Come sono diventato cristiano
di Pietro Barcellona (l’Unità, 4 agosto 2012)
In tutti i profili che mi riguardano su internet o in altri contesti, come ad esempio nelle recensioni ai miei libri, vengo sistematicamente definito come «un ateo marxista convertito al cristianesimo».
Nei termini in cui questa sorta di definizione della storia intellettuale di una persona si risolve in una mera notizia essa non è solo falsa ma è anche strumentale ad una sorta di doppia censura: da parte dei giornali laici, perché le mie posizioni appaiono viziate da una grave contaminazione religiosa, e da parte del mondo cattolico perché esse risulterebbero inaffidabili e tendenzialmente fuori da ogni linea ecclesiale.
Poiché continuo a collocarmi idealmente in quell’area della sinistra che persiste tenacemente nella critica al capitalismo come forma totalizzante di vita e che allo stesso tempo considera indispensabile a una profonda revisione delle nostre categorie interpretative il rapporto con la trascendenza, vorrei provare a rendere esplicito il mio percorso per una ragione di chiarezza e di rispetto verso tutti coloro ai quali mi sono rivolto nei miei scritti e nei miei libri.
Io non mi sono convertito l’altro ieri per effetto di un’improvvisa illuminazione ma ho vissuto in tutta la mia vita un percorso tormentato di ricerca oltre ciò che di volta in volta è sembrata l’ultima spiegazione possibile del nostro stare al mondo. Il filo costante della mia ricerca sono stati la critica del presente e il rifiuto di un mondo che non mi è sembrato mai il migliore dei mondi possibili. La mia riflessione politica si è sempre perciò intrecciata con la riflessione filosofico-religiosa.
A diciotto anni, studente dei salesiani, presentai un programma autonomo che comprendeva il concetto dell’angoscia di Kierkegaard (Scuola di Cristianesimo) e La fenomenologia dello Spirito di Hegel. Era la mia prima ribellione al conformismo del programma ufficiale. Qualche anno dopo, ai tempi dell’università, incontrai un giovane agitatore comunista, venuto in Sicilia su incarico del partito, e divenni subito suo amico e compagno di pensieri.
Il mio bisogno di rivolta contro uno stato di cose ripugnanti trovò in un libro suggeritomi dall’amico torinese il punto più significativo per dare ordine ai miei pensieri confusi. Si trattava del libro di Concetto Marchesi in cui l’autore spiegava le ragioni del suo esser comunista con l’insopportabile visione dei giovani braccianti che tornavano malati di malaria dal lago di Lentini con una borsetta di pane e una bottiglia di vino.
La cosa che mi colpì fu che Marchesi non era propenso ad un atteggiamento di altruismo caritatevole ma colpito nella sua stessa persona come se questa fosse offesa nella propria dignità dalla condizione subumana dei braccianti di Lentini.
Da allora cominciai a cercare le ragioni del mio spirito di scissione rispetto ad una società omologata sul conformismo piccolo borghese che considerava l’ingiustizia un puro accidente naturale al quale dedicare qualche rimedio compensativo.
IL PROBLEMA DI CHI SUBISCE VIOLENZA
Già in quegli anni era per me invece diventato centrale il problema del dolore di chi subisce la violenza dell’emarginazione e che viene implicitamente condannato ad occupare sempre l’ultimo gradino della scala sociale. Una rabbia cresceva dentro di me che non riguardava soltanto una generica vocazione alla generosità verso i più deboli ma la consapevolezza di una ferita interiore che toccava la mia stessa identità di meridionale.
Come ha scritto egregiamente Massimo Cacciari nel volume Ama il prossimo tuo, il samaritano del Vangelo non è un altruista ma uno che sente nella ferita dell’altro la propria ferita, un uomo che cura l’altro per curare se stesso.
Per questo ho scritto in anni ormai lontani L’egoismo maturo e la follia del capitale, perché ciò che mi colpiva dell’egemonia capitalistica sulla vita quotidiana era la folle pretesa di ridurre l’uomo ad una pura dimensione economica. L’alienazione di cui avevo appreso con Marx la straordinaria manifestazione nel feticismo delle merci e del denaro mi è apparsa subito un furto dell’anima e ho visto nell’espropriazione della libertà interiore la ragione più profonda della passività delle masse, specialmente meridionali.
Sin da allora ho contaminato la mia molto dilettantesca conoscenza del marxismo con l’apporto della psicoanalisi come antidoto a una pura accettazione del presente dominato da un conformismo senza alcuno spirito critico che produceva passività e adattamento nelle masse meridionali.
In quegli anni l’incontro con Ingrao è stato decisivo perché ha allargato il mio orizzonte oltre la triste banalità delle spiegazioni economicistiche. La critica dell’economicismo che ho sviluppato in tutti i miei scritti ha sostanzialmente messo in discussione uno dei punti che allora sembravano indiscutibili della vulgata marxista: la distinzione fra struttura e sovrastruttura.
Mi sono convinto che restare nella trappola della gestione economica del capitalismo impedisce ogni vero trascendimento dello stato di cose presenti. Il codice del capitalismo è quello dell’egoismo competitivo e dell’individualismo esasperato e, seguendo questa via, si resta fatalmente prigionieri di una logica calcolistica e contabile.
L’impatto traumatico con la crisi dell’ ’89 ha sconvolto la mia esistenza fino a provocarmi una depressione grave che ho affrontato con una lunga psicoanalisi. Mi sono convinto attraverso questa dolorosa esperienza che nell’idea di comunismo che avevo perseguito si manifestava un delirio di onnipotenza (Democrazia e tecnocrazia, Editori Riuniti) in cui una sorta di esplosione megalomanica tendeva ad impedire l’emersione di ogni punto di vista diverso. Era il tema dell’ortodossia assoluta che cominciavo a vedere come il vero nemico del pensiero.
Ciò che mi appariva chiaro era che finché l’uomo pretende di spiegare con i propri saperi tutto ciò che riguarda le condotte umane finisce col negare ciò che di specificamente umano la nostra condizione mortale esprime: il bisogno di trascendere l’orizzonte dentro il quale ci troviamo ad agire per riscoprire una presenza ulteriore rispetto all’azione degli uomini. Mi servirono in quegli anni le riflessioni di Ernesto de Martino che intuiva come nella tendenza al trascendimento ci fosse qualcosa in più di una pura istintività naturale.
Approfondendo questo tema sono stato costretto a chiarire i rapporti fra teologia e politica, e tra il messianesimo e la speranza di una società di uomini liberi. Condivido la riflessione di Massimo Cacciari e quella di Mario Tronti dove si afferma con chiarezza che non può esserci spazio ulteriore per un pensiero teologico-politico senza affrontare il tema della trascendenza.
Dopo il crollo del Muro di Berlino mi sono sentito fisicamente assediato dal non senso dell’esistenza. Perché non uccidere, non sfruttare, non seviziare, non torturare un altro uomo che ostacola comunque i tuoi desideri di godimento se non c’è una ragione ulteriore che istituisce il criterio per distinguere in qualche modo ciò che si può fare da ciò che non si può fare?
Nel proseguire questa riflessione di ricerca ho scritto dei libri molto trasparenti nelle intenzioni e che segnano un processo orientato verso un traguardo, ma mai concluso in un’asserzione definitiva. La critica della ragione laica e la lezione magistrale svolta per il compleanno di Ingrao sul tema dell’epoca del postumano, erano già espressamente indicativi di una ricerca che tendeva a mettere in campo la questione della trascendenza. Veniva ripresa fra l’altro tutta la riflessione della Kristeva sull’assoluta novità di un dio sofferente che si pone come percorso doloroso per raggiungere una salvezza effettivamente trasformativa della condizione umana.
Le pagine della Kristeva sul Cristo sofferente mi hanno coinvolto e commosso. La mia non è una conversione quindi, ma un processo lungo, aperto e tormentato. In questo processo mi è apparsa la possibilità di sentire la presenza fuori di te di qualcosa che ti sollecita soltanto a seguire un esempio di amore, nel quale l’alterità non è lo specchio illuministico dell’Io ma la pura condivisione di un’esperienza che si realizza principalmente sul piano dell’esistenza concreta e non su quello intellettualistico della razionalità.
Mi veniva davanti agli occhi un Cristo pasoliniano, intriso di passioni umane, proporre un modello di vita fondato essenzialmente sulla identificazione con il prossimo sofferente. Nella lettura dei Vangeli che ho cercato di fare, Gesù Cristo mi è parso sempre come un interlocutore umano che si limitava a proporre un modello di identificazione con gli ultimi emarginati ed esclusi. Nella mia esperienza ho potuto verificare cosa significhi sul piano esistenziale l’identificazione con un’altra persona, il farla diventare una parte di te e prenderti cura di lei come ti prendi cura di te stesso.
L’identificazione non è una pura imitazione di un modello ma un’integrazione della propria persona con le parti doloranti che sono state prima riconosciute nell’altro.Per questo io oggi sono convinto che ciò che Cristo rappresenta nella storia del rapporto fra l’umano e il divino sia uno spartiacque della nostra visione del mondo. Ma il Cristo da cui io mi sento attratto e affascinato non è quello delle gerarchie e della precettistica, ma quello molto più rischioso di cercare di riviverne la presenza in ogni incontro con chi soffre la disperazione della delusione affettiva e del dolore della solitudine.
In questi termini non so se sia proprio corretto definire il mio status come quello di un «convertito» che si è definitivamente acquietato. Sono sicuramente un cristiano che nella temperie del presente è convinto che solo il discorso di Cristo si può opporre al nichilismo biologico dello scientismo che cerca di cancellare ogni specificità della condizione umana. Penso con assoluta convinzione che la via della salvezza e la fuoriuscita dal pensiero unico dell’economia dominante possono realizzarsi soltanto restituendo all’uomo la sua vocazione divina. Non per farne l’arrogante e presuntuoso sostituto di Dio ma l’interlocutore privilegiato di una vicenda enigmatica come resta sempre quella della salvezza rispetto all’inevitabile «morte del sole» che nessun sapere può riuscire mai a spiegare.
Nota:
Sul quotidiano dei vescovi "Avvenire" il documento di quattro intellettuali di formazione marxista:
Barcellona, Sorbi, Tronti e Vacca
"Laicità e relativismo, Bersani ascolti il Papa" *
TODI - La sinistra collabori con la Chiesa, nell’interesse dell’Italia. L’invito a farlo proviene da quattro noti intellettuali di formazione marxista, ed è partito ieri con una lettera aperta pubblicata sul quotidiano dei vescovi Avvenire. Il documento è firmato da Paolo Sorbi, Pietro Barcellona, Mario Tronti e Giuseppe Vacca. Il titolo scelto, con le foto dei quattro studiosi, è "Nuova alleanza per l’emergenza antropologica".
Sorbi, Barcellona, Tronti e Vacca esortano il Pd, e il suo segretario Pierluigi Bersani, a fare i conti con l’insegnamento di Benedetto XVI sulla insopprimibile dignità della vita umana e sul primato della persona, «cercando di andare oltre tutti gli steccati». «La definizione della nuova laicità - spiegano - e l’assunzione di una responsabilità più avvertita della Chiesa per le sorti dell’Italia, esigono uno sviluppo dell’iniziativa politica e culturale volta non solo a interloquire con il mondo cattolico, ma anche a cercare forme nuove di collaborazione con la Chiesa, nell’interesse del Paese». Annota Sorbi sul quotidiano della Cei, alla vigilia dell’incontro di Todi, che «il rischio incombente per un centrosinistra rassegnato a seguire derive radicali è di non riuscire a elaborare una cultura di governo all’altezza delle gigantesche sfide del nostro tempo». (m.ans.)
* la Repubblica, 17.10.2011
La lettera aperta
Il confronto può partire dal tema antropologico
di Pietro Barcellona, Paolo Sorbi, Mario Tronti, Giuseppe Vacca (l’Unità, 17.10.2011)
La manipolazione della vita, originata dagli sviluppi della tecnica e dalla violenza insita nei processi di globalizzazione in assenza di un nuovo ordinamento internazionale, ci pongono di fronte ad una inedita emergenza antropologica. Essa ci appare la manifestazione più grave e al tempo stesso la radice più profonda della crisi della democrazia. Germina sfide che esigono una nuova alleanza fra uomini e donne, credenti e non credenti, religioni e politica. Pertanto riteniamo degne di attenzione e meritevoli di speranza le novità che nel nostro Paese si annunciano in campo religioso e civile.
A noi pare che negli ultimi anni un periodo storico cominciato con la crisi finanziaria del 2007 e in Italia con il crepuscolo della seconda Repubblica mentre la Chiesa italiana si impegnava sempre più a rimodulare la sua funzione nazionale, un interlocutore come il Partito democratico sia venuto definendo la sua fisionomia originale di «partito di credenti e non credenti». Sono novità significative che ampliano il campo delle forze che, cooperando responsabilmente, possono concorrere a prospettare soluzioni efficaci della crisi attuale. Il terreno comune è la definizione della nuova laicità, che nelle parole del segretario del Pd muove dal riconoscimento della rilevanza pubblica delle fedi religiose e nel magistero della Chiesa da una visione positiva della modernità, fondata sull’alleanza di fede e ragione.
Nel suo libro-intervista Per una buona ragione, Pier Luigi Bersani afferma che il «confronto con la dottrina sociale della Chiesa» è un tratto distintivo della ispirazione riformistica del Pd e che la presenza in Italia «della massima autorità spirituale cattolica» può favorire il superamento del bipolarismo etico che in passaggi cruciali della vita del Paese ha condizionato negativamente la politica democratica. Ribadendo la «responsabilità autonoma della politica», Bersani esprime una opzione decisa per una sua visione «che non volendo rinunciare a profonde e impegnative convinzioni etiche e religiose, affida alla responsabilità dei laici la mediazione della scelta concreta delle decisioni politiche».
Per quanto riguarda la Chiesa cattolica vi sono due punti della relazione del cardinale Bagnasco alla riunione del Consiglio permanente dei vescovi del 26-29 settembre 2011 che meritano particolare attenzione. Il primo riguarda la critica della “cultura radicale”: essa è rivolta a quelle posizioni che, «muovendo da una concezione individualistica», rinchiudono «la persona nell’isolamento triste della propria libertà assoluta, slegata dalla verità del bene e da ogni relazione sociale». Il secondo è la proposta di nuove modalità dell’impegno comune dei cattolici per contrastare quella che in una precedente occasione aveva definito «la catastrofe antropologica»: «La possibilità di un soggetto culturale e sociale di interlocuzione con la politica».
E non è meno significativa la sua giustificazione storica: «A dar coscienza ai cattolici oggi non è anzitutto un’appartenenza esterna, ma i valori dell’umanizzazione sempre di più richiamano anche l’interesse di chi esplicitamente cattolico non si sen- te». In altre parole, la “possibilità” di questo nuovo soggetto origina dall’impegno sociale e culturale del laicato, nel quale i cattolici sono «più uniti di quanto taluno vorrebbe credere» grazie alla bussola che li guida: la costruzione di un umanesimo condiviso. La definizione della nuova laicità e l’assunzione di una responsabilità più avvertita della Chiesa per le sorti dell’Italia esigono uno sviluppo dell’iniziativa politica e culturale volta non solo a interloquire con il mondo cattolico, ma anche a cercare forme nuove di collaborazione con la Chiesa, nell’interesse del Paese. A tal fine appare dirimente il confronto su due temi fondamentali del magistero di Benedetto XVI che nell’interpretazione prevalente hanno generato confusioni e distorsioni tuttora presenti nel discorso pubblico: il rifiuto del “relativismo etico” e il concetto di “valori non negoziabili”. Per chi dedichi la dovuta attenzione al pensiero di Benedetto XVI non dovrebbero sorgere equivoci in proposito.
La condanna del “relativismo etico” non travolge il pluralismo culturale, ma riguarda solo le visioni nichilistiche della modernità che, seppur praticate da minoranze intellettuali significative, non si ritrovano a fondamento dell’agire democratico in nessun tipo di comunità: locale, nazionale e sovranazionale. Il “relativismo etico” permea, invece, profondamente, i processi di secolarizzazione, nella misura in cui siano dominati dalla mercificazione. Ma non è chi non veda come la lotta contro questa deriva della modernità costituisca l’assillo fondamentale della politica democratica, comunque se ne declinino i principi, da credenti o da non credenti. D’altro canto, non dovrebbero esserci equivoci neppure sul concetto di “valori non negoziabili” se lo si considera nella sua precisa formulazione. Un concetto che non discrimina credenti e non credenti, e richiama alla responsabilità della coerenza fra i comportamenti e i principi ideali che li ispirano. Un concetto che attiene, appunto, alla sfera dei valori, cioè dei criteri che debbono ispirare l’agire personale e collettivo, ma non nega l’autonomia della mediazione politica. Non si può quindi far risalire a quel concetto la responsabilità di decisioni in cui, per fallimenti della mediazione laica, o per non nobili ragioni di opportunismo, vengano offese la libertà e la dignità della persona umana fin dal suo concepimento. Ad ogni modo, se nell’approccio alle sfide inedite della biopolitica ci sono stati e si verificano equivoci e cadute di tal genere non solo in scelte opportunistiche del centrodestra, ma anche nel determinismo scientistico del centrosinistra, la riaffermazione del valore della mediazione laica che sembra ispirare «la possibilità di un soggetto culturale e sociale di interlocuzione con la politica» rischiara il terreno del confronto fra credenti e non credenti. Quindi dipenderà dall’iniziativa culturale e politica delle forze in campo se quella “possibilità” acquisterà un segno progressivo o meno nella vicenda italiana. A tal fine noi riteniamo che il Pd debba promuovere un confronto pubblico con la Chiesa cattolica e con le altre confessioni religiose operanti in Italia oltre che sui temi cosiddetti “eticamente sensibili”, su quelli che attengono in maniera più stringente ai rischi attuali della nazione italiana: la tenuta della sua unità, la “sostanza etica” del regime democratico. Tanto sull’uno, quanto sull’altro, la storia dell’Italia unita dimostra che la funzione nazionale assolta o mancata dal cattolicesimo politico è stata determinante e lo sarà anche in futuro.
Così il Cristianesimo salverà la borghesia
Per Mario Tronti il capitalismo ha omologato la società: solo la religione può arginare la volgarizzazione della vita
di Ernesto Galli della Loggia (Corriere della Sera, 7.11.2015)
Se mezzo secolo fa, nel 1966, Operai e capitale fu sul piano ideologico il segnale d’inizio di una stagione di scontro sociale con al centro l’operaio-massa - una stagione in cui avvenne la più grande trasformazione sociale e politica attraversata dal nostro Paese - quest’ultimo libro di Mario Tronti (Dello spirito libero. Frammenti di vita e di pensiero, Il Saggiatore) appare innanzi tutto il referto dell’esito di quello scontro: alla fine, tra gli operai e il capitale ha vinto il capitale (sebbene oggi in vesti assai diverse da quelle di ieri). O meglio, e per dirla con maggiore completezza, ha vinto quella che l’autore trascina sul banco degli accusati senza alcun tabù reverenziale: ha vinto la democrazia.
Con toni che suonano a metà tra Tocquevile (esplicitamente richiamato) e un radicalismo di sapore francofortese, Tronti descrive la democrazia come la tirannia del senso comune che concede la libertà di pensiero per meglio impedire un «pensiero di libertà», un regime nemico di ogni differenza perché in realtà animato dalla tendenza al più totale organicismo. Non a caso, dopo aver «fatto del popolo una borghesia, e non (come avrebbe dovuto) della borghesia un popolo, (...) essa è riuscita dove là dove è fallito il socialismo reale: ha creato l’uomo nuovo», il «borghese-massa».
Non solo, ma paradossalmente, mentre il socialismo reale, che in teoria doveva produrne l’estinzione, ha provocato di fatto la crescita esponenziale dello Stato, è proprio la democrazia, invece, che attraverso la progressiva spoliticizzazione della società sta lentamente realizzando l’antico obiettivo del marxismo. Certo, Tronti pure riconosce che è meglio avere diritti che non averne. Ma chi l’ha detto, osserva, che non essere democratico voglia dire per forza essere antidemocratico?
Al nostro autore evidentemente non sembra interessare molto il problema, forse non proprio trascurabile, che solo la democrazia, però, si è dimostrata capace storicamente di assicurare i diritti ora detti. La storia, del resto, è la grande assente di questo libro, il cui procedere, invece, si svolge per intero entro il recinto chiuso di una dozzina di «grandi pensatori» (per lo più filosofi) e dei loro sistemi concettuali chiamati a testimoniare del fallimento del Moderno e del Progresso, e dunque del fallimento del Novecento, «il secolo in cui tutto finisce». Nel quale il trionfo della Zivilisation sulla Kultur («qui sta il fondo della nostra sconfitta», si legge) annuncia una «devastazione spirituale» senza pari.
La storia dicevo è la grande assente: nella crisi del politico e nella vittoria della vituperanda democrazia qui lamentate nulla sembrano contare, ad esempio, cose come - enumero le prime che mi vengono alla mente - la sconfitta dell’Europa nel 1945, la sua nessuna tradizione culturale di tipo realmente liberale, il ruolo del Welfare State , la qualità delle nuove élite postbelliche e della loro cultura, lontana ormai anni luce dagli alti orizzonti umanistici d’un tempo. Tutto in queste pagine, infatti, sembra ridursi a una sorta di arena metafisica in cui si affrontano in singolar tenzone il Movimento Operaio, il Moderno, il Politico, il Capitalismo e quant’altro, astratti da ogni loro specificità storica, cioè da ogni loro concreta e vivente realtà.
«Stiamo dentro una storia nemica» scrive Tronti, con un pessimismo culturale davvero molto novecentesco. Una conclusione che nella sua prospettiva si spiega, innanzitutto, con la sconfitta della Rivoluzione: a cominciare da quella del 1917, la rivoluzione per antonomasia, la cui presenza da sola, si dice, segnerebbe comunque positivamente il Novecento rispetto al nostro tempo.
È a questo proposito soprattutto che l’indifferenza per la storia, per la storia vera, rischia di divenire accecamento: che cosa s’intende per rivoluzione? In che senso quella russa lo fu? E quando e perché smise di esserlo o «fallì»? E per fare un esempio: i massacri di migliaia di ostaggi (non controrivoluzionari: ostaggi) ordinati da Lenin, o le camere di tortura della Ceka, erano la rivoluzione? O in che rapporto erano con essa?
Sono domande e questioni che l’autore non si cura neppure di porsi, perduto com’egli è dietro una raffigurazione mitica del Movimento Operaio quale agente della Storia Universale. Agente che viene presunto tuttora all’opera (magari a dispetto dell’esistenza degli operai veri) e comunque senza prendere mai nella minima considerazione l’ipotesi che forse il suddetto Movimento, più che esistere in quanto tale, spesso sia consistito in qualcuno che credeva di parlare e agire in nome e per conto del medesimo. (Ma non a caso: infatti l’idea che il Novecento possa, anzi debba, essere necessariamente letto anche in chiave di rapporti massa/élite è un’idea che Tronti non si pone mai neppure come ipotesi).
Ci si chiederà a questo punto, perché mai occuparsi di un libro così pieno di contraddizioni. Perché si tratta a suo modo, io credo, di un libro che ha il valore di un sintomo. Il sintomo di un fuoco che cova sotto la cenere, di un’insofferenza che sta crescendo nelle società secolarizzate dell’Occidente per un modello di vita che, enfatizzando all’estremo tutti gli aspetti materiali dell’esistenza, facendo dell’economia e delle sue compatibilità un metro pressoché assoluto, relegando nell’insignificanza le grandi domande di senso, infligge quotidianamente ferite profonde a quella sostanza umana che ancora è la nostra. Ferite tanto più profonde in quanto non sembrano aver diritto ad alcuna adeguata rappresentazione pubblica.
Certamente ha il forte valore di un sintomo la direzione verso cui Tronti spinge la sua ricerca di una possibile alternativa. Verso la lotta, verso la speranza rivoluzionaria, com’è ovvio: in una parola verso la politica. Ma - e sta qui la parte a mio giudizio più nuova e interessante del libro - verso una politica che si dimostri capace di accettare come sua parte essenziale la spiritualità. La spiritualità oggi, infatti, si presenterebbe come l’unico argine possibile alla «crescente volgarizzazione della vita»; di più: essa costituirebbe la sostanza per eccellenza di un vero e proprio «linguaggio della crisi». Dove alla fine spiritualità significa null’altro che la religione, e per essere più chiari il Cristianesimo.
La contrapposizione tra l’orizzonte cristiano e il comunismo, si legge, «è stata una sciagura per la modernità: una differenza è stata trasformata in una incompatibilità»; e la colpa è stata del comunismo stesso, il quale invece di scegliere Feuerbach - come esso ha fatto seguendo Marx (il cui vero e massimo errore fu secondo Tronti quello di prevedere per l’appunto la fine della religione) - avrebbe piuttosto dovuto scegliere Kierkegaard. Sta di fatto che la libertà dal potere promessa dai liberali, leggiamo, non porterà mai alla libertà dello spirito, e dunque non sarà mai «vera libertà umana». Solo la libertà del cristiano è, sì, «libertà dei moderni rispetto a quella degli antichi, ma, nel Moderno, è libertà radicale, dirompente degli equilibri dati, sovversiva dell’ordine costituito, libertà liberante l’umanità fin qui oppressa».
Poco varrebbe obiettare che la «liberazione» cristiana o la metanoia predicata dal Vangelo sono di una sostanza fondamentalmente diversa dalle rotture richieste dal Comunismo. Ciò che importa agli occhi di Tronti è che Cristianesimo e Rivoluzione abbiano un’identica sostanza di «follia», com’egli scrive - a quella cristiana della morte di Dio per la resurrezione dell’uomo corrispondendo la «follia» dell’abbattimento del dominio per la liberazione umana. Due follie non integrabili dall’omologazione democratico-capitalistica, e che per questo si contrappongono radicalmente al «buon senso borghese progressista» a cui oggi si è ridotta la Sinistra.
Sarebbe facile concludere ironizzando sul comunismo che, cacciato dal mondo, si rifugia in sacrestia. Troppo facile, ma soprattutto sbagliato. Infatti - a parte le perduranti ingenuità della mitografia leninista, a parte tutte le ormai francamente insopportabili supponenze «rivoluzionarie» che le costellano - le pagine di Tronti esprimono al fondo, come ho già detto, qualcosa di profondamente vero: un disagio, un malessere, che ormai appaiono i tratti di un’intera fase storica. Quella che stiamo vivendo.
Sopra le nostre società, infatti, la democrazia sembra avere steso una cappa di grigio buon senso, sembra ormai identificarsi con l’assenza di speranze, di ideali e di progetti forti, con una sorta di narcosi della mente e dello spirito che troppo spesso ci impedisce di vedere il male e l’ingiustizia che sono tra noi, e di chiamarli con il loro nome. Ma una fase storica che, proprio per questo, forse prepara un’inaspettata ripresa del pensiero antagonista, della divisione e dell’opposizione politiche oggi spente. E insieme prepara, forse, un ruolo nuovamente attivo del Cristianesimo sul piano sociale, una sua rinnovata capacità di richiamo. La storia non è finita, ogni partita può essere sempre riaperta.
Ben venga allora chiunque ci riporti a pensare tutto questo: anche se mostra di credere tuttora a fallite utopie dei cui misfatti è solito disfarsi con un po’ troppa facilità, chiamandoli pudicamente «fallimenti».
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Politico e filosofo, senatore e docente ha fondato i «Quaderni rossi» *
Mario Tronti (Roma, 1931) filosofo e politico, è senatore del Pd (era già entrato a Palazzo Madama nel 1992 con il Pds) e presidente della Fondazione Centro per la riforma dello Stato. Considerato il padre dell’operaismo italiano, ha insegnato per trent’anni Filosofia politica all’Università di Siena. Militante del Partito Comunista durante gli anni Cinquanta, con Raniero Panzieri è stato tra i fondatori della rivista «Quaderni Rossi», da cui si separò nel 1963 per fondare e dirigere la rivista «Classe operaia». Operai e capitale, il suo libro del 1966 (Einaudi), ha profondamente influenzato la contestazione giovanile ed è stato inserito tra le 2.250 opere del Dizionario delle opere della Letteratura Italiana Einaudi .
* Corriere della Sera, 07.11.2015
di Pietro Barcellona (l’Unità, 19 agosto 2012)
Il mondo che troviamo rappresentato nel sistema mediatico sembra non avere alcun rapporto con ciò che accade nel profondo delle nostre vite. Seguendo il dibattito pubblico che si svolge sui giornali e nelle trasmissioni televisive, si resta stupefatti dal fatto che tutta l’attenzione dei commentatori è già orientata esclusivamente sul gioco delle alleanze politiche possibili tra le sigle che oggi appaiono espressive di quelli che una volta furono i partiti: un’alleanza di ferro con il centro moderato di Casini; un’alleanza con tutto ciò che presume di collocarsi a sinistra del Pd per poi interloquire con i moderati; un nuovo governo Monti dopo Monti sostenuto più o meno dalle stesse forze che oggi costituiscono l’anomala maggioranza.
Una volta si parlava di «cambiamento nella continuità», oggi si dovrebbe parlare di «stabilizzazione dell’agonia», giacché in questo contesto di opinioni non si vede quale possa essere il ruolo della politica per imprimere una vera svolta morale a questo Paese degradato fino alle particelle elementari del tessuto sociale.
Qualcuno si è mai preoccupato, a parte l’attivissimo Casini, di spiegare chi sono i moderati di questo Paese e qual è la loro visione delle risposte da dare alla più profonda crisi che dal dopoguerra a oggi abbia colpito l’Italia? E Giuliano Pisapia - che vuole invece una sinistra nuova, plurale e aperta ma distinta nettamente dai moderati del centro - cosa intende per una politica capace di produrre uno scatto e una rinascita dello spirito pubblico e di quella che una volta si chiamava l’etica sociale? Per dirla in termini più banali, qual è il senso di una possibile contrapposizione fra Rosario Crocetta, che in Sicilia si candida a governare insieme all’Udc, e Claudio Fava sostenuto da Orlando e da Vendola? Formule vuote su formule vuote. Niente che possa suscitare l’entusiasmo verso la politica da parte delle nuove generazioni che, come diceva Berlinguer, sono il termometro delle possibili tendenze evolutive di una società.
C’è anzitutto un tema squadernato sotto gli occhi di tutti che riguarda la coesione nazionale - fortemente inquinata da pretese individualistiche e da leghismo strisciante in tutte le liste civiche proposte - che sanziona una secessione (già avvenuta nello spirito popolare) che alimenta piccoli progetti più o meno razzisti e autarchici che accentuano la disgregazione del nostro Paese. Eppure io ho vissuto in momenti tragici della vita nazionale in cui lo spirito unitario del Paese si esprimeva ai livelli più bassi della società in uno spirito di resistenza e combattimento che erano sotto ogni aspetto sorprendenti. Basta ricordare gli anni di piombo e la crisi del ’73.
Il ricordo di quegli anni mi fa pensare che l’Italia non è il bordello dantesco che oggi viene rappresentato dai media, ma che ci sono stati momenti anche più terribili di questo attuale in cui lo spirito nazionale si è espresso con grande compattezza per difendere la Costituzione e la vita democratica che continuava a svilupparsi in migliaia di assemblee e di discussioni in tutto il territorio nazionale.
Siamo di fronte ad un passaggio catastrofico della storia: i grandi blocchi di potere si combattono senza pietà; eccidi e bagni di sangue avvengono in tutte le parti del mondo; le violenze individuali si manifestano attraverso stragi quasi quotidiane di giovani che uccidono e sparano su altri giovani senza alcun plausibile motivo; tutte le agenzie educative dell’Occidente sono in crisi; avanzano in modo subdolo e tuttavia allettante ideologie che riducono la vita umana ad un insieme di reazioni biologiche a impulsi esterni senza che la libertà e la responsabilità abbiano più alcun ruolo nella formazione dei giovanissimi. Come ha scritto Eric Voegelin, commentando la diffusione della cultura nazista, se l’educazione cancella ogni spazio di autonomia critica, se nelle facoltà di medicina si pratica una sorta di sofisticata attività veterinaria, se nelle facoltà di diritto si insegna un tecnicismo senza anima, il cervello sociale si spegne lentamente e si perde la capacità più umana: quella di pensare e interrogarsi sul senso delle cose che accadono.
Per queste ragioni sono convinto (e ho la fortuna di condividere questa convinzione con alcuni vecchi compagni di battaglie politiche come Mario Tronti, Paolo Sorbi e Giuseppe Vacca) che bisogna affrontare con la massima urgenza il vero tema su cui dobbiamo misurarci: l’emergenza antropologica. Il fatto cioè che alla fine di questa eterna transizione sia cancellata l’idea che l’uomo è un essere irriducibile a tutti gli altri esseri viventi e che la sua domanda di senso non può essere esaurita da spiegazioni scientifiche e oggettive, ma richiede un supplemento d’anima capace di individuare un nuovo orizzonte di trascendenza rispetto all’attuale congiuntura. Il livello a cui si pone la sfida della transizione non è quello di un puro aggiustamento contabile che affronti il grande tema del debito pubblico, ma quello costituente di un grande momento unitario del Paese che ritrovi nella sua storia e nelle sue risorse la materia per potersi continuare a identificare come un popolo ricco di tradizioni diverse e di culture particolari, e al contempo unito dal rispetto di alcuni principi fondativi della convivenza.
Ricordo che la ricerca storica in Francia, che ha dato vita alla grande tradizione degli Annales, è stata pensata politicamente per ridare ai francesi l’orgoglio di esistere come Paese dopo le sconfitte subite. L’Italia ha un enorme bisogno di storia non come puro inventario di avvenimenti e di date ma come ricostruzione di un percorso doloroso che ha saputo trasformare anche le differenze municipali in una risorsa d’identità. L’istituzione di una grande commissione per la storia d’Italia, affidata a personalità fuori dai giochi politici come Claudio Magris, potrebbe suscitare un entusiasmo nei giovani che oggi sono sopraffatti dal relativismo storiografico. In realtà lo spirito dissolutivo della nostra identità storica è stato fortemente alimentato dall’offensiva neoliberista che ha abbracciato tutti i campi della politica e dell’economia.
L’occupazione da parte degli esponenti della cultura neoliberista delle cattedre universitarie di economia, delle direzioni delle trasmissioni televisive e dei dibattiti pubblici ha letteralmente cancellato la possibilità stessa di un pensiero diverso da quello che ormai viene giustamente indicato come il «pensiero unico» della cultura neoliberista.
Tutto il Novecento è presentato come una violazione dei principi neoliberali che perciò va dimenticato. Riprendere in mano il filo della storia significa anche esprimere un giudizio non ideologico sul fallimento del neoliberismo e sul carattere meramente ideologico del primato dei mercati sulla vita dei popoli. La declamata fine delle ideologie ha significato l’avvento di una nuova ideologia apologetica del capitalismo selvaggio.
Bisogna cominciare ad analizzare il carattere politico della cosiddetta globalizzazione , che non è un puro dato economico inevitabile nelle forme e nei modi che ha assunto, ma un progetto di subordinazione di grandi parti della società al dominio di gruppi finanziari extranazionali che cercano di rendere la produzione di ricchezza sempre più indipendente dalla economia reale. Si nasconde la verità: la crisi che abbiamo di fronte è una crisi senza fondo piena di incognite per l’intero Paese e per l’intera Europa.
Come dopo la guerra mondiale, è necessario un nuovo spirito costituente che metta in secondo piano il problema degli schieramenti e delle sigle e che sappia mobilitare le risorse emotive delle nuove generazioni soprattutto per evitare che siano trascinate in una deriva propagandistica antipolitica e qualunquistica. Che un popolo sia costretto a dividersi su questioni volutamente strumentalizzate come l’eutanasia e l’inseminazione artificiale, il trattamento degli embrioni e la ricerca sulle staminali, appare veramente un’operazione meschina rispetto alla rilevanza del modo di pensare la vita e la morte degli esseri umani.
di Pietro Barcellona (l’Unità, 02.11.2012)
SEBBENE I DIBATTITI FILOSOFICI SEMBRINO SITUARSI SU UN TERRENO LONTANO DALLA VITA QUOTIDIANA, i concetti che ne vengono fuori interferiscono notevolmente con la formazione del senso comune: la rilevanza politica delle teorie filosofiche è sempre più evidente, innanzitutto nella formazione del lessico della contemporaneità.
Ad esempio, l’attacco che Maurizio Ferraris da molti anni conduce contro il soggettivismo delle interpretazioni è diventato persino strumento politico per contrastare il populismo: alcuni opinionisti sostengono che l’oggettività impedisca la proliferazione di linguaggi falsi e demagogici, che dimostrerebbero la propria fallacia appena messi a confronto con la nudità dei fatti.
Per capire il significato del tentativo di affermare l’oggettività del mondo reale delle cose sulla soggettività ondivaga e ambigua degli interpreti, bisognerebbe per prima cosa metterne in rilievo la sostanziale infondatezza epistemologica.
Recentemente, in uno scritto polemico verso le tesi di Severino, Ferraris ha affermato che una «multa» è un fatto assolutamente indipendente da ogni interpretazione soggettiva; ma se si riflette su cosa rappresenti la parola multa nel linguaggio corrente, ci si accorge che non si tratta di un fatto che dispiega da se stesso le proprie conseguenze, ma, al contrario, di un fatto che assume un significato pratico soltanto se inscritto nelle fattispecie giuridicamente rilevanti. Il fatto puro della multa non esiste se non all’interno del discorso giuridico.
Basterebbe considerare con più attenzione gli studi di antropologia culturale per rendersi conto che non esistono fatti puri; anche eventi naturali come un’eruzione vulcanica o un terremoto diventano oggetti di comprensione umana e di comunicazione verbale soltanto attraverso il loro inserimento in universi simbolici che esprimono il livello della coscienza collettiva del gruppo rispetto alla natura e al mondo esterno. Il fulmine, che allo stato attuale del nostro sapere possiamo definire come una scarica elettrica che va dalle nuvole verso la terra, è stato per molti secoli vissuto come un segno dell’ira divina. Dal punto di vista epistemologico questa credenza non contraddice per nulla le attuali conclusioni del sapere scientifico che descrive il fenomeno in termini di scarica elettrica; in entrambi i casi, però, le parole adoperate per rappresentare il fatto sono espressive della configurazione del rapporto fra soggettività interpretante e realtà fenomenica.
Tutto ciò che rappresentiamo mentalmente con parole associate ad immagini ha un sostegno nella realtà materiale, biologica e fisica del mondo che ci circonda: indagare il rapporto tra questo sostegno materiale e lo sviluppo di rappresentazioni mentali, che attraverso le parole assegnano un significato alle cose, è un problema che interroga la nostra capacità di riflessione sui processi di pensiero e sul rapporto col mondo.
Al punto in cui siamo, nella vicenda millenaria dell’autorappresentazione degli esseri umani, dovremmo riconoscere che non esiste alcuna via diretta e immediata per avere accesso alle cose se non attraverso la mediazione del pensiero e del linguaggio, che non sono arbitrarie costruzioni determinate dalla capricciosità del parlante ma appartengono ad un contesto di uomini e donne, di soggetti e di oggetti che interagiscono in un rapporto di comunicazione oggettivata attraverso il discorso.
Ciascuno produce un mondo di significazioni e allo stesso tempo abita uno spazio di significati già istituiti che gli consentono di orientarsi praticamente nell’ambiente che lo circonda, motivandolo sia alle cosiddette azioni inconsapevoli e abituali sia alla ricerca di nuove parole e nuove significazioni; tale scarto tra oggettività e soggettività rende possibile configurare la libertà e la responsabilità di ciascuno rispetto al mondo a cui appartiene.
Alla luce di queste considerazioni si capisce il significato politico di tutti i tentativi di affermare il primato dell’oggettività dei fatti e delle cose del mondo sulla soggettività interpretante: solo un’assoluta oggettività dei processi che connettono i movimenti pratici e le operazioni mentali consentirebbe di affermare l’esistenza di una Verità che impedisce ogni arbitrarietà delle scelte e ogni significativo mutamento della visione del mondo.
L’oggettività della Verità, consegnata interamente al processo «naturale» di connessione fra le molecole che compongono il vivente, impedisce di ipotizzare uno spazio di libertà che produca una trasformazione dell’accadere non spiegabile meccanicisticamente. Ma se si abbandona il terreno di questa ideologia dell’oggettività, bisogna riconoscere che la conversazione umana non esprime certezza assoluta ma opinioni confrontabili; il regime della doxa è alla base della costruzione della polis e della forma democratica della convivenza. Al contrario il regime della Verità oggettiva non consente di dare alcun peso alle opinioni che, in quanto tali, sono fragili ed estemporanee.
Il tentativo di Ferraris di riformulare una teoria della Verità incontrovertibile risponde, dunque, all’esigenza politica di ridurre ogni spazio di discrezionalità e sottrae la decisione politica alla contestazione popolare. Viceversa, riconoscere l’inaccessibilità immediata alla Verità non esclude il riconoscimento di una trascendenza che si manifesta attraverso i limiti che incontriamo nella nostra esperienza quotidiana. Ci scontriamo continuamente con la dura realtà del mondo e con la fatica di vivere, per questo siamo spinti a cercare un senso che dia conto della nostra finitezza e mortalità. Il limite della soggettività e dell’ermeneutica impedisce, nel contesto storico in cui si vive, di cadere nell’onnipotenza nichilistica.
Come sosteneva Castoriadis, la democrazia deve essere un regime dell’autolimitazione, in cui l’interesse alla continuazione della specie umana impedisce di disporre del mondo in modo da pregiudicarne la disponibilità per le future generazioni. La democrazia delle opinioni non implica la babele delle lingue, ma il riconoscimento di un patrimonio comune che riguarda la memoria del passato e le speranze del futuro.
Già dal principio dell’autolimitazione della democrazia si possono ricavare regole che impediscono il dispiegarsi della selvatichezza egoistica che abita dentro ciascun essere umano. Per questo, come ha osservato Massimo Recalcati, il riconoscimento dell’inconscio come opacità del sapere di se stessi e del mondo è la garanzia che la democrazia non diventi delirio di onnipotenza.
Cattolici, l’appello di Bagnasco: “Più impegno in politica”
di Orazio La Rocca (la Repubblica, 11 agosto 2012)
In politica e nella vita pubblica «i cattolici siano sempre più numerosi e ben formati, come da tempo esortano Benedetto XVI e i vescovi italiani». Nuovo forte richiamo del cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza episcopale italiana e arcivescovo di Genova, a favore della presenza cattolica nella vita politica del Paese.
L’appello - lanciato ieri per la festa di San Lorenzo - arriva dopo una serie di analoghi interventi fatti da Bagnasco negli ultimi mesi in occasione delle assemblee vescovili e dei consigli Cei. Appelli e prolusioni che hanno quasi disegnato l’identikit del politico cattolico doc. E vale a dire, una figura «moralmente ineccepibile», fedele al Vangelo, aperta al dialogo, sempre attenta al «bene comune», ma mai disposta a «mercanteggiare » sui valori cristiani. Valori comunemente definiti dalle gerarchie cattoliche «non negoziabili» come la difesa della vita dal concepimento fino alla fine naturale, la promozione della famiglia basata sul matrimonio tra un uomo e una donna, libertà di insegnamento.
Punti rilanciati nell’omelia di ieri pubblicata - significativamente - quasi per intero dall’Osservatore Romano, il quotidiano della Santa Sede diretto da Giovanni Maria Vian, con un titolo altrettanto significativo, «Controcorrente per fedeltà al Vangelo». La presenza dei cattolici in politica, puntualizza tra l’altro il cardinale Bagnasco, «non è codificata in formule specifiche, fatta salva la consapevolezza che sui principi di fondo non si può mercanteggiare, che i valori non sono tutti uguali, ma esiste una interna gerarchia e connessione; che l’etica della vita e della famiglia non sono la conseguenza, ma il fondamento della giustizia e della solidarietà sociale».
E come “modelli”, il porporato indica «i grandi statisti cattolici che hanno portato la propria indiscutibile statura umana e cristiana che il Paese, l’Europa e gli scenari internazionali esigevano, allora come oggi». «L’appello del cardinale va raccolto sino in fondo e con coerenza», ha commentato Giorgio Merlo, deputato del Partito democratico e vice presidente della Commissione di vigilanza della Rai, secondo il quale «l’impegno politico dei cattolici, ovviamente laico pluralistico, non deve essere marginale e può avere un ruolo determinante anche in vista della prossima campagna elettorale».
Apprezzamenti anche dall’ex ministro Maurizio Sacconi del Pdl: «Ha richiamato i cristiani all’impegno pubblico ricordando che l’etica della vita e della famiglia sono il presupposto di ogni politica per il bene comune». Per Paola Binetti, deputata Udc, è un intervento che «va accolto integralmente, specialmente sulla difesa della valori, della promozione umana e della famiglia».
di Pino Pisicchio (Europa, 11 agosto 2012)
Interventi di membri del governo Monti, annunci di epocali costituenti autunnali, sussurri (tanti) e grida (poche) di un rassemblement dei cattolici italiani attorno a un unico soggetto politico. Questa sembra essere l’agenda politica dell’estate. Il tema, ovviamente, c’è tutto e ruota attorno alla domanda: c’è spazio per un nuovo protagonismo dei cattolici nella politica italiana dei nostri giorni? La grande stagione dei cattolici nella vita pubblica italiana ebbe il suo acme nella Costituente, con il contributo peculiare offerto soprattutto dal gruppo dei “professorini” (Dossetti, La Pira, Fanfani, Moro) che incardinarono nel testo approvato i principi del personalismo comunitario di Mounier e di Maritain. Era una cultura cattolica viva e moderna, cresciuta nel crogiuolo dell’intellettualità dell’Azione cattolica e della Fuci (intrisa, quest’ultima, del giansenismo montiniano).
La forma-partito democristiana fornì la proiezione istituzionale di quella cultura accogliendo, negli anni del governo, gli impulsi del cattolicesimo liberale da un lato, e di quello sociale dei cislini e degli aclisti, dall’altro. Ma il vero lievito del cattolicesimo politico, quello che si tradusse nella centralità democristiana, è stato il sistema proporzionale. La proporzionale “è” la Dc, nella sua intima logica “ad includendum” consentita dal voto di preferenza plurimo, nella capacità di accettare l’affastellamento nel suo seno di sensibilità all’apparenza lontane (il doroteismo dei Gava e dei Bisaglia, i “padri” del contemporaneo Casini, la sinistra ideologica di Marcora, il moroteismo raffinato e l’andreottismo pragmatico e curiale), nella sua vocazione di partito maggioritario. Senza proporzionale non c’è spazio per un partito di ispirazione cattolica, e questo anche al netto di ogni considerazione sulla pur dilagante secolarizzazione nella società italiana, per il semplice motivo che il bipolarismo produrrebbe (come in effetti ha prodotto) almeno due versioni della sensibilità dei cattolici.
Cosa diversa (ma non totalmente altra) è, per converso, la rilevanza dello specifico culturale cattolico nella narrazione dell’Italia di oggi. Ma qui il problema si sposta dalla rappresentanza politica a coloro i quali hanno la responsabilità di una visione, di una proposta, di una filosofia: gli intellettuali di area. All’orizzonte, ahinoi, né Mounier, né Maritain. E neppure utopisti felici come La Pira. All’orizzonte molte buone volontà (e già è una cosa) e qualche difficoltà nel delineare un percorso strategico che chiarisca “con chi” e “per che cosa”. E allora, sia detto senza falsi infingimenti: la strada più coerente con la storia, la sensibilità odierna, la ”weltanschauung” del cattolicesimo contemporaneo, almeno di quello che si muove in continuità di pensiero con le idee propugnate dal personalismo comunitario, non può che essere quella dell’incontro con i riformisti rappresentati dal Pd.
Il cristianesimo sociale incontra, dunque, il riformismo, scegliendo di avere come riferimento i pilastri delle costituzioni democratiche europee, Kelsen e Keynes, la democrazia dei partiti e la democrazia sociale, scegliendo la centralità della persona, e la sua anteriorità allo stato e al capitale (e oggi, ancor di più, alla finanza). È questa una declinazione di senso dell’ispirazione cattolica nella politica dei nostri giorni. Su cui può essere costruito un serio progetto di governo.
CONDIVIDO. NON HO MAI VISTO DUE FERITI FARE UN ESSERE SANO, NE’ UN FERITO SANARE UN ALTRO FERITO.
Al massimo ho visto solo furbi con ferite costruire un ospedale per fare affari, e vendere salute e salvezza ad altri feriti... Gesù non c’entra nulla con tutta questa "testimonianza di grande sofferenza", è solo un altro nome per dire volontà di potenza e "mammona"!
A PROPOSITO DI OSPEDALI, FERITI, SALUTE, E SALVEZZA.....