniti, pp. 248, euro 18,00) è, certamente, uno dei testi più originali di Marx nel quale l’analisi materialistica della storia è connessa a quella politica. In quest’opera, dedicata agli avvenimenti che dal 1848 al 1851 modificarono il sistema politico francese e lo fecero transitare da una repubblica all’impero, dopo il colpo di stato di Luigi Bonaparte, Marx si distinse per essere un attento studioso delle dinamiche giuridiche, politiche, economiche e sociali, compiendo una precisa analisi sistemica.
Scritto dal dicembre 1851 al marzo 1852, inizialmente per il settimanale Die Revolution, edito a New York dall’amico editore Weydemeyer, l’opera subì diverse vicissitudini e solo nel 1869 comparve ad Amburgo una seconda edizione europea, dopo che in passato in tentativi di darne diffusione nel continente erano falliti.
In Italia è da poco comparsa per Editori Riuniti una nuova edizione affidata alla cura di Michele Prospero che, in una densa e raffinata introduzione, non solo offre le necessarie chiavi di lettura per comprendere meglio l’opera, ma ne attualizza in maniera impeccabile la portata. Ne escono, così, fuori due testi in uno che è molto fruttuoso leggere insieme.
Il testo di Marx brilla da diversi punti di vista, non ultimo per lo stile letterario e la coniazione di alcune frasi rimaste poi celebri, come quella della storia che si ripete due volte, prima come tragedia, poi come farsa, con la quale si apre il volume. Oppure per il «cretinismo parlamentare», malattia diagnostica ai difensori della repubblica che abusando dei trucchi e delle imboscate in aula non facevano altro che screditare il parlamento che volevano difendere.
L’aspetto essenziale che caratterizza l’opera, tuttavia, è l’analisi contestuale che indaga tutti i fattori che intervengono in un cambio di regime o, diremmo oggi con un lessico più moderno, in una transizione. È cioè la spiegazione di come la repubblica, non riuscendo a trovare gli ancoraggi necessari al suo consolidamento nella società francese, produsse come esito il successo di una leadership personale che portò a un’altra forma di dominio politico.
Nella lettura compiuta da Marx si colgono perfettamente le cause di questo passaggio che non sono da attribuire al magismo del capo, al suo carisma, ma al concatenarsi di elementi esterni. Come spiega Prospero, «esistono condizioni politiche e sociali di fondo il cui degrado spiega anche l’emergere di tendenze carismatiche pronte a sfruttare le fragilità del sistema sottoposto allo stress della partecipazione politica di milioni di elettori».
Marx mette in luce tutti gli elementi essenziali che intervengono in questa dinamica. A cominciare da quelli giuridico-politici, dati dalle contraddizioni della costituzione, dal carattere limitativo della legge ordinaria rispetto ai diritti enunciati in essa, dal conflitto potenziale tra l’assemblea e il presidente della repubblica. In questa situazione di perenne incertezza veniva meno un elemento essenziale dato dalla legittimità che richiedeva il sistema, specialmente dopo l’allargamento del suffragio. -Occorreva cioè trovare nel sociale la base di sostegno del politico.
È ciò che è mancato alla repubblica che finì per non includere affatto le masse. Anzi, proprio questa «asimmetria tra forte apparato statale e debolezza della società civile», secondo Prospero, è l’espressione peculiare del bonapartismo. Luigi Bonaparte, invece, lungi dal non avere un radicamento sociale, si manifesta, secondo le parole di Marx, come il rappresentante di «una classe, anzi della classe più numerosa della società francese, i contadini piccoli proprietari», una «classe a metà» i cui appartenenti sono tra loro isolati, ma condividono situazioni di forte miseria che li mettono contro le altre classi sociali. Non avendo la capacità di far valere i propri interessi, essi hanno bisogno di farsi rappresentare da qualcuno che appare loro come un «padrone», «come un potere governativo illimitato, che li difende dalle altre classi»; ne consegue che «l’influenza politica del contadino piccolo proprietario trova quindi la sua ultima espressione nel fatto che il potere esecutivo subordina la società a se stesso».
L’analisi contenuta nel 18 brumaio rimane perennemente attuale per indagare i fenomeni politici contemporanei poiché fornisce tutte le categorie necessarie per comprendere cosa succede nei momenti di debolezza del sistema politico. Essa può essere utile anche per interpretare le dinamiche che coinvolgono il nostro Paese dove il continuo tentativo di riforma della costituzione, l’incertezza del sistema, la scarsa legittimazione sua e dei suoi attori, il consolidarsi di interessi e forze private, può sempre consentire, volendo usare le parole di Marx, «a un personaggio mediocre e grottesco di fare la parte dell’eroe».
Parla il filosofo Michéa
“Il modello va ripensato”
“La sinistra deve rifondare l’alleanza illuminista”
“È troppo lontana dalle classi popolari. Ormai a citare Marx e Gramsci c’è la Le Pen”
“Per il progressismo è diventata difficile qualsiasi critica della modernità liberale”
intervista di Fabio Gambaro (la Repubblica, 19.12.2015)
«La progressione del voto per il Fronte Nazionale tra le classi popolari si spiega innanzitutto con l’incapacità della sinistra di parlare a quella parte della popolazione». Per Jean-Claude Michéa, infatti, la sinistra contemporanea non ha più nulla a che vedere con la nobile tradizione socialista. Incapace di proporre un’alternativa economica al capitalismo trionfante, ha ripiegato sulle battaglie civili care all’intellighenzia progressista e in sintonia con l’individualismo dominante.
Il filosofo francese lo spiega in un breve e interessantissimo saggio intitolato I misteri della sinistra (Neri Pozza, traduzione di Roberto Boi), il cui analizza la deriva progressista dall’ideale illuminista al trionfo del capitalismo assoluto. «La sinistra non solo difende ardentemente l’economia di mercato, ma, come già sottolineava Pasolini, non smette di celebrarne tutte le implicazioni morali e culturali. Per la più grande gioia di Marine Le Pen, la quale, dopo aver ricusato il reaganismo del padre, cita ormai senza scrupoli Marx, Jaures o Gramsci! Ben inteso, una critica semplicemente nazionalistica dal capitalismo globale è necessariamente incoerente. Ma purtroppo oggi è la sola - nel deserto intellettuale francese - che sia in sintonia con quello che vivono le classi popolari».
Come spiega questa evoluzione della sinistra?
«Quella che ancora oggi chiamiamo “sinistra” è nata da un patto difensivo contro la destra nazionalista, clericale e reazionaria, siglato all’alba del XX secolo tra le correnti maggioritarie del movimento socialista e le forze liberali e repubblicane che si rifacevano ai principi del 1789 e all’eredità dell’illuminismo, la quale include anche Adam Smith. Come notò subito Rosa Luxemburg, era un’alleanza ambigua, che certo fino agli anni Sessanta ha reso possibili molte lotte emancipatrici, ma che, una volta eliminate le ultime vestigia dell’Ancien régime, non poteva che sfociare nella sconfitta di uno dei due alleati. È quello che è successo alla fine degli anni Settanta, quando l’intellighenzia di sinistra si è convinta che il progetto socialista fosse essenzialmente “totalitario”. Da qui il ripiegamento della sinistra europea sul liberalismo di Adam Smith e l’abbandono di ogni idea d’emancipazione dei lavoratori».
Perché quella che lei chiama la “metafisica del progresso” ha spinto la sinistra ad accettare il capitalismo?
«L’ideologia progressista è fondata sulla credenza che esista un “senso della storia” e che ogni passo avanti costituisca un passo nella giusta direzione. Tale idea si è dimostrata globalmente efficace fintanto che si è trattato di combattere l’Ancien régime. Ma il capitalismo - basato su un’accumulazione del capitale che, come ha detto Marx, non conosce “alcun limite naturale né morale” - è un sistema dinamico che tende a colonizzare tutte le regioni del globo e tutte le sfere della vita umana. Focalizzandosi sulla lotta contro il “vecchio mondo” e le “forze del passato”, per il “progressismo” di sinistra è diventato sempre più difficile qualsiasi approccio critico della modernità liberale. Fino al punto di confondere l’idea che “non si può fermare il progresso” con l’idea che non si può fermare il capitalismo».
In questo contesto, in che modo la sinistra cerca di differenziarsi dalla destra?
«Da quando la sinistra è convinta che l’unico orizzonte del nostro tempo sia il capitalismo, la sua politica economica è diventata indistinguibile da quella della destra liberale. Da qui, negli ultimi trent’anni, il tentativo di cercare il principio ultimo della sua differenza nel liberalismo culturale delle nuove classi medie. Vale a dire nella battaglia permanente combattuta dagli “agenti dominati della dominazione”, secondo la formula di André Gorz, contro tutti i “tabù” del passato. La sinistra dimentica però che il capitalismo è “un fatto sociale” totale.
E se la chiave del liberalismo economico, secondo Hayek, è il diritto di ciascuno di “produrre, vendere e comprare tutto ciò che può essere prodotto o venduto” (che si tratti di droghe, armi chimiche, servizi sessuali o “madri in affitto”), è chiaro che il capitalismo non accetterà alcun limite né tabù. Al contrario, tenderà, come dice Marx, a affondare tutti i valori umani “nelle acque ghiacciate del calcolo egoista”».
Perché considera un errore da parte della sinistra aver accettato il capitalismo? C’è chi sostiene che sia una prova di realismo...
«Come scriveva Rosa Luxemburg nel 1913, la fase finale del capitalismo darà luogo a “un periodo di catastrofi”. Una definizione che si adatta perfettamente all’epoca nella quale stiamo entrando. Innanzitutto catastrofe morale e culturale, dato che nessuna comunità può sopravvivere solo sulla base del ciascuno per sé e dell’interesse personale. Quindi, catastrofe ecologica, perché l’idea di una crescita materiale infinita in un mondo finito è la più folle utopia che l’uomo abbia mai concepito. E infine catastrofe economica e finanziaria, perché l’accumulo mondializzato del capitale - la “crescita”- sta per scontrarsi con quello che Marx chiamava il “limite interno”. Vale a dire la contraddizione tra il fatto che la fonte di ogni valore aggiunto - e dunque di ogni profitto - è sempre il lavoro vivo, e la tendenza del capitale ad accrescere la produttività sostituendo al lavoro vivo le macchine, i programmi e i robot. Il fatto che le “industrie del futuro” creino pochi posti di lavoro conferma la tesi di Marx».
Perché, in questo contesto, ritiene necessario pensare “la sinistra contro la sinistra”?
«La forza della critica socialista nasce proprio dall’aver compreso fin dal XIX secolo che un sistema sociale basato esclusivamente sulla ricerca del profitto privato conduce l’umanità in un vicolo cieco. Paradossalmente, la sinistra europea ha scelto di riconciliarsi con questo sistema sociale, considerando “arcaica” ogni critica radicale nei suoi confronti, proprio nel momento in cui questo comincia a incrinarsi da tutte le parti sotto il peso delle contraddizioni interne. Insomma, non poteva scommettere su un cavallo peggiore! Per questo oggi è urgente pensare la sinistra contro la sinistra».
Sbagliò come profeta rivoluzionario ma capì che il capitalismo è un apprendista stregone
di Luciano Canfora (Corriere della Sera, 9.12.2015)
Castelvecchi ha pubblicato la Intervista immaginaria con Karl Marx di Donald Sassoon, aggiornata dall’autore dopo la recessione globale. Il focus è lo scambio di battute in cui Marx vanta le sue parole d’ordine («“Lavoratori di tutti i Paesi unitevi, non avete altro da perdere che le vostre catene” è meglio di tutto quello che gli strapagati e decerebrati spin doctors di Downing Street sono in grado di inventarsi») e Sassoon gli risponde: «Ma l’idea che oggi i lavoratori non abbiano niente da perdere è assurda»; e Marx ammette: «Ha ragione. I vostri lavoratori europei e nordamericani ora hanno un sacco da perdere. Ai miei tempi erano ancora trattati in modo abominevole. La lotta socialista presenta una contraddizione inevitabile. Dobbiamo lottare per le riforme, ma ogni conquista indebolisce la volontà rivoluzionaria dei lavoratori».
Nei primi anni Venti del Novecento, Lenin prende di mira, di fronte al fallimento della rivoluzione a Occidente, l’«aristocrazia operaia». Parla di «corruzione», di «elemosina»: «Tutto si riduce alla corruzione. Si corrompe per mille vie diverse: elevando la cultura dei centri più importanti, fondando istituti di istruzione. I militanti del movimento operaio appartenenti alla corrente opportunistica difendono la borghesia meglio degli stessi borghesi». La speranza di una vittoria viene dunque dai popoli coloniali, che «la guerra imperialistica ha coinvolto nella storia mondiale». La controffensiva «verrà da questo miliardo e duecentocinquanta milioni di uomini» (1920, II Congresso dell’Internazionale comunista).
Nell’ultimo suo scritto pubblicato (Meglio meno ma meglio, marzo 1923) il tono è meno fiducioso: «Saremo noi in grado di resistere nelle nostre condizioni disastrose fino a che i Paesi capitalistici dell’Europa occidentale avranno compiuto il loro sviluppo verso il socialismo? Nel frattempo la Russia dovrà sforzarsi di costruire uno Stato in cui gli operai mantengono la direzione, (...) sviluppare l’industria meccanizzata, sviluppare l’elettrificazione etc. Solo questa è la nostra speranza». Come si vede, il «socialismo in un Paese solo» è già qui.
Cosa ha a che fare questo sviluppo storico - di cui, dopo un secolo, sappiamo anche come è andato a finire - con il pensiero e i programmi politici di Marx? Si potrebbe rispondere: quasi nulla. Fu un’altra storia. Essa fu determinata da fattori ineludibili: per un verso dallo sviluppo in senso Welfare State dei conflitti sociali nell’Occidente ricco e, per altro verso, dalla lotta di potenza. Questa fu segnata dapprima dal fenomeno fascista, sconfitto a Stalingrado, e, nella seconda metà del Novecento, dal fallimento della «decolonizzazione» (che era stata la grande speranza degli anni Sessanta e Settanta) fino all’epilogo più sorprendente tra tutti: il ripristino dell’ipercapitalismo nella Cina «comunista».
L’orizzonte di Marx era europeo-occidentale. Già la Russia era remota e poco nota. È ben conosciuta la «sentenza» di Friedrich Engels («si parlerà di socialismo in Cina quando sulla Grande Muraglia sarà scritto Liberté Egalité Fraternité»); ed è altrettanto nota la opzione conclusiva della lunga «militanza da lontano» di Engels rispetto al Partito socialdemocratico tedesco. Essa è racchiusa nel suo ultimo scritto: nella prefazione del 1895 alla riedizione delle Lotte di classe in Francia di Marx; prefazione variamente ritoccata, ma il cui succo è la centralità della lotta elettorale-parlamentare per la conquista socialista del potere.
Ha dunque senso, alla luce di questo sviluppo storico (1848-2015) parlare di una Storia del marxismo che parte da Marx e giunge fino al nostro presente? È l’impresa che Stefano Petrucciani, con una équipe di specialisti, ha ritentato per l’editore Carocci: tre volumetti, di cui il più innovativo è il terzo, che indaga sulla presenza di Marx nella cultura non solo politica del tempo attuale. Diciamo che ha «ritentato» perché alcune storie del marxismo (anch’esse corali, diversamente dalla mirabile Storia del pensiero socialista di Cole) erano sorte quarant’anni fa, quando il «socialismo reale» e l’«eurocomunismo» sembravano avere il vento in poppa: quella curata da Aldo Zanardo per l’Istituto Feltrinelli («Annali», 1973) e quella monumentale einaudiana diretta da Eric Hobsbawm (1978-1982).
Oggi la prospettiva non può che essere fredda e storiografica. Nell’opera diretta da Petrucciani, essa consiste non solo nello scandaglio delle forme che il «marxismo» (Marx detestava questo neologismo) assunse mescolandosi alle concrete e specifiche realtà e correnti di pensiero delle varie epoche e dei vari continenti (nel che fu la sua temporanea grandezza), ma soprattutto nel chiedersi quanto dell’analisi che Marx tentò del funzionamento del capitalismo ci aiuti a capire il presente che si srotola sotto i nostri occhi.
Azzardiamo una risposta. Non sono più attuali le prospettive operative che Marx propugnò - tutte alla fine contraddette dalla realtà -; resta in piedi invece la sua geniale intuizione: che il capitalismo è quel titanico stregone il quale, unificando il pianeta nel nome e nel segno del profitto, ha suscitato e scatenato forze che non sa e non può più dominare. Ma queste forze non sono le ribellioni delle classi oppresse, le quali sono ormai abbagliate soprattutto da follie palingenetiche a base religiosa, sono le ferite irreparabili inflitte al pianeta, avviato al disastro bioambientale perché lo «stregone» non intende arretrare rispetto alle sue scelte miopi e devastanti.
Non ha torto Sassoon quando fa dire a Marx nell’intervista immaginaria che, in ultima analisi, «il capitalismo non può essere globale». (E con paradosso solo apparente sbotta in un esempio sarcastico, ma a suo modo emblematico: «Quattro miliardi e seicento milioni di ascelle che ricorrono allo spray deodorante» produrrebbero «il suono assordante dello strato di ozono che si spacca»!). Questa macchina infernale non può autocorreggersi se non negando il primum movens che ha posto sopra ogni altro valore: il profitto a qualsiasi prezzo, facendo affari anche vendendo armi a chi le adopera per colpire all’impazzata nel cuore del mondo ricco.
Una teoria che non fa scuola
di Stefano Petrucciani
L’impatto che Karl Marx ha avuto sulla storia del XIX e del XX secolo è stato così forte da non poter essere paragonato a quello di nessun altro pensatore. Solo i fondatori delle grandi religioni hanno lasciato alla storia del mondo una eredità più grande, influente e persistente di quella che si deve al pensatore di Treviri. Ma per capire che tipo di influenza ha avuto la figura di Marx sulla storia del suo tempo e di quello successivo, bisogna mettere a fuoco un aspetto che concorre con altri a determinarne la singolarità: l’attività di Marx si è caratterizzata per il fatto che Marx è stato al tempo stesso un pensatore e un organizzatore/leader politico, e di statura straordinaria in entrambi i campi. Notevolissima è stata la ricaduta che le sue teorie hanno avuto sul pensiero sociale, filosofico e storico, ma ancor più grande, anche se non immediato, è stato l’impatto che la sua attività di dirigente politico (dalla stesura del Manifesto del Partito Comunista alla fondazione della Prima Internazionale) ha lasciato alla storia successiva.
Certo, una duplice dimensione di questo tipo non appartiene solo a Marx: la si può anche ritrovare in grandi leader che furono suoi antagonisti, da Proudhon a Mazzini a Bakunin. Ma in Marx entrambe le dimensioni, quella della costruzione teorica e quella della visione politica, attingono una potenza che manca a questi suoi pur importanti antagonisti. Sul piano della organizzazione politica dall’attività di Marx sono infatti derivati, nel tempo e attraverso complesse mediazioni, i partiti socialdemocratici e poi quelli comunisti che hanno inciso così largamente nella storia del Novecento. Sul piano teorico, invece, Marx ha influenzato, e continua a segnare ancora oggi, una parte non trascurabile della cultura che dopo di lui si è sviluppata.
La forza degli inediti
Un aspetto di questa duplice eredità di Marx è stato proprio quello che si suole definire «marxismo». Anche la realtà politico-culturale che si designa con questo termine è stata qualcosa di assai singolare perché ha avuto una duplice natura: da un lato è stata una corrente culturale presente in modo più o meno intenso nei vari ambiti disciplinari, dall’altro è stata anche il riferimento «statutario» di partiti e organizzazioni politiche (socialiste o comuniste): cosicché le discussioni sul marxismo per un verso si sono dipanate come un libero dibattito culturale, per altro verso sono state un elemento della lotta politica tra frazioni e gruppi all’interno del movimento operaio e dei suoi partiti. Ma che rapporto c’è tra il pensiero Marx e il «marxismo»? Un primo aspetto che deve essere messo a fuoco, se si vuole ragionare su questo punto, è che la conoscenza e la diffusione dell’opera di Marx è stata, durante la sua vita e nel tempo immediatamente successivo, decisamente molto limitata. Anzi si potrebbe dire che, su questo tema, viene alla luce una sorta di contraddizione. Colui che è divenuto la fonte ispiratrice di un «ismo», e cioè di qualcosa che comporta inevitabilmente una certa dogmatizzazione, aveva con la propria opera un rapporto decisamente molto critico e problematico. Molti dei suoi scritti, Marx li lasciò semplicemente inediti, per la gioia di coloro che li scoprirono o li pubblicarono quaranta o cinquant’anni dopo la sua morte. E agli inediti appartengono, questo può essere interessante da ricordare, la gran parte dei testi sui quali si è affaticato il dibattito marxista a partire dagli anni Venti del Novecento: vivente, Marx non pubblicò né la Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico (scritta nel 1843, a 25 anni), né i cosiddetti Manoscritti economico-filosofici del 1844.
Non solo, abbandonò in soffitta, alla critica distruttiva dei topi, (seppure dopo alcuni tentativi di pubblicazione non andati a buon fine) anche quello che era un vero e proprio libro scritto con la collaborazione dell’amico Engels, L’ideologia tedesca; un testo non certo trascurabile, dato che vi si trova la prima e la più ampia delineazione di quella «concezione materialistica della storia» che costituisce uno degli apporti più significativi di Marx alla vicenda del pensiero moderno. Di una enorme quantità di manoscritti concernenti la critica dell’economia politica Marx pubblicò pochissimo; in sostanza, solo il primo libro del Capitale (1867, e successive edizioni rimaneggiate) e quella anticipazione delle prime parti di esso che è Per la critica dell’economia politica (1859). I Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica (noti anche come Grundrisse), così importanti per la discussione marxista degli ultimi decenni del Novecento, furono conosciuti in pratica solo dopo l’edizione che uscì in Germania orientale nel 1953.
Come Engels giustamente osservava commemorando l’amico, però, non si può parlare di Marx tralasciando l’altro aspetto della sua personalità, quello di militante e dirigente politico. «Lo scienziato non era neppure la metà di Marx. Per lui la scienza era una forza motrice della storia, una forza rivoluzionaria. Perché Marx era prima di tutto un rivoluzionario. La lotta era il suo elemento. E ha combattuto con una passione, con una tenacia e con un successo come pochi hanno combattuto».
Una visione politica
In tutta la sua vita, anche se con alcune interruzioni, Marx è stato un militante e un dirigente politico ma soprattutto, come scriveva Engels, un combattente, che ha lottato per affermare i suoi punti di vista sia verso l’esterno sia all’interno delle organizzazioni di cui era parte. Come politico, dunque, Marx ha sviluppato una ben precisa visione della lotta e della emancipazione della classe operaia, che contrastava nettamente con quelle che venivano proposte dai molti leader con i quali egli si confrontò in quarant’anni di lotta politica: da Proudhon a Lassalle, da Mazzini a Bakunin.
La più netta delle opzioni politiche di Marx è la tesi secondo la quale non vi è salvezza attraverso il miglioramento del sistema sociale dato, ma solo attraverso il suo rovesciamento, cioè attraverso la negazione dei pilastri su cui si basa la sua economia, la proprietà privata delle risorse produttive e la mercificazione dei beni e del lavoro. Sull’opzione antiriformista e rivoluzionaria Marx non avrà mai dubbi, e questo lo divide sia da altri socialisti del suo tempo, sia da quelli che, pur partendo dalle sue acquisizioni, le curveranno in una direzione gradualista o migliorista.
Al testamento spirituale di Marx appartengono organicamente le polemiche che, negli ultimi anni della sua vita, egli indirizza contro l’ala moderata della socialdemocrazia tedesca (vedi ad esempio l’importante lettera ai leader Bebel, Liebknecht e altri, inviata da Londra nel settembre del 1879), il grande partito che, fortemente influenzato dalla sua dottrina, si avviava però, in alcune sue componenti, a darne una lettura riformista o «revisionista».
Ma torniamo al processo di formazione del «marxismo»: gli storici ci informano che l’aggettivo «marxista» viene dapprima utilizzato con un significato dispregiativo: all’interno della Prima Internazionale (fondata nel 1864) i nemici della corrente che fa capo a Marx, e primi fra tutti i seguaci di Bakunin, indicano come «marxidi», «marxiani» (termine modellato forse su quello di «mazziniani») e più tardi come «marxisti» coloro che si rifanno alle tesi del pensatore di Treviri.
Le accuse di settarismo
I «marxisti» sono visti dai loro nemici anarchici come una frazione settaria e autoritaria che cerca di egemonizzare l’Associazione internazionale dei lavoratori. Quanto al sostantivo «marxismo», si può affermare per certo che esso (sempre con un significato polemico) compare nel 1882 nel titolo di un pamphlet di Paul Brousse (ex anarchico francese): Le marxisme dans l’Internationale. Il contesto in cui si inserisce il libello è quello del confronto interno al socialismo francese tra un’ala riformista e una rivoluzionaria ispirata a Marx e facente capo a Jules Guesde; e fu proprio in riferimento a questa contesa che Marx ebbe occasione di osservare, conversando con Paul Lafargue: «Una cosa è certa, che io non sono marxista». Ciò non vuol dire che Marx non fosse d’accordo con se stesso o che fosse contrario al «marxismo». La questione è tutt’altra: se Jules Guesde veniva accusato, dai suoi nemici, di obbedire agli ordini di un «prussiano» che viveva a Londra e che pretendeva di dare indicazioni al socialismo francese, Marx invece non si sentiva così vicino al leader in questione, e dunque ci teneva a sottolineare che non vi era una netta identificazione tra lui e la corrente francese che al suo nome veniva accostata.
Sta di fatto, comunque, che il termine «marxista», dapprima usato in senso critico e polemico soprattutto dagli anarchici, venne positivamente fatto proprio, negli anni Ottanta, dall’ala più radicale dei socialisti francesi: «A poco a poco, i discepoli di Marx in Francia presero l’abitudine di accettare una denominazione che non avevano creato loro e che, destinata fin dall’inizio a distinguerli dalle altre frazioni socialiste, si trasformò alla fine in una etichetta politica e ideologica» (Maximilien Rubel, Marx critico del marxismo, Cappelli).
Fu così che anche Engels, che dapprima non aveva visto con favore l’uso di un termine che, come «marxismo», personalizzava eccessivamente la linea del movimento socialista rivoluzionario, finì per accettarlo e legittimarne l’uso, ovvero per convertire in positivo una parola che era nata con un senso tutto diverso. Come ha ricordato Maximilien Rubel, la cui attitudine nei confronti del compagno di Marx è peraltro, va ricordato, duramente polemica, in una interessante lettera dell’11 giugno 1889 a Laura Lafargue, Engels osservava con soddisfazione che gli anarchici si sarebbero mangiati le mani per avere creato questa denominazione destinata a divenire nel tempo la bandiera di chi la pensava in modo opposto a loro. E, anche con l’imprimatur di Engels, il termine marxismo cominciò ad affermarsi pure nella socialdemocrazia tedesca, della quale sarebbe divenuto il riferimento costante e talvolta anche ossessivo.
Il rischio del fideismo
Ma il punto più importante che deve essere sottolineato è che il ruolo di Engels andò ben oltre quello di legittimare la parola «marxismo». Ciò che molti (tra cui Rubel) hanno sostenuto, infatti, è che Engels fu il vero padre del marxismo nel senso che fu colui al quale si deve non tanto la parola ma proprio la cosa; ovvero fu colui che trasformò il pensiero di Marx in un «ismo», cioè in un sistema di pensiero catafratto e onnicomprensivo, da prendersi in blocco con rischi di dogmatismo e di fideismo. Si annida qui un problema, o se volgiamo un paradosso, sul quale vale la pena di fermarsi per un momento a riflettere.
La storia degli effetti del pensiero di Marx è segnata allo stesso tempo, verrebbe voglia di dire, da una vittoria e da una sconfitta: l’eccezionale risultato che il pensiero di Marx conseguì, e che ne fa qualcosa di unico e di difficilmente paragonabile ad altri percorsi teorici, fu quello di riuscire effettivamente a realizzare l’obiettivo che il giovane Marx si era posto fin dal 1845: superare la scissione tra la teoria e la prassi, ovvero dare vita a una teoria che potesse anche diventare una operativa forza di trasformazione del mondo. Proprio questo accadde nel momento in cui nacquero e si svilupparono partiti e organizzazioni politiche che assumevano questa teoria come loro punto di riferimento ideale.
Questo processo comportò però una conseguenza non altrettanto positiva: divenendo il riferimento «statutario» di partiti e organizzazioni il pensiero di Marx non poté più essere considerato come l’approdo di una ricerca teorica per tanti aspetti anche problematica e incompiuta, da svolgersi e magari da superarsi criticamente, ma fu esposto alla conseguenza di irrigidirsi in una «dottrina», di subire un processo di ossificazione poco compatibile con l’idea di una ininterrotta ricerca critica.
PER LA CRITICA DEL CAPITALISMO E DELLA SUA TEOLOGIA "MAMMONICA" (Benedetto XVI, "Deus caritas est", 2006). CON MARX, OLTRE.
Artefici del proprio destino
di Roberto Ciccarelli (il manifesto, 21 Novembre 2015)
Angelo Mastrandrea racconta un sogno: lavorare senza padroni. Per un paio d’anni ha viaggiato in Grecia, Francia, Italia. Ha incontrato gli operai della Montefibre di Acerra, nel cuore della terra dei fuochi, e ha raccontato il sogno realizzato delle fabbriche recuperate. Ha raccontato le vicende drammatiche della tv pubblica greca Ert, chiusa dal governo Samaras, occupata e recuperata dai giornalisti e lavoratori come ai tempi delle radio libere in Italia. Ha tracciato il profilo della rete «Solidarity4all» che non si limita al mutuo soccorso in Grecia, ma sostiene la nascita di un modello cooperativo per ricostruire il lavoro perduto. La punta di diamante di questo movimento sono i lavoratori della Vio .Me.
Con lo stile del reporter classico, Mastrandrea si è mescolato con gli studenti del liceo sperimentale post-sessantottino di Saint-Nazare che dal 1981 autogestiscono la loro scuola. «Non mi pare che ci sia una gran differenza con gli operai che recuperano una fabbrica - annota - Entrambi vogliono realizzare un’antica aspirazione umana: l’autodeterminazione». I racconti della nuova stagione internazionale dell’autogestione e della creazione di un’economia cooperativa formano oggi un libro, Lavoro senza padroni (Baldini e Castoldi, pp.175, euro 15), e offrono un’intuizione.
Dall’Argentina al vecchio continente, la crisi delle multinazionali ha portato a drammatiche crisi occupazionali, ma anche a realizzare l’impensabile. Gli operai messi in cassa integrazione, disoccupati, non sono «vite di scarto», ma singoli capaci di elaborare complesse strategie morali, politiche e collettive. Da Roma a Buenos Aires, dalla Ri-Maflow a Trezzano sul Naviglio fino a Città del Messico, hanno elaborato un modello comune di workers economy, un’economia fondata sui lavoratori che si contrappone all’economia finanziaria che sta distruggendo il tessuto produttivo in Europa come altrove.
La curiosità teorica porta Mastrandrea a ricongiungere le fila di un discorso politico che viene da lontano. Le origini della workers economy risalgono a una certa linea del socialismo del XIX secolo, sono riemerse nella teoria del Gramsci greco, l’althusseriano Nikos Poulantzas quando enunciò in Lo Stato, il potere, il socialismo una teoria di un socialismo articolato sul doppio potere: da un lato, la democrazia rappresentativa radicalmente rivista, dall’altro lato lo sviluppo di «forme di democrazia di base e di un movimento auto-gestionario» in grado di «evitare lo statualismo autoritario».
Quello dell’autogestione è un movimento che ha conosciuto diverse fasi, dagli anni Settanta a oggi, in Italia e nel resto d’Europa. Credibilmente, questa esperienza è alla base di una parte non trascurabile del percorso che ha dato vita a Syriza. Sarebbe, anzi, interessante raccontare cosa sta accadendo oggi in Grecia, dopo la drammatica capitolazione di Tsipras nell’Eurogruppo di luglio.
Più in generale il problema riguarda il destino di questa «economia di transizione» a un nuovo, immaginoso, «socialismo»: quali sono i suoi strumenti per affrontare il potere e le sue tecniche di cattura amministrativa o giudiziaria? E poi, in che modo queste esperienze di auto-gestione si pongono rispetto ai progetti di rigenerazione dei luoghi in disuso (stazioni e fabbriche comprese) già in atto a Milano e in tutte le «smart city»? Non rischiano di essere riassorbite dal capitale neoliberale e dai suoi progetti di speculazione sulla condivisione nella «sharing economy»?
Lavoro senza padroni è in ogni caso un libro che recepisce la carica etica di uomini e donne di mezza età, di molti giovani, di reagire alla crisi e inventarsi un’altro modo di cooperare e di possedere. Mastrandrea immagina il passaggio dalla proprietà privata alla proprietà sociale. Dal suo racconto minuto delle difficoltà amministrative, commerciali, produttive affrontate da questo popolo di sperimentatori emerge una passione comune: l’entusiasmo.
«Questa è la principale molla emotiva. Un sentimento che deriva dall’idea di essere artefici del proprio destino, senza sentirsi pedine di un gioco nel quale non si decide nulla». Mastrandrea racconta la vita dei cittadini nel XXI secolo, capaci di reinventare un lavoro che non esiste più - quello della produzione fordista di massa - riconnettendosi con le passioni gioiose rimosse dalla società del rancore organizzato.
Expo 2015, la Carta di Milano che divide. “Afferma diritto al cibo”. “Nessun obiettivo concreto su riduzione sprechi”
Il documento considerato una delle principali eredità dell’esposizione universale è al centro del dibattito. Nasce con l’obiettivo di essere un manifesto “concreto” contro denutrizione e malnutrizione, ma secondo Caritas, Slow food e Oxfam Italia è generica e lacunosa. La parola "obesità" compare una sola volta, per non scontentare gli sponsor Coca Cola e Mc Donald’s
di Luigi Franco (Il Fatto, 31 ottobre 2015)
Da un lato ha il merito di avere portato all’attenzione del dibattito pubblico i problemi del sistema alimentare e il tema della lotta alla fame. E secondo il capo dello Stato Sergio Mattarella “ha affermato il diritto al cibo e all’acqua come parte essenziale di un più ampio diritto alla vita, dal quale d’ora in avanti non si potrà prescindere nel valutare l’applicazione di diritti umani universali”.
Dall’altro secondo Caritas, Slow food e Oxfam Italia ha il difetto di essere generica e lacunosa. Tanto che la Carta di Milano, una delle eredità principali di Expo, è rimasta senza la loro firma. Il documento è stato pensato per riempire lo slogan Nutrire il pianeta, energia per la vita di quei contenuti spesso assenti nei padiglioni che a breve verranno smantellati. L’hanno sottoscritta 1,1 milioni di persone, prima che venisse consegnata al segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon. “E’ stata tradotta in 19 lingue ed è potenzialmente leggibile da 3 miliardi e mezzo di persone”, ha detto con vanto il ministro dell’Agricoltura Maurizio Martina per spiegare “la dimensione della straordinarietà di questa iniziativa”.
Ma quello che è stato definito un manifesto “concreto” che coinvolge tutti “nel combattere la denutrizione, la malnutrizione e lo spreco, promuovere un equo accesso alle risorse naturali, garantire una gestione sostenibile dei processi produttivi” ha una pecca: che in realtà di “concreto” ha ben poco. Ed è proprio questa la critica principale mossa da chi non ha firmato.
“Contiene delle buone intenzioni, sulle quali è facile essere tutti d’accordo”, sostiene Gaetano Pascale, presidente di Slow Food Italia, che pur riconoscendo alla carta “il merito di mettere in discussione il sistema alimentare attuale” sottolinea come non vengano toccati per nulla alcuni nodi: “La proprietà dei semi, l’acqua come bene comune, i cambiamenti climatici. E poi non prevede impegni concreti per i governi e le multinazionali”.
Nella decina di pagine del documento mancano infatti obiettivi precisi. Qualcosa in più c’era nel Protocollo di Milano preparato dalla fondazione Barilla Center for Food & Nutrition, uno dei testi che il governo ha preso a ispirazione per scrivere con il contributo di altre organizzazioni la Carta di Milano. Lì erano elencati obiettivi del tipo “ridurre del 50 per cento entro il 2020 l’attuale spreco di oltre 1,3 milioni di tonnellate di cibo commestibile”.
Niente di cui ci sia traccia nella Carta, fatta per lo più di una successione di punti generici per dire quanto sia inaccettabile “che ci siano ingiustificabili diseguaglianze nelle possibilità, nelle capacità e nelle opportunità tra individui e popoli” o come sia necessario impegnarsi a “consumare solo le quantità di cibo sufficienti al fabbisogno”. Principi con cui è impossibile non essere d’accordo. “Per raggiungere l’obiettivo politico di essere firmata da un numero ampio di soggetti - commenta Pasacale - ne è uscito un documento annacquato nei contenuti”.
Così alle critiche del collettivo Costituzione Beni Comuni sul ruolo determinante giocato da una multinazionale come Barilla nel redigere una carta di tutti, si sono aggiunte pure quelle di Slow Food, della Caritas e dell’associazione contro la povertà Oxfam Italia, che avevano pure partecipato al processo di stesura. Solo che alla fine sono saltate tematiche come quelle legate ai semi, all’acqua e al clima. E sono stati tagliati pure gli ogm, la perdita della biodiversità, le speculazioni finanziarie sulle materie prime alimentari e il land grabbing, il discusso accaparramento su larga scala di terreni agricoli in paesi in via di sviluppo da parte di governi e compagnie straniere.
Ne è venuto fuori quello che in un servizio della trasmissione Report Luca Virginio, responsabile comunicazione della Barilla, ha definito un documento “diplomatico”, aggiungendo che “probabilmente l’esposizione universale non può essere diplomaticamente parlando la piattaforma giusta per raggiungere determinati obiettivi”. Insomma, parlare di land grabbing avrebbe potuto infastidire paesi come la Cina, che ne è uno dei principali fautori in Africa, mentre la speculazione finanziaria sarebbe stata un tema inappropriato per avere il favore dei gruppi bancari.
E poi c’erano da tenersi buoni anche sponsor come Coca Cola e Mc Donald’s, presenti all’interno del sito con i loro padiglioni. Forse è per un malcelato riguardo nei loro confronti che la parola “obesità” compare nella Carta di Milano sola una volta, contro le 11 citazioni del documento targato Barilla. Ecco così spiegate le parole di Michel Roy, segretario generale di Caritas Internationalis: “Nella Carta di Milano non si sente la voce dei poveri del mondo, né di quelli del Nord né di quelli che vivono nel Sud del pianeta”. Un documento, dunque, che non osa e riflette il punto di vista dei Paesi ricchi. Solo un punto di partenza sulla via della lotta alla fame.
di Giorgio Nebbia *
Alla fine dello scorso aprile, alla vigilia della solenne inaugurazione dell’EXPO 2015 di Milano, la Fondazione Luigi Micheletti di Brescia ha riunito presso il suo Museo dell’Industria e del Lavoro (MusIL), un centinaio di studiosi invitandoli a chiedersi come si presentano, in Italia e nel mondo, le “agricolture”. “Agricolture” al plurale perché sono tante le forme in cui viene praticata la più importante attività umana, quella che assicura agli oltre settemila milioni di terrestri il cibo, ma anche molte altre materie prime essenziali.
Lo storico Pier Paolo Poggio, direttore della Fondazione Micheletti, ha curato la pubblicazione del libro, appena apparso col titolo: Le tre agricolture: contadina, industriale, ecologica (Jaca Book, Milano), che raccoglie le relazioni presentate al convegno sopra ricordato. Non c’è dubbio che a “nutrire il pianeta” contribuiscono tante diverse forme di coltivazione del suolo: dalla cerealicoltura della Valle Padana, agli oliveti pugliesi, agli agrumeti della Sicilia, dalle monocolture a mais del Nord America o della canna da zucchero del Brasile o della palma dell’Indonesia, dalle innumerevoli comunità agricole dei villaggi contadini sparsi in Africa, Asia, America Latina, ai giovani che abbandonano le città per mettersi a produrre mele “biologiche”.
Chiamateli agricoltori o imprenditori o contadini, sono le centinaia di milioni di persone che zappano con poveri strumenti, o si spostano con moderni trattori, o lavorano nelle fabbriche in cui i prodotti agricoli e zootecnici sono conservati e trasformati, sono loro che permettono a (quasi) tutti noi di trovare ogni giorno sulla tavola il pane fresco e la carne e la frutta. In molti paesi esiste ancora una agricoltura contadina che coltiva la terra in armonia con i cicli naturali ma che può soddisfare soltanto il fabbisogno alimentare delle piccole comunità locali, sempre più sostituita dalla agricoltura industriale, così come l’artigianato è stato soppiantato dalla grande manifattura di prodotti di serie e il piccolo negozio è soppiantato dai supermercati.
Il successo dell’agricoltura industriale, con alte rese per ettaro, è assicurato dall’uso intenso di macchine, di energia, di concimi artificiali, di sementi geneticamente modificate, di pesticidi, ed è presentato come l’unico mezzo “moderno” con cui è possibile sfamare la crescente popolazione mondiale, sempre più urbanizzata e lontana dai campi e dai pascoli. Questo successo economico e finanziario oscura le trappole in cui la transizione ha fatto cadere l’umanità. Le monocolture e l’impiego di pesticidi alterano la biodiversità che è condizione essenziale per la stabile successione delle coltivazioni; il crescente impiego di concimi artificiali provoca l’immissione nell’atmosfera di ossidi di azoto, uno dei “gas serra”; la zootecnica contribuisce all’immissione nell’atmosfera di metano, altro “gas serra”, per cui l’agricoltura industriale contribuisce in maniera crescente al riscaldamento globale e alle conseguenti modificazioni climatiche che sempre più spesso distruggono i fertili campi.
La coltivazione intensiva del suolo e l’abbandono delle terre meno produttive alterano il moto superficiale delle acque e provocano allagamenti e frane che colpiscono in primo luogo proprio l’agricoltura stessa. La pasta e l’olio, la frutta e le carni diventano “manufatti”, standardizzati nella qualità; la diversità biologica è sostituita dalla fantasia dei nomi, delle etichette, dalle mode gastronomiche e così aumentano sprechi e rifiuti. Si può quindi amaramente dire che l’agricoltura industriale, nel secolo ormai della sua esistenza, dopo aver distrutto l’agricoltura contadina sta distruggendo se stessa con i guasti ambientali e sociali.
Nell’introduzione al volume prima ricordato Pier Paolo Poggio ricorda che la salvezza, umana e ambientale del pianeta, è realizzabile con una agricoltura ecologica che veda “i contadini” appropriarsi del meglio della tecnologia attraverso il suo utilizzo selettivo e intelligente, producendo cibo con una “economia circolare”, per usare un termine oggi di moda, come hanno fatto sempre nel corso della storia.
Alla fine dei lavori del convegno di Brescia i partecipanti hanno redatto un “manifesto” in cui auspicano l’avvento di una economia agricola rinnovata, ecologica, appunto, capace di assicurare un reddito dignitoso, un lavoro soddisfacente, la sperimentazione di nuove forme di convivenza sociale e un rapporto consapevole con l’ambiente di vita e naturale. Una trasformazione legata ai prodotti e ai produttori di ciascun territorio, al servizio degli abitanti delle campagne e delle città, volta a limitare gli sprechi materiali ed energetici.
Una agricoltura ecologica può e deve raccogliere e superare l’eredità sia dell’agricoltura contadina sia di quella industriale, una transizione in cui è fondamentale il ruolo delle giovani generazioni e delle donne. La sua affermazione, passando da situazioni di nicchia a fenomeno socialmente rilevante, le consentirà di svolgere un ruolo prezioso di rigenerazione sul piano culturale, ambientale ed economico, rimettendo al centro dell’operare umano il valore del saper fare e della manualità, il valore del lavoro e del suo senso, il valore delle cose e delle relazioni, il valore dei tempi dell’attesa.
Abbastanza curiosamente simili concetti sono stati espressi da Papa Francesco parlando ai “Movimenti popolari”, per lo più piccoli contadini sparsi in tutto il mondo, riuniti sotto una bandiera che chiede “Terra, casa, lavoro”. “La passione per il seminare, ha detto il Papa, per l’irrigare con calma ciò che gli altri vedranno fiorire sostituisce l’ansia di occupare gli spazi di potere e di vedere risultati immediati”. Forse sarà questa la vera “modernità” per nutrire il pianeta.
L’articolo è stato inviato contemporaneamente aLa Gazzetta del Mezzogiorno
di Piero Bevilacqua ( Eddyburg, 30 Settembre 2015) *
Il capitalismo ha un grande e tenace nemico, una malattia che produce esso stesso incessantemente: l’abbondanza. Oggi l’abbondanza che lo minaccia è, come sempre, quella delle merci, ma in una misura che non ha precedenti. Ad essa, negli ultimi decenni, se ne è aggiunta un’altra, assolutamente inedita, che coinvolge un vasto e crescente ambito di servizi. Per alcuni beni la saturazione del mercato capitalistico è visibile a occhio nudo ormai da tempo. I capi d’abbigliamento si comprano ancora nei negozi, a prezzi che generano un certo profitto a chi li produce e a chi li vende. Ma per il vestiario esiste un mercato parallelo così esteso e abbondante che ormai sfiora la gratuità. Si può dire che nelle nostre società più nessuno ormai, nemmeno il più misero degli individui, ha il problema di vestirsi. Non dissimile fenomeno possiamo osservare nell’ambito dei servizi più avanzati: l’accesso all’informazione, alla cultura, all’arte, alla musica.
Certo, occorre almeno possedere un cellulare, pagare un contratto a un gestore. Ma è evidente che siamo invasi anche qui - insieme, certo, al ciarpame - da un’abbondanza di offerta, a prezzi decrescenti che tendono a creare uno spazio di fruizione fuori mercato. Sappiamo che il capitale anche da tali beni riesce a trarre ancora profitti, ma oggi è sotto i nostri occhi uno scenario di abbondanza di servizi e beni culturali, di umana emancipazione, potenziale e di fatto, che non ha precedenti. Solo cinquant’anni fa tutto questo era lontano dalla nostra immaginazione. Occorre sempre gettare un occhio al passato, per evitare di scorgere nel presente solo un cumulo di sconfitte.
Com’è noto, il capitale combatte la caduta tendenziale del saggio di profitto inventando nuovi beni e nuovi bisogni, dilatando il suo dominio sulla natura per trasformare il vivente in merci brevettabili, strappando al controllo pubblico servizi che un tempo erano dei comuni e dello stato. Ma il capitale, aiutato da circostanze storiche fortunatissime - la crisi e poi il crollo del blocco comunista, la burocratizzazione dei partiti democratici di massa e dei sindacati, la rivoluzione informatica - ha sventato la più grande minaccia da abbondanza che gli sia parata dinnanzi nella sua storia: quella degli ultimi decenni del XX secolo. Un oceano di beni stava per riversarsi nel mercato dei Paesi avanzati, un sovrappiù di merci che avrebbe costretto imprenditori e governi a innalzare i salari e soprattutto a ridurre drasticamente l’orario di lavoro. Si sarebbe arrivati a quel passaggio epocale previsto da Keynes nel saggio Possibilità economiche per i nostri nipoti (1928-30), che, con la crescita della produttività a «a un ritmo superiore all’1% annuo» avrebbe spinto le società industriali, nel giro di un secolo, a istituire una durata del lavoro a 15 ore settimanali.
In realtà, la crescita della produttività mondiale è stata superiore alle stesse previsioni di Keynes, con risultati però opposti rispetto alle sue aspettative. In un saggio prezioso per rilevanza documentaria e nitore espositivo, Abbondanza, per tutti (Donzelli, 2014) Nicola Costantino ha ricordato che il tasso di crescita annuo della produttività a livello mondiale, nel corso del XX secolo, ha oscillato tra il 2 e il 3%. Negli Usa, tra il 1950 e il 2000 è stato in media, del 2,5%, in Francia, nel solo settore industriale, tra il 1978 e il 1998, del 3,7%. Il che ha significato che la produttività oraria del singolo lavoratore, a un tasso di crescita del 2% annuo, è aumentata di ben 7 volte, molto di più delle 2,7 volte ipotizzate da Keynes e su cui egli fondava la previsione delle 15 ore settimanali.
Ma la giornata lavorativa non è stata accorciata, se non in Francia, in maniera contrastata e oggi rimessa in discussione. Ovunque, specie negli ultimi anni, la durata del lavoro quotidiano è cresciuta a dismisura. Negli USA, già prima della crisi era diventato generale il fenomeno del workaholic, l’alcolismo del lavoro, mentre oggi sempre di più gli americani lamentano la mancanza di tempo, il time squeeze, time pressure, time poverty (S.Bartolini, Manifesto per la felicità, Donzelli 2010). Lavorano tutto il giorno come dannati: ma almeno guadagnano bene? Niente affatto, essi sono in grandissimo numero poveri e indebitati. Come ha ricordato Maxime Robin su Le Monde diplomatique-Il Manifesto (Stati Uniti, l’arte di ricattare i poveri, settembre 2015) oggi in Usa i check casher, piccole banche per prestiti veloci, dilagano nei quartieri poveri più dei McDonald’s. Ma in genere tutti gli americani della middle class sono indebitati. «Uno statunitense nella norma è un cittadino indebitato che paga le rate in tempo». E le cose non son certo migliorate con la ripresa santificata dai media. Il 95% dei redditi aggiuntivi che si sono creati dopo la crisi - ricordava The Economist nel settembre 2013 - è andato all’1% delle persone più ricche. Al restante 99% sono andate le briciole del 5%. Tutto come prima, peggio di prima.
Che cosa dunque è accaduto? Perché dal mondo dell’abbondanza a portata di mano siamo precipitati nel regno della scarsità? La risposta essenziale è molto semplice. Perché il capitalismo dei paesi dominanti (Usa e Europa in primis), ricercando nuovi mercati e occasioni di profitto nei paesi poveri (la cosiddetta globalizzazione), innalzando la produttività del lavoro, ristrutturando e innovando le imprese, non incontrando resistenze in sindacati e partiti avversi, ha generato un’arma strategica formidabile: la Grande Scarsità, la scarsità del lavoro. Il lavoro inteso come occupazione, come job. I dati recenti sono impressionanti.Tra il 1991 e il 2011 - ricorda Costantino - mentre il Pil reale planetario è cresciuto del 66%, il tasso globale di occupazione è diminuito dell’1,1%. In 20 anni un quarto di beni in più con meno lavoro.
Ma una vasta e ben controllata disoccupazione è oggi un arma politica, non solo un effetto delle trasformazioni economiche. Tale scarsità, diventata permanente e sistematica, ha reso i rapporti tra capitale e lavoro, economia e politica, poteri finanziari e cittadini, drammaticamente asimmetrici e sbilanciati. Tutti invocano lavoro come gli affamati un tempo chiedevano il pane, fornendo al capitale una legittimazione mai goduta in tutta la sua storia. L’intera struttura dello stato di diritto ne risente, gli istituti della democrazia vengono progressivamente svuotati. Sindacati e partiti, funzionari del presente, invocano la “ripresa” come se il futuro possa “riprendere” le fattezze del passato.
E tuttavia tale artificiale scarsità non può durare a lungo. Non solo perché le innovazioni produttive in arrivo (stampanti 3D, intelligenza artificiale,ecc) stanno per rovesciarci interi continenti di merci e servizi, sostituendo perfino lavoro intellettuale con macchine. Ma anche perché l’abbondanza del capitale che la Grande Scarsità del lavoro oggi genera è una forma di obesità, una malattia sistemica. C’è troppo danaro in giro, masse smisurate di risorse finanziarie, rispetto alle necessità della produzione. Patrimoni concentrati in gruppi ristretti che non corrono il rischio dell’investimento produttivo in società ormai sature di beni e con una domanda debole, mentre la grande massa dei lavoratori è tenuta a basso salario perché i loro padroni devono poter competere a livello globale. Tutti i capitalismi nazionali comprimono i salari, allungano gli orari di lavoro, sperando nelle esportazioni e tutti, o quasi, languono nella generale stagnazione. Mentre i soldi si accumulano, generano altri soldi, muovono speculazioni nei mercati finanziari e preparano altre crisi.
Questo quadro che non teme smentite - poggia su una vasta e solida letteratura - ha una grande importanza per la sinistra. In esso è possibile scorgere che una vita di gran lunga migliore sarebbe possibile per tutti e che solo i rapporti di forza dominanti la ostacolano, facendo regredire la società nel suo insieme. Non c’è una crisi, intesa come un evento naturale. È stato il cedimento storico dei partiti della sinistra, dei sindacati, dei governi a favorire la vittoria della scarsità sull’abbondanza. Una grande battaglia perduta, ma da cui ci si può riprendere. Da questa lezione si può comprendere come niente di naturale è rinvenibile nella situazione presente: è tutto dipendente da scelte politiche, da puri rapporti di forza.
Si può così smascherare l’idea di una scarsità a cui occorre piegarsi come all’antico Fato. Così come l’idea di una “ripresa” affidata alle riforme del mercato del lavoro, alla flessibilità dei lavoratori, senza toccare la piramide delle ricchezze accumulate. Non ci sono i soldi, recita la litania dei politici, di gran parte degli economisti main stream, gli aguzzini intellettuali più attivi sulla scena pubblica, con il loro seguito di giornalisti orecchianti. È la più grande menzogna della nostra epoca. I soldi non ci sono per pensioni dignitose, per il reddito di cittadinanza, non ci sono per le borse di studio agli studenti, che disertano gli studi universitari, non ci sono per i nostri ricercatori e per la gioventù intellettuale, costretta a migrare all’estero. Ma ci sono in misura crescente e cumulativa nei patrimoni privati: in un solo anno, tra il 2011 e 2012, mentre infuriava la crisi, il numero degli individui con un patrimonio superiore a un milione di dollari è cresciuto nel mondo del 6%, in Italia del 10% . I soldi ci sono in quantità senza precedenti per le banche. E le centinaia di miliardi di euro che la BCE sta profondendo a piene mani, semplicemente stampandoli?
Dunque, una grande abbondanza (auspichiamo, di beni e servizi avanzati, frutto di una generale riconversione ecologica, di riduzione del lavoro ) è alla nostra portata. E bisogna infondere non solo nel nostro popolo, ma nella società italiana tutta intera questa grande pretesa. La pretesa della prosperità e del ben vivere per tutti. È una prospettiva di nuovi bisogni, che non solo è possibile soddisfare, ma coincide con una tendenza storica inarrestabile e che capitale e ceto politico possono solo ritardare, con danno generale. La redistribuzione dei redditi e del lavoro e la lotta alle disuguaglianze incarnano come mai nel passato l’interesse generale, una necessità indifferibile e universale. Oggi possiamo far sentire a tutti, anche agli scoraggiati e ai perplessi, che nelle nostre vele può tornare a soffiare il vento della storia.
RETORICA, FILOSOFIA, E POLITICA:
Uno spettro (di Marx) si aggira nella globalizzazione
di Umberto Eco (La Stampa-TuttoLibri, 03.10.2015)
Non si può sostenere che alcune belle pagine possano da sole cambiare il mondo. L’intera opera di Dante non è servita a restituire un Sacro Romano Imperatore ai comuni italiani. Tuttavia, nel ricordare quel testo che fu il Manifesto del Partito Comunista del 1848, e che certamente ha largamente influito sulle vicende di due secoli, credo occorra rileggerlo dal punto di vista della sua qualità letteraria o almeno - anche a non leggerlo in tedesco - della sua straordinaria struttura retorico-argomentativa.
Nel 1971 era apparso il libretto di un autore venezuelano, Ludovico Silva, Lo stile letterario di Marx, poi tradotto da Bompiani nel 1973. Credo sia ormai introvabile e varrebbe la pena di ristamparlo. Rifacendo anche la storia della formazione letteraria di Marx (pochi sanno che aveva scritto anche delle poesie ancorché, a detta di chi le ha lette, bruttissime), Silva andava ad analizzare minutamente tutta l’opera marxiana.
Curiosamente dedicava solo poche righe al Manifesto, forse perché non era opera strettamente personale. È un peccato: si tratta di un testo formidabile che sa alternare toni apocalittici e ironia, slogan efficaci e spiegazioni chiare e (se proprio la società capitalistica intende vendicarsi dei fastidi che queste non molte pagine le hanno procurato) dovrebbe essere religiosamente analizzato ancora oggi nelle scuole per pubblicitari.
Inizia con un formidabile colpo di timpano, come la Quinta di Beethoven: «Uno spettro si aggira per l’Europa» (e non dimentichiamo che siamo ancora vicini al fiorire preromantico e romantico del romanzo gotico, e gli spettri sono entità da prendere sul serio). Segue subito dopo una storia a volo d’aquila sulle lotte sociali dalla Roma antica alla nascita e sviluppo della borghesia, e le pagine dedicate alle conquiste di questa nuova classe «rivoluzionaria» ne costituiscono il poema fondatore - ancora buono oggi, per i sostenitori del liberismo.
Si vede (voglio proprio dire «si vede», in modo quasi cinematografico) questa nuova inarrestabile forza che, spinta dal bisogno di nuovi sbocchi per le proprie merci, percorre tutto l’orbe terraqueo (e secondo me qui il Marx ebreo e messianico sta pensando all’inizio del Genesi), sconvolge e trasforma paesi remoti perché i bassi prezzi dei suoi prodotti sono l’artiglieria pesante con la quale abbatte ogni muraglia cinese e fa capitolare i barbari più induriti nell’odio per lo straniero, instaura e sviluppa le città come segno e fondamento del proprio potere, si multinazionalizza, si globalizza, inventa persino una letteratura non più nazionale bensì mondiale.
È impressionante come il Manifesto avesse visto nascere, con un anticipo di centocinquant’anni, l’era della globalizzazione, e le forze alternative che essa avrebbe scatenato. Come a suggerirci che la globalizzazione non è un incidente avvenuto durante il percorso dell’espansione capitalistica (solo perché è caduto il muro ed è arrivato internet) ma il disegno fatale che la nuova classe emergente non poteva evitare di tracciare, anche se allora, per l’espansione dei mercati, la via più comoda (anche se più sanguinosa) si chiamava colonizzazione. È anche da rimeditare (e va consigliato non ai borghesi ma alle tute di ogni colore), l’avvertimento che ogni forza alternativa alla marcia della globalizzazione, all’inizio, si presenta divisa e confusa, tende al puro luddismo, e può venire usata dall’avversario per combattere i propri nemici.
Alla fine di questo elogio (che conquista in quanto è sinceramente ammirato), ecco il capovolgimento drammatico: lo stregone si trova impotente a dominare le potenze sotterranee che ha evocato, il vincitore è soffocato dalla propria sovraproduzione, è obbligato a generare dal proprio seno, a far sbocciare dalle proprie viscere i suoi propri becchini, i proletari.
Entra ora in scena questa nuova forza che, dapprima divisa e confusa, si stempera nella distruzione delle macchine, viene usata dalla borghesia come massa d’urto costretta a combattere i nemici del proprio nemico (le monarchie assolute, la proprietà fondiaria, i piccoli borghesi), via via assorbe parte dei propri avversari che la grande borghesia proletarizza, come gli artigiani, i negozianti, i contadini proprietari, la sommossa diventa lotta organizzata, gli operai entrano in contatto reciproco a causa di un altro potere che i borghesi hanno sviluppato per il proprio tornaconto, le comunicazioni. E qui il Manifesto cita le vie ferrate, ma pensa anche alle nuove comunicazioni di massa (e non dimentichiamoci che Marx ed Engels nella Sacra famiglia avevano saputo usare la televisione dell’epoca, e cioè il romanzo di appendice, come modello dell’immaginario collettivo, e ne criticavano l’ideologia usando linguaggio e situazioni che esso aveva reso popolari).
A questo punto entrano in scena i comunisti. Prima di dire in modo programmatico che cosa essi sono e che cosa vogliono, il Manifesto (con mossa retorica superba) si pone dal punto di vista del borghese che li teme, e avanza alcune terrorizzate domande: ma voi volete abolire la proprietà? Volete la comunanza delle donne? Volete distruggere la religione, la patria, la famiglia?
Qui il gioco si fa sottile, perché il Manifesto a tutte queste domande sembra rispondere in modo rassicurante, come per blandire l’avversario - poi, con una mossa improvvisa, lo colpisce sotto il plesso solare, e ottiene l’applauso del pubblico proletario... Vogliamo abolire la proprietà? Ma no, i rapporti di proprietà sono sempre stati soggetto di trasformazioni, la Rivoluzione francese non ha forse abolito la proprietà feudale in favore di quella borghese? Vogliamo abolire la proprietà privata? Ma che sciocchezza, non esiste, perché è la proprietà di un decimo della popolazione a sfavore dei nove decimi. Ci rimproverate allora di volere abolire la «vostra» proprietà? Eh sì, è esattamente quello che vogliamo fare.
La comunanza delle donne? Ma suvvia, noi vogliamo piuttosto togliere alla donna il carattere di strumento di produzione. Ma ci vedete mettere in comune le donne? La comunanza delle donne l’avete inventata voi, che oltre a usare le vostre mogli approfittate di quelle degli operai e come massimo spasso praticate l’arte di sedurre quelle dei vostri pari. Distruggere la patria? Ma come si può togliere agli operai quello che non hanno? Noi vogliamo anzi che trionfando si costituiscano in nazione...
E così via, sino a quel capolavoro di reticenza che è la risposta sulla religione. Si intuisce che la risposta è «vogliamo distruggere questa religione», ma il testo non lo dice: mentre abborda un argomento così delicato sorvola, lascia capire che tutte le trasformazioni hanno un prezzo, ma insomma, non apriamo subito capitoli troppo scottanti.
Segue poi la parte più dottrinale, il programma del movimento, la critica dei vari socialismi, ma a questo punto il lettore è già sedotto dalle pagine precedenti. E se poi la parte programmatica fosse troppo difficile, ecco un colpo di coda finale, due slogan da levare il fiato, facili, memorizzabili, destinati (mi pare) a una fortuna strepitosa: «I proletari non hanno da perdere che le loro catene» e «Proletari di tutto il mondo unitevi».
A parte la capacità certamente poetica di inventare metafore memorabili, il Manifesto rimane un capolavoro di oratoria politica (e non solo) e dovrebbe essere studiato a scuola insieme alle Catilinarie e al discorso shakespeariano di Marco Antonio sul cadavere di Cesare. Anche perché, data la buona cultura classica di Marx, non è da escludere che proprio questi testi egli avesse presenti.
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CHIESA CATTOLICO-ROMANA ALL’EXPO MILANO 2015. "UNO SPROPOSITO MAIUSCOLO": UNA QUESTIONE DI "CARITAS"! Materiali sul tema:
EUCARISTIA = EUCARESTIA, COSI’ ANCORA PER GLI ESPERTI DI WIKIPEDIA E CATHOPEDIA:
A. "Per i cristiani l’eucaristia o eucarestia è il sacramento istituito da Gesù durante l’Ultima Cena, alla vigilia della sua passione e morte. Il termine deriva dal greco εὐχαρίστω (eucharisto: "rendo grazie"). Il Nuovo Testamento narra l’istituzione dell’eucaristia in quattro fonti: Matteo 26,26-28; Marco 14,22-24; Luca 22,19-20; 1 Corinzi 11,23-25" (WIKIPEDIA).
B. "L’Eucaristia o Eucarestia (traslitterazione del greco εὐχαριστία, eucharistía, "rendimento di grazie") è il Sacramento con il quale, dopo il Battesimo e la Cresima, culmina l’iniziazione cristiana" (CATHOPEDIA).
"UNO SPROPOSITO MAIUSCOLO": VICO E MARX CONTRO LA PRASSI (ATEA E DEVOTA) DELLA CARITA’ POMPOSA. Alcune note su un testo del Muratori
PENSARE (UN ALTRO ADAMO E) UN ALTRO ABRAMO: GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITA’ E RICONCILIAZIONE.
RELAZIONI CHIASMATICHE E POTERE: UN NUOVO PARADIGMA. MARX, IL "LAVORO - IN GENERALE", E IL "RAPPORTO SOCIALE DI PRODUZIONE - IN GENERALE"
Federico La Sala
Le carte false dell’Expo
di aa.vv. (comune info,17 maggio 2015) *
Qualche giorno fa è stata presentata con grande clamore la “Carta di Milano” che dovrebbe essere l’eredità che Expo consegna all’umanità. Un appello di personalità del mondo culturale, sociale e scientifico (tra i firmatari Moni Ovadia, Alex Zanotelli, Mario Agostinelli, Emilio Molinari, Gianni Tamino), esprime un punto di vista decisamente critico e annuncia per il 26 e 27 giugno un grande convegno internazionale.
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Ora tutto il dibattito su questa Expo rischia di dover ruotare attorno ad un’unica fotografia: da un lato migliaia di persone entusiaste tra gli stand della grande Esposizione, dall’altra le auto bruciate e la città sfregiata. Ma non è così. Restano tutte le ragioni della critica ad Expo. Restano le tante persone che al di là dell’adesione alle manifestazioni continuano a pensare che occorre insistere nella critica e continuare ad avanzare proposte alternative su contenuti precisi.
Occorre ripartire dal grande convegno realizzato il 7 febbraio a Milano, costruendo consensi ampi, parlando a tutte e a tutti, perché il tema: “Nutrire il pianeta... energia per la vita”.. riguarda ognuno di noi e ben poco ha a che fare con quanto realizzato da questa Expo. Noi continueremo questo impegno - anche in previsione del grande convegno internazionale che si svolgerà a Milano venerdì 26 e sabato 27 giugno con la seconda edizione di: “Expo nutrire il pianeta o nutrire le multinazionali” - affinché: diritto all’acqua, diritto al cibo e giustizia sociale non siano solo degli slogan. Ripartiamo da qui e dalla critica alla “Carta di Milano”.
La Carta c’è, è ufficiale. E’ stata presentata coi toni dei grandi eventi istituzionali che cambiano la Storia. Ma non sarà così. La Carta di Milano scivolerà nella storia senza incidere alcunché, legittimando ancora il modello agroalimentare che ha prodotto insostenibilità, disastri ambientali e le terribili iniquità che vive il nostro mondo e che la stessa Carta denuncia ma ignorando lo strapotere politico delle multinazionali, che stanno dentro ad Expo e che sottoscrivono la Carta.
Il presidente Sala ebbe a dire a suo tempo che in Expo dovevano coniugarsi il diavolo e l’acqua santa: pensiamo intendesse Coca Cola, Monsanto e l’agricoltura familiare e di villaggio, i Gas, il biologico ecc... Il risultato è che nella Carta si sentono il linguaggio, le difficoltà, le mediazioni e i contributi di tanti docenti, personalità e realtà associative che hanno cercato di migliorarla, ma purtroppo il loro onesto sforzo si è tradotto unicamente in un saccheggio del linguaggio dei movimenti dei contadini e di coloro che si battono per la difesa dell’acqua come bene comune e in favore delle energie alternative al petrolio.
La “Carta di Milano”, presentata come l’eredità che Expo lascia al mondo, è una grande operazione mediatica, che si limita a dichiarazioni generiche senza andare alle cause e alle responsabilità della situazione attuale. Non una parola sui sussidi che la Commissione Europea regala alle multinazionali europee agroalimentari permettendo loro una concorrenza sleale verso i produttori locali; non una parola sugli accordi commerciali tra l’Europa e l’Africa (gli Epa) che distruggono l’agricoltura africana; né si parla del water e land grabbing; né degli Ogm che espropriano dal controllo sui semi i contadini e che condizionano l’agricoltura e l’economia di grandi paesi come il Brasile e l’Argentina; né si accenna alle volontà di privatizzare tutta l’acqua potabile e di monetizzare l’intero patrimonio idrico mondiale, né si fanno i conti con i combustibili fossili e il fraking.
Nella “Carta” si parla di diritto al cibo equo, sano e sostenibile, si accenna persino alla sovranità alimentare, si ricorda che il cibo oggi disponibile sarebbe sufficiente a sfamare in modo corretto tutta la popolazione mondiale, si sprecano parole nate e vissute nella carne dei movimenti, ma poi?
La responsabilità di tutto questo sarebbe solo dei singoli cittadini: dello spreco familiare (che è invece surplus di produzione) che andrebbe orientato verso i poveri e verso le opere caritatevoli, sta nella loro mancanza di educazione ad una corretta alimentazione, al risparmio di cibo e di acqua, ad una vita sana e sportiva. Le responsabilità pubbliche e private sono ignorate.
Manca la concretizzazione del diritto umano all’acqua potabile come indicato dalla risoluzione dell’Onu del 2010 e mancano gli impegni per impedirne la privatizzazione. Mancano le misure da intraprendere contro l’iniquità di un mercato e delle sue leggi, che strangolano i contadini del sud ma anche del nord del mondo. Mancano riferimenti a bloccare gli OGM su cui oggi si gioca concretamente la sovranità alimentare. Mancano i vincoli altrettanto concreti all’uso dei diserbanti e dei pesticidi che inquinano ormai le acque di tutto il mondo e avvelenano il nostro cibo. Ne prenda atto Sala da buon cattolico: il diavolo scappa se l’acqua è veramente santa. Ma qui di acqua santa non c’è traccia, mentre i diavoli, sotto mentite spoglie, affollano la nostra vita quotidiana e i padiglioni di Expo.
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L’Expo, il cibo e l’agricoltura italiana
di Piero Bevilacqua ("comune info", 5 maggio 2015) *
C’è un fondamento storico evidente e apprezzabile nella scelta di dedicare l’Expo italiano del 2015 all’alimentazione e all’agricoltura. La varietà, ricchezza, genialità della nostra cucina sono ormai un’ovvietà da senso comune. E tale fondamento si ritrova anche nella scelta di Milano, che oltre a vantare un prestigio di grande città e la modernità dei suoi servizi, custodisce un passato agricolo di rilievo mondiale. Almeno dal XVIII secolo Milano e la bassa Lombardia hanno visto fiorire una delle più prospere agricolture d’ Europa e del mondo. Come sappiamo, questa grande opportunità, la ricchezza potenziale, culturale e politica di tale scelta, è andata in buona parte compromessa, se non è del tutto fallita. Certo, in tutte le Esposizioni universali del passato, sia che si tenessero a Londra o a Parigi, lo spettacolo ha avuto sempre una parte preponderante. D’altra parte, si trattava per l’appunto di Esposizioni, cioè delle esibizioni di un capitalismo orgoglioso di mostrarsi a un pubblico internazionale con le sue mirabilia tecnologiche, ma anche nei suoi virtuosismi estetici, incastonati entro mondi urbani in febbrile espansione. L’affanno e il ritardo con cui ci arriva Milano sono lo specchio impietoso di un capitalismo nazionale gravemente usurato nella sua capacità progettuale, corroso all’interno dalla prolungata corruttela che governa da decenni la vita pubblica italiana.
Di sicuro circoleranno nelle giornate milanesi dei prossimi mesi discussioni importanti e serie, contributi alla comprensione della complessa realtà del mondo agricolo e della produzione e distribuzione del cibo. Ma intanto tutti i mesi di preparazione sono già passati sprecando una grande occasione: almeno un ampio dibattito nazionale sulle condizioni della nostra agricoltura, oltre che del nostro cibo, gettando uno sguardo sugli squilibri intollerabili che governano l’architettura mondiale della produzione alimentare. Un Expo che si occupa del tema di “nutrire il pianeta” non dovrebbe dimenticare che il cibo si ottiene dalla terra e che è la sua mancanza alla base della fame di milioni di famiglie. Quella terra sottratta ai contadini dai possessi latifondistici, come accade in America Latina, dagli scavi minerari e dalle dighe, come accade in India e in Cina, dagli inquinamenti petroliferi, dall’agricoltura industriale, dalla desertificazione, e ora dalle guerre in Africa e in Medio Oriente.
Ma il cuore della discussione avrebbe dovuto essere e dovrebbe ancora essere la ragione storica del primato alimentare italiano. Perché il nostro cibo è cos’ straordinariamente ricco, sapido, inventivo, vario, amato e imitato dappertutto? La risposta è all’apparenza facile e nota. Ma perché esso rispecchia la ricchezza unica e irriproducibile della nostra biodiversità agricola, frutto della varietà straordinaria di habitat naturali della Penisola e di una storia senza possibilità di confronti delle numerosissime comunità agricole che vi hanno operato per millenni. E la manipolazione alimentare delle infinite varietà di piante, di ortaggi, legumi, frutta è anch’essa opera storica del mondo contadino, della creatività popolare. In Italia come in Europa - lo ha ricordato più volte Massimo Montanari - anche l’elaborazione “alta” della cucina da parte dei cuochi professionali, faceva base sui piatti inventati dai contadini. E dunque l ‘Expo di Milano avrebbe dovuto e dovrebbe ancora porsi il problema fondamentale: quale sorte è riservata oggi ai contadini e ai lavoratori della terra del nostro Paese? Perché dovrebbe essere evidente il paradosso a cui l’Italia certo non sfugge: i contadini, i piccoli agricoltori, i produttori di cibo, quelle figure che alla fine consentono a tutti noi di vivere, che sono ancora oggi la base primaria e imprescindibile delle nostre società, sono i peggio remunerati fra tutti i ceti produttivi esistenti. Spesso sono in condizione di schiavitù sostanziale, come accade ai braccianti agricoli “extra-comunitari” di Rosarno, di Nardò e di altre campagne italiane. Un lato oscuro e vergognoso del made in Italy, denunciato da pochi coraggiosi, tra cui Carlo Petrini.
Tale discussione è drammaticamente urgente non solo per ragioni di giustizia sociale, ma perché è in pericolo anche il nostro patrimonio, quel cibo su cui si regge ancora tanta parte della nostra ricchezza e della nostra identità nazionale. E qui occorre esser chiari. Se noi non assicuriamo ai nostri produttori agricoli una remunerazione dignitosa, se non conserveremo la terra fertile per produrre cibo, noi perderemo in breve tempo la base di biodiversità agricola su cui si è fondata la nostra eccellenza in cucina. Il made in Italy diventerà una finzione commerciale, un trucco all’Italiana di cui i consumatori internazionali si accorgeranno ben presto. Il processo è già in atto da tempo. Tra il 1982 e il 2010 sono scomparse 1 milione mezzo di aziende dalle nostre campagne. Abbandonano i campi i piccoli produttori e resistono le grandi aziende. E allora occorre chiedersi: è questo il modello di agricoltura che vogliamo? Vogliamo puntare sulle grandi imprese per “produrre di più” riducendo i costi? Dobbiamo addirittura inserire il mais e la soia Ogm nelle nostre campagne, come pretendono taluni scienziati italiani, che hanno tanto a cuore le sorti della loro ricerca, e si curano così poco della storia e delle ragioni della nostra agricoltura?
La sparizione delle piccole aziende tradizionali comporta di necessità una crescente uniformità bioagricola dei prodotti. Su questo abbiamo prove allarmanti. Oggi siamo in grado di misurare gli esiti statistici ed epidemiologici di tale processo omologante dell’agricoltura e dell’alimentazione industriale. Nel rapporto Nuove evidenze nell’evoluzione della mortalità per tumore in Italia, pubblicata nel 2005 dall’Istat e dall’Istituto Superiore di Sanità, si legge: «L’uniformità alimentare ha prodotto un danno alle popolazioni del Sud, che in questi trenat’anni hanno perso un vantaggio di salute che avevano» sul resto della popolazione italiana. L’alimentazione contadina che a lungo aveva protetto i meridionali dall’incidenza del cancro è stata dunque travolta. Un mutamento di paradigma alimentare che li espone alla virulenza cancerogena propria degli stili di vita delle società industriali.
Appare dunque evidente che le sorti dell’eccellenza italiana, il nostro cibo e i suoi infiniti piatti, al di la delle montagne di retorica che si sono sovrapposte sul tema, sono inscindibilmente legate al modello di agricoltura che vogliamo realizzare e in parte conservare. Essa dipende dal destino dei piccoli e medi produttori biologici, dalla loro disponibilità di terra, dalla remunerazione dei loro prodotti, dal premio dato a chi tutela la salubrità delle campagne, protegge il territorio su cui vive e opera, custodisce e restaura il paesaggio del Belpaese.
Le multinazionali vengono a Expo per nutrire loro stesse, non il pianeta
di VANDANA SHIVA (iL fATTO, 29/04/2015)
Le multinazionali, che ci hanno portato malattie e malnutrizione attraverso i prodotti chimici e gli Ogm, attraverso il cibo-spazzatura e alimenti trasformati, hanno speso negli ultimi decenni grandi quantità di denaro per la pubblicità e per le pubbliche relazioni con un’azione di lobbying, volta a influenzare le politiche e ad affermare, in maniera del tutto falsa, che i loro prodotti sfamino il mondo.
Si sono accordate tra loro per brevettare i nostri semi, per influenzare la ricerca scientifica, per negare ai cittadini il diritto di essere informati, attraverso leggi sull’etichettatura degli Ogm. Le multinazionali che hanno distrutto i nostri terreni e la nostra salute ora saranno tutte ad Expo. Vogliamo fare una breve lista? Mc Donald’s, Coca Cola, Monsanto, Syngenta, Nestlè, Eni, Dupont, Pioneer: bastano queste a rappresentarle tutte. Le multinazionali non nutrono il pianeta, come proclama lo slogan di Expo 2015. Lo affamano. La lista degli sponsor dell’esposizione universale parla da sola.
È coerente con tutto questo che per costruire Expo si sia occupato ancora suolo e si siano cementificati molti altri ettari di terra fertile. È sconfortante che per tanti l’esposizione mondiale sia l’occasione per far consumare più cibo. Ed è emblematico che sia stato dato un ruolo di primo piano a chi propone un cibo fatto da un’aggregazione di zuccheri e grassi, inadatto a nutrire le persone e dannoso per la nostra salute e soprattutto dei nostri figli. Cosa si può fare per impedire che Expo sia solo la passerella dell’agroindustria e di chi pensa che la strada per nutrire il pianeta sia solo scegliere la tecnologia più apparentemente innovativa o la molecola di sintesi più raffinata?
La risposta sembra scontata: portare altri contenuti dentro questo contenitore. Ad oggi la lista degli eventi, dei dibattiti, del luoghi di confronto in cui si costruisce una visione più ampia, inclusiva e democratica sembra ancora molto povera. Ma la cosa paradossale è che da Expo sono fuori non solo fisicamente ma anche culturalmente i contadini italiani, europei e del mondo intero, cioè coloro che producono il cibo per i cittadini e curano la Terra. Sono i piccoli agricoltori che producono il 70% del cibo consumato nel pianeta e che stanno resistendo all’attacco dell’agroindustria mondiale. Dobbiamo fare di tutto per difendere un modello agroalimentare, fondato sull’agricoltura familiare, come quello italiano, europeo e di molti altri paesi. Dobbiamo riaffermare l’orgoglio dei tanti piccoli agricoltori di tutto il mondo che hanno tenuto a costo di grandi difficoltà, i loro campi e che li coltivano con i metodi biologici ed ecologici. Dobbiamo cogliere l’occasione per incontrare persone che incrociano difficilmente i temi della difesa della biodiversità e che magari pensano che la questione del cibo sia solo un tema di quello che si riesce a mettere in tavola e non una questione centrale per ridefinire l’economia e la democrazia.
Se noi, i movimenti e le associazioni che hanno scelto di entrare dentro i cancelli di Expo, saremo capaci di aprire le porte al mondo, alle ragioni della Terra dalla quale può nascere un nuovo paradigma economico allora è possibile che Expo diventi un’occasione. L’occasione per passare dal modello "taglia e brucia" che è proprio dell’economia lineare estrattiva delle risorse al modello economico, politico e sociale circolare basato sulla restituzione. L’occasione per superare la linearità che produce scarti materiali (i rifiuti) e scarti sociali (i poveri, gli emarginati, i disperati) e arrivare finalmente alla chiusura del cerchio ecologico. Saremo presenti all’Expo per assicurare che non sia solo la voce delle multinazionali ad essere ascoltata. Noi vogliamo portare la voce dei semi e della terra, dei piccoli agricoltori e delle generazioni future. Aggiungere al dialogo le diversità.
Presenteremo il manifesto "Terra viva" il 2 maggio nel padiglione della società civile con un invito a tutti i cittadini, per lavorare verso una nuova visione, un nuovo paradigma attraverso cui sconfiggere la fame e la malnutrizione, lavorando in armonia con la terra, non dichiarando guerra contro di lei.
Londra ’caccia’ i poveri, via 50mila famiglie in 3 anni
"Pulizia sociale in stile Kosovo". Municipi spostano indigenti per austerità e caro affitti
di Redazione ANSA *
Più di 50mila famiglie povere sono state costrette a quello che appare come un vero e proprio esodo degli indigenti da Londra negli ultimi tre anni. E’ quanto denuncia in prima pagina l’Independent, che pubblica l’esito di una sua inchiesta in cui ha potuto vedere documenti sino ad ora mai pubblicati. Si parla di una sorta di "pulizia sociale" portata avanti, a causa dei tagli al welfare e del caro affitti, dai municipi che offrono alle famiglie senza casa un alloggio al di fuori della capitale. Ed ecco quindi che chi abita da sempre in un quartiere dell’est o del nord di Londra si può ritrovare in una città del tutto nuova, a centinaia di chilometri di distanza, come Manchester o Leeds, lontano da abitudini e affetti. Questo accade sempre più spesso a persone che non sono in grado di pagare i crescenti affitti della capitale.
L’Independent ricorda come questa situazione - che vede una media di 500 famiglie costrette a lasciare la capitale ogni settimana - doveva essere del tutto evitata stando alle parole pronunciate nel 2010 dal sindaco di Londra, Boris Johnson, che voleva scongiurare una "pulizia sociale in stile Kosovo".
Dalla parte dei teppisti
di Franco Berardi Bifo *
La manifestazione NoExpo-Mayday del 1 maggio 2015 a Milano sarà sicuramente al centro di un vivace dibattito, cui Effimera non intende sottrarsi. Pubblichiamo come primo contributo un testo di Bifo. Seguiranno altri commenti. *
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Di prima mattina ho fatto una ricognizione per Milano per decidere che fare.
Piovigginava e l’asma mi rallentava il passo: dopo aver camminato un’oretta ho capito che era meglio tornarmene a Bologna. Si sapeva che a un certo punto sarebbe scoppiata la baraonda. La polizia non poteva farci niente per una ragione facile da capire: gli occhi di tutto il mondo erano puntati sull’inaugurazione dell’EXPO, un morto nelle strade di Milano non sarebbe stato buona pubblicità. A Genova quindici anni fa (come passa il tempo!) il potere intendeva dimostrare che i grandi del mondo sono inavvicinabili e se ci provi ti ammazzo. A Milano intendeva dimostrare di essere tollerante. Da una parte si fa festa con Armani e Boccelli perché ormai i giovani sono talmente frollati dalla disperazione che fanno la fila per poter servire gratis al tavolo di Monsanto e di McDonald. Dall’altra si permette di sfilare a qualche migliaio di sessantenni i quali, poveretti, credono che per telefonare ci vuole il gettone, e quindi sono ancora dietro a quelle vecchie storie dei diritti.
Poi tremila teppisti hanno rovinato il banchetto, tutto qui.
Ho letto l’articolo di Luca Fazio e vorrei esprimere un’opinione diversa dalla sua. Fazio scrive che i teppisti hanno rovinato una manifestazione democratica.
Sarò brutale con spirito amichevole: a cosa serve manifestare per la democrazia? che utilità può avere sfilare per le vie della città dicendo: diritti, costituzione, democrazia?
Io lo faccio talvolta (quando l’asma me lo permette) per una ragione soltanto: incontro i miei amici e le mie amiche. E’ quel che ci è rimasto della sfera pubblica che un tempo chiamavamo movimento. Ma non penso neanche lontanamente che si tratti di un’azione politicamente efficace.
C’è ancora qualcuno che creda nella possibilità di fermare l’offensiva finanzista europea, o l’autoritarismo renziano con pacifiche passeggiate e referendum?
A proposito: ci sarà un referendum contro la legge elettorale denominata Italicum. Probabile. Giusto per riepilogare voglio ricordarvi gli antefatti. Esisteva una legge elettorale denominata Porcellum (perché coloro che la avevano promulgata dichiararono fra le risate che si trattava di una porcata). La Consulta dichiarò quella legge incostituzionale, dunque sancì l’illegittimità del Parlamento eletto con quella legge. Fino al 2011 c’era almeno un Primo Ministro votato da una maggioranza. Si chiamava Berlusconi (remember?). Fu esautorato per volontà della Bundesbank, venne un primo ministro direttamente eletto dalla finanza internazionale di nome Monti. Il disastro fu tale che si tornò alle urne. Le urne risultarono enigmatiche, e dopo varie tergiversazioni emerse un tizio che nessuno ha votato ma nei sondaggi risultava vincente. Dal momento che questo tizio ha la fiducia dei mercati il Parlamento, eletto con una legge incostituzionale, ora si prostra ai suoi piedi. La cifra vincente del governo Renzi è il totale disprezzo delle regole costituzionali, perciò un parlamento incostituzionale vota una legge elettorale incostituzionale imponendola con il voto di fiducia.
Tombola.
A questo punto qualcuno raccoglierà le firme per un referendum.
Referendum? Io ne ricordo un altro: il 90% del 70% degli elettori votarono contro la privatizzazione dell’acqua. Vi risulta che la privatizzazione dell’acqua sia stata fermata? A me risulta il contrario. E allora perché dovrei andare a votare al prossimo referendum?
Qualcuno mi risponde: per difendere la democrazia.
Democrazia? Ma di che stai parlando? L’80% dei greci appoggia il suo governo, ma la Banca Centrale europea ha detto con chiarezza che le regole non le stabilisce l’80% dei greci, ma il sistema bancario, quindi che i greci vadano a farsi fottere, e con loro la democrazia.
Ma torniamo a Milano. Tremila teppisti spaccano tutto? Non esageriamo, ma certo hanno fatto abbastanza fumo. E i giornali parlano di loro più che di Renzi Armani e Boccelli. Come posso non essergliene grato?
Sto forse proponendo una strategia politica? Credo io forse che spaccando le vetrine di tre banche (o magari di trecento o di tremila) il potere finanziario si spaventa? Non scherziamo. So benissimo che il potere finanziario non sta nelle vetrine delle banche, ma in un circuito algoritmico virtuale che nessuna azione teppistica può distruggere e nessuna democrazia influenzare. So benissimo che mentre tremila spaccavano vetrine diciassettemila e cinquecento correvano a lavorare gratis e questo è l’avvenimento più importante. So benissimo che nell’azione teppistica non vi è alcuna strategia politica. Ma c’è forse una cosa più seria. C’è la disperazione che cresce, limacciosa e potente, ai margini del mondo levigato.
Cosa ne pensa Fazio (al quale rivolgo un saluto in amicizia) dei teppisti di Baltimore e di Ferguson? Pensa che dovrebbero avere fiducia nella democrazia?
Io ricordo di avere visto (era la CBS?) un’intervista a una ragazza che stava in strada a New York una notte del novembre 2014. Il giornalista le chiedeva qualcosa sui bianchi e sui neri e lei rispose: “This is not about white and black. This about life and death.”
Nel tempo che viene non capirete niente se penserete alla democrazia. Occorre pensare in termini di vita e di morte, e allora si comincia a capire.
Ci stanno ammazzando, capito? Non tutti in una volta. Ci affogano a migliaia nel canale di Sicilia. Un numero crescente di ragazzi si impiccano in camera da letto (60% di aumento del tasso di suicidio nei decenni del neoliberismo, secondo i dati dell’OMS). Ci ammazzano di lavoro e ci ammazzano di disoccupazione. E mentre la guerra lambisce i confini d’Europa, focolai si accendono in ogni sua metropoli.
Perché dovrei preoccuparmi dell’Italicum? E’ una forma di fascismo come un’altra.
Abbiamo perso tutto, questo è il punto, e il primo maggio 2015 potrebbe essere il momento di svolta, quello in cui lasciamo perdere le battaglie del passato e cominciamo la battaglia del futuro. Non la battaglia della democrazia né quella per i diritti, meno che mai la battaglia per la difesa del posto di lavoro, che è stata l’inizio di tutte le sconfitte.
La battaglia necessaria (e forse a un certo punto anche possibile) è quella che trasforma la potenza della tecnologia in processo di liberazione dalla schiavitù del lavoro e della disoccupazione. Quella battaglia si combatterà cominciando a comportarci come se il potere non esistesse, rifiutando di pagare un debito che non abbiamo contratto, rifiutando di partecipare alla competizione del lavoro e alla competizione della guerra.
E’ impossibile? Lo so, oggi è impossibile, i giovani che hanno aperto gli occhi di fronte a uno schermo uscendo dal ventre della madre si impiccano a plotoni perché per loro il calore della solidarietà politica e della complicità amichevole sono oggetti sconosciuti. Ma se vogliamo parlare con loro è meglio che lasciamo perdere i gettoni, la democrazia e i diritti. E’ meglio che impariamo a parlare della vita e della morte.
* Fonte: Effimera.org, maggio 3rd, 2015
Expo 2015
Donne per Expo: note critiche a margine del megaevento 2015
di Gea Piccardi *
Dietro l’icona della vita, le politiche delle multinazionali e della governance attuale
«WE-Women for Expo parla di nutrimento e lo fa mettendo al centro la cultura femminile. Ogni donna è depositaria di pratiche, conoscenze, tradizioni legate al cibo, alla capacità di nutrire e nutrirsi, di “prendersi cura”. Non solo di se stessi, ma anche degli altri... Le artefici di questo nuovo sguardo e nuovo patto per il futuro [saranno] le donne».
Così recita la presentazione del progetto che Expo 2015 dedica alle donne come prime protagoniste del grande evento mondiale che avrà sede a Milano tra qualche mese. Donne, quindi, come icona di salvezza, universale mitico che raccoglie in sé i valori della generazione, della cura, del nutrimento, della maternità. Donna come portatrice di un potenziale differente nel lavoro, nell’impresa, nella cultura. Insomma, Expo lancia un grido al mondo:
«Nutrire il pianeta, energia per la vita», a cui dovrebbero rispondere tutte le donne «per essere le protagoniste del cambiamento e di uno sviluppo pienamente sostenibile».
In questo grido, che è un grido d’allarme, leggo il segno violento di una storia millenaria: la Storia del maschio, dell’Uomo come categoria universale e universalmente imposta, scritta da quell’infamia originaria di cui parla Lea Melandri per cui
«la donna che entra nella storia ha già perso concretezza e singolarità: è la macchina economica che conserva la specie umana, ed è la Madre, un equivalente più generale della moneta, la misura più astratta che l’ideologia patriarcale abbia inventato».
Expo, quindi, smette di essere “solo” un cantiere di speculazioni e un banco di prova delle nuove riforme strutturali del lavoro (all’insegna del self-management, della gratuità e della flessibilità), ma si configura anche come spazio di produzione di discorso, di simboli, di miti e di pratiche che vanno ad alimentare un’idea di mondo nata nella notte dei tempi, «un dramma di cui si cominciano a vedere oggi i protagonisti». Uno dei campi discorsivi e simbolici attorno a cui si costruisce l’Esposizione Universale del terzo millennio è appunto quello della femminilità come insieme di attributi salvifici e creativi della donna e quello della vita come terreno di sfida politica ed economica. Il mito trascendente della Dea Madre o della Madre Terra, mito universale che sacrifica l’immanenza e la singolarità composita delle vite in un’astrazione separata dai corpi, è sempre esistito nella cultura maschile e patriarcale. È quell’ideale prodotto dall’Uomo in corrispondenza a un sistema di dualismi che vedono irrimediabilmente separati mente e corpo, materia e forma, produzione e riproduzione e il cui correlato è stata la creazione di un “femminile” tanto negato e oppresso nello spazio del biologico e del riproduttivo, quanto sacralizzato in veste di principio materno, generativo e vitale. Questo mito non ha smesso di esistere nell’epoca della religione del denaro e anzi, negli ultimi quarantanni, ha avuto un ruolo preminente all’interno di quel passaggio storico in cui un nuovo paradigma economico ha tentato di recuperare la forza dirompente delle lotte femministe degli anni Settanta. Ha stabilito, cioè, quel differenziale femminile da poter valorizzare sul mercato che prende il nome di diversity management: maggior capacità di cura delle relazioni, di creatività e di pragmatismo che richiamerebbero gli attributi tipici del lavoro domestico come luogo - in fondo e sempre - riservato alle donne.
Expo conferma questa narrazione e ne mostra i paradossi, rilancia la sfida internazionale in difesa della vita e in nome delle donne ma ne svela il nesso indissolubile con le logiche di accumulazione di profitto e con le politiche della morte dell’attuale governance globale.
Non a caso uno dei primi partner di Expo (insieme a Nestlé, Coca Cola, McDonald’s, Mekorot e Israele, Barilla e tanti altri) è Monsanto, la più grande multinazionale di biotecnologie agrarie e principale produttrice di semi geneticamente modificati del mondo, nonché mostro devastatore di ambiente (attraverso il monopolio delle sementi e dell’imposizione dei brevetti sui semi e l’uso di agro-tossici e agenti chimici che distruggono le proprietà del terreno e che causano cancri mortali alle persone che vivono nelle località limitrofe alle aree contaminate) e principale obiettivo di lotte e contestazioni da parte di numerosissime organizzazioni disseminate su tutto il pianeta. A questo proposito mi viene in mente il caso di Ituzaingó, una località argentina situata nella periferia di Cordoba e circondata da coltivazioni intensive di soia di proprietà di Monsanto. Qui, a partire dal 2001, un gruppo di madri (Las madres de Ituzaingó) cominciò a denunciare la morte dei propri figli nati con disparate malformazioni, gesto che inaugurò l’inizio di una lotta feroce che dura tutt’ora contro la multinazionale e l’uso di agro-tossici. Quando cominciarono le ricerche si scoprì che su una popolazione di circa mille persone 200 soffrivano di cancro, si rilevarono casi di giovani da 18 a 25 anni con tumore al cervello, altri dai 22 ai 23 che già erano morti e più di tredici casi di leucemia in bambini e ragazzi giovani. Lo scorso Luglio a Buenos Aires ho avuto la fortuna di partecipare all’inaugurazione del FINCA (Festival Internacional de Cine Ambiental) che ha dedicato la prima serata ad Andres Carrasco, un biologo molecolare che aveva lottato in piazza a fianco de las madres e che aveva dimostrato scientificamente gli effetti nocivi del Glifosato, ingrediente contenuto nei pesticidi di Monsanto.
E così penso anche alle centinaia di sgomberi che hanno colpito negli ultimi mesi alcuni quartieri popolari di Milano, in particolare Corvetto, Giambellino e San Siro, e che seguiranno fino all’inaugurazione di Expo, come previsto dalle dichiarazioni del presidente della regione Roberto Maroni. Sebbene non sia esplicitato il nesso che lega il provvedimento repressivo e il mega evento di maggio, è evidente che dietro il primo ci sia l’intento di riqualificare la città in vista del ruolo-vetrina che le sarà attribuito per tutto il 2015. Così centinaia di persone hanno occupato le strade per fermare un’inaudita violenza poliziesca che obbligava decine e decine di famiglie a lasciare le proprie case, un tetto sotto cui vivere. Senza dimenticare la denuncia di quella donna che ha perso il figlio di cui era incinta durante gli scontri e le manganellate.
Questo per mostrare, attraverso due esempi tra migliaia, la faccia oscura, necropolitica, di un evento come Expo e del modello di “sviluppo” che ci propone. Accanto alla costruzione di nuovi miti di generazione, di cura e di nutrimento (con tutta una simbologia che riguarda la Donna, la Terra e la Vita) e alla produzione della femminilità come insieme di fattori messi a valore dal mercato, Expo si fa portatore di un sistema economico e politico che fa della riproduzione della vita e dell’ambiente il principale campo di sfruttamento e di espropriazione. E, sebbene si tratti di un modello di mondo che ha radici in un pensiero sessista e patriarcale che ancora oggi vive in tutte le manifestazioni di violenza diffusa e crescente sul corpo delle donne, la sua portata distruttrice riguarda tanto le donne quanto gli uomini e le altre soggettività oltre il genere, ed è per questo che tutti e tutte siamo tenute a rispondere. La sfida che ci pone Expo è a trecentosessanta gradi, è radicale perché interroga alla radice le strategie future delle multinazionali e della governance globale: si tratta di decostruire categorie di genere imposte dal mercato, di stabilire cosa significa per noi vita e biodiversità, di saper ricostruire il cammino della filiera produttiva che connette a filo teso le piantagioni intensive di soia e mais transgenici del Latino America ai nostri acquisti al supermercato e chiederci che risposta diamo noi alla crisi agro-alimentare, e tanto altro.
Rosi Braidotti scrive che
«confrontarsi con la storicità della nostra condizione significa spostare il fulcro della riflessione verso l’esterno, nel mondo reale, in modo da assumersi le responsabilità delle condizioni e relazioni di potere che definiscono la nostra collocazione. L’epistemologico e l’etico avanzano in tandem nei complicati orizzonti del terzo millennio. Ci occorrono creatività concettuale e coraggio intellettuale per afferrare quest’occasione, e non si può tornare indietro».
Credo che questa esortazione bene riassuma la portata epocale della battaglia contro Expo.
* della sezione italiana dell’Associazione internazionale delle filosofe (Iaph-Italia). Intervento pubblicato sul sito dell’associazione e su Adista
Al via la raccolta di firme
Cibo e ambiente: il 28 aprile sarà presentata la Carta di Milano
di Elisabetta Soglio (Corriere della Sera, La Lettura, 12.04.2015)
Non sarà solo una grande fiera. Lo avevano promesso, governo e istituzioni, fin dall’inizio dell’avventura Expo, quando il 31 marzo 2008 i delegati del Bureau International des Expositions scelsero Milano promuovendo il tema «Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita». Un tema che era nato dalla riflessione sugli Obiettivi del Millennio fissati dall’Onu e che sarebbero stati verificati giusto nel 2015. Allora pareva una data lontana, ora ci siamo. E, proprio partendo da quella campagna sulla lotta alla fame e sul diritto al cibo e all’acqua, Milano e l’Italia, come spiega il ministro Maurizio Martina, «si pongono al centro dell’agenda internazionale e danno forma e voce al dibattito sulla sostenibilità ambientale».
Lo strumento è la Carta di Milano, eredità culturale dell’evento: quella che mette al riparo dal rischio «solo una grande fiera». Il documento, al quale ha lavorato il laboratorio scientifico costituito oltre due anni fa, con esperti delle università milanesi e non solo, sotto il coordinamento del professor Salvatore Veca, ha raccolto i contributi di 42 tavoli di lavoro tematici ed è stato consegnato pochi giorni fa in bozza ai rappresentanti dell’Onu. Il testo definitivo verrà presentato il 28 aprile durante un evento alla Statale di Milano, sarà consegnato il 16 ottobre al segretario delle Nazioni Unite Ban Ki-moon e diventerà parte integrante dei prossimi Obiettivi, quelli riassunti nello slogan Fame Zero.
Già. Perché la novità del documento è che viene sottoposto alla firma di istituzioni e governi, ma anche di aziende, associazioni di categoria, società civile, terzo settore. E ai singoli cittadini. Ciascuno si impegna in prima persona: ad «avere consapevolezza e cura della natura del cibo di cui ci nutriamo», ma anche a «consumare solo le quantità di cibo sufficienti al fabbisogno». Alle imprese si chiede di «applicare le normative in materia ambientale e sociale» e di «investire nella ricerca promuovendo una maggiore condivisione dei risultati». Le organizzazioni della società civile dovranno «far sentire la nostra voce a tutti i livelli decisionali, al fine di determinare progetti per un futuro più sostenibile» e la politica sarà attiva nel «formulare e implementare regole e norme giuridiche riguardanti il cibo e la sicurezza alimentare». Si firmerà anche all’interno di Expo, ovviamente. Al terzo piano di Palazzo Italia i visitatori entreranno in una specie di uovo alle cui pareti saranno evidenziate le parole chiave della Carta e i principi sanciti.
Qui si potrà sottoscrivere il proprio impegno, come si farà, per chi non visiterà l’esposizione milanese, sul sito cartadimilano.it che aprirà il 28 aprile. Nel frattempo, si sta anche preparando una versione junior dedicata ai bambini, per spiegare con un linguaggio più semplice come anche dai piccoli gesti quotidiani si possa dare un contributo per la lotta alla fame e per rispettare e proteggere l’ambiente. Un impegno collettivo.
Elisabetta Soglio
Noi donne e uomini, cittadini di questo pianeta, sottoscriviamo questo documento, denominato Carta di Milano, per assumerci impegni precisi in relazione al diritto al cibo che riteniamo debba essere considerato un diritto umano fondamentale.
Consideriamo infatti una violazione della dignità umana il mancato accesso a cibo sano, sufficiente e nutriente, acqua pulita ed energia.
Riteniamo che solo la nostra azione collettiva in quanto cittadine e cittadini, assieme alla società civile, alle imprese e alle istituzioni locali, nazionali e internazionali potrà consentire di vincere le grandi sfide connesse al cibo: combattere la denutrizione e la malnutrizione, promuovere un equo accesso alle risorse naturali, garantire una gestione sostenibile dei processi produttivi.
Expocrisia 2015. Nutriamo il profitto
di Francesco Gesualdi *
“Nutrire il pianeta” recita lo slogan di Expo 2015 e la mente corre subito al miliardo di affamati che affollano il mondo. Ma di affamati all’Expo non ce ne sarà neanche uno, perché del loro destino in realtà non importa niente a nessuno. Siamo solo di fronte all’ennesimo caso di ipocrisia, all’ennesimo caso di strumentalizzazione da parte dei potenti che usano le emergenze umanitarie per dare una connotazione buonista ai loro progetti di tutt’altro stampo. Basta scorrere la lista degli sponsor per rendersene conto. Ai primi posti spiccano nomi come Coca-Cola, Nestlè, Ferrero, Unilever, potenti multinazionali che le guide al consumo critico di tutto il mondo indicano come imprese che non brillano per responsabilità sociale e ambientale. Coca-Cola da anni è contestata per la politica antisindacale da parte dei suoi imbottigliatori che in Colombia comprende perfino l’assassinio dei delegati sindacali. Nestlé e Ferrero sono criticate perché acquistano cacao da zone dell’Africa dove le piantagioni giungono ad utilizzare lavoro minorile in schiavitù. Unilever è additata perché ottiene il tè da Kenya e India dove la legge consente di utilizzare lavoratori precari per salari indegni senza nessuna garanzia sociale.
Tutte pratiche che contribuiscono a creare la fame, non a eliminarla, perché la fame non dipende dalla scarsità di cibo, ma dall’ingiustizia. Lo dimostra il fatto che il 75 per cento degli affamati si trovano nelle campagne. Muoiono di fame perché non dispongono di terra o perché le terre migliori se le sono prese gli stranieri che stanno tornando nel sud del mondo per produrre cibo da esportare nei paesi ricchi o addirittura per fabbricare bioetanolo. Il fenomeno è stato battezzato landgrabbing (furto di terre) e coinvolge un’area grande come mezza Europa, principalmente in Africa.
Da uno studio che abbiamo realizzato e pubblicato on line, dal titolo “I padroni del nostro cibo”, emerge che il settore agricolo è dominato da poche multinazionali che presidiano i posti chiave della filiera, per fare del cibo nient’altro che un business secondo le più spietate logiche del profitto, dello spreco, del disprezzo umano e ambientale. Una manciata di multinazionali fra cui Monsanto, Syngenta, Dupont, Bayer, controllano il mercato di sementi e pesticidi, cercando di spingere sempre di più verso sementi Ogm, modificate per indurre gli agricoltori a utilizzare erbicidi specifici e utilizzare quote crescenti di fertilizzanti, pur sapendo che nel lungo periodo l’eccesso di sostanze chimiche conduce alla perdita di suolo agricolo. Secondo le Nazioni Unite si perdono ogni anno dai cinque ai dieci milioni di ettari di terra agricola a causa dell’erosione e dell’impoverimento dei suoli.
La parola d’ordine di un sistema che cerca di fare passare per produttivo, ciò che in realtà è un problema distributivo, è produrre sempre di più. E siamo all’assurdo che la terra è sottoposta a stress per produrre una quantità crescente di cereali, non per sfamare chi ha fame, ma per ingrassare gli animali da carne che assorbono il 40 per cento di tutti i cereali prodotti nel mondo. Insomma è la produzione fine a se stessa nella logica del Pil che deve crescere sempre e comunque con l’unico obiettivo di garantire sempre più profitti alle multinazionali commerciali, Cargill, prima fra tutte, che oltre ad essere un big del commercio di granaglie è anche un big del commercio di carne. Il risultato è che un miliardo di affamati convivono con un miliardo di obesi con doppia soddisfazione per il sistema che può invocare la fame per imporre sempre più tecnologia finalizzata ad accrescere produzione dicibo mal orientato, e può invocare la malattia per accrescere il consumo di farmaci orientati a problematiche create ad hoc.
Se davvero vogliamo nutrire il pianeta non è di più tecnologia che abbiamo bisogno, ma di un altro modo di distribuire le terre, di gestire le sovvenzioni all’agricoltura, di regolare gli accordi commerciali, di orientare l’intervento pubblico. In altre parole è di un’altra politica che abbiamo bisogno, non più piegata agli interessi dei profittatori, ma alle esigenze delle persone nel rispetto della natura.
Milano 2015. Dopo gli articoli-denuncia del “Fatto”
Expo-Farinetti: Cantone ora indaga sull’appalto Eataly
“Voglio vedere le carte”. Nel mirino l’appalto senza gara affifato a Mr. Eataly
di Gianni Barbacetto (il Fatto, 20.12.2014)
Milano Vuole vedere le carte. Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, ha chiesto alla società Expo 2015, guidata da Giuseppe Sala, la documentazione sull’affidamento diretto di due padiglioni dell’esposizione a Oscar Farinetti, il patron di Eataly. Mercoledì il Fatto Quotidiano aveva raccontato il progetto “Italy is Eataly”: due grandi “store” di 8 mila metri quadrati totali, assegnati senza gara all’imprenditore passato dagli elettrodomestici Unieuro ai grandi magazzini del cibo e della gastronomia. Lì, nella “più grande trattoria che mente (e pancia) umana abbia mai pensato”, apriranno 20 ristoranti, uno per Regione italiana, in cui si avvicenderanno 120 ristoratori scelti da Farinetti.
DOPO L’ARTICOLO del Fatto, è scattata un’interrogazione parlamentare di due deputati di Sel, Adriano Zaccagnini e Franco Bordo, che hanno chiesto “come mai siano stati assegnati a Eataly due padiglioni senza gara” e “quali siano stati i criteri” della scelta. Al ministro dell’Agricoltura, Maurizio Martina, che ha la delega su Expo 2015, i due parlamentari hanno poi chiesto se “non intenda intervenire al fine di sospendere l’assegnazione dei due padiglioni e di fare indire una gara a evidenza pubblica con cui poter selezionare chi rappresenterà l’Italia e la sua ristorazione all’esposizione universale, tenendo in debito conto delle migliaia di microcosmi del cibo che il nostro Paese sa raccontare”.
Cantone - che ieri a Milano ha incontrato le commissioni antimafia del Comune di Milano, guidata da David Gentili, e della Regione Lombardia, presieduta da Gian Antonio Girelli - ha reso noto di aver chiesto la documentazione su Eataly: “Sì, ho chiesto di vedere le carte. Io sono abituato a esprimermi sulla base dei documenti, dunque mi riservo di verificare come sia avvenuta l’assegnazione”.
FARINETTI replica: “Se continuano le polemiche di gente che non fa e che ha un sacco di tempo da perdere per criticare chi fa, noi ci ritiriamo senza problemi. Questo non è un affare sotto il profilo dei quattrini”, ha aggiunto, “tant’è che altri appalti sulla ristorazione sono andati deserti”. Ha poi spiegato il meccanismo economico dell’operazione: “Abbiamo ipotizzato investimenti fissi per 7 milioni di euro, in più ci è stato imposto di pagare il 5 per cento su tutti gli incassi lordi. Questo rappresenterà un bell’introito per Expo”.
Sul meccanismo dell’assegnazione si pronuncerà invece Cantone, che aveva già dichiarato al Fatto: “Su questo affidamento non abbiamo potere, perché è avvenuto prima del 24 giugno 2014, quando è entrata in campo, per decreto del governo, l’Autorità nazionale anticorruzione. Sappiamo però che Expo può utilizzare poteri in deroga e fare affidamenti diretti”, aveva proseguito il presidente dell’Anticorruzione, il quale aveva comunque subito annunciato i controlli: “Acquisiremo i documenti e verificheremo che cosa è stato fatto, anche se non abbiamo alcun potere su atti precedenti al nostro arrivo”.
IERI IL PRESIDENTE dell’Anticorruzione ha criticato il progetto dell’Albero della vita, la struttura alta 35 metri che dovrebbe diventare, nelle intenzioni del commissario del Padiglione Italia Diana Bracco, la Tour Eiffel dell’Expo milanese: “Progetto opaco”, ha detto Cantone, su cui si proiettano le ombre “di un conflitto d’interessi”.
Ha poi tracciato un primo bilancio dell’attività svolta in questi sei mesi. “Sono ottimista sul fatto che si riesca a fare Expo nel modo più pulito possibile”, ha detto. “Il nostro lavoro è nato in un momento emergenziale, con tanti problemi”, ma “abbiamo messo a punto un sistema di controlli che credo stia funzionando abbastanza bene. Abbiamo avuto una grande collaborazione da parte di Expo, stiamo rispettando i tempi, senza far perdere tempo alla stazione appaltante”, cioè a Expo 2015 spa.
Ha poi comunicato i numeri degli interventi: “L’unità operativa speciale si è occupata di 68 procedure tra bandi, accordi transattivi, varianti, contratti di sponsorizzazione, convenzioni, nomina di commissioni giudicatrici e aggiudicazioni. Per ulteriori otto casi specifici, inoltre, l’Autorità ha richiesto di propria iniziativa chiarimenti o informazioni alla stazione appaltante”.
Delle 68 procedure avviate, “50 si sono concluse con rilievi di illegittimità, 36 con rilievi di opportunità, mentre 12 sono stati i casi senza profili di illegittimità”.
Lab Expo Veca:“Mangio dunque sono” Dal Simposio di Platone all’ Ultima cena di Leonardo Nutrirsi è elemento fondante dell’identità di un popolo e fattore di coesione sociale», dice Salvatore Veca
Il filosofo tiene domani una lecture sul “Patto della Scienza”: il progetto internazionale che anticipa l’appuntamento milanese del prossimo anno
di Antonio Cianciullo (la Repubblica, 04.12.2014)
Il dibattito sul cibo, con l’alternarsi di note che affascinano e spaventano, seducono e minacciano, è materia da tecnologi o da filosofi, da biologi o da antropologi? A porsi queste domande è stato il Laboratorio Expo, un’iniziativa della Fondazione Feltrinelli e di Expo Milano 2015 avviata nell’autunno del 2013 e destinata a concludersi a fine aprile. E la conclusione venuta fuori in questo anno di lavoro - sintetizzata domani nel secondo Colloquio internazionale che ha coinvolto più di cento ricercatori - è che una risposta può venire solo mettendo assieme i vari punti di vista.
«Abbiamo sviluppato quattro aree di analisi: il cibo come filiera, il cibo come cultura, il cibo come fonte di squilibri sociali, il cibo in bilico tra campagna e città», racconta Salvatore Veca, coordinatore scientifico del Laboratorio Expo. «Sintetizzare le conclusioni non è facile perché ognuno di questi temi meriterebbe un libro, ma si può provare a estrarre alcuni elementi del ragionamento per misurare l’importanza dell’alimentazione e il suo ruolo strategico. Partiamo dalle radici: dal Simposio di Platone all’ Ultima cena l’atto della nutrizione si configura come un elemento fondante dell’identità di una popolazione o di un gruppo».
Il mantenimento delle tradizioni gastronomiche costituisce un aspetto centrale della stabilità culturale di un Paese o di una regione. E tuttavia il cibo è anche un brand formidabile capace di penetrare nuovi mercati. Dunque lo scambio, la contaminazione (fusione se vogliamo usare un termine più adatto al tema), è parte ineludibile del presente; ma il rispetto delle tradizioni alimentari è necessario per il mantenimento degli equilibri sociali e ambientali che su queste tradizioni si sono costruiti nei secoli.
Come uscire dalla contraddizione? «La risposta è semplice in teoria, difficile nella pratica: bisogna imparare a far convivere culture diverse senza permettere sopraffazioni «, continua Veca. «Locale e globale devono poter coesistere nello stesso tempo e spazio. Il che vuol dire che non possiamo accettare soluzioni monopolizzanti che cancellino il diverso: una ricetta unica, a livello globale, è un incubo. Bisogna mantenere l’equilibrio tra noi e gli altri, con una linea di demarcazione che passa per un confine mobile, in continuo movimento perché continuamente ci si adatta. Il cibo può essere usato per costruire ponti o per erigere muri. Sta a noi scegliere».
Sul cibo come elemento di coesione sociale si sono schierate con decisione le Nazioni Unite. Nel documento preparato dall’Onu per la partecipazione a Expo 2015 si pone l’accento sull’importanza del sostegno ai contadini che nel mondo difendono le tradizioni dell’agricoltura e una biodiversità creata nei millenni ma oggi a rischio. «Se le filiere alimentari vengono monopolizzate da grandi multinazionali l’effetto può essere negativo sia in termini di stabilità sociale che dal punto di vista della possibilità di mantenere il nostro patrimonio genetico», continua Veca. «Il rischio è perdere una ricchezza costituita da risorse sicure - perché testate da millenni di evoluzione - in grado di dare una risposta ai nuovi bisogni di sicurezza creati dallo squilibrio del ciclo idrico».
La convivenza tra passato e futuro passa anche dalla profonda mutazione del rapporto tra città e campagna. Dal 2007 si è sovvertito un dato costante lungo tutta la storia umana: gli abitanti delle città, storicamente una piccola minoranza, si sono trasformati in maggioranza assoluta. E in questo nuovo contesto si parla sempre più spesso di produzione agricola urbana, con modelli che vanno dagli orti cittadini alle vertical farm. È una prospettiva reale?
«Al momento l’ipertrofia tecnologica urbana appare una prospettiva poco concreta», risponde Veca, «mi sembra più probabile una simbiosi tra le smart cities e le slow cities. Città in cui il livello tecnologico aumenta ma contemporaneamente si sviluppano forme agricole che rilocalizzano il processo di produzione del cibo all’interno delle aree urbane attraverso la riqualificazione di spazi abbandonati o degradati». Una sorta di rammendo dei quartieri che hanno perso vecchie funzioni e possono acquistarne di nuove collegandosi alla domanda di cibo di qualità .
I padroni del cibo
Sono dieci i signori dell’industria alimentare che controllano da soli più del 70 per cento dei piatti del pianeta
di Paolo Griseri (la Repubblica, 19.12.2014)
Sono dieci i signori dell’industria alimentare che controllano da soli più del 70 per cento dei piatti del pianeta. Queste multinazionali gestiscono 500 marchi che entrano nelle nostre case quotidianamente Così pasta, biscotti e caffè diventano globali, anche in Italia. E le grandi questioni, come l’uso di oli e grassi nei prodotti, vengono decise a tavolino
STANNO seduti intorno alla tavola del mondo e controllano da soli più del 70 per cento dei piatti del pianeta. Sono i 10 signori dell’industria alimentare: 450 miliardi di dollari di fatturato annuo e 7.000 miliardi di capitalizzazione, l’equivalente della somma del pil dei paesi più poveri della Terra. Non sempre sono nomi noti in Italia. Da un secolo la Coca Cola è il sinonimo della multinazionale ma solo gli addetti ai lavori conoscono la Mondelez. Un po’ più numerosi sono gli italiani che ricordano la Kraft, vecchio nome proprio della Mondelez. Quasi tutti invece hanno incontrato al supermercato marchi come Toblerone, Milka e Philadelphia. «I 500 marchi riconducibili ai dieci signori della tavola - spiega Roberto Barbieri, direttore generale di Oxfam Italia - sono spesso vissuti dai consumatori come aziende a sé stanti. In realtà fanno parte di multinazionali in grado di condizionare non solo le politiche alimentari dell’Occidente ma anche le politiche sociali dei paesi più poveri».
A rendere chiaro il quadro (rappresentato dal grafico della Oxfam pubblicato in queste pagine) c’è il paradosso del ricco Epulone, il protagonista della parabola evangelica. Mentre sono 900 milioni le persone che soffrono la fame (dati Onu settembre 2014) e che vivono sotto la tavola del banchetto sperando nelle briciole, sono 1,4 miliardi gli uomini e le donne che nel mondo hanno il problema del sovrappeso. «Sono due prodotti dello stesso sistema - osserva Barbieri - perché l’80 per cento di coloro che non riescono a sfamarsi vivono nelle campagne e lavorano per produrre cibo». Oxfam è un’organizzazione che si propone di aiutare le popolazioni povere del mondo cercando di redere virtuosi, con campagne e raccolte di firme, i comportamenti delle multinazionali del cibo. Il sistema è quello di fare pressione sull’immagine dei gruppi alimentari in Occidente per spingerli a migliorare le politiche sociali nei paesi produttori. È accaduto con Nestlé, Mondelez e Mars per quel che riguarda i diritti delle donne che lavorano nelle piantagioni di cacao. Si chiede che accada con Coca Cola e Pepsi per evitare il fenomeno del land grabbing, l’esproprio forzoso delle terre dove si coltiva la canna da zucchero. «Già oggi - spiega Oxfam - sono coltivati a zucchero 31 milioni di ettari di terra, l’equivalente della superficie dell’Italia».
La tendenza alla concentrazione dei marchi è in atto da tempo e riguarda praticamente tutti i settori alimentari. Ci sono eccezioni quasi inevitabili come il latte e il vino. Stiamo naturalmente parlando di grandi multinazionali. Ma se nel settore vinicolo il blocco alla creazione di grandi gruppi è dovuto a un legame strettissimo con il territorio (ogni collina è una diversa cantina sociale), nella birra non è più così da tempo: i tre principali marchi mondiali, i belgi in In Bev (Artois, Beck’s e la brasiliana Anctartica), i sudafricani di SAB Miller e gli olandesi di Heineken controllano da soli il 60 per cento del fatturato mondiale e raccolgono l’80 per cento degli utili. Analoga concentrazione sta per avvenire nel settore del caffè. «L’esempio della birra - spiega Antonio Baravalle, ad di Lavazza - dimostra che nei settori dell’alimentare la concentrazione delle proprietà fa aumentare i profitti». Dunque c’è da immaginare che nei prossimi anni i dieci signori che governano le tavole del mondo si ridurranno ancora? «Penso che ci sia un limite. Fondersi ancora di più non sarà facile. Mi sembra più probabile che ciascuno di quei dieci gruppi assorba nel tempo altri gruppi minori ».
Anche se, a ben guardare la composizione della tavolata, non tutti i signori del cibo hanno la stessa consistenza. Provando a metterli in fila per fatturato, la Nestlé è di gran lunga più grande (90,3 miliardi) della seconda classificata, la Pepsicola (66,5 miliardi). Nonostante il suo valore iconico, come si dice oggi, la Coca Cola è ben distaccata dalla storica rivale ed è ferma a 44 miliardi di fatturato, scavalcata da Unilever (60) e Mondelez (55). A fondo classifica la Kellogg’s con 13 miliardi di dollari di ricavi annui.
Con queste marcate differenze tra i dieci primi in classifica c’è, in teoria, ancora spazio, per i matrimoni. «Ma può anche accadere - spiega Baravalle - che uno dei grandi gruppi decida di liberarsi di un marchio perché non lo considera abbastanza globale». È quel che è successo, ad esempio, con la scelta di Mondelez di cedere i suoi marchi del caffè. Ed è quel che è accaduto negli anni scorsi a Findus, un tempo di Nestlé e Unilever e oggi in maggioranza detenuta da un fondo di investimento. Findus continua ad essere un ottimo marchio ma il suo difetto, secondo le valutazioni delle multinazionali, è quello di essere forte solo su alcuni mercati.
Un’altra tendenza è quella di rilevare un marchio alimentare locale perché faccia da veicolo alla penetrazione di un grande gruppo in un mercato. Se Unilever, per esempio, deciderà un giorno di acquistare un marchio locale in un paese asiatico, lo farà soprattutto per mettere piede in quel mercato e poterlo affiancare dopo poco tempo con uno dei suoi brand globali.
Dopo altri decenni di fusioni e concentrazioni, ci troveremo un giorno a consegnare ad un unico grande fratello le chiavi della dispensa del mondo? Quello di un pianeta in cui una sola grande multinazionale controllerà tutti i marchi alimentari è certamente uno scenario da incubo. Ma come tutti i processi di concentrazione, anche quello del cibo crea inevitabilmente i suoi anticorpi.
Succede in politica, dove contemporaneamente alle unioni tra stati nascono i movimenti separatisti e territoriali; accade, in modo assai più virtuoso, nell’alimentare con il sorgere dei prodotti chilometro zero, i presidi territoriali, i sistemi di produzione artigianale. Chi decide di resistere alla tentazione di vendere l’azienda alle multinazionali è inevitabilmente portato a valorizzare il suo brand mettendo in evidenza il legame con il territorio.
L’Italia è certamente uno dei Paesi del mondo dove il rischio della concentrazione dei produttori di alimenti è meno forte. Un po’ per il particolarismo che caratterizza la nostra economia asfittica. Un paese dominato dal modello per molti aspetti negativo della piccola e media impresa, che nel settore del cibo potrebbe trasformare il difetto in virtù. Lo dimostra uno studio condotto dall’agenzia Next con un questionario rivolto alle aziende alimentari italiane. L’elenco di quelle principali dice che siamo ben al di sotto del livello dei colossi mondiali. L’unica che si avvicina per fatturato è la Ferrero, con 8,1 miliardi di euro di ricavi annui, circa 10 miliardi di dollari, poco meno dei 13 miliardi della Kellogg’s. Le altre sono molto più indietro. La Barilla fattura 3,5 miliardi di euro ed è limitata dal fatto di avere come business un prodotto molto connotato localmente come la pasta. Si contano sulle dita di una mano le altre italiane sopra il miliardo di fatturato: il gruppo Cremonini (3,5) Parmalat (1,4), Amadori (1,3) Lavazza (1), Conserve Italia (1). Immediatamente sotto il livello del miliardo ci sono Acqua San Benedetto, Galbani e Granarolo.
È evidente che gli 11 signori del cibo italiano sono molto meno potenti dei commensali della tavolata mondiale. Ci si chiede se i re dell’alimentare, in Italia e nel mondo, hanno politiche comuni, accordi segreti, si mettono d’accordo per decidere che cosa mangeremo nei prossimi trent’anni. L’idea di una Trilateral del cibo, di un supergoverno occulto delle nostre cucine, è forse fantasiosa: «Credo anch’io che messa così possa essere un esercizio di fantasia premette Baravalle - ma sarei un ingenuo ad escludere che sulle grandi questioni di politica alimentare i grandi gruppi non esercitino, com’è legittimo, le loro pressioni sui politici ».
Certo, la discussione delle normative comunitarie sulla etichettatura risente ed ha inevitabilmente risentito dei desiderata dei signori del cibo. Ogni particolare in più o in meno da aggiungere sul foglio informativo per i consumatori si porta dietro miliardi di investimenti. Il caso più clamoroso è scoppiato di recente e riguarda gli oli utilizzati: finora è sufficiente scrivere che si tratta genericamente di “oli vegetali”. Ma se domani i produttori fossero costretti a specificare quali sono quegli oli, quanti avrebbero il coraggio di scrivere che utilizzano l’olio di palma, decisamente più scadente di quello di oliva? Ogni tanto sedersi intorno a un tavolo e decidere strategie comuni può essere utile. Anche per i signori del cibo.
Lectio magistralis a Milano
Cercare l’etica della libertà
di Salvatore Veca (Il Sole Domenica, 14.09.2014)
«Libertà non è star sopra un albero...libertà è partecipazione». Così Giorgio Gaber, in una sua leggendaria canzone. Se consideriamo la massima di Gaber adottando la grammatica della descrizione, ci rendiamo conto che non c’è differenza fra stare sopra un albero e scegliere di partecipare e condividere con altri qualcosa. Al massimo, potremmo pensare a una differenza fra la libertà negativa e la libertà positiva o fra la libertà liberale e la libertà democratica. E le cose stanno più o meno così, anche con la grammatica della valutazione. Se invece ci chiediamo che cosa si provi o si senta nello spazio delle interpretazioni del senso della libertà, allora possiamo dire che una differenza c’è e può indurci a riflettere sulla dimensione etica della libertà per noi. Vediamo ora perché.
Si consideri che la libertà è, dopo tutto, un valore sociale e, quindi, che essa presuppone un qualche spazio sociale, uno spazio di relazioni, connessioni e interazioni fra me e altri. Ricordate la storia del "collo libero" e della comunità di pari? Ora, la dimensione etica della libertà si profila quando proviamo l’esperienza del limite della nostra libertà nello spazio sociale. Come si usa dire, il limite alla mia libertà è semplicemente la libertà di altri. E’ in questo modo che emerge l’esperienza della libertà di qualcuno, come risposta alla libertà di altri. E si abbozza l’idea di una libertà responsabile nello spazio sociale. Sentendo l’altro o gli altri, sentiamo il limite e, provando che effetto ci fa convivere e condividere con altri lo spazio sociale delle libertà, incontriamo le radici di un elementare schema di reciprocità. Queste radici possono affondare nel terreno dell’empatia e delle sue motivazioni personali o nel terreno del rispetto e delle sue ragioni impersonali. E affiora, se ci pensiamo su, un’idea vaga, preziosa ed elusiva di eguaglianza umana.
Ricordate il detto del Deuteronomio e la memoria dell’essere stati stranieri in Egitto? Qui vale la promessa esigente della reciprocità. Perché la libertà, da un punto di vista etico, non può essere appannaggio di qualcuno. Deve indicare, allo stesso modo, lo status di chiunque. E i confini fra noi e altri non devono contare. Spesso sono muri fra le persone. Dovrebbero essere ponti fra le persone. E dovrebbero includere. Non escludere. Perché a chiunque può accadere di essere straniero rispetto a qualcuno. E si danno casi in cui noi diveniamo stranieri a noi stessi.
Ora, la mia libertà non può essere esercitata responsabilmente nell’intorno di uno spazio sociale di non libertà, di oppressione, di umiliazione, di degradazione, di schiavitù di altri. Perché, in circostanze come queste, il fragile e prezioso schema di reciprocità collassa e va in pezzi. La promessa implicita di reciprocità è tradita. E riemerge in modo persistente l’immagine dell’Egitto del Faraone. In Esodo e rivoluzione Michael Walzer aveva fissato tre punti base nella sua narrazione: i) ovunque può esservi Egitto; ii) ci dev’essere un posto migliore; iii) prendiamoci per mano, sapendo che là c’è il deserto da attraversare. E che ci saranno mormorazioni nel deserto.
Qui ha ragione Gaber: libertà è partecipazione. La dimensione etica della libertà ci induce così a mettere a fuoco le reti della condivisione, i modi dello stare assieme, il senso del limite, la densità delle relazioni, che danno senso e significato alle vite che abbiamo da vivere. La libertà responsabile chiama in causa centralmente il rapporto fra il sé e l’altro.
Consentitemi di rivolgermi, per dare un vivido esempio di ciò, a una delle grandi tradizioni orientali. Vi è, nella dottrina buddhista classica, una figura che ho sempre trovato esemplare e toccante. Si tratta del Bodhisattva. Il Bodhisattva è uno che è sulla soglia della liberazione dalla dukkha, dalla sofferenza, e dal samsara, dal ciclo delle reincarnazioni. Il Bodhisattva è sulla soglia del nirvana. Ma si volta indietro e vede gli altri, ancora condannati alla schiavitù del samsara. E li aspetta. E li aiuta nel processo della loro liberazione, scandito dalla confomità alle quattro nobili verità dell’Illuminato. Nell’esercizio della compassione per gli altri, il gesto del Bodhisattva esemplifica, ancora una volta, quell’idea vaga e preziosa di eguaglianza umana che abbiamo incontrato a proposito della dimensione etica della libertà.
Ma dal repertorio della sapienza del gran discorso di Benares dell’Illuminato torniamo ora, dalle nostre parti, al retaggio della saggezza del recente Iluminismo europeo, "il cantiere della nostra modernità". E riflettiamo, pensando al modello della libertà di qualcuno e della non libertà di altri, di molti, di troppi di noi, su una luminosa massima di un grande illuminista europeo, Pietro Verri: "L’uomo è come nel deserto quando non trova i suoi simili. Il vivere è noioso o si viva co’ superiori o cogli inferiori. La uguaglianza è la sola che ammette società, gioia, cordialità."
Un inedito di Louis Althusser
Il pensatore francese critica l’idealismo a favore del materialismo e spiega come va insegnata la disciplina
“I filosofi escano dal loro mondo chiuso”
Quando Althusser si chiedeva “Ma la filosofia serve a qualcosa?”
di Louis Althusser (la Repubblica, 01.07.2014) POICHÉ apparentemente nella vita pratica la filosofia non serve a granché, dato che non produce né conoscenze né applicazioni, ci si può allora domandare: a che cosa serve la filosofia? E si può perfino porre quest’altra strana domanda: non è che per caso la filosofia serva solo al proprio insegnamento e a null’altro? E se serve solo al proprio insegnamento, ciò cosa significa? Cercheremo di rispondere a queste difficili domande. Con la filosofia le cose vanno così.
Basta riflettere su un aspetto piccolissimo (il fatto che i filosofi siano quasi tutti dei professori di filosofia), perché, senza neanche lasciarci il tempo di respirare, s’impongano alcune domande impreviste e sorprendenti. E queste domande sono tali che dobbiamo porle, senza avere i mezzi per rispondervi: per rispondere occorre fare un lungo periplo . E questo periplo non è altro che la filosofia stessa. Il lettore deve dunque armarsi di pazienza. La pazienza è una “virtù” filosofica. Senza di essa, non ci si può fare un’idea della filosofia.
Per procedere, diamo un’occhiata discreta a questi uomini: i professori di filosofia. Hanno mariti e mogli come voi e me, dei figli che hanno voluto. Mangiano e dormono, soffrono e muoiono, come tutti. Possono amare la musica e lo sport, fare politica o non farla. D’accordo, non è questo che fa di loro dei filosofi.
Ciò che fa di loro dei filosofi è che vivono in un mondo a parte, in un mondo chiuso: costituito dalle grandi opere della filosofia. Questo mondo apparentemente non ha un di fuori. Vivono con Platone, Cartesio, Kant, Hegel, Husserl, Heidegger, ecc. [...] La pratica della filosofia non è semplice lettura, né tanto meno dimostrazione. È interpretazione, interrogazione, meditazione : cerca di far dire alle grandi opere quello che vogliono dire, o possono voler dire , nella Verità insondabile che esse contengono, o meglio che indicano silenziosamente, “facendo segno” verso di essa.
Conseguenza: questo mondo senza un fuori è un mondo senza storia . Benché sia costituito dall’insieme delle grandi opere consacrate dalla storia, esso però non ha storia. La prova: per interpretare una passo di Kant, il filosofo farà ricorso sia a Platone che a Husserl, come se non ci fossero ventitré secoli tra i primi due e un secolo e mezzo tra il primo e l’ultimo, come se importasse poco il prima e il dopo.
Per i filosofi, tutte le filosofie sono per così dire contemporanee. Rispondono le une alle altre, facendosi eco, perché in fondo rispondono sempre a quelle stesse domande che costituiscono la filosofia. Da qui la celebre tesi: «la filosofia è eterna». Come si vede, affinché sia possibile la rilettura perpetua, il lavoro di meditazione ininterrotto, occorre che la filosofia sia al contempo infinita (ciò che “dice” è inesauribile) e eterna (tutta la filosofia è contenuta in nuce in ogni filosofo).
Questa è la base della pratica dei filosofi, o meglio dei professori di filosofia. Data questa situazione, fate attenzione se dite loro che insegnano la filosofia. Giacché è evidente che essi non insegnano come gli altri professori, i quali propongono ai loro allievi delle conoscenze da imparare, vale a dire dei risultati scientifici (provvisoriamente) definitivi.
Per il professore di filosofia che ha capito la lezione di Platone e Kant, la filosofia non si insegna. Ma allora cosa fa un professore di filosofia? Insegna ai suoi allievi a filosofare, interpretando davanti a loro i grandi testi o i grandi autori della filosofia, aiutandoli con il suo esempio a filosofare, inspirando loro il desiderio di filosofare. [...] Quello che ho appena descritto è, in forma relativamente pura, la tendenza idealistica, la pratica idealistica della filosofia.
Ma la filosofia può essere praticata anche in maniera completamente diversa. La prova è che nel corso della storia alcuni filosofi, diciamo i materialisti, hanno praticato la filosofia del tutto diversamente, e persino alcuni professori di filosofia tentano di seguire il loro esempio. Non vogliono più far parte di un mondo separato, di un mondo chiuso nella propria interiorità. Ne escono per abitare il mondo esterno : vogliono che tra il mondo della filosofia (che esiste) e il mondo reale si stabiliscano scambi fecondi. In linea di principio, ciò è per loro la funzione stessa della filosofia: mentre gli idealisti considerano che la filosofia è innanzitutto teorica, i materialisti considerano che la filosofia è innanzitutto pratica, viene dal mondo reale e produce, senza saperlo, degli effetti concreti nel mondo reale.
Notate che, nonostante la loro innata opposizione agli idealisti, i filosofi materialisti possono essere - per così dire - “d’accordo” con gli avversari su alcune questioni. Per esempio, a proposito della tesi “la filosofia non s’insegna” . Non le attribuiscono però lo stesso significato.
La tradizione idealistica difende questa tesi, innalzando la filosofia al di sopra delle conoscenze e invitando ciascuno a risvegliare dentro di sé l’ispirazione filosofica. La tradizione materialistica non innalza la filosofia al di sopra delle conoscenze, invita invece gli uomini a cercare al loro esterno, nelle pratiche, nelle conoscenze e nelle lotte sociali - ma senza tralasciare le opere filosofiche - di che imparare a filosofare. È una piccola differenza, ma carica di conseguenze.
Presses Universitaires de France, 2-014. Traduzione di Fabio Gambaro
Istruzioni per l’uso nella battaglia delle idee
di Fabio Gambaro (la Repubblica, 01.07.2014)
PARIGI. «OGNI uomo è virtualmente un filosofo». È in questi termini che, ispirandosi a Gramsci, Louis Althusser concludeva nel 1975 un corposo volume intitolato Initiation à la philosophie pour les non philosophes (Presses Universitaires de France, pagg.386, euro 21). Rimasto inedito fino a oggi, il libro è stato ora pubblicato in Francia, dove il filosofo scomparso nel 1990 continua ad essere al centro di studi e ricerche.
Questa poco convenzionale «iniziazione alla filosofia per i non filosofi» fu scritta nella seconda metà degli anni Settanta, nel pieno della fase più intensamente politica di Althusser, e solo qualche anno prima della tragedia che avrebbe sconvolto la sua vita nel 1980, quando in un accesso di follia strangolò la moglie. Sono gli anni in cui l’autore di Pour Marx - per il quale un filosofo «è un uomo che si batte nella teoria» - rivisita criticamente il marxismo, convinto che la filosofia non sia altro che la continuazione della politica con altri mezzi, un campo di battaglia al cui interno lottano le idee, come nella realtà lottano le classi sociali.
Da qui la necessità di scrivere un «manuale» per fornire ai non specialisti gli strumenti per capire e affrontare questa guerra di teorie e concetti, utilizzando la filosofia contro ogni forma di rassegnazione politica e sociale. In queste pagine in cui denuncia i limiti dell’idealismo e difende la filosofia materialista, Althusser propone una stringente analisi dei concetti d’astrazione e d’ideologia, allontanandosi volontariamente dalla «filosofia dei filosofi per analizzare le pratiche concrete degli uomini».
La sua però non è semplicemente un’opera di divulgazione, dato che all’interno del suo ragionamento lo studioso sintetizza molte problematiche e categorie che costituiscono il nucleo della sua originale riflessione filosofica, a cominciare dal concetto di pratica. Non a caso, se Initiation à la philosophie pour les non philosophes all’epoca non fu pubblicato (probabilmente Althusser pensava di apportarvi ancora alcune correzioni, nonostante l’avesse già riscritto due volte), diversi passi del manoscritto verranno nondimeno riutilizzati in alcuni testi scritti successivamente.
Mio padre si chiamava Karl Marx
Il comunismo, il rapporto con Engels, gli amori sfortunati e la militanza
In una biografia uscita in Inghilterra la storia di Eleanor detta “Tussy”
di Siegmund Ginzberg (la Repubblica, 14.06.2014) Poco prima delle 10 del 31 marzo 1898, Eleanor Marx, allora poco più che quarantenne, inviò la fedele cameriera Gertrude in farmacia a comprare del cloroformio e una piccola quantità di acido di cianuro. “Per un cane”, aveva scritto nel bigliettino indirizzato al farmacista. La trovarono morta, vestita con un abito tutto bianco fuori stagione. Sulla scrivania dello studio c’erano i giornali con deprimenti notizie sugli scandali di corruzione in tutta Europa, che lambivano anche la sinistra, la corrispondenza con il sindacato dei minatori e altri esponenti socialisti.
C’erano poi le bozze di Valore, prezzo e profitto , l’opuscolo del padre che lei aveva scoperto e si accingeva a pubblicare con una propria prefazione (“da Sonnenschein, che è un ladro, ma tutti gli altri editori con cui ho provato non l’hanno voluto”), e i lavori preparatori per una biografia del padre che non era mai riuscita a completare. “Tutto sommato Marx il politico (Politiker) e il pensatore (Denker) possono andare, ma dal punto di vista umano forse un po’ meno” aveva scritto alla sorella maggiore Laura. Era stato durissimo per lei scoprire che Freddy, il figlio della cameriera di sua madre, Helene Demuth, era invece figlio di Karl Marx.
“Eleanor, non sposata, suicidio per ingestione di cianuro, sotto stress mentale”, scrisse il medico legale. In realtà non era “single” ma aveva convissuto per quasi vent’anni con Edward Aveling, mantenendo la sua vita dispendiosa e tollerando le sue continue scappatelle. Lui era già sposato, ma non le aveva mai detto che la prima moglie era deceduta da tempo e lui aveva incassato e sperperato l’eredità. Solo il giorno prima del suicidio lui le aveva confermato quello che già tutti gli altri sapevano, che si era risposato un’altra volta ancora, in segreto, con un’attricetta. Lei finalmente lo aveva diseredato in extremis, ma il codicillo era stato fatto sparire. Si disse dallo stesso Aveling, che aveva frugato tra le sue carte in presenza del cadavere. Anzi, corse voce che addirittura fosse stato lui ad assassinarla. Lui morì l’anno seguente, dopo aver sperperato in pochi mesi anche l’ingente patrimonio che lei aveva ereditato dal suo “secondo padre”, il “vecchio generale” come lo chiamavano in famiglia, Friedrich Engels.
La stampa si buttò a pesce sulla notizia. Scrissero che era la dimostrazione del fallimento morale dello stile di vita del “libero amore” socialista. Scrissero che lei si era suicidata perché lui aveva deciso di tornare a vivere con la prima moglie e i figli e voleva imporle un mènage a tre. Questo era pura invenzione, la prima moglie era morta da tempo. A prendere le difese del “buon nome” del socialismo fu Eduard Bernstein, il leader riformista e “revisionista” della socialdemocrazia tedesca. Scrisse un opuscolo sull’“enigma psicologico” di una donna in preda ad un “malessere morale”, simile a quello di “ Frau Alving”, la protagonista degli Spettri di Ibsen.
Quello della figlia più piccola e preferita (“Tussy - questo il nomignolo di Eleanor - è me” soleva dire il vecchio Karl) non fu l’unico suicidio in casa Marx. Anni dopo, nel 1911, si sarebbero uccisi anche Laura e il marito parlamentare Paul Lafargue, iniettandosi cianuro nelle vene. Ma erano ormai vecchi (si avvicinavano alla settantina) e malati, è un caso diverso, la si potrebbe definire auto-eutanasia. Quella volta, a difendere la loro scelta, al posto di Bernstein, fu Lenin. In modo alquanto agghiacciante: “Comprensibile quando si sente di non poter più lavorare per la rivoluzione”.
Ma certo i grandi padri spesso sono ingombranti. Sigmund Freud non era stato un modello di padre, anche se 4 delle sue 5 sorelle non morirono suicide ma nei campi nazisti. Gandhi era stato un pessimo padre e marito. Il figlio di Einstein, Eduard, morì in manicomio. Per non parlare dei figli che Mao abbandonò durante la Lunga marcia e di Svetlana, figlia di madre suicida, che per sottrarsi al padre Stalin dovette scappare in America.
Eppure Eleanor non era affatto una donna sprovveduta. Era la più intellettuale e politicamente attiva della sorelle Marx. Era una femminista combattiva in un’epoca in cui le donne non avevano accesso né al voto né agli studi. È sua la prima traduzione in inglese di Madame Bovary e la messa in scena di diversi dei drammi di Ibsen (fu lei a recitare Nora alla prima londinese di Casa di bambola ). Come il padre adorava Shakespeare e Balzac. Ancora adolescente scriveva lunghe lettere di “consigli politici” ad Abraham Lincoln (che Marx naturalmente si guardava bene dallo spedire). Assieme ad Aveling aveva scritto un libro sul “Socialismo di Shelley” e partecipava a tutte le iniziative sindacali e politiche in tutta Europa.
Aveva fatto da segretaria e assistente di ricerca del padre. Alla morte di Engels fu lei a tentare di trascrivere il Quarto libro del Capitale e mettere insieme il suo carteggio. Fu lei a recuperare l’ebraismo con cui il padre aveva chiuso con la giovanile Questione ebraica rivendicando con orgoglio le proprie origini e mettendosi addirittura a studiare lo yiddish: “Mio padre era ebreo ...la lingua degli ebrei ce l’ho nel sangue... in famiglia dicono che assomiglio a mia nonna paterna, che era figlia di un dotto rabbino”. Lasciando perdere il fatto che la nonna si era arrabbiata moltissimo quando Karl aveva deciso di sposare l’aristocratica prussiana Jenny Von Westphalen, anziché una brava ragazza ebrea.
È fresco di stampa Eleanor Marx. A Life di Rachel Holmes (già autrice di successo di una biografia della Venere Ottentotta), pubblicata per i tipi di Bloomsbury. Mi sono chiesto anch’io se servisse un nuovo libro sull’argomento dopo The Life of Eleanor Marx: A Socialist Tragedy di Chusichi Tsuzuki (1967) e il monumentale lavoro di Yvonne Kapp (1972).
Ebbene, è diverso. Un’interpretazione più “moderna”, se così si può dire, più rispondente forse ai gusti dell’epoca dei pettegolezzi da tabloid, dei sitcom, reality e teleromanzi, anche se fondati su ricerche meticolose nelle lettere, nei diari e nei “sentiti dire” dei protagonisti.
L’autrice confessa di sperare che possa essere trascinato dal successo editoriale del Capitale nel XXI secolo di Piketty (80.000 copie solo nelle prime settimane, mentre il primo libro di Das Kapital nel 1867 aveva trovato pochissimi lettori). Glielo auguriamo. Anche Il Capitale di Marx era, a modo suo, un romanzo. La struggente telenovela su Eleanor tocca tasti ancora più universalmente umani.
La metafisica del comune
di ANTONIO NEGRI (il manifesto, 06 maggio 2014)
Dopo Marx. Prénom: Karl, Pierre Dardot e Christian Laval ci offrono un Proudhon. Prénom: Pierre-Joseph. In Italia, questo finto titolo basterebbe a liquidare il libro, ricorderebbe l’operazione reazionaria condotta, fra gli altri da Pellicani e Coen su Mondo Operaio negli anni Settanta, su ispirazione di Craxi. Ma questo libro non sta certo da quella parte, esso introduce in Francia, e riapre - speriamo - in Europa, il dibattito sul «comune». Torniamo dunque al libro.
Mentre il Marx era caratterizzato da una risoluta «de-teleologizzazione» del socialismo (vale a dire da una ragionata critica di ogni teoria socialista che volesse incapsulare nello sviluppo capitalista il progetto finale e la forza della liberazione comunista), questo secondo libro (Commun. Essai sur la révolution au XXIe siècle, La Découverte, pp. 593, euro 25) è caratterizzato da una risoluta «de-materializzazione» del concetto di socialismo - tale è l’operazione sviluppata in questo «Saggio sulla rivoluzione»: una vera e propria liquidazione del materialismo storico, della critica marxista dell’economia politica del capitalismo maturo, in nome di un nuovo «principio». «Comune»: non commons, non «il» comune, ma «comune» come principio che anima sia l’attività collettiva degli individui nella costruzione di ricchezza e della vita, sia l’autogoverno di queste attività.
Un preciso quadro ideale viene presentato e discusso a questo scopo - esso parte «dalla priorità del comune come principio di trasformazione del sociale, affermata prima di stabilire l’opposizione di un nuovo diritto d’uso al diritto di proprietà». Di seguito, si stabilisce che «il comune è principio di liberazione del lavoro, poi che l’impresa comune e l’associazione debbono prevalere nella sfera dell’economia». Si afferma inoltre «la necessità di rifondare la democrazia sociale, così come il bisogno di trasformare i servizi pubblici in una vera istituzione del comune. Infine, è stabilita la necessità di formare dei comuni mondiali e a questo fine di inventare una federazione globale dei comuni».
Una visione idealistica
Questa esplicitazione politica del principio del «comune» è preceduta da un lungo lavoro di analisi critica e costruttiva che si sviluppa in due tempi. Un primo - «L’emergenza del comune» - consiste nel ricostruire il contesto storico che ha visto affermarsi il nuovo principio del comune e nel criticare i limiti delle concezioni che ne sono state date in questi ultimi anni, tanto da economisti, filosofi e giuristi, quanto da militanti. Una seconda parte - «Diritto e istituzione del comune» - vuole più direttamente rifondare il concetto del comune situandolo sul terreno del diritto e dell’istituzione.
Il libro, che nasce dall’attraversamento di un seminario - «Du public au commun» (sviluppatosi in maniera ampia e contraddittoria nel Collège International de Philosophie dal 2011 al 2013) - approfondisce l’idea di comune riferendosi fondamentalmente a quella corrente del «socialismo associazionista» che da Proudhon risale a Jean Jaurès e a Maxim Leroy, e va poi fino a Mauss e Gurvitch, e infine all’ultimo Castoriadis (quello della «Institution imaginaire du social») - senza mai sottrarsi al tentativo di assorbire qualche tratto del pensiero marxiano dentro questo sviluppo «idealistico» della progettazione di un socialismo prossimo venturo.
Sviluppo idealistico: non può esser diverso l’effetto prodotto dalla critica e dalla ricostruzione del concetto di comune, elaborata in questo libro, perché, riprendendo Proudhon contro Marx, alla corretta e sempre più effettiva rottura con ogni e qualsiasi telos del socialismo, segue una non meno ossessiva smaterializzazione del concetto di capitale e del contesto della lotta di classe - sicché, alla fine di questo li