STORIA E MEMORIA DELLA LIBERTÀ E DELLA LIBERAZIONE
ROSA LUXEMBURG (1870/71), ASSASSINATA A BERLINO NEL 1919, RITROVATA. IL SUO CORPO NELL’OBITORIO DELL’OSPEDALE "CHARITÉ" DELLA CITTÀ.
SCUOLE CATTOLICHE: A BERLINO (E NON SOLO), UN ORRORE SENZA FINE.
GRECIA - Una sede della "Caritas greca". |
FLS
Germania. Il cardinale Marx ha presentato le dimissioni al Papa
Ha spiegato che intende assumere la corresponsabilità per la catastrofe degli abusi sessuali da parte di esponenti della Chiesa. Il testo della lettera al Papa
di A.M.B. (Avvenire, venerdì 4 giugno 2021)
Ha offerto le sue dimissioni al Papa il cardinale Reinhard Marx, arcivescovo di Monaco e Frisinga, già presidente della Conferenza episcopale tedesca (dal 2014 al 2020). Nel comunicato pubblicato sul sito dell’arcidiocesi si legge come motivazione la “catastrofe” degli abusi sessuali compiuti da uomini di Chiesa nei decenni scorsi.
In una lettera del 21 maggio a papa Francesco - si legge nel comunicato - il cardinale ha spiegato le ragioni di questo passo e che il Papa lo ha informato che la lettera può ora essere pubblicata e che potrà continuare a svolgere il suo servizio episcopale fino a quando non sarà presa una decisione.
La lettera di Marx al Papa
"Indubbiamente la Chiesa in Germania sta attraversando dei momenti di crisi" esordisce Marx nella lettera al Papa. "La crisi viene causata anche dal nostro personale fallimento, per colpa nostra. Questo mi appare sempre più nitidamente rivolgendo lo sguardo sulla Chiesa cattolica in generale e ciò non soltanto oggi, ma anche in riferimento ai decenni passati. Mi pare - e questa è la mia impressione - di essere giunti ad un ’punto morto’ che, però, potrebbe diventare anche un punto di svolta secondo la mia speranza pasquale".
“Sostanzialmente per me si tratta di assumersi la corresponsabilità relativa alla catastrofe dell’abuso sessuale perpetrato dai rappresentanti della Chiesa negli ultimi decenni”, ha scritto Marx al Papa. Le indagini e le perizie degli ultimi dieci anni "mi dimostrano costantemente che ci sono stati sia dei fallimenti a livello personale che errori amministrativi, ma anche un fallimento istituzionale e ’sistematico’". Le polemiche e discussioni più recenti "hanno dimostrato che alcuni rappresentanti della Chiesa non vogliono accettare questa corresponsabilità e pertanto anche la co-colpa dell’Istituzione. Di conseguenza rifiutano qualsiasi tipo di riforma e innovazione per quanto riguarda la crisi legata all’abuso sessuale". Il cardinale Marx ha chiaramente respinto questa posizione. "Due sono gli elementi che non si possono perdere di vista - prosegue -: errori personali e fallimento istituzionale che richiedono cambiamenti e una riforma della Chiesa. Un punto di svolta per uscire da questa crisi può essere, secondo me, unicamente quella della ’via sinodale’".
Con le sue dimissioni dall’ufficio, prosegue, si creerebbe forse spazio per un nuovo inizio, per un nuovo risveglio della Chiesa. “Voglio dimostrare che non è l’incarico ad essere in primo piano, ma la missione del Vangelo. Anche questo fa parte della cura pastorale. Pertanto, La prego vivamente di accettare le mie dimissioni". "Vorrei dedicare gli anni futuri del mio servizio in maniera più intensa alla cura pastorale e impegnarmi per un rinnovamento spirituale della Chiesa, così come Lei instancabilmente ammonisce" conclude.
IL TESTO INTEGRALE DELLA LETTERA
"Il Papa mi ha ora comunicato che questa lettera potrà essere pubblicata"
Nella sua dichiarazione personale, il cardinale affermato di aver più volte pensato di dimettersi dall’incarico negli ultimi mesi. “Gli eventi e le polemiche e discussioni delle ultime settimane hanno avuto un ruolo del tutto secondario” precisa. E sugli abusi osserva: "Con preoccupazione vedo che negli ultimi mesi si nota una tendenza ad escludere le cause sistemiche e i rischi oppure, diciamolo pure, quelle che sono le questioni teologiche fondamentali e ridurre l’elaborazione ad un semplice miglioramento dell’amministrazione".
E conclude: "Questo passo non è facile per me. Mi piace essere prete e vescovo e spero di poter continuare a lavorare anche in futuro per la Chiesa. Il mio servizio per questa Chiesa e per le persone non termina qui. Tuttavia, per il bene di un nuovo e necessario inizio voglio assumermi la corresponsabilità per il passato. Credo che il „punto morto“, in cui ci troviamo attualmente, possa diventare un ’punto di svolta’. È questa la mia speranza pasquale e questo è ciò per cui pregherò e lavorerò".
IL TESTO INTEGRALE DELLA DICHIARAZIONE
"Questa società ha bisogno di una Chiesa che si rinnovi"
In conferenza stampa, tenutasi nel primo pomeriggio, il cardinale Marx ha dichiarato: "Non può andar bene che io sia contento personalmente che non mi venga addebitata alcuna colpa". Il punto, ha spiegato, "è la responsabilità istituzionale". "Non sono stanco della carica, e non sono demotivato", ha tenuto a sottolineare. "Sono convinto che questa società abbia bisogno della voce del Vangelo e di una Chiesa che si rinnovi".
I rapporti sugli abusi in Germania
Nel 2018 un rapporto commissionato dalla Chiesa tedesca aveva concluso che almeno 3.677 persone sono state vittime di abusi sessuali da parte di ecclesiastici fra 1946 e 2014. Oltre la metà di quelle persone aveva meno di 13 anni quando fu abusata, mentre quasi un terzo era costituita da chierichetti, secondo il rapporto. Quest’anno un altro studio relativo a Colonia ha rivelato numerosi altri casi di abusi sessuali da parte di sacerdoti. L’arcivescovo di Amburgo, Stefan Heße, già direttore del personale e poi vicario generale dell’arcidiocesi di Colonia, ha presentato nel marzo scorso le sue dimissioni al Papa e ha ricevuto un "congedo" per un tempo non specificato.
CHARITÉ: SOCIALISMO O BARBARIE ....
Riccardo Cristiano. Bergoglio o barbarie *
Riccardo Cristiano racconta il suo saggio Bergoglio o barbarie, pubblicato da Castelvecchi nel 2020. L’idea di scrivere questo libro è venuta a Cristiano dopo l’incontro con un teologo che lo invitava ad andare negli Stati Uniti d’America per verificare di persona che l’alternativa a Bergoglio è la barbarie. Un’alternativa che ricordava quella famosa di Rosa Luxemburg tra socialismo o barbarie. Sostituire l’ideologia socialista con una persona come Bergoglio ha mostrato che il problema non era l’idea ma la realtà, perché la realtà è più importante delle nostre idee e il sole è quello che brilla oggi non quello dell’avvenire.
I suoi atti pontificali principali sono stati, secondo Cristiano, il documento di Abu Dhabi sulla fratellanza, che è l’antefatto dell’enciclica Fratelli tutti, l’accordo provvisorio con la Cina e il Sinodo per l’Amazzonia che è un po’ la sintesi del suo pontificato:
Riccardo Cristiano, particolarmente attento al dialogo interreligioso, a lungo coordinatore dell’informazione religiosa di Radio Rai, è fondatore dell’Associazione Giornalisti amici di padre Dall’Oglio e collabora come vaticanista con «Reset» e «La Stampa». Ha pubblicato con Castelvecchi Medio Oriente senza cristiani? (2014), Bergoglio, sfida globale (2015), Siria. L’ultimo genocidio (2017) e ha curato il volume Solo l’inquietudine dà pace. Così Bergoglio rilancia il vivere insieme (2018).
* FONTE: RAI CULTURA/FILOSOFIA
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
VICO E MARX CONTRO LA PRASSI (ATEA E DEVOTA) DELLA CARITÀ POMPOSA.
FLS
ROSA LUXEMBURG
Berlino, murales con una sua frase: «La libertà è sempre soltanto libertà di chi pensa diversamente»
La strage degli spartachisti e l’ombra della guerra civile su Weimar
La Rosa rossa 1919-2019. Cento anni fa, colpendo Liebknecht e la Luxemburg i controrivoluzionari tedeschi non colpivano solo le figure fisiche di due prestigiosi capi rivoluzionari, ma il patrimonio ideale e politico che in essi si era incarnato
di Enzo Collotti (il manifesto, 15.01.2019)
A cento anni dall’uccisione di Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg ad opera di soldati controrivoluzionari con la connivenza di una parte della socialdemocrazia tedesca, non è spenta la memoria della guerra civile che dilaniò con il movimento operaio tedesco il movimento operaio internazionale. L’ombra di questa guerra civile si allungò sulla repubblica di Weimar fino alle soglie del potere nazista.
Colpendo Liebknecht e la Luxemburg i controrivoluzionari tedeschi non colpivano solo le figure fisiche di due prestigiosi capi rivoluzionari, ma il patrimonio ideale e politico che in essi si era incarnato. Con essi moriva la Seconda Internazionale che era naufragata con la sua impotenza dinnanzi all’esplosione della Prima guerra mondiale, lasciando senza guida e senza orientamento milioni di uomini e donne che negli ideali dell’antimperialismo, dell’antimilitarismo e della solidarietà internazionale avevano dato vita tra la fine dell’Ottocento e la prima decade del Novecento ai grandi movimenti di massa per il suffragio universale e l’affermazione dei diritti socialii.
Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg rappresentavano con la Lega Spartachista il tentativo di resuscitare un movimento rivoluzionario tra le rovine della guerra e le prospettive aperte dalla rivoluzione russa di ottobre. La lunga solitaria battaglia condotta da Liebknecht contro il voto ai crediti di guerra della socialdemocrazia tedesca ne fece il leader naturale dell’opposizione alla guerra e di un’alternativa alla politica della socialdemocrazia.
Liebknecht continuò ad essere un uomo solo anche nei mesi finali della guerra quando il malcontento serpeggiava tra grandi masse popolari, al fronte e dietro il fronte. Ma le grandi masse in rivolta non volevano la rivoluzione, volevano più semplicemente la fine della guerra che aveva isolato la Germania e ne aveva costretto alla fame e all’indigenza la popolazione.
Prima ancora che la loro uccisione ne facesse martiri e simboli della rivoluzione tradita, Liebknecht e la Luxemburg furono incessanti promotori della critica alla subalternità della socialdemocrazia alla politica di classe della borghesia prussiana e delle forme di repressione esercitate contro le minoranze di opposizione. Soprattutto la Luxemburg fu sensibile agli stimoli che provenivano dalla rivoluzione russa del 1917, della quale percepì precocemente la natura di prodromo della rivoluzione mondiale e il germe di una nuova Internazionale.
Fu proprio l’esplosione della rivoluzione in Russia che sollecitò Liebknecht e la Luxemburg ad accelerare la spinta rivoluzionaria in Germania nella duplice ottica di sottolineare la solidarietà con il movimento in Russia ed inserire la Germania in un processo rivoluzionario continentale. In realtà la storia ha dimostrato che mancavano le premesse per un processo di questo tipo; non solo in Germania ma anche altrove in Europa il movimento operaio si mosse in direzioni diverse. Liebknecht, grande agitatore politico e tenace combattente contro la guerra, e Rosa Luxemburg, tra gli ultimi teorici del marxismo, furono travolti dal loro estremo tentativo di porre la minoranza spartachista alla testa della rivoluzione in Germania.
Karl Liebknecht non fu solo uno straordinario tribuno popolare, era, come la Luxemburg, un grande intellettuale, un grande protagonista del binomio tra lotte parlamentari e lotte di massa, bersaglio preferito per questo dei conservatori prussiani quanto amato e quasi venerato nei ceti popolari, che lo consideravano lo scudo dei loro interessi. Prima ancora che come il fondatore del Partito Comunista tedesco Liebknecht, fu vissuto nella memoria popolare come il vindice delle ingiustizie e dei soprusi.
A cento anni dall’uccisione di queste due straordinarie figure dalla loro eredità discende un patrimonio di idee e un metodo di ricerca che il tempo non ha cancellato e che costituiscono tuttora un obiettivo a cui guardare nella lotta per il raggiungimento di una società più giusta.
Una vita intensa e troppo breve
La Rosa rossa 1919-2019. «Socialismo o barbarie», contro il militarismo e i nazionalismi. La biografia di Rosa Luxemburg
di Aldo Garzia (il manifesto, 15.01.2019)
Vita breve, intensa, quella di Rosa Luxemburg.
Con alcune intuizioni teoriche che forniscono una lettura particolare del marxismo e delle conseguenze della rivoluzione russa del 1917. Infatti, prese posizione contro il revisionismo teorico di Eduard Bernstein ma fu anche critica rispetto al modello leninista di organizzazione del partito (troppo elitario, troppo per «quadri» d’avanguardia). Il che non impedì che al Congresso dell’Internazionale di Stuttgart del 1907 fu proprio Lenin a volerla fra i delegati cedendole un posto nella delegazione del Partito bolscevico.
Per Rosa Luxemburg, come per Gramsci, la rivoluzione doveva essere un processo di continua conquista di «casematte», di maturazione collettiva attraverso la strategia consiliare che avrebbe dovuto garantirne la democraticità. Ecco perché Lelio Basso, che studiò a lungo i suoi scritti, la definì esponente di un originale «socialismo libertario».
Rosa nasce a Zamość, Polonia russa, il 5 marzo 1871 da genitori ebrei. Il padre era un commerciante di legname. Quando ha appena due anni, la famiglia va a vivere a Varsavia. Una malattia all’anca la rende claudicante per tutta la vita. Al liceo entra in contatto con il gruppo clandestino Proletariat, di cui diventa militante. Nel 1889 espatria in Svizzera, perché ricercata dalla polizia. Si iscrive alla facoltà di Filosofia di Zurigo per poi passare a quella di Diritto e Scienze politiche. Si laurea nel 1897 con una tesi sullo sviluppo industriale della Polonia, redatta in un soggiorno a Parigi.
Entra in contatto con gli ambienti dei rifugiati politici russi e polacchi. Conosce Leo Jogiches che diventa suo compagno di lotta e poi di vita per un periodo. Gli anni di Zurigo sono quelli della formazione teorica e dell’impegno politico finalizzato soprattutto alla costruzione del Partito socialdemocratico polacco, successivamente trasformatosi in Partito socialdemocratico di Polonia e Lituania. Nel 1898 abbandona la Svizzera e va a vivere in Germania.
Lo stesso anno ottiene la cittadinanza tedesca. Milita da subito nell’ala sinistra della socialdemocrazia guidata da August Bebel, Si reca a Varsavia nel 1905, dove viene arrestata per la sua attività rivoluzionaria insieme a Jogiches. Riesce a tornare in Germania, dove partecipa a tutti i più importanti dibattiti nella Spd (il partito socialdemocratico), in particolare contro il militarismo e il nazionalsciovinismo che portano alla votazione in Parlamento dei crediti di guerra da parte dei deputati socialdemocratici con l’assenza di un’opposizione alla prima guerra mondiale.
Dal 1907 al 1914 insegna economia politica alla scuola di partito di Berlino. Durante la guerra, nonostante lunghi periodi di prigionia, non interruppe gli studi e la stesura dei suoi scritti. Nel 1916 è con Karl Liebknecht tra i fondatori dello Spartakusbund, il movimento spartachista che prendeva il nome dal gladiatore che aveva guidato la ribellione degli schiavi nell’impero romano. Da quel momento, con la fine di fatto della Seconda internazionale e la trasformazione assai moderata della socialdemocrazia tedesca, Luxemburg si impegna per la ricostituzione di una forza marxista rivoluzionaria che vedrà la luce proprio con la fondazione dello Spartakusbund che poi si scioglierà nel Kpd, il Partito comunista tedesco, nel 1918.
Quando scoppia la Rivoluzione russa del 1917, Rosa è convintamente al fianco dei bolscevichi. Ciò non le impedisce di avvertire i pericoli del sistema a partito unico e dall’abbandono della strategia consiliare dei soviet. Critica anche lo scioglimento dell’Assemblea costituente e la firma del trattato di Brest-Litovsk con cui la Russia esce dalla prima guerra mondiale. Lo fa nell’estate del 1918, dal carcere, dove trascorre la maggior parte del periodo tra il 1915 e il 1918. Nel pieno del tentativo della rivoluzione tedesca, viene assassinata il 15 gennaio del 1919 insieme a Karl Liebknecht (Leo Jogiches sarà assassinato nel marzo successivo) dai Freikorps, reparti militari agli ordini del governo di cui facevano parte pure i socialdemocratici: una tragedia. Rosa Luxembug aveva appena 48 anni.
La sua opera fondamentale è considerata L’accumulazione del capitale, apparsa nel 1913, prezioso contributo allo studio della politica imperialistica e coloniale dell’epoca. Il filosofo ungherese György Lukács considerava questo testo insieme a Stato e Rivoluzione di Lenin «le due opere fondamentali con le quali rinasce storicamente il marxismo moderno».
«Nel 1986 i riflettori dei cinema si accendono su Rosa Luxemburg con il rigoroso film di Margarethe von Trotta, interpretato da Barbara Sukowa e presentato a Cannes, ora visibile nella versione italiana su youtube, mentre verrà riproposto a Roma alla Casa del cinema il 21 gennaio, presente von Trotta. Dieci anni prima, nel 1976, in Italia veniva rappresentata la monografia teatrale «Rosa Luxemburg» di Luigi Squarzina e Vico Faggi.
Ricca è la reperibilità di testi di Rosa Luxemburg: “L’accumulazione del capitale, edizioni Pgreco, 2010 (è il testo più famoso, un’analisi del colonialismo e del moderno capitalismo); “La rivoluzione russa. Un esame critico”, Massari editore, 2004; “Un po’ di compassione”, Adelphi, 2007 (la descrizione delle disumane condizioni carcerarie nel penitenziario di Breslavia); “Socialismo, democrazia, rivoluzione”, Editori Riuniti University press, 2018 ; “Riforma sociale o rivoluzione?” , Editore Prospettiva, 2009; “Lettere 1915-1918”, edizioni Pgreco, 2017; “Lettere di lotta e disperato amore”, Feltrinelli, 2019 (le missive dal carcere); “Scritti politici” (due volumi prefati e curati da Lelio Basso), Editori Riuniti Internazionali, 2012; “La lega spartachista” (il programma del gruppo neocomunista, a cura di Gilbert Badia), Pgrego, 2016. Di Lelio Basso, il socialista italiano che più di altri ha studiato la comunista polacco/tedesca: “Per conoscere Rosa Luxemburg”, Mondadori, 1970. (a. ga.)
Rivoluzionario per caso
di Massimo Firpo (Il Sole-24 Ore, Domenica 08 Gennaio 2017)
Quando affisse le sue 95 tesi sulla porta della Schlosskirche di Wittenberg il 31 ottobre 1517, vigilia di Ognissanti, Martin Lutero non aveva nessuna intenzione di provocare lo sconquasso che ne sarebbe seguito. Era un pio monaco agostiniano, educato a una fede e immerso in una teologia ancora tutte medievali. Era entrato in monastero per onorare un voto pronunciato in un momento di paura e smarrimento, e aveva studiato sui testi della tarda scolastica la dottrina che insegnava dalla sua cattedra universitaria.
Lontanissime da lui erano le raffinatezze letterarie e filologiche della grande cultura umanistica che dall’Italia irradiava in tutta Europa e trovava in Erasmo il suo più illustre maestro. Sempre più però quella fede e quella teologia gli erano apparse inadeguate a rispondere alle sue inquietudini religiose, alla devastante convinzione che mai e poi mai, per quanto si impegnasse nella più severa disciplina ascetica e penitenziale, egli avrebbe potuto essere degno della giustizia di Dio e quindi conseguire l’eterna salvezza.
Per anni Lutero si tormentò su questo nodo cruciale, finché trovò la risposta nelle lettere di san Paolo che leggeva nei suoi corsi: «Iustus ex fide vivit» (Rom. I, 17; Gal. III, 11), «il giusto vivrà per la fede». Nulla che l’uomo possa fare è in grado di renderlo giusto agli occhi di Dio, ma nella sua infinita misericordia Dio dona («imputa») la sua giustizia agli uomini, purché essi credano nel valore salvifico del sacrificio di Cristo sulla croce. Nessuna opera buona, nessuna penitenza può diventare un merito agli occhi di Dio, e anzi illudersi di conquistare il regno dei cieli con le proprie forze è una sicura strada di perdizione. Non sono le opere buone a rendere giusto l’uomo, ma è l’uomo reso giusto dalla fede a compiere opere buone.
Si comprende quindi l’indignazione di Lutero per la brutale rozzezza con cui il domenicano Johann Tetzel predicava le indulgenze, di fatto mettendo in vendita pezzi di carta che - grazie all’inesauribile patrimonio dei meriti di Cristo custodito dalla Chiesa - avrebbero consentito ai fedeli di conquistarsi il perdono di Dio o di liberare i propri cari dalle pene del purgatorio. Uno sconcio mercimonio simoniaco, insomma, a sua volta frutto di una complicata operazione finanziaria tra la curia romana e l’arcivescovo di Magonza, Alberto di Hohenzollern, i cui frutti erano destinati a rimpinguare l’insaziabile scarsella di papa Leone X e a finanziare la costruzione della basilica di San Pietro.
Fu la sua esperienza di pastore e confessore a fargli capire il pericolo in cui tante anime ignare venivano gettate da quelle spregiudicate menzogne. «Su tutto questo io non potevo tacere più oltre», ebbe il coraggio di scrivere allo stesso arcivescovo, ammonendolo severamente per quanto avveniva nella sua diocesi: «Di ciò dovrai rendere duramente conto e il conto sale ogni giorno».
Per questo decise di affiggere le tesi, che tuttavia non intendevano incendiare il mondo, ma solo sfidare i teologi alla discussione accademica e mettere un argine dottrinale agli eccessi del Tetzel, anche se vi si potevano leggere affermazioni dirompenti. Per esempio che «qualunque vero cristiano, sia vivo che morto, ha la parte datagli da Dio a tutti i beni di Cristo e della Chiesa, anche senza lettere di indulgenza» (37); che «chi vede un bisognoso, e trascurandolo dà per le indulgenze, si merita non l’indulgenza del papa ma l’indignazione di Dio» (45); che «se il papa conoscesse le esazioni dei predicatori di indulgenze, preferirebbe che la basilica di San Pietro andasse in cenere piuttosto che essere edificata sulla pelle, la carne e le ossa delle sue pecorelle» (50); che «chi si oppone alla cupidigia e alla licenza del parlare del predicatore di indulgenze, sia benedetto» (72).
Lo stesso monaco sassone fu ben lungi dal percepire subito tutte le conseguenze della giustificazione per fede. Se solo quest’ultima, infatti, è in grado di salvare gli uomini ed essi non sono in grado di fare alcunché per ottenerla, ne consegue che solo Dio donando la fede decide, o per meglio dire ha deciso ab aeterno, chi si salva e chi no: con tutti gli inesorabili labirinti e le antinomie in cui sfocia la dottrina della predestinazione.
E se solo la fede è in grado di salvare gli uomini, si esaurisce ogni funzione della Chiesa visibile come mediatrice carismatica tra il popolo cristiano e Dio. Non più istituzione gerarchica, la Chiesa diventa solo la comunità dei credenti, senza più un clero distinto dal laicato in virtù dell’unzione sacerdotale, e quindi non più vincolato all’obbligo del celibato, e la sua tradizione magisteriale perde ogni legittimazione, perché la dottrina cristiana è affidata esclusivamente alla parola di Dio.
Sola fides e sola Scriptura diventeranno così i due fondamenti della Chiesa luterana. Ne conseguiranno l’abolizione della messa, la riduzione dei sacramenti a battesimo ed eucarestia, il rifiuto dei voti monastici, del purgatorio, del culto dei santi, della venerazione delle immagini, dei digiuni.
Insinuandosi tra i molteplici conflitti interni di una Germania immensa e frammentata, dove debolissima era l’autorità imperiale, la parola infiammata di Lutero non tardò a diffondersi con la straordinaria rapidità garantita dalla nuova arte della stampa. I conventi e i monasteri cominciarono a svuotarsi, mentre diffuse tensioni profetiche e millenariste sarebbero poi sfociata nella sanguinosa guerra dei contadini del 1524-25.
Lo stesso Lutero intorno al 1519 si convinse che la fine dei tempi era ormai imminente e che pertanto il papa romano, invenzione di Satana, era né più né meno che l’Anticristo che la annunciava. In breve tempo gli spazi di accordo e di mediazione si esaurirono. I grandi trattati di Lutero apparsi nel ’20, veri e propri testi fondativi della Riforma, La libertà del cristiano, La cattività babilonese della Chiesa di Roma e Alla nobiltà cristiana di nazione tedesca accompagnarono la coeva scomunica proclamata da Leone X con la bolla Exsurge Domine, che il riformatore sassone diede alle fiamme insieme con il codice di diritto canonico sulla piazza di Wittenberg.
Convocato alla dieta di Worms, al cospetto del giovane Carlo V d’Asburgo, re di Spagna, principe di Borgogna e sacro romano imperatore, Lutero si rifiutò di ritrattare una sola parola dei suoi scritti se non gli fosse stato dimostrato Bibbia alla mano dove e perché sbagliava. Messo al bando dall’Impero, si rifugiò in una castello dell’elettore di Sassonia, dove tradusse la Bibbia in tedesco, offrendo così a tutta la Germania la lingua comune in cui veniva predicata la parola di Dio.
È bene tener presente che abolire il clero e la Chiesa papale significava cancellare il pilastro più solido e antico dell’ordine politico e sociale, un formidabile potere materiale e morale, fondato sulla sacralità della religione, dei suoi riti, delle sue parole, delle sue gerarchie, su enormi risorse fondiarie e finanziarie, su un prestigio radicato in un millennio e mezzo di cristianesimo, diventato modo di essere e sentire, di capire e giudicare, di temere e sperare.
Non stupisce dunque che le città e i principi tedeschi fossero rapidamente coinvolti nelle vicende della Riforma, impadronendosi di quel messaggio religioso e di quelle ricchezze per liberarsi per sempre dal potere imperiale.
È bene ricordare che il lungo e faticoso processo storico che nell’Ottocento avrebbe dato vita a uno Stato unitario tedesco non si sviluppò intorno agli Asburgo, eredi di Carlo Magno e di Carlo V, ma intorno a uno dei principali beneficiari della secolarizzazione dei beni ecclesiastici, quel margravio del Brandeburgo di casa Hohenzollern, che con il tempo sarebbe diventato duca e poi re di Prussia e infine Kaiser del Reich.
Del resto, fu solo dove principi e sovrani aderirono alla Riforma che essa ebbe duraturo successo, come in Danimarca, in Svezia, in Inghilterra, mentre ciò non avvenne in Francia e in Spagna, dove un forte potere sovrano era già riuscito ad assumere il controllo della Chiesa e delle sue risorse economiche.
Tra le molte battaglie che Lutero dovette affrontare, particolarmente insidiosa fu quella con Erasmo che, dopo aver taciuto per anni lasciando che Eleutherium audacem combattesse la sua battaglia contro una curia romana corrotta e una fede oggettualizzata e superstiziosa, lo attaccò in difesa del libero arbitrio, fondamento della responsabilità morale di ogni uomo, costringendolo a difendere la tesi contraria e con essa la predestinazione, a contrapporre a un cristianesimo etico tutto fondato sull’ispirazione di fratellanza e carità del vangelo, il suo cristianesimo teologico tutto fondato sulla lettera della parola di Dio.
Negli anni seguenti egli potrà infine vedere il successo in tutta l’Europa del Nord delle nuove Chiese scaturite dal suo magistero, tutte sottoposte al potere dei principi e fondate sul testo della confessione presentata nel ‘30 alla dieta di Augusta (la confessio Augustana, appunto) che per secoli avrebbe costituito il fondamento della dottrina luterana.
Sarebbe morto il 18 febbraio 1546, a 63 anni, circondato dall’affetto della moglie, Katharina von Bora, sposata nel ’25, dei numerosi figli avuti da lei, da nugoli di discepoli adoranti, compiaciuto di quanto aveva fatto, ma attribuendone il merito solo al volere di Dio: «Io mi sono schierato contro tutti i papisti; mi sono costituito oppositore implacabile del papa e delle indulgenze. Ma io non ho fatto appello alla forza, alla persecuzione, alla ribellione. Io non ho fatto altro che diffondere, predicare, inculcare la parola di Dio: altro non ho fatto. Di modo che quando io dormivo e quando bevevo la birra a Wittenberg [...] la parola di Dio ha operato di cotali cose che il papato è caduto, come nessun principe e nessun imperatore avrebbero potuto farlo cadere. Nulla io feci: la parola di Dio ha determinato il successo della mia predicazione». Tutto in lui era fede, o meglio la sua fede, anche la dirompente violenza con cui seppe proporla, lasciando una traccia indelebile sull’intera storia europea.
Con la nascita della Chiesa luterana si esauriva definitivamente la respublica christiana, sempre più frammentata dai processi di confessionalizzazione che a fianco e dopo Lutero videro affacciarsi sulla storia europea altri e ancor più radicali riformatori, Zwingli, Calvino, le Chiese svizzere e olandesi, gli anabattisti e gli antitrinitari poi diventati sociniani, i puritani, i quaccheri, l’irriducibile mondo settario e radicale che durante la rivoluzione inglese avrebbe indotto qualcuno a denunciare la Gangraena delle mille eresie che avevano invaso la Chiesa anglicana.
Nato da una ribellione, insomma, il mondo protestante non avrebbe potuto impedire nuove ribellioni al suo interno e sarebbe diventato, anche a dispetto dei suoi padri fondatori, un mondo plurale in cui convinzioni e pratiche religiose sono libere e in cui gli uomini hanno via via imparato a convivere anche se hanno opinioni diverse su Dio e i suoi precetti e lo onorano in modo differente, o magari non credono in alcun Dio.
Quella che nel 1688 Jacques Benigne Bossuet denunciava come l’eterna condanna del mondo riformato a dividersi e frantumarsi, una volta venuto meno il fondamento ultimo dell’autorità papale, in una perenne Histoire de variations des Églises protestantes, sarebbe diventata col tempo una ricchezza e una risorsa. Eterogenesi dei fini, come sempre nella storia.
Oggi i teologi cattolici e luterani si armano di nuove utopie ecumeniche per sottoscrivere formule di concordia sulle questioni religiose che mezzo millennio fa divisero l’Europa lungo aspri confini religiosi e politici segnati da guerre, stragi, persecuzioni e violenze d’ogni sorta. Vivaddio, meglio la pace della guerra, la tolleranza che l’intolleranza, ma è bene non dimenticare quelle persecuzioni e violenze, anche per non trattare la storia (e la teologia) come un’ondivaga bandierina che ogni volta si ridipinge per adattarla alle esigenze del presente.
Laicismo, l’anti-religione contraria alla laicità
di Fabrice Hadjadj (Avvenire, 04.12.2016)
La parola "laico" è un segno ostensibile nella lingua francese e anche in quella italiana. È vero che l’udibile spicca meno del visibile; ecco perché il suono della parola "laico" ci colpisce meno della visione di un crocifisso. Tuttavia, a chi sa ascoltare quel suono, a chi sa ricollocarlo nella sua prospettiva storica, si offre la visione di uno strano spettacolo: alcune persone brandiscono un crocifisso garantendo che si tratta invece di un martello - o del segno più dell’addizione; si esprimono con il tono degno dei migliori predicatori e ci spiegano che è per sottolineare una neutralità quando non una distanza dalle religioni; ripetono infine senza sosta un versetto del vangelo ma sono persuasi di intonare un ritornello del loro repertorio.
Essi infatti dicono e ridicono che bisogna «dare a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio», si fanno promotori di carte della laicità, senza accorgersi che questa promozione è stata resa possibile dall’eredità cristiana. Perché è in primo luogo la teologia cattolica che distingue il laico dal chierico. Ed è sempre la teologia cattolica che pone quella «separazione dei poteri» ben più fondamentale di quella di Montesquieu, la separazione del potere temporale e del potere spirituale.
A dire il vero, anche la capacità di bestemmiare è ancora un segno ostensibile del cristianesimo. Un pensiero di Pascal lo dice con chiarezza: «Vi è campo aperto per la bestemmia, anche su verità quanto meno assai visibili». Il vero teologo non può essere fondamentalista: egli sa che, se Dio è trascendente, non fa parte delle evidenze mondane (la verità «erra coperta da un velo» dice ancora Pascal, immagine molto interessante che mostra il rifiuto dei sostenitori del burqa di una trascendenza trascendente e dunque velata: nascondendo la donna, il velo integrale pretende di esibire la verità islamica, affermarla come un’evidenza di quaggiù). Allora, l’accesso a tale trascendenza non può avvenire attraverso seduzioni o coercizioni: esso esige un movimento intimo del cuore, che impegni liberamente la persona, un atto di fede. Ora, questa esigenza stessa implica la pazienza davanti al rifiuto.
Ecco perché il campo della fede è «aperto alla bestemmia». Si può dirlo in un altro modo prendendo il punto di vista del bestemmiatore. Che cosa c’è dietro al piacere di bestemmiare? Da una parte ci vuole che l’idea di Dio sia ancora abbastanza viva nella società. Se Dio - ahimè! - non c’è, che divertimento ci sarebbe a coprirlo di ingiurie?
Di questo si lamenta il Marchese de Sade nella sua Storia di Juliette: «Il mio più grande dolore è che in realtà non esiste un Dio, e quindi mi vedo privato del piacere di insultarlo più positivamente». Ma per godere della bestemmia, non occorre solamente che Dio esista, almeno nel pensiero, è anche necessario non incappare subito nella pena di morte. Così, in una società completamente atea la bestemmia è impossibile; nello stato islamico è vietata. L’unica configurazione perfetta per il blasfemo è quella di una società ancora cristiana.
In una tale società, Dio è ancora presente; ma, dato che il suo stesso Figlio fu condannato come blasfemo dai grandi sacerdoti della sua epoca, si fa attenzione a non condannare troppo rapidamente uno che bestemmia. Ecco il paradosso implacabile con cui siamo confrontati noi francesi e noi europei: affermare un «principio di separazione della società civile e della società religiosa» nello stato presuppone ancora un legame privilegiato con la fede cristiana (e alla fede cristiana aggiungo l’esistenza ebraica che le è legata intimamente - la permanenza del popolo ebraico è un principio di pluralità irriducibile all’interno del pensiero stesso della Chiesa).
O, per dirlo in altro modo, la neutralità dello stato a riguardo delle confessioni religiose presuppone una predilezione per l’eredità culturale giudaico-cristiana. Senza tale predilezione, o quella neutralità diventa impotente, perché il neutro in sé non può produrre una qualsiasi determinazione; o si trasforma in neutralizzazione e diventa la religione dell’anti-religione, il laicismo.
Il laicismo è il contrario della laicità. La laicità non può affermarsi che distinguendosi da un clero di cui riconosce l’esistenza. Può essere anticlericale, nel senso di una diffidenza critica nei confronti dei chierici, delle loro prediche e dei loro comportamenti, come nel Decamerone di Boccaccio; ma non oserebbe escluderli dal dibattito pubblico, perché, in questo caso, tradirebbe se stessa costituendosi come un nuovo e supremo clero.
Quanti sedicenti difensori della laicità salgono in tribuna, più che in cattedra, per pronunciare scomuniche e imporre un catechismo molto più rigido e riduttore del dogma cattolico? Il laicista corrisponde molto precisamente al curato di fantasia che vuole denunciare. Riprende il discorso preliminare dell’enciclopedia, nel quale D’Alembert deplora l’«abuso dell’autorità spirituale riunita a quella temporale» ma commette egli stesso quell’abuso nel senso opposto.
Tradurre per capire
di Remo Bodei (Il Sole-24 Ore, Domenica, 08.05.2016)
«Tutto è destinato a perire, castelli e città, re e papi, solo i libri hanno il privilegium perennitatis: Saturno divora i propri figli, le civiltà sarebbero perdute, se Dio non avesse dato agli uomini i librorum remedia». Così sosteneva Riccardo di Bury, cancelliere di Edoardo III d’Inghilterra negli anni Trenta e Quaranta del Trecento. E John Florio, autore del primo dizionario Italiano-Inglese e traduttore dei Saggi di Montaigne, ricorda di aver sentito dire da Giordano Bruno che ogni scienza ha origine dalle traduzioni.
Di questi episodi e di sobrie riflessioni è costellato il breve e affascinante libro di Tullio Gregory, che, con la consueta competenza (esercitata anche nei decenni in cui è stato direttore del Lessico intellettuale europeo) mostra come la translatio linguarum, il vertere, il transferre e l’interpretari siano alla base di ogni civiltà e, specificamente della nostra, quella mediterranea, «fatta di innesti continui, di matrimoni esogamici, di un assiduo intrecciarsi e scambio di esperienze, modelli e valori fra civiltà diverse, ove ogni cultura nasce sull’eredità di altre culture, fatte proprie, trascritte, tradotte, interpretate in nuovi contesti e linguaggi».
Da questo punto di vista, fenomeni epocali, quali il sorgere o il diffondersi dell’ebraismo o del cristianesimo sarebbero impensabili senza la traduzione in greco della Bibbia da parte dei Settanta nell’Alessandria del III secolo a.C. e le stesse parole di Gesù, pronunciate in aramaico, non si sarebbero diffuse nel mondo se non fossero state rese in greco e in latino: «È la traduzione che prolunga nel tempo e nello spazio la vitalità di un testo, assicura e rinnova una tradizione». Ed è la traduzione che sostanzia la translatio studiorum, per cui ogni versione di un’opera dall’originale a un’altra lingua contribuisce al «passaggio di civiltà e cultura da uno ad altro contesto politico, geografico e linguistico, per salvare eredità che si sarebbero altrimenti perdute».
Conosciamo tutti, per sommi capi, la trafila degli eventi che dalle rive del Nilo e dalle coste della Fenicia porta alla migrazione della scrittura, delle scienze, della sapienza e delle tecniche dapprima in Grecia e a Roma. Allo stesso modo ci è noto come il salvataggio della cultura antica passi attraverso gli scriptoria medioevali, dove gli amanuensi ricopiavano i libri. Sono state anche ricostruite le complesse vicende che hanno portato le opere filosofiche, matematiche, mediche e fisiche dal mondo greco a quello arabo.
Fu l’imperatore Giustiniano, istigato dai cristiani e dalla moglie Teodora, a decretare nel 529 la chiusura delle scuole di Atene, costringendo un consistente gruppo di filosofi a trasferirsi nell’Impero persiano presso il re Cosroè III. Quando, poi, la Persia venne conquistata dagli arabi, i discepoli dei filosofi che erano fuggiti assieme ai loro volumi iniziarono - dall’815 stabilmente nella «Casa della sapienza» di Baghdad - a tradurre in arabo dal greco e dal siriaco queste opere, che fecondarono il pensiero di Al-Kindî, Al Farabî, Averroè e Avicenna per poi, attraverso un’altra grande operazione di traduzione collettiva a Toledo e altrove, dare luogo alle ritraduzioni latine (si pensi che di Platone si conosceva in precedenza solo un brano del Timeo e di Aristotele, sostanzialmente, solo le Categorie e il De interpretatione).
La filosofia moderna si fonda linguisticamente sulla continua translatio dei termini forgiati in questo periodo e sulla ripresa e innovazione dei loro significati. Di tutte queste metamorfosi il volume di Gregory offre il necessario inquadramento.Spesso dimentichiamo che il destino dei libri che giungono fino a noi - oltre che di chi li pubblicava, li distribuiva e li leggeva - è soggetto a una selezione dovuta al caso, all’intenzione o ai ritrovamenti insperati (quale il codice del De rerum natura di Lucrezio che Poggio Bracciolini rinvenne nel 1417 in un monastero tedesco).
È, tuttavia, la volontà censoria a incidere maggiormente sulla loro conservazione e trasmissione, decretandone la sorte di «sommersi e salvati». Il fanatismo, l’Index librorum prohibitorum (formalmente abolito dalla Chiesa cattolica solo nel 1966), e i roghi, anche di intere biblioteche, hanno segnato la storia umana e non solo quella dell’Occidente: si comincia, a quanto ci consta, da quelli avvenuti nella Cina di Qin Shi Huan, il 212 a.C., fino alla Bücherverbrennung nazista del maggio del 1933 a Berlino. Per fortuna, i libri sfuggono talvolta a questa sorte, come accadde con «l’avventuroso trasferimento della biblioteca dell’Istituto Warburg da Amburgo a Londra con due battelli che approdarono nel dicembre 1933 sulle rive del Tamigi».
Se dunque la translatio linguarum ha nell’ambito delle civiltà della specie il ruolo dominante qui descritto, allora la risposta di Gregory al mito della Torre di Babele non può essere che un’orgogliosa rivendicazione della nostra condotta: «Se la condanna alla pluralità delle lingue è una conseguenza del tentativo degli uomini, dopo il diluvio, di costruire una loro città con una torre che raggiungesse il cielo, la traduzione - ove manchi il miracolo della Pentecoste - è la risposta umana alla condanna di Yahvè».
Le sfide del nostro tempo
La sostenibilità cristiana
La Bibbia ci insegna che siamo fatti di terra e che la terra è stata data all’uomo perché la coltivasse e la custodisse. Le encicliche di Benedetto XVI e Francesco indicano la strada
di Gianfranco Ravasi s.j. (Il Sole-24 Ore, Domenica, 03.04.16)
È un vocabolo che è divenuto quasi un’insegna dei nostri giorni, fino a trasformarsi purtroppo in uno stereotipo che riempie le bocche ma lascia indifferenti le mani e, quindi, l’impegno. Stiamo parlando della cosiddetta sostenibilità, un termine spesso ripetuto e declinato in varie forme (indice, codice, bilancio di sostenibilità) e che, però, registra all’opposto un dato talora drammatico, quello dello sfruttamento insensato ed egoistico dei beni che Dio ha destinato universalmente all’umanità e che, invece, vengono o accaparrati solo da alcuni o sprecati insensatamente (si pensi solo all’acqua!) o feriti attraverso l’inquinamento e la devastazione ambientale.
Proprio in apertura alla Bibbia, nelle pagine dedicate alla creazione, ci sono due asserti fondamentali. Il primo è quello che - a differenza della cultura greca - riconosce il rilievo che la materialità ha anche per la creatura umana: «Il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e così divenne un essere vivente» (Genesi 2,7). Alla fine della sua esistenza l’uomo «ritorna alla polvere della terra e il soffio vitale ritorna a Dio che lo ha dato» (Qohelet 12,7), «poiché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere tornerai» (Genesi 3,19). Tra la terra e l’umanità c’è, dunque, una radicale sororità, una parentela stretta che, però, spesso dimentichiamo e violiamo.
Il secondo asserto indica un altro aspetto che ci distingue dalla materialità. Il Creatore, infatti, impone questo impegno all’uomo e alla donna: «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela, dominate sui pesci del mare, sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che striscia sulla terra» (Genesi 1,28). La creatura umana riceve da Dio una dignità di sovranità delegata sul creato. In realtà, i due verbi ebraici usati contengono un significato più sfumato e persino suggestivo: kabash - “soggiogare” originariamente rimanda all’insediamento in un territorio che dev’essere esplorato e conquistato, mentre radah - “dominare” è il verbo del pastore che guida il suo gregge.
Si tratta, certo, di un primato che purtroppo l’uomo spesso ha esercitato in modo tirannico e non come un compito, che è specificato da un ulteriore dettato del Creatore così formulato: «Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden perché lo coltivasse e custodisse» (Genesi 2,15). È interessante notare anche in questo caso che l’attività propria dell’umanità è espressa con due verbi ebraici - ’abad e shamar - che contengono un duplice significato. Il primo è quello esplicito dell’operare, trasformare, investigare e tutelare le potenzialità della natura attraverso l’attività lavorativa e scientifica. Il secondo aspetto è nel fatto che i due verbi indicano anche il “servire” cultuale e l’“osservare” la legge divina, due componenti fondamentali dell’alleanza tra il Signore e Israele.
C’è, dunque, una sorta di alleanza primaria “naturale” tra il Creatore e l’umanità che si esprime nella tutela e nella trasformazione del creato. Un patto che spesso l’uomo infrange, devastando e occupando brutalmente la terra. È suggestiva una parabola araba che si muove proprio in questa linea. «All’inizio il mondo era un giardino fiorito. Dio, creando l’uomo, gli disse: Ogni volta che compirai un’azione cattiva, io farò cadere sulla terra un granello di sabbia. Gli uomini non ci fecero caso. Che cosa avrebbero significato cento, mille granelli di sabbia in un immenso giardino fiorito? Passarono gli anni e i peccati degli uomini aumentavano; torrenti di sabbia invasero il mondo. Nacquero così i deserti, che di giorno in giorno diventarono sempre più grandi. E Dio continua ancor oggi ad ammonire gli uomini dicendo loro: Non riducete il mio giardino fiorito in un immenso deserto!».
Questa amara parabola dipinge in modo illuminante la crisi del pianeta. Per fortuna, un rigurgito di pentimento e rimorso sta emergendo proprio sotto i termini di ecologia e sostenibilità, temi che sono stati finalmente messi in agenda non solo dalla Chiesa attraverso l’enciclica Caritas in veritate di Benedetto XVI e la Laudato si’ di papa Francesco, ma anche dagli Stati, dagli organismi internazionali e dalle stesse strutture economiche. A metà degli anni Settanta, attraverso un rapporto dell’allora Segretario Generale dell’ONU, Dag Hammarskjöld, si iniziò a sottoporre a critica il modello di sviluppo dominante. Fu, però, solo nel 1987 che la “Commissione mondiale sull’ambiente e lo sviluppo” (nota come “Commissione Brundtland”) definì in modo chiaro e ampio il concetto e il programma di sviluppo sostenibile, come «processo di cambiamento tale per cui lo sfruttamento delle risorse, la direzione degli investimenti, l’orientamento dello sviluppo tecnologico e i cambiamenti istituzionali siano coerenti coi bisogni futuri e non solo con gli attuali».
In quel testo si introducevano anche elementi etici e sociali per una «effettiva partecipazione dei cittadini nel processo decisionale e una maggior democrazia a livello di scelte internazionali», così che si potessero «soddisfare i bisogni fondamentali di tutti ed estendere a tutti la possibilità di attuare le proprie aspirazioni a una vita migliore». In questa linea, nel dicembre 2002, l’assemblea generale dell’ONU proclamò l’arco 2005-2014 come il “Decennio dell’educazione allo sviluppo sostenibile”. Fondamentale - a livello socio-culturale generale - è far comprendere che la sostenibilità è uno dei diritti umani capitali. È noto, infatti, che ormai si è soliti elencare quattro “generazioni” di diritti.
I diritti di “prima generazione” sono quelli civili e politici (vita, dignità personale, libertà). Diritti di “seconda generazione” sono quelli economici, sociali, culturali descritti nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (1948), come salute, lavoro, istruzione e così via. Di “terza generazione” sono i diritti di solidarietà riguardanti soprattutto i soggetti più vulnerabili: pace, equilibrio ecologico, difesa ambientale e delle risorse nazionali, autodeterminazione dei popoli. Infine, alla “quarta generazione” appartengono i nuovi diritti relativi al campo delle manipolazioni genetiche, della bioetica e delle nuove tecnologie di comunicazione. È, dunque, importante inquadrare la sostenibilità nell’orizzonte più vasto della dignità umana, della morale sociale e degli stessi principi religiosi.
È ciò che è ribadito a più riprese nell’enciclica Laudato si’ che per almeno una dozzina di volta usa la terminologia “sostenibile/sostenibilità”. Papa Francesco lo fa partendo dalla Carta della Terra promulgata a L’Aja il 29 giugno 2000: «Come mai prima d’ora nella storia, il destino comune ci obbliga a cercare un nuovo inizio [...]. Possa la nostra epoca essere ricordata per il risveglio di una nuova riverenza per la vita, per la risolutezza nel raggiungere la sostenibilità, per l’accelerazione della lotta per la giustizia e la pace, e per la gioiosa celebrazione della vita» (n. 207). Per questo «la sfida urgente di proteggere la nostra casa comune comprende la preoccupazione di unire tutta la famiglia umana nella ricerca di uno sviluppo sostenibile e integrale» (n. 13).
Certo, il Papa è consapevole dei rischi che l’uso scontato e abitudinario del termine “sostenibilità”, come abbiamo già sottolineato in apertura, e lo stesso «discorso della crescita sostenibile possa diventare spesso un diversivo e un mezzo di giustificazione che assorbe valori del discorso ecologista all’interno della logica della finanza e della tecnocrazia» (n. 194). Per questo, è necessario sollecitare «una creatività capace di far fiorire nuovamente la nobiltà dell’essere umano, perché è più dignitoso usare l’intelligenza, con audacia e responsabilità, per trovare forme di sviluppo sostenibile ed equo, nel quadro di una concezione più ampia della qualità della vita» (n. 192).
Siamo partiti con la visione genesiaca della creazione; l’abbiamo riletta anche attraverso la concezione musulmana e abbiamo introdotto l’impegno che la Chiesa cattolica propone ai cristiani e anche a tutti gli uomini di buona volontà. Concludiamo questa considerazione essenziale sul nesso tra etica, teologia e sostenibilità, con una parabola moderna che è evocata dal filosofo Martin Heidegger in una delle sue opere più rilevanti, Essere e tempo (1927). Essa è la ricreazione libera di elementi mitici greci. Protagonista è una dea dal nome emblematico di “Cura”, sinonimo del nostro vocabolo “Sostenibilità”.
Attraversando un fiume, essa raccolse il fango della sponda e plasmò una figura umana. Giove le infuse lo spirito e la rese una creatura vivente. Cura e Giove si misero a litigare su chi avesse il diritto di imporre il nome e, quindi, il diritto di proprietà sulla persona umana. A questo punto reclamò il suo potere anche la dea Terra da cui quell’essere era stato tratto. I tre ricorsero a Saturno, il dio giudice che emise questa sentenza: «Tu, Giove, che hai dato lo spirito, al momento della morte riceverai lo spirito. Tu, Terra, che hai dato il corpo, riceverai il corpo. Ma finché la creatura umana vivrà, sarà sotto la tutela e la giurisdizione di Cura». Ecco perché la sostenibilità deve essere una sorta di grande protettrice che veglia sull’umanità, sulla sua storia e sulla sua evoluzione.
La Germania chiude i conti con il passato
di Ferdinando Camon (La Stampa, 09.09.2015)
L’accoglienza (così massiccia, così vistosa) dei profughi da parte della cancelliera Merkel chiude nella memoria degli europei l’epoca della Germania crudele e ostile, costruita dalla Seconda guerra mondiale. Per chi ha la mia età, quella era la Germania, non sarebbe mai cambiata.
Una Germania che attuava un rifiuto degli altri fino a compiere il più grande misfatto che la Storia abbia conosciuto. «Come faremo a liberarci di quel passato?» si chiedevano gli intellettuali tedeschi (e austriaci). Nel dibattito in Germania e in Austria quel passato era noto come «il passato che non passa». Nelle scuole per interi decenni non si parlava di quella colpa. Fu uno choc quando arrivò in tv un film (grossolano ma non reticente), intitolato «Olocausto» (termine sbagliato), in cui si vedeva l’incendio di case di ebrei con gli ebrei dentro, ma ricordo che tra i soldati tedeschi che osservavano il rogo correva questo dialogo: «Chi sono?», «Spie». Ancor oggi, nel far giustizia per la strage di Stazzema, la Germania non collabora con noi.
Aspetta che gli imputati, molto vecchi, muoiano. E se muoiono, con queste tremende accuse, sarà dannata la loro memoria? No, per niente. Una docente di Letteratura italiana all’università di Potsdam, Isabella von Tretzskow, aveva adottato per il suo corso un libro in cui raccontavo le stragi dei tedeschi nel Veneto. Il libro s’intitola La Vita Eterna in italiano, Das Ewige Leben in tedesco. I suoi studenti restano impressionati, vogliono saperne di più, cercano nelle biblioteche e negli archivi, ma non trovano nulla.
Come mai? Perché tutte le prove contro il comandante tedesco erano state distrutte, in obbedienza a una legge. Quel comandante era stato citato in processo da un pool di magistrati (onore a loro), e Das Ewige Leben era tra i documenti a carico, ma la notte prima della prima udienza ebbe un infarto e morì. Le prove contro di lui furono bruciate. Perché la Germania aveva varato una legge in base alla quale, se un cittadino tedesco viene accusato di crimini che possono infangare la sua memoria, ma muore prima che il processo sia giunto a condanna, ha diritto che tutte le prove siano distrutte. Il passato che non passa passa dichiarandolo mai esistito.
Non amo la Germania. Ho un amico che dice: «D’estate prendo l’auto e giro per l’Europa, se sento parlare tedesco accelero». Lo capisco. La lingua tedesca fu legata a eventi indelebili. A chi l’ha sentita urlare negli ordini militari, fa ancora paura. Nei libri, nei film, nei documentari, è la lingua del terrore. Pare inventata apposta per «dare sfogo a una rabbia vecchia di secoli» (Primo Levi). Era la lingua della superiorità, del disprezzo, della sopraffazione, della distruzione.
In pochi giorni, quell’immagine della Germania viene sostituita da un’altra immagine: masse di uomini disperati, che una volta sarebbero stati chiamati Untermenschen, entrano nei confini di quello Stato, agitano le mani in segno di giubilo, scandiscono il nome dello Stato e della cancelliera come santi e benefattori. E tutti vengono accolti. Chi voleva opprimere i popoli che nella gerarchia dell’umanità erano terzi, quarti, quinti, ora offre cibo e aiuto a uomini che sono gli ultimi. Chi in nome di Nietzsche cancellava il Cristianesimo, ora in nome del Cristianesimo cancella Nietzsche. Non è un caso che a guidare la storia tedesca verso questo ricominciamento sia una donna. Nella sua bocca la lingua tedesca perde ogni timbro militare.
Mi gira per il cervello la frase di uno scrittore tedesco, forse Goethe?, che dice: «La lingua tedesca e la lingua spagnola sono lingue sublimi, la lingua italiana e la lingua francese sono lingue belle». Penso che si potrebbe tranquillamente affermare il contrario. Però sulla militarità della lingua tedesca è tempo di ricredersi. Nella bocca della donna che ora guida la Germania la lingua tedesca ha un suono mite, languido, gentile. È una lingua umana. Come tutte. Il passato che non passava da 70 anni è passato in tre giorni.
FILOSOFIA E TEOLOGIA POLITICA DELLA’ "ANDRO-POLOGIA" ATEA E DEVOTA....
Hitler, un figlio dell’occidente
70 anni fa il fututo Fuhrer diventava cancelliere del Reich. Aveva già programmato tutto in "Mein Kampf".
Lo storico Giorgio Galli ha curato la ristampa del libro per Kaos: "Razzismo e antisemitismo non erano sue invezioni".
di Oreste Pivetta *
Settant’anni fa Adolf Hitler diventava cancelliere dei Reich. Era la mattina del 30 gennaio quando il presidente Paul Hindenburg gli affidò l’incarico. Hitler poteva contare su una coalizione di destra, ma quarantotto ore dopo l’investitura ottenne da Hindenburg lo scioglimento del parlamento. A febbraio il nuovo governo decretò la sospensione della libertà di stampa e i nazisti scatenarono un’ondata di violenze contro gli oppositori politici. Soprattutto i nazisti misero in moto la formidabile macchina della propaganda, diretta da Goebbels, mentre per decreto legge (a fine febbraio) venivano sospese le libertà costituzionali e proibito l’attivismo politico delle sinistre. Il giorno prima, il 27 febbraio, era stato dato alle fiamme il Reichstag. Dell’incendio fu accusato un cittadino olandese di presunte simpatie comuniste, Marinus van der Lubbe.
Cominciava così la più tragica avventura del nostro secolo, alla fine la guerra, le deportazioni, lo sterminio. Le idee che ispirarono tutto questo, stanno in un libro, Mein Kampf, che Hitler aveva dettato al suo segretario Rudolf Hess nell’anno di prigionia, nel carcere di Landsberg, tra l’11 novembre 1923 e il 20 dicembre 1924. Hitler era stato condannato per alto tradimento per il tentato putsh di Monaco, il putsh della birreria. Mein Kampf, scritto in forma prolissa e contorta, fu rivisto e corretto (anche dagli errori grammaticali) da un prete che era diventato giornalista antisemita, Bernhard Stempfle, e da Josef Czerny, di origine cèca, giornalista e poeta ugualmente antisemita. Il titolo era di Max Amman, che stava in carcere con Hitler ed era il direttore commerciale della casa editrice del partito nazionalsocialista.
Il libro ebbe all’inizio scarsa fortuna. Alla fine della guerra, al crollo del nazismo ne erano state vendute dieci milioni di copie. Veniva regalato ad ogni coppia di neo-sposi. In Italia fu Bompiani a pubblicare nel 1934 il secondo volume, quello dichiaratamente teorico, che si intitolava Il movimento nazional socialista. Il primo volume (Resoconto), più autobiografico, apparve sempre con Bompiani nel 1938. L’editore Kaos ristampa ora entrambi i volumi, a cura di Giorgio Galli, che ha scritto anche un’ampia introduzione (con una postfazione di Gianfranco Maris, presidente dell’Aned, associazione nazionale ex deportati).
Professor Galli, la prima domanda nasce dal disagio: il disagio, persino materiale di fronte a un oggetto come un libro, di chi ha sempre visto in «Mein Kampf» uno dei simboli della barbarie nazista. Un libro respinto dalla nostra coscienza. Perchè ristamparlo?
«Intanto perchè in una società aperta non dovrebbero esistere tabù. Poi perchè Mein Kampf non è mai scomparso: ne sono circolati estratti in una chiara logica apologetica e si sa che una cosa proibita esercita sempre una certa attrazione. Questa riedizione ha un dunque un senso: non accettare i tabù e offrire un testo storicamente collocato, un testo che può illuminare la figura di Hitler, che tante ambiguità, tante rimozioni e persino le censure possono avvolgere di un fascino sinistro... Proprio sere fa in un programma televisivo, padre Amorth, il prete esorcista del Vaticano, trattava Hitler al pari di un indemoniato. L’oscurità può sedurre: una indagine ha catalogato centocinquanta siti internet ispirati ad una sorta di mito hitleriano».
L’idea della follia è anche un’idea di alterità. Leggendo invece «Mein Kampf» si dovrebbe capire quanto Hitler viva invece nel solco della cultura del suo tempo?
«Mein Kampf è stato sempre giudicato un prodotto abbastanza singolare, sorprendente, quasi un incidente nei percorsi della storia politica occidentale. Non è vero. Hitler raccoglie idee che vengono da lontano. Mi rifaccio alle tesi di Poliakov e di Mosse. Il razzismo e l’antisemitismo non sono invenzioni di Hitler».
Raul Hilberg, nella «Distruzione degli ebrei d’Europa» (Einaudi), presenta addirittura le tavole comparative tra diritto canonico e misure naziste: dal divieto dei matrimoni misti (Sinodo di Elvira del 306) alla legge per la difesa del sangue e dell’onorabilità tedesca (15 settembre 1935), dalla proibizione per gli ebrei a rivestire cariche pubbliche (Sinodo di Clermont del 535) alla legge sulla riorganizzazione delle professioni burocratiche pubbliche (7 aprile 1933). Il distintivo di riconoscimento fu inventato dal Concilio Lateranense nel 1215. Scrive Hilberg: i nazisti non hanno rinnegato il passato, hanno costruito sulle vecchie fondamenta...
«Nel testo hitleriano il razzismo antigiudaico è l’approdo di una concezione razziale che affonda nella cultura occidentale. Hitler per esempio utilizza il francese Joseph-Arthur Gobineau e il suo Saggio sull’ineguaglianza delle razze. Ne ricava l’esecrazione per il "meticciato", che avrebbe portato alla degenerazione dell’umanità. Nel Mein Kampf si ritrovano le teorie eugenetiche dello psicologo inglese Francis Galton...».
Erano tutte letture di Hitler?
«Non letture dirette, ma non credo che la cultura di Hitler si limitasse a pochi opuscoli antisemiti. Conosceva Nietzsche e Schopenhauer. Ipotizzo che conoscesse anche Weber: nella concezione che Hitler manifesta del "capo carismatico", che dev’essere confermato dal successo e che è forte di una tradizione, vi è affinità con il pensiero del sociologo. Tra i dirigenti nazisti era popolare Gobineau».
La storiografia revisionista, che come scrive uno studioso che lei cita, Enzo Traverso, tende a espellere i crimini nazisti dalla traiettoria del mondo occidentale, spiegandoli come una reazione alla rivoluzione russa...
«Non fu l’antibolscevismo a indurre Hitler all’invasione dell’Unione Sovietica. L’operazione Barbarossa non fu il risultato di una contrapposizione ideologica, ma di una pretesa di "spazio vitale". Lo si legge appunto nel Mein Kampf: "Chiudiamo finalmente la politica coloniale e commerciale dell’anteguerra... quando oggi parliamo di nuovo territorio in Europa, dobbiamo pensare in primo luogo alla Russia o agli Stati marginali a essa soggetti. Sembra che il destino stesso ci voglia indicare queste regioni: consegnando la Russia al bolscevismo, rapì al popolo russo quel ceto di intellettuali che finora ne addusse e garantì l’esistenza statale...".
Come si spiega invece la simpatia per l’Inghilterra. Anche qui fa testo il «Mein Kampf», a proposito di Inghilterra e Italia: «La più grande Potenza mondiale e un giovane Stato nazionale offrirebbero ben altri elementi per una lotta in Europa, rispetto ai putridi cadaveri di Stati ai quali la Germania si alleò nell’ultima guerra».
«Sullo sfondo c’è sempre la missione della razza ariana. Secondo i nazisti da una parte della Manica stavano gli ariani di mare, dall’altra gli ariani di terra».
«Mein Kampf» definisce anche il ruolo dello stato. Che cosa rappresenta per Hitler lo stato?
«Lo stato è uno strumento. Scrive: "Lo stato non rappresenta un fine, ma un mezzo. Esso è la premessa della formazione di una civiltà umana superiore, ma non è la causa di questa...". Hitler ribalta le conclusioni di Gobineau: il meticciato non è irreversibile, l’ariano resiste, lo stato è solo il mezzo per invertire la tendenza alla degenerazione, da qui la politica eugenetica dedotta da Galton, teorizzata nel Mein Kampf, attuata dal Terzo Reich. Nella concezione hitleriana lo Stato non è dunque un oggetto di culto, ma uno strumento al servizio di una razza che si edifica in nazione e costruisce una civiltà».
Altro tema fondamentale del «Mein Kampf» è quello relativo alla concezione della classe politica...
«Di Weber appunto è l’idea del capo carismatico investito di una missione, attorno al quale si forma il primo nucleo dei fedeli e che deve essere confermato dal successo, "la inequivocabile prova del successo visibile, il quale, in fin dei conti darà sempre l’ultima conferma della giustezza di un’azione". I profeti disarmati non contano».
Siamo ancora nella tradizione occidentale?
«Tutti i politici anche i più moderati coltivano l’idea di essere investiti da una missione, coltivano la convinzione di avere un compito di pubblica utilità. Questo Weber lo coglie con lucidità. La storia politica dell’Occidente è costruita da personaggi di questo genere, da Cronwell a Napoleone. Hitler ha aggiunto la dimensione divina: capo politico e sacerdote del nuovo rito. Le sue oceaniche assemblee erano quasi cerimonie liturgiche: la massa dei sottoposti nel buio, la tribuna nella luce, il capo che arriva al culmine della rappresentazione. Non cita ovviamente una religione: Hitler si appella agli dei o a una provvidenza che non è mai la provvidenza cristiana... Hitler scrive: "Noi ci rivolgiamo a quelli che adorano non il denaro, ma altri Dei, ai quali votano la loro esistenza"».
«Mein Kampf» dunque sintesi della futura politica hitleriana. Singolare che non faccia cenno alle fonti...
«Mein Kampf esprime un progetto compiuto. Gli atti successivi sono rintracciabili in quelle pagine. Il nazismo si affermò sulla base di un disegno preciso e chiuso, al contrario del fascismo che procedette in modo molto più empirico. L’unica teorizzazione del fascismo sta in quella voce dell’enciclopedia Treccani scritta da Gentile e rivista da Mussolini... Per quanto riguarda le fonti, tacendole Hitler rivendicava l’originalità del proprio pensiero».
Non fu solo un progetto però ad assicurare il successo del nazismo... un movimento che fino al 1928 non aveva che il tre per cento dei voti dopo cinque anni andava al potere.
«Non fu l’ideologia ed anche questo smentisce i revisionisti. Furono sei milioni di disoccupati, con i quali il comunismo non aveva nulla a che fare. La crisi tedesca stava tutta all’interno del sistema liberal democratico. La classe politica della repubblica di Weimar si era mostrata incapace, non solo divisa. La soluzione venne da una medicina keynesiana, come quella adottata negli Stati Uniti, proposta a Hitler da Hjalmar Schacht, il presidente della Banca tedesca: investimenti pubblici per rilanciare l’economia. Il bello è che Schacht aveva presentato lo stesso piano al governo di Weimar, che l’aveva respinto. Fu il primo successo di Hitler: la disoccupazione di massa cancellata. Il "miracolo economico" consentì la seconda performance di Hitler: il riarmo. Nel 1933 la Germania aveva un esercito di centomila uomini, male armati, senza aerei. Nel 1938 la Germania era la prima potenza militare europea».
Mein Kampf, il libro di Hitler torna in vendita: “Meglio, l’ignoranza non aiuta mai. E i tedeschi hanno fatto i conti con la Storia. Non come l’Italia”
di Davide Turrini
Il volume in cui il Führer anticipava l’ideologia dello sterminio antisemita. Ilfatto.it ha intervistato un giornalista (Gad Lerner), un politologo (Piero Ignazi) e uno storico (Gian Enrico Rusconi). E sono tutti d’accordo: è giusto che quelle pagine tornino "libere" di circolare. "Edizione critica come questa ci aiuterà a capire cosa abbiamo imparato in questi 70 anni"
di Davide Turrini *
Duemila pagine, quasi 5mila note a margine, 4mila copie in prima tiratura, e 59 euro come prezzo di copertina. Il Mein Kampf di Adolf Hitler tornerà ufficialmente nelle librerie della Germania dopo 70 anni da gennaio 2016. L’iniziativa della pubblicazione di un edizione “critica” del testo scritto dal dittatore nazista in due volumi, tra il 1924 e il 1926 mentre era detenuto in carcere dopo il fallito Putsch del 1923, e dove venivano delineati i prodromi ideologici dello sterminio antisemita, è stata presa dal prestigioso Istituto di Storia Contemporanea di Monaco di Baviera. Secondo la legge tedesca la scadenza del copyright scatta a 70 anni dalla morte dell’autore (Hitler si suicidò nel bunker di Berlino il 30 aprile 1945).
E’ dal 1946 che il ministero delle Finanze del governo della Baviera detiene i diritti del libro che tra il 1933 e il 1945 aveva registrato 13 milioni di copie vendute. Il Land bavarese ne ha negato la pubblicazione a livello editoriale più volte nel corso dei decenni del dopoguerra, anche se non ha potuto fare nulla rispetto alle copie agiografiche circolate sottobanco in lingua inglese o francese (diverso il caso italiano che ha visto la pubblicazione di un volume “critico” di tutto rispetto edito in Italia da Kaos Edizioni e curato dal politologo Giorgio Galli).
Un’opposizione che però il ministero bavarese non potrà più esercitare per legge dal 31 dicembre 2015. Ed è qui che è entrato in gioco l’Ifz, con un team di validi e preparati storici tedeschi - Christian Hartmann, Thomas Vordermayer, Othmar Plöckinger, Roman Töppel -, a cui era già stata rifiutata a metà anni 1990 la pubblicazione del Mein Kampf dove aver dato alle stampe un volume contenente diversi discorsi hitleriani tenuti tra il 1925 e il 1933. “Il libro di Hitler è già ‘disponibile’ in una varietà di modi. L’obiettivo è quello di decostruire completamente la propaganda in maniera duratura e, quindi, di indebolirne l’ ancora vivo potere simbolico. In questo modo cerchiamo anche di contrastarne un uso improprio ideologico e propagandistica con fini commerciali”, viene spiegato sul sito dell’Istituto Storico di Monaco.
Sono stato di recente a visitare il serissimo istituto tedesco che ha ricevuto l’incarico di questa pubblicazione - racconta spiega Gad Lerner a ilfattoquotidiano.it - Ho parlato con i curatori che hanno molto ben presente la responsabilità che si assumono: l’alternativa è una circolazione clandestina dell’opera in forma apologetica venduta nei mercatini, mentre loro invece con grande senso di responsabilità ne fanno un’edizione critica, soprattutto come strumento di lavoro per studiosi, perfino poco maneggevole, oserei dire dissuasiva, costosissima, sovrastata di note, dove vengono denunciate molte delle falsità storiche contenute”. Secondo quanto spiega il giornalista, gli storici dell’Ifz “hanno avuto un confronto anche aspro con le personalità del mondo ebraico tedesco, che ha vissuto con fatica questa decisione. Però la scelta è stata veramente soppesata e non presa alla leggera. Non mi sento di criticarla anzi trovo positivo il fatto che questo tabù in Germania venga affrontato”.
In Germania “grazie ad un’opera di divulgazione storica avvenuta persino in prima serata sulla tv pubblica già dagli anni Novanta ci si è richiamati ad una responsabilità storica collettiva su quanto accaduto col nazismo - continua Lerner - Da questo punto di vista i tedeschi hanno fatto i conti con un buco nero della loro storia in modo ben più consapevole rispetto a quanto l’Italia ha fatto con il fascismo. La classe dirigente italiana ha adottato uno spirito di autoassoluzione e di reticenza culminata nella minimizzazione del ruolo di Mussolini su quegli avvenimenti, come nelle bestialità proferite da Berlusconi al memoriale del Binario 21 nel Giorno della Memoria nel 2013”.
“Era ora”, commenta il politologo Piero Ignazi che si è occupato in parecchi volumi delle origini dell’estrema destra in Europa. “Non sono per la censura dei libri in generale, come comprendo il problema che può vivere la Germania. Ma attenzione, di testi maledetti se ne trovano sempre come ad esempio alcuni di Rousseau che portano ai disastri della Rivoluzione francese. Questi sono documenti che servono per capire ancora meglio ciò che è accaduto. L’ignoranza non aiuta mai. Anche se più complessa e spiacevole è sempre meglio affrontare la realtà dei fatti”. “Dal punto di vista della propaganda partitica dei partiti di destra odierni, a parte qualche folkloristico gruppo neonazista, non c’è più nessuno che si richiama al fascismo storico - continua Ignazi - Anche il Front National per ricevere così tanti consensi ha avuto la capacità con la nuova leadership di distaccarsi dal filo conduttore sottile del passato francese dell’Oas e di Vichy, altrimenti avrebbero fatto la fine del Movimento Sociale Italiano”.
Per lo storico Gian Enrico Rusconi, esperto del Novecento tedesco, il ritorno alla pubblicazione del Mein Kampf “è un segno di maturità questa pubblicazione a cui i miei colleghi di Monaco pensavano da tempo. Non siamo ingenui: copie del Mein Kampf ne giravano da anni. Scientificamente e storicamente il capitolo lo reputo relativamente chiuso, mentre rimane aperto e diffuso un aspetto antropologico-culturale più sottile e presente prima e dopo la pubblicazione di questo libro, perché le radici profonde del volkisch erano già vive prima di Hitler”.
Quindi secondo Rusconi questo testo non va letto “in maniera deterministica”. La “radicalizzazione sterminatoria”, aggiunge, è un processo “che avviene lentamente in una cultura che ha trovato l’espressione di Hitler per realizzarla e che adesso magari trova altre scorciatoie dove incanalarsi.
Se non fossimo in questo clima xenofobo, dell’ostilità verso lo straniero, legato alle ondate migratorie dal Medio Oriente, non ne parleremmo neanche. Semmai cogliamo l’occasione della pubblicazione di un’edizione critica del Mein Kampf come questa per capire, paradossalmente, quali sono le forme con cui oggi si manifesta questo sentimento radicale di appartenenza nazionale e di patria, e cosa abbiamo imparato in questi 70 anni”.
Romanticismo.
Schleiermacher: pensare l’infinito, pensare a Dio
Primo traduttore in lingua tedesca dei dialoghi di Platone, divenne noto fra i suoi contemporanei per alcune opere su fede e scienza che adesso sono proposte in un unico volume
di Francesco Tomatis (Avvenire, mercoledì 16 giugno 2021)
Educato grazie al padre pastore della Chiesa riformata in una comunità pietistica herrnhuteriana, Friedrich Schleiermacher (1768-1834) presto diverrà anch’egli pastore e predicatore, poi professore di filosofia, teologia ed ermeneutica nelle università di Halle prima e infine di Berlino, di cui sarà rettore. Primo traduttore in lingua tedesca dell’intero corpus dei dialoghi di Platone, divenne presto notissimo per due opere emblematiche nella cerchia romantica, di cui egli stesso fece parte: i discorsi Sulla religione e i Monologhi, usciti nel 1799 e nel 1800 rispettivamente. Entrambi vengono riproposti in una nuova edizione italiana, con testo originale tedesco a fronte, assieme ad altri due significativi scritti, Il valore della vita e La festa di Natale, per la collana ’Il Pensiero occidentale’ di Bompiani curata da Davide Bondì: Scritti di filosofia e religione 1792-1806 (pagine 768, euro 35).
All’origine dell’ermeneutica filosofica contemporanea e della più aperta filosofia della religione, il pensiero di Schleiermacher è oggi attualissimo per affrontare i problemi del pluralismo veritativo e religioso, dell’insufficienza del razionalismo metafisico hegeliano e dei suoi epigoni ideologici e totalitari, della violenza professata e praticata dai settarismi pseudoreligiosi, fanatici, idolatrici.
Le riflessioni di Schleiermacher sulla religione (trasmesse con entusiasmo e vivacità in forma di dialogo interiore, quasi un flusso di coscienza devota, o di dialogo interrogativo con i lettori, o infine di vero e proprio dialogo inscenato fra più personaggi, sentimenti, voci, comprese quelle infantili in occasione della festa di Natale) contribuirono in maniera decisiva nella fecondissima svolta fra secolo XVIII e XIX a rimettere al centro dell’umanità il sentire religioso, liberandolo dalle critiche illuministiche e dai formalismi kantiani, dalle riduzioni etiche o metafisiche.
Per Schleiermacher la religione è «intuizione», «sentimento e gusto per l’infinito», colto nell’universo intero: sia nella nostra intimità dell’anima, ma anche in ogni singola cosa finita, compresa nel suo essere ritagliata da un infinito inesauribile. Ogni diversità e individualità non è che finito simbolo dell’infinito, sua vivente incarnazione e sentimentale ricerca e intuizione. È un ’realismo superiore’ quello di Schleiermacher, che non ferma lo sguardo al finito, pur riconoscendone la sua imprescindibilità e validità, bensì lo intuisce sentimentalmente, non intellettualmente, come trasparente l’infinito. Il punto di vista finito, umano, l’orizzonte del singolo uomo interpretante, non può essere del tutto abbandonato, è la base di lancio per uno slancio verso l’infinito, il quale quindi comprende, contempla ed esige molteplici punti di vista, variegate proprie interpretazioni, svariate visioni, anche e soprattutto religiose.
Certo, una soltanto è «l’eterna e infinita religione » dell’umanità, la quale tuttavia si presenta nel finito in diverse forme, nelle tante «religioni positive», auspicabilmente unite e in dialogo verso la comune e suprema unità, l’infinito. Non che ciascuna religione sia solo una limitata parte dell’infinito, lo è tutto, ma nel suo indipendente punto di visione, di sentimento, di intuizione, valido e prezioso parimenti a ogni altro punto di vista di tutte le altre autentiche religioni positive, se consapevoli della propria finitezza, trasparente l’infinito. L’intuizione e il sentimento dell’infinito non è una questione quantitativa, di chi ne abbia di più o di meno, bensì di qualità. Chi pretende di avere più quantità e possesso che non altri di ciò ch’è intuito nella religione, dell’infinito, invero s’illude e con settarismo separa violentemente da esso la propria superstiziosità: base di ogni egoismo, uniformazione, violenza, idolatria.
Per Schleiermacher, invece, «già ora» è possibile attingere l’infinito accessibile attraverso l’immediatezza del sentimento religioso, fonte di amore fraterno e familiare, comunitario ed ecclesiale proprio a un’epoca da venire, libera e felice: attraverso un attingere nel profondo di se stessi la comune umanità, in raccoglimento interiore, ridiventando bambini, la cui innocente fiducia e vitalità gli Evangelisti narrarono dando rilievo all’infanzia di Gesù, la cui verità e via il Cristo stesso esaltò al di sopra di ogni altra terrena virtù come divina, celestiale.
STORIA
Italia, avanguardia della carità
di Francesco Agnoli (Avvenire, 28 marzo 2013)
La grande peste del 1347, con la moria, il terrore, la devastazione che portò con sé, contribuì a segnare il superamento dell’ospedale medievale, in cui spesso i confini tra assistenza e cura, povertà e malattia erano sfumati ed incerti; in cui gli “infirmari”, più che infermieri nel senso moderno del termine, erano persone votate interamente alla carità, senza però particolari conoscenze specialistiche; in cui la figura del medico era spesso marginale; in cui non era chiara la distinzione dei malati per sesso e patologia.
Si passò così, a partire dal XV secolo, dall’ospedale della carità all’ospedale della cura: si accentuò l’intervento degli Stati, delle autorità comunali e del laicato, soprattutto nell’amministrazione (fermo restando la presenza negli istituti di religiosi, di confraternite e delle collaborazione ecclesiastica); si profuse maggior attenzione nella cura, nel perseguimento della guarigione, piuttosto che nella generica assistenza; si attuò la separazione tra malati guaribili e inguaribili, tra acuti e cronici (quest’ultimi sistemati in ospedali e ricoveri minori); si attuò una sempre maggior distinzione per sesso e patologia, insieme ad una maggior specializzazione e a una maggior importanza dei medici, molto più presenti in corsia. Se «il luogo della lebbra, il lebbrosario, era più simile al vecchio ospizio», al contrario, scrive Cosmacini, «il luogo della peste, il lazzaretto, era più simile all’ospedale moderno, che di fatto, in certo qual senso, anticipava».
La peste fu dunque «un agente non solo destrutturante a più livelli, ma anche mutante in positivo. Era una spada di Damocle incombente che induceva gli Stati, quelli italiani prima degli altri in Europa, a darsi uomini e strutture capaci di farvi fronte». L’Italia si mostrò all’avanguardia: come era sempre stato, essendo il paese di Cassiodoro, dei benedettini, della schola medica di Salerno, dell’Ospedale del Santo Spirito, delle prime università, e poi della chirurgia nel XIII secolo, dell’anatomia, della fisiologia... Bologna, Padova, Roma, furono per secoli, nel campo della medicina, punti di riferimento per l’Europa intera.
Un dato, questo, che andrebbe valutato, prima di proporre strane considerazioni su una presunta e congenita “arretratezza del Bel Paese”, dovuta alla presenza della Chiesa cattolica, tanto declamata da Machiavelli e dai suoi seguaci odierni.
Come prototipo del nuovo tipo di complesso ospedaliero che si diffonderà d’ora in poi può valere l’Ospedale Maggiore di Milano, riservato ai malati con possibilità di guarigione, a cui ne seguirono, in Italia, molti altri, e alla cui realizzazione contribuirono l’azione dello Stato e della Chiesa.
L’Ospedale Maggiore di Milano, noto anche come Ospedale dell’Annunziata o come Ca’ Granda, fu fondato ufficialmente nel 1456 da Francesco Sforza, che volle così adempiere ad un voto alla Madonna Annunziata e nel contempo portare a compimento l’opera di aggregazione di tutti gli ospedali esistenti nel territorio milanese, iniziata già nel 1447 dall’arcivescovo della città, Enrico Rampini, allora noto come il “Padre dei poveri”, col beneplacito del Papa. Il nuovo ospedale, quindi, assorbì compiti e patrimoni delle numerose istituzioni che, annesse a monasteri o gestite da ordini religiosi e confraternite, esistevano a Milano e nel suo territorio almeno dal IX secolo. Naphy e Spicer notano che «nell’anno 1500 l’Europa disponeva di una metodologia consolidata per prevenire e controllare le epidemie di peste, affermatasi attraverso i sistemi sviluppati delle città-Stato dell’Italia settentrionale».
Così, «alla fine del periodo preso in esame (circa il 1700) si era soliti affermare, in Europa, che l’Italia era il luogo più rigoroso del mondo, in quanto a salute pubblica, mentre l’Inghilterra era considerato uno degli Stati più arretrati in materia».
Del resto, persino Martin Lutero, mai molto tenero con l’Italia cattolica e papalina, dopo il suo viaggio a Roma e a Firenze nel 1511 aveva affermato nei suoi Discorsi conviviali, riguardo agli ospedali in Italia: «Sono costruiti con edifici regali, ottimi cibi e bevande sono alla portata di tutti, i servitori sono diligentissimi, i medici dottissimi, i letti e i vestiti sono pulitissimi, e i letti dipinti. Appena viene portato un malato lo si spoglia di tutte le vesti [...] gli si mette un camiciotto bianco, lo si mette in un bel letto dipinto, lenzuola di seta pura. Subito dopo vengono condotti due medici [...]. Accorrono qui delle spose onestissime, tutte velate; servono i poveri e poi tornano a casa [...]. L’ho visto a Firenze con quanta cura sono tenuti gli ospedali. Così anche le case dei fanciulli esposti, dove i fanciulli sono alloggiati, nutriti ed istruiti in modo eccellente; li abbigliano tutti con un medesimo vestito dello stesso colore e sono curati molto paternamente».
Quanto all’Europa del nord, e all’Inghilterra in particolare, uno dei motivi della sua arretratezza rispetto all’Italia, può essere rintracciato in un certo fatalismo calvinista di cui si è già detto (che potrebbe essere una delle cause remote della situazione sanitaria che troviamo anche oggi negli Usa); ma forse occorre soprattutto riferirsi ad un fatto storico ben preciso: la lotta dei sovrani inglesi, anglicani e scismatici, contro la Chiesa cattolica e di conseguenza contro le sue opere di misericordia.
Infatti, mentre alla fine del Trecento nell’Inghilterra ancora cattolica «si contavano quasi 500 ospedali», «la soppressione di monasteri e possedimenti ecclesiastici durante il periodo riformistico di Enrico e di Edoardo (1536-53) portò praticamente alla scomparsa di tutte queste istituzioni via via che la corona si impadroniva delle loro tenute e dei loro beni».
Così, ad eccezione di Londra, fino al 1700 non vi furono quasi ospedali per i malati. Invece «nei paesi cattolici e nella Germania protestante non si assistette all’esproprio di beni del periodo enriciano, e nella Spagna, Francia e Italia del Rinascimento gli ospedali continuarono a crescere per numero, dimensione, ricchezza e potere.
A Parigi l’Hotel-Dieu era una vasta istituzione sanitaria gestita, sino alla rivoluzione francese, da ordini religiosi». Quanto all’Inghilterra, nel Settecento, per colmare un “vuoto enorme”, «vennero fondati nuovi ospedali per i poveri bisognosi e meritevoli. Corona e Parlamento non rivestirono alcun ruolo: la spinta organizzativa e i fondi provenivano in genere da iniziative caritatevoli di persone benestanti» (R. Porter). Inutile dire che se l’Italia era all’avanguardia in Europa, quest’ultima lo era rispetto al resto del mondo, dal momento che proprio l’istituzione ospedaliera fu il principale motore della crescita della medicina: «In Asia, all’opposto, gli esperti di medicina, che non svolgevano la propria attività nell’ambito degli ospedali, affrontarono l’esperienza delle nuove malattie sviluppatesi in quegli stessi secoli richiamandosi rigorosamente alle antiche autorità» (McNeil).
di Christian Terras*
in “Le Monde” del 15 febbraio 2013 (traduzione: www.finesettimana.org)
Che il papa dia le dimissioni a causa dell’età, è già un fatto eccezionale! Ma che aggiunga a questa motivazione quella di un mondo che avanza troppo rapidamente per lui è una cosa da sottolineare. A questo punto, come interpreterà il suo atto, il suo successore? Per governare la barca di Pietro in un mondo ricco di cambiamenti, occorre un pontefice che li accolga o che li rifiuti? Alcuni riterranno che a questa alternativa manca la prospettiva di un’accoglienza critica della postmodernità. Perché, di fatto, le dimissioni di Benedetto XVI illuminano di nuova luce la crisi attraversata dalla Chiesa.
Dopo il grande discorso d’addio di Gesù, i suoi discepoli sanno di essere nel mondo senza essere del mondo, ma non hanno ancora finito di discernere il modo in cui possono essere testimoni del Vangelo. Ma da quando la religione non struttura più la realtà sociale, siamo messi di fronte ad una situazione inedita nella storia dell’umanità: quest’ultima può vivere come se Dio non esistesse!
Benedetto XVI ha lottato contro questa scomparsa di Dio come fondamento della verità dell’umano. Avrebbe lottato fino all’esaurimento? Stando così le cose, le sue dimissioni non sarebbero il segno di un fallimento di questa battaglia persa in anticipo?
Il prossimo papa potrebbe chiarire in quale modo la mentalità contemporanea ci permette di scoprire un nuovo volto di Dio, in fedeltà con l’itinerario di Cristo. Per il papa attuale, solo la sottomissione a Dio, e quindi alla sua Chiesa che ne interpreta le volontà, permette di scoprirla. Ma non è possibile immaginare diversamente la relazione con la trascendenza?
La Chiesa ci mostra un Dio nascosto nella carne del mondo che le autorità religiose rifiutano di vedere! Dio non è più in competizione con l’umanità. La sua alterità penetra il nostro desiderio, il suo infinito vive nella nostra finitezza. Gesù ci ha insegnato a scoprirlo nei più piccoli, che sono i suoi fratelli.
La questione della verità è quindi intimamente legata a quella della solidarietà. Se Dio si fa solidale, è per insegnarci un altro modo di vivere con gli altri.
L’imitazione di Cristo ci proibisce quindi di assomigliare agli scribi che impongono agli altri i fardelli di una legge falsamente divina. Se il pontefice romano vuole assomigliare a Gesù dovrà, come lui, essere accogliente e dialogante, soprattutto con coloro che sono rifiutati. Non si tratta di carità compassionevole, ma di una lotta con coloro che rifiutano le strutture economiche e politiche inique.
Ma che la verità si trova in un dialogo solidale implica anche un nuovo modo di governare. I vescovi, tra cui quello di Roma, non possono più pretendere di sapere per e al posto degli altri. Sono al contrario invitati a cercare un Dio sempre più grande che sfugge ai nostri ragionamenti.
La Chiesa istituzionale adotta ancora nella maggior parte dei casi il comportamento dei farisei, nel meglio e nel peggio. Come loro, corre il rischio allontanarsi da coloro che credono, pensano e vivono diversamente da come prevedono le sue definizioni.
Certo, la Chiesa ha fatto, dal Vaticano II, degli sforzi di dialogo, ma a livello pastorale. La teologia non ne è stato toccata. Il catechismo resta lo stesso e le voci discordanti all’interno della Chiesa faticano a farsi sentire. E il cardinale Ratzinger è stato l’artigiano di una “stretta” sui teologi, privando la chiesa di una ricerca indispensabile, in particolare in dialogo con le scienze umane.
Questo modo di governare è diventato insopportabile per i nostri contemporanei per i quali l’autonomia è ineliminabile. È anche in contraddizione con la testimonianza del Nuovo Testamento.
Dall’accoglienza della Samaritana o dell’adultera a quella del buon ladrone sulla croce, Gesù ha spezzato i confini delle leggi disumane. Ogni incontro è stato l’occasione per dire un Dio che libera. Ha aiutato i suoi discepoli a trasgredire delle tradizioni percepite come divine mentre erano solo umane.
La Chiesa è ancora invitata a proseguire questo lavoro di decostruzione. Del resto Luca negli Atti non nasconde i conflitti che portarono la Chiesa ed abbandonare certe prescrizioni, inventando nuovi ministeri e precisando le esigenze della fede. Questi racconti devono ispirare l’agire pontificio.
In materia di morale familiare, ad esempio, è indispensabile un vero dialogo all’interno della Chiesa con le coppie divorziate risposate o le persone omosessuali, nonché il tener conto delle problematiche del genere. Le donne non potranno più essere ancora a lungo messe da parte e impiegate in compiti subalterni.
È anche urgente che il ministero petrino sia messo in tensione con la figura di Paolo: Pietro non ebbe ragione senza l’apostolo dei gentili. Tra i vescovi deve circolare una parola libera su tutti i problemi cruciali del nostro mondo. Non sono semplici cinghie di trasmissione della curia romana.
Inoltre, è altrettanto urgente uno scambio franco e onesto con le Chiese sorelle, soprattutto con i protestanti. È una condizione perché il vangelo si radichi in tutte le culture. Il papa non potrà neppure trascurare l’opinione dei fedeli. Ascoltare come rendono conto del loro modo di vivere, permetterà alla Chiesa di sfuggire alla logica caricaturale del bianco e nero, cercando il senso in tutte le zone grige delle nostre esistenze, per parlare come il defunto cardinal Martini.
In questo senso, ciò di cui la Chiesa ha bisogno non è tanto un nuovo concilio di vescovi, quanto una riforma fondamentale sui temi istituzionali e dottrinali. Essa potrà così essere testimone della pertinenza del cristianesimo nella nostra postmodernità e dire Dio diversamente in un nuovo modo di fare Chiesa, in un dialogo aperto con il mondo, per tentare di raccoglierne le sfide.
*redattore capo di “Golias Hebdo” e di “Golias Magazine”
«Dio diventi neutro: basta con il maschile»
Berlino, lite sul sesso di Dio
La ministra: «Sia neutro»
di Paolo Lepri (Corriere, 22.12.2012)
BERLINO - Qual è il «sesso di Dio» spiegato ai bambini? Non si tratta di un dibattito teologico-grammaticale che potrebbe escludere quel 16 per cento della popolazione mondiale che secondo un recente studio del «Pew Forum on Religion and Public Life» si professa non credente.
È qualcosa di più, e riguarda tutti coloro che hanno figli piccoli, perché il problema del «genere» nell’educazione infantile è ormai all’ordine del giorno in molti Paesi europei. Lo dimostra la proposta del governo francese di inserire nel libretto di famiglia la dizione «genitore 1» e «genitore 2» al posto del padre e della madre, e il riaffacciarsi in Svezia del pronome neutro per sostituire il «lui» e il «lei» nell’asilo.
In Germania, è stato il ministro per la Famiglia, Kristina Schröder, cristiano-democratica, nota per le sue battaglie contro il «femminismo storico», a fare discutere tutti. In questo caso, si è iniziato a parlare di religione, ma il vero scontro è sulla figura dell’uomo e della donna nell’immaginario dei bambini.
In un’intervista al settimanale Die Zeit, Kristina Schröder ha detto di trovarsi in imbarazzo con la sua Lotte (un anno e mezzo) parlando di Dio al maschile, come avviene nella lingua tedesca, e ha aggiunto che sarebbe meglio usare l’articolo «das», con cui si precedono i nomi di genere neutro. «Ciascuno - ha detto - dovrebbe decidere per conto proprio». Una riflessione, questa, che è stata accompagnata da critiche al «sessismo» delle fiabe e della letteratura per bambini in cui «raramente si trovano figure positive di donne».
Le parole della Schröder sono state accolte con una raffica di proteste. Christine Haderthauer, ministro per gli Affari sociali della Baviera, le ha definite una «sciocchezza intellettualistica». Un altro esponente cristiano-sociale, il parlamentare Stefan Müller, ha osservato che «Dio appare a noi come il Padre di Cristo e così dovrebbe rimanere». Secondo un eminente teologo cattolico, padre Wilhelm Imkamp, l’idea di rendere neutro il Padreterno è «stupida, insolente e testimonianza di opportunismo».
L’unico a gettare acqua sul fuoco è stato Klaus-Peter Willsch, parlamentare della Cdu nell’Assia (il Land dove Kristina Schröder sarà capolista nelle elezioni del prossimo autunno), suggerendo che «per chi cerca una figura di genere neutro, c’è Gesù Bambino». Alla parola Christkind, infatti, si accompagna «das». «Per chi crede in Dio l’articolo è indifferente», ha risposto il portavoce della cancelliera, Steffen Seibert, durante il consueto briefing del governo.
Secondo un collaboratore di Kristina Schröder, Benedetto XVI «ha scritto che Dio non è né uomo né donna» e quindi «i critici del ministro non dovrebbero essere più "papali" del Papa». E lei, la diretta interessata? Ha ricordato alla Bild che si stava riferendo ad una bambina e non ai tanti adulti «inciampati» sulle sue parole. Ma non è detto che tutto finisca qui.
di Frédéric Mounier
in “La Croix” del 19 novembre 2012 (traduzione: www.finesettimana.org)
Con parole scelte Benedetto XVI ha espresso sabato il suo sostegno alla strategia messa in atto dall’episcopato francese per opporsi al “matrimonio per tutti”. Esprimendosi davanti a 39 vescovi venuti dalla Francia settentrionale ed orientale in visita ad limina in Vaticano, Benedetto XVI ha ricordato che “nei dibattiti importanti di società, la voce della Chiesa deve farsi sentire senza posa e con determinazione nel rispetto della tradizione francese in materia di distinzione tra le sfere di competenza dello Stato e quelle della Chiesa”.
Sottolineando che quest’ultima non può essere “ridicolizzata o emarginata nella sola sfera privata” il papa ha esortato i fedeli “impegnati nella vita pubblica” a “manifestare le loro convinzioni cristiane, senza arroganza ma con rispetto” e in particolare ad “essere attenti ai progetti di leggi civili che possono arrecare pregiudizio alla protezione del matrimonio tra uomo e donna,al la salvaguardia della vita dal concepimento fino alla morte, e al giusto orientamento della bioetica in fedeltà ai documenti del magistero”.
Alcuni minuti prima, Benedetto XVI aveva attentamente ascoltato il cardinale André Vingt-Trois, arcivescovo di Parigi e presidente della Conferenza episcopale francese, che aveva spiegato i principi della strategia confermata durante l’ultima Assemblea generale a Lourdes: “Nei dibattiti di società a cui ci troviamo confrontati, cerchiamo di suscitare e di unirci agli interrogativi degli uomini di buona volontà. Radicati nella tradizione ebraico-cristiana, ci sforziamo di formulare, alla luce della fede, gli imperativi della morale universale di modo che coloro che cercano il bene possano aderirvi, ancorché non cristiani.”
Questo atteggiamento di reciproca comprensione tra Roma e la Francia era già stato notato giovedì, quando i vescovi si sono recati, nel quadro della loro visita ad limina, al Pontificio Consiglio per la famiglia. Erano stati allora calorosamente accolti da Mons. Vincenzo Paglia, nuovo presidente di questo consiglio dal giugno 2012, che ha “espresso apprezzamento per il coraggio della preghiera del 15 agosto”, “un modo esemplare di porre interrogativi alla società”, secondo lui, più feconda delle “manifestazioni di forza inefficaci”.
Il giorno dopo, alla Congregazione per la dottrina della fede, guardiana del dogma, non si è parlato del “matrimonio per tutti”. E non lo si era fatto neanche in occasione dell’incontro, sabato 20 ottobre, tra il ministro dell’interno francese per i culti, Manuel Valls, e il “ministro degli esteri” di Benedetto XVI, Mons. Dominique Mamberti. Questa relativa discrezione è un modo di rispettare l’autonomia dell’episcopato francese, dato che Roma si limita a ripetere, quando è pubblicamente necessario, la posizione classica della Chiesa sul matrimonio.
La memoria ritrovata
A Berlino un monumento per l’Olocausto di Rom e Sinti
Dopo vent’anni di polemiche e tensioni la Germania celebra lo sterminio negato e chiede ufficialmente scusa al popolo zingaro
di Gherardo Ugolini (l’Unità, 28.10.2012)
BERLINO A CIASCUNO IL SUO MEMORIALE. IN QUEL SUGGESTIVO “PAESAGGIO DELLA MEMORIA” CHE CARATTERIZZA IL CENTRO STORICO DELL’ODIERNA BERLINO, precisamente nell’area nevralgica dove si levano la sede del Reichstag e la Porta di Brandeburgo, gli altari del ricordo collettivo si susseguono uno dopo l’altro. C’è quello dell’Armata Rossa con i carri armati sovietici che per primi violarono la capitale del Reich nella primavera del 1945. Ci sono qua e là frammenti del Muro che per tre decenni è stato l’emblema indiscusso della guerra fredda. C’è l’immenso cimitero di steli grigie, disposto da Peter Eiseman per onorare il ricordo dei milioni di ebrei vittime della Shoah. Più nascosto tra i cespugli e gli alberi del Tiergarten, il grande parco cittadino un tempo riserva di caccia della casa reale, si trova il monumento in onore degli omosessuali perseguitati dal nazismo.
Dallo scorso mercoledì la mappa berlinese del ricordo storico si è arricchita ulteriormente. Ci sono voluti oltre vent’anni di discussioni, polemiche a tratti roventi, promesse non mantenute e rinvii inspiegabili, ma finalmente anche gli zingari hanno in Germania un loro monumento che ricorda le deportazioni e i massacri patiti durante gli anni del Terzo Reich.
«Lo dobbiamo ai morti e lo dobbiamo ai vivi» ha dichiarato la cancelliera Angela Merkel nel discorso ufficiale durante l’inaugurazione. Una volta tanto i discorsi non sono stati né rituali né vacuamente retorici. «Lo sterminio di quel popolo ha lasciato tracce profonde e ferite ancora più profonde» ha affermato la cancelliera invitando a considerare il nuovo memoriale come un monito contro ogni forma di discriminazione etnica e razziale.
E rivolgendosi ai rappresentanti delle comunità di sinti e rom presenti all’inaugurazione, Merkel non ha nascosto i pregiudizi e i problemi di convivenza che tuttora si riscontrano nella società tedesca, evidenziando come sia «compito tedesco ed europeo sostenervi nell’esercizio dei vostri diritti». Un discorso tutto sommato coraggioso, anche se qualcuno ha fatto osservare come sia stato proprio il governo di Frau Merkel non più tardi di due anni orsono ad espellere - nonostante le blande proteste del Consiglio d’Europa e nella più assoluta indifferenza dell’opinione pubblica - oltre diecimila rom kosovari, rifugiatisi alla fine degli anni Novanta nel territorio della Bundesrepublik.
Quello dei rom e dei sinti è stato un destino davvero disgraziato. La loro persecuzione da parte dei nazisti iniziò fin da subito e fu portata avanti con una sistematicità e una violenza del tutto analoghe a quelle impiegate contro gli ebrei. Considerati una «razza inferiore», degenerazione di quella ariana, geneticamente predisposta al nomadismo, all’asocialità e alla delinquenza, gli zingari furono deportati in massa nei campi di concentramento badando anche a tenerli isolati dagli altri prigionieri: per questo ad Auschwitz fu istituito un apposito Zigeunerlager, ovvero un «campo per gli zingari».
Per risolvere la «questione zingara» il nazismo dapprima approvò una serie di leggi e provvedimenti fortemente persecutori, quindi avviò la pratica della sterilizzazione coatta (una sorta di sterminio dilazionato nel tempo), per passare, infine, nel 1942 alla «soluzione finale», ovvero il trasferimento obbligatorio di tutti gli zingari ad Auschwitz in vista del definitivo annientamento. Ne morirono almeno 500mila, ma gli storici calcolano che probabilmente furono molti di più: data la loro natura nomade è difficile stabilire con precisione quanti zingari risiedessero nel territorio della Germania e delle zone occupate dai nazisti.
Anche dopo la fine della guerra i patimenti non sono cessati. Per decenni nel Dopoguerra il loro sterminio è stato negato o minimizzato. Nei processi contro i criminali nazisti - a partire da quello di Norimberga - mai nessuno decise di sentire testimonianze di rom e sinti. E nonostante la Convenzione di Bonn - imposta dagli Alleati alla Germania nel 1945 - prescrivesse il pagamento di indennizzi a quanti erano stati perseguitati per motivi razziali, nel caso dei rom e dei sinti tutte le istanze di risarcimento furono eluse dalla magistratura tedesca.
La ferita del «genocidio negato» ha bruciato toppo a lungo, come ha denunciato pochi giorni fa Romani Rose, presidente del Consiglio centrale dei popoli sinti e rom in Germania. Si dovette attendere fino al 1982 perché un’autorità politica tedesca, il cancelliere socialdemocratico Helmut Schmidt riconoscesse le loro ragioni e chiedesse ufficialmente scusa a nome del popolo tedesco. E quindici anni dopo fu il presidente federale Roman Herzog a sottolineare l’analogia tra ebrei e nomadi per quanto riguarda le pratiche di sterminio del Terzo Reich.
Il memoriale che ricorda la loro tragedia sorge ora nel cuore di Berlino e mette una pezza su una parabola fatta di tormenti e dimenticanze. Le comunità degli zingari residenti in Germania lo hanno fortemente voluto come segnale di pacificazione, ma sono stati necessari due decenni perché si superassero incomprensioni e impedimenti e il progetto diventasse realtà.
L’artista israeliano Dani Karavan lo ha realizzato dandogli la forma di una vasca circolare dal fondale nero, con un triangolo vuoto nel centro da cui ogni giorno emerge una stele con un fiore sulla sommità. A chi lo guarda trasmette la sensazione di sprofondamento nell’abisso, quella sensazione che si provava all’ingresso dei lager, come rievocato dai versi del poeta italiano di etnia Rom Santino Spinelli incisi sul bordo della vasca.
Quale Europa per sentirsi a casa
di David Bidussa (Il Sole - 24 Ore, 14.10.2012)
La crisi attuale dell’Europa si riassume nella sfiducia verso un progetto costruito venti anni fa intorno a una moneta. Cresce l’area degli euroscettici e si diffonde l’opinione che l’Europa sia un danno, piuttosto che un’opportunità.
Jorge Semprun (Madrid 1923 - Parigi 2011) una figura intellettuale e politica che ha attraversato tutte le esperienze significative del Novecento (la guerra civile di Spagna, la resistenza in Francia, l’internamento a Buchenwald, la militanza comunista e poi l’espulsione nel 1964, l’impegno culturale per una nuova Europa a partire dagli anni 70) tra il 1986 e il primo decennio di questo nuovo secolo in molte conferenze pubbliche e ora raccolte in volume, ha insistito sui fattori culturali e politici, prima ancora che economici, che potevano consentire la nascita di una nuova Europa.
Il corpo di quelle conferenze vale la pena leggerlo. Tre i punti qualificanti della sua riflessione. Il primo ha come ispiratore il filosofo tedesco Edmund Husserl. Semprun ricorda in molte occasioni i temi di una conferenza che Husserl tiene a Vienna nel maggio 1935 dal titolo La crisi dell’umanità europea e la filosofia. In quel testo Husserl metteva in guardia la cultura europea più aperta dal pericolo della stanchezza, di una visione naturalistica della politica. Superare la visione naturalistica, per Semprun, significa avere una dimensione universale, dimensione che l’Europa ha perduto nel corso del Novecento.
Quello spirito, ricorda Semprun, nell’epoca in cui in Europa sono imperversati i totalitarismi, ha avuto vita lontano dall’Europa: negli Stati Uniti oppure nelle colonie europee che hanno assimilato lo spirito dell’Europa e che vivono in quegli anni un risveglio di libertà. In breve: il futuro del l’Europa a lungo è stato «fuori dall’Europa». Realizzare l’Europa della Ue implica riportarlo «a casa».
Il secondo motivo riguarda la storia dei totalitarismi in Europa: sia quello fascista e nazista, sia quello comunista. È un’omologia che Semprun legge soprattutto nelle pratiche concrete che si strutturano nel corso del corso degli anni 30: l’eliminazione delle proprie ali interne di sinistra; i grandi processi epurativi interni; l’antisemitismo; la lotta alla libera espressione artistica e letteraria.
Sostiene Semprun nel 1986 in un discorso pubblico a Weimar - negli stessi mesi del confronto tra Habermas e Nolte a proposito del nazismo e del «passato che non passa» - che sia la costruzione dello stalinismo tra gli anni 20 e gli anni 30 fino alle grandi purghe del 1937-1938 sia il consolidamento del potere del nazismo in Germania tra 1933 e 1938 fino alla "Notte dei Cristalli" (9 novembre 1938) si strutturano sulle stesse dinamiche, scatenano gli stessi odi, hanno come fine l’eliminazione degli stessi tipi di avversari, si attuano attraverso l’assunzione dello stesso gergo culturale. Un processo che sfocia nel patto Hitler-Stalin del 1939-1941 che non rappresenta né una scelta tattica né un voltafaccia, ma un incontro tra simili, che hanno più punti in comune che non divergenze.
È una dinamica che Semprun legge anche nelle forme di persecuzione attuate dopo il 1945 nei "socialismi reali". È un passaggio in cui Semprun mette consapevolmente in gioco e in discussione anche la sua autobiografia facendo in pubblico un’analisi del proprio processo di revisione e di distacco.
La sua espulsione dal movimento comunista a metà degli anni 60, infatti, non nasce da una divergenza tattica, bensì da una culturale. Una insensibilità che Semprun rimprovera a gran parte delle sinistre europee del "dopo Muro": sia alle socialdemocrazie europee (pagg. 175-183), sia alle altre aree della sinistra che a lungo avevano avuto un rapporto «ambiguo», più che doppio, con il mondo sovietico (il riferimento è al Pci e a tutto ciò che a quel partito è seguito dopo il 1989) convinte che fosse arrivato il loro momento. La realtà politica dell’Europa è stata diversa.
Infatti, la realtà attuale dell’Europa politica, la forza magnetica, con il supporto della spiegazione complottista e vittimista della storia e della politica, che riprendono ad avere i movimenti neoetnicisti, e neonazionalismi, negli anni 90 del Novecento nonché il loro radicamento in questo inizio secolo, fanno dire a Semprun che la retorica che è stata la forza di quei totalitarismi nei momenti della loro massima espansione e della loro diffusione di massa, è tornata a battere alle porte dell’Europa e che soprattutto, nessuno ha la proposta per contrastarli efficacemente.
Il terzo motivo riguarda a chi riconoscere il ruolo di rappresentare un progetto culturale di tipo universalistico.
Semprun è stato un intellettuale cosmopolita. A lungo ha scritto e pensato "spagnolo", poi a partire dagli anni 70 ha pensato e scritto prevalentemente in francese. In una dimensione in cui si è "a casa" in molti posti ma non si ha una sola casa, Semprun pensa che sia la Germania il perno del possibile progetto europeo.
Lo dice in molte occasioni, soprattutto lo dice al Parlamento federale tedesco il 27 gennaio 2003, lo dice a Francoforte nel 1994, lo ripete e forse è l’occasione simbolicamente più significativa al Teatro Nazionale di Weimar il 9 aprile 1995 nel cinquantenario della liberazione del campo Buchenwald - il suo campo di concentramento - da parte delle truppe anglo-americane.
In quei discorsi pubblici, Semprun sottolinea come nel secondo dopoguerra solo la Germania di Bonn abbia avuto la forza e la volontà di affrontare criticamente il proprio passato e come solo il crollo del Muro abbia aperto un processo di analisi collettiva coinvolgendo anche l’altra Germania.
La Germania riunificata diviene così quel soggetto capace di pensare l’Europa non in virtù della sua forza economica, bensì per la consistenza della sua riflessione pubblica e ciò è possibile perché la scelta per l’Europa da parte sua significa sfidare la sua stessa storia: superare quei due totalitarismi che ha sperimentato dentro di sé.
La riunificazione tedesca così per Semprun non è una costruzione nazionalistica, bensì la definizione di un’autocoscienza dell’Europa che altri non possono candidarsi a rappresentare o che comunque si sono rifiutati di rappresentare perché non hanno fatto in conti radicalmente con la propria storia.
È forse il più "spudorato" riconoscimento di missione della Germania che sia stato dichiarato da un "non tedesco" e anche il più significativo, perché espresso da uno che è stato anche vittima del totalitarismo tedesco. Ma è anche l’opportunità per pensare una ipotesi europea che finora in molti hanno messo da parte. E che la crisi invita a considerare, oltre la dimensione economica, in funzione di una fondazione politica, questa volta. Ammesso che la si voglia per davvero.
* Jorge Semprun, Une tombe au creux des nuages. Essais sur l’Europe d’hier et d’aujourd’hui, Climats, pagg. 330, € 19,00
Germania/ Altolà della Chiesa cattolica: niente sacramenti senza l’8x1000
"Affari italiani",, Venerdì, 21 settembre 2012 *
Chi non versa l’8 per mille alla Chiesa non è più cattolico e non puo’ avere accesso ai sacramenti, compreso il funerale religioso: è la dura presa di posizione assunta dalla Conferenza episcopale della Germania con l’avallo del Vaticano in risposta alla fuga dei cattolici tedeschi dal pagamento del contributo. A partire da lunedì prossimo chiunque dichiarerà la sua uscita dalla comunita’ ecclesiastica di appartenenza, risparmiandosi così il pagamento dell’8 per mille, si porrà al di fuori della Chiesa cattolica. Nel documento reso noto a Berlino si sottolinea che l’uscita formale dalla Chiesa costituisce "una grave mancanza nei riguardi della comunità ecclesiale". "Chi per qualunque motivo dichiara davanti all’autorità civile la propria uscita dalla Chiesa", e’ scritto nel documento, "viene meno all’obbligo di appartenenza alla comunità ecclesiastica e a quello di consentire alla Chiesa con il suo contributo finanziario di assolvere alle proprie mansioni".
Chi non paga l’8 per mille non verrà più considerato cattolico e non potrà dunque più avere accesso ai sacramenti, come la confessione, l’eucarestia, ne’ potra’ piu’ essere padrino di battesimo. In caso di morte, poi, gli verra’ negato il funerale religioso, anche se non verra’ automaticamente scomunicato. Con questa misura la Chiesa cattolica cerca di arginare il crescente rifiuto di contribuire al suo sostentamento, ai quali basta una semplice dichiarazione alla cancelleria di un tribunale per essere esentati dal pagamento.
Negli ultimi tempi il fenomeno ha assunto grazie alla crisi una dimensione sempre piu’ considerevole, anche per i credenti di fede evangelica, che per risparmiare decidono di uscire dalla Chiesa di appartenenza. Finora le conseguenze sul piano ecclesiastico erano praticamente nulle, mentre adesso chi esce si vedra’ rifiutare ogni tipo di sacramento. Dal 1990 in poi oltre 100mila tedeschi all’anno hanno voltato le spalle alla Chiesa cattolica, mentre nel 2011 e’ stato toccato il record di 126.488 autoesclusioni. Per tentare di arginare il fenomeno la Chiesa cattolica intende agire in futuro anche in maniera attiva, inviando a chiunque ha dichiarato al tribunale la propria uscita una lettera di invito a parlarne con il proprio parroco. Nel colloquio si cerchera’ di convincere l’eventuale pecorella smarrita a ripensarci e a tornare all’ovile.
* http://affaritaliani.libero.it/cronache/germania-chiesa-cattolica-sacramenti210912.html?refresh_ce
DIO E’ VALORE! Sul Vaticano, in Piazza san Pietro, sventola il "Logo" del Grande Mercante: "Deus caritas est" (Benedetto XVI, 2006)!!! Il papa teologo, ha gettato via la "pietra" su cui posava l’intera Costruzione ...
SE DIO SI E’ FATTO PAROLA, IO NON POSSO GIOCARE CON LE PAROLE ... IL CATECHISTA NON USA MAI PAROLE EQUIVOCHE: PARLARE DI CARITÀ SIGNIFICA PARLARE DI GRAZIA
Calabria. A Paola sulle orme di san Francesco. "Il suo motto CHA: charitas".
SAN FRANCESCO DA PAOLA : INIZIANO LE CELEBRAZIONI DEL PATRONO DELLA CALABRIA.
Il dipinto è particolare, perchè la figura del Santo, rappresentato come un vecchio in abiti francescani, è contornato da dieci scene che raffigurano altrettanti fatti prodigiosi a lui attribuiti. Nella mano tiene un bastone al quale si appoggia pesantemente, sormontato da quello che diverrà il suo motto CHA: charitas. Secondo la tradizione, un angelo, forse l’arcangelo Michele, gli apparve mentre pregava, tenendo fra le mani uno scudo luminoso su cui si leggeva la parola Charitas e porgendoglielo disse: “Questo sarà lo stemma del tuo Ordine” (...).
I preti austriaci rifiutano di revocare il loro appello alla disobbedienza
di Christa Pongratz-Lippitt e Sarah Mac Donald
in “The Tablet” dell’ 8 ottobre 2011 (traduzione di Maria Teresa Pontara Pederiva)
I membri dell’Iniziativa dei preti austriaci, guidati dall’ex vicario generale di Vienna, mons. Helmut Schüller, hanno dichiarano che non intendono revocare il loro "Appello alla disobbedienza" pubblicato il 19 giugno scorso. Nella loro ultima newsletter 407 preti e diaconi scrivono: "Ci è stato chiesto di revocare il nostro “Appello alla disobbedienza”, ma in coscienza non possiamo farlo, finché si continua a lasciare in stand-by il suo contenuto".
I preti chiedono una riforma o almeno l’apertura di un dialogo su temi come l’obbligo del celibato sacerdotale, il ruolo delle donne, la comunione ai divorziati risposati. E chiedono anche il rafforzamento del ruolo dei laici nella Chiesa.
"Disobbedire ad alcune regole e norme restrittive in vigore nella Chiesa fa parte ormai da anni della nostra vita e della nostra missione di preti. Se fossimo qui a professare pubblicamente che lo facciamo senza riflettere ciò potrebbe solo aggravare ulteriormente il dissenso interno alla Chiesa e minare il lavoro pastorale", hanno detto nella loro lettera. Essi si dichiarano pienamente consapevoli che la "disobbedienza" potrebbe essere un termine capace di infiammare gli animi, ma sottolineano: "Noi non intendiamo una disobbedienza generalizzata per amor di contrapposizione, bensì un’obbedienza progressiva che in primo luogo dobbiamo a Dio, poi nei confronti della nostra coscienza e in ultima istanza alle leggi della Chiesa”.
Parlando di questa settimana a Dublino, dove si è recato per partecipare alla riunione dell’Associazione dei preti cattolici irlandesi (ACP), mons. Schüller ha detto al nostro giornale che quando divenne vicario generale a Vienna nel 1995 - incarico che ha ricoperto fino al 1999, lavorando alle dipendenze dell’arcivescovo Christoph Schönborn - aveva sperato in un cambiamento nella Chiesa, in linea con quanto affermato dal Concilio Vaticano II. "Ma ora abbiamo il fondato sospetto che il Vaticano voglia che la Chiesa torni indietro", ha detto. Considerare la Chiesa come una sorta di "fortezza contro il mondo e in particolare contro il mondo laico" non è questo il modo con cui il Concilio Vaticano II ha lavorato.
Una questione fondamentale oggi riguarda il ruolo dei battezzati laici - che "non sono solo da considerare alla stregua dei consumatori all’interno di un qualche negozio ... bensì anch’essi pietre nella costruzione della Chiesa". Essi dovrebbero crescere in termini di influenza e partecipazione alle decisioni della Chiesa - ha detto - "a motivo della loro grande esperienza di vita". Ha dichiarato che la Chiesa “ha timore dei laici, perché li considera come infettati da secolarizzazione e relativismo”. L’Iniziativa riguardo al tema del sacerdozio si basa sul fatto che esiste un diritto al matrimonio riconosciuto dalle Nazioni Unite, e così pure la parità di diritti per le donne riconosciuta dal mondo laico, ma non da parte della Chiesa.
Nella loro newsletter i preti hanno detto che era stato consigliato loro di discutere alcuni dei temi riguardanti le riforme meno impegnative con il cardinale Schönborn, ma che essi erano interessati a evitare che "solo alcuni del clero di rango superiore" discutessero delle riforme che riguardano tutti i fedeli insieme "al clero di rango inferiore".
Il principale rappresentante della Pfarrer-Initiative, Helmut Schüller,
alla
prima riunione del “Movimento dei parroci irlandesi”
di “Ja-Kirchenzeitung” e Helmut Schüller
in “www.ja-kirchenzeitung.at” del (traduzione: www.finesettimana.org)
L’associazione irlandese “Association of Catholoic Priests” (ACP) fondata in primavera si è riunita per la prima volta a Dublino il 4 e 5 ottobre per la sua riunione generale costituente. Era presente Helmut Schüller, principale rappresentante della “Pfarrer-Initiative” austriaca, con la quale l’ACP desidera collaborare in futuro. L’ “Appello alla disobbedienza” dei preti austriaci è stato accolto con favore.
La riunione, a cui hanno preso parte 350 persone, ha espresso una severa critica nei confronti della gerarchia e ha richiesto decise riforme nella Chiesa, riferisce il quotidiano “The Journal”: una verifica della dottrina della Chiesa sulla sessualità, un nuovo modo di scegliere i vescovi, l’ordinazione di uomini sposati e di donne. Uno dei principale relatori, Kevin Hegarty, ha detto che la Chiesa irlandese è divisa in due: “Da un lato la Chiesa che costruisce comunità, che mi dà piena soddisfazione, e dall’altro la Chiesa istituzionalizzata, a cui mi sento estraneo.” Ha anche affermato che la Chiesa negli ultimi 30 anni ha impedito le riforme e si è ritirata in un ghetto per difendere strutture superate.
Se ci fossero elezioni democratiche, la Chiesa cattolica vivrebbe oggi in Irlanda la stessa debacle del “Fianna Fail”, il partito che per decenni ha guidato il paese, che nelle ultime elezioni alcuni mesi fa è praticamente caduto nell’irrilevanza.
ACP conta già 535 membri e secondo Sean McDonagh nei prossimi giorni si presume che ci saranno 100 nuovi associati.
Helmut Schüller ci ha inviato la seguente relazione sulle sue impressioni dell’incontro di Dublino (i titoli dei paragrafi sono della redazione): C’è fermento tra i preti cattolici irlandesi. Non si può spiegare altrimenti il fatto che la “Association of Catholic Priests” (ACP) fondata in primavera abbia già 535 membri. E questo con finalità ben chiare, come la piena realizzazione della visione e dell’insegnamento del Concilio Vaticano II, con particolare accentuazione del primato della coscienza individuale, della posizione e della partecipazione attiva di tutti i battezzati, di una Chiesa nella quale tutti i battezzati siano trattati allo stesso modo.
Ovvero: il rinnovamento delle cariche nella Chiesa con la finalità di includere i doni, la saggezza e l’esperienza di tutta la comunità dei credenti, uomini e donne. Ovvero: il cambiamento del sistema direttivo della Chiesa, che deve essere basato sul servizio e non sul potere e deve promuovere una cultura della consultazione e della trasparenza a tutti i livelli della Chiesa, specialmente nella nomina delle guide della Chiesa.
Ovvero: verifica della dottrina cattolica sulla sessualità con il riconoscimento del profondo mistero della sessualità umana e dell’esperienza e saggezza del popolo di Dio. Inoltre: la promozione di pace, giustizia e salvaguardia del creato, a livello locale, nazionale e globale. Il riconoscimento della separazione di Chiesa e Stato. Cerimonie liturgiche in una lingua di facile comprensione, che includa e sia accessibile. Il rafforzamento dei rapporti con i cristiani di altre Chiese e con le persone di altre fedi.
L’ACP vuole porre fine al silenzio dei preti che c’è stato fin’ora, esprimendosi con voce autonoma e anche partecipare attivamente alle discussione fondamentali della società irlandese. Si percepiva chiaramente il grande malumore per la mancante direzione della Chiesa da parte dei vescovi a proposito del notevole invecchiamento e del crescente sovraccarico di impegni dei preti. Anche difronte alla rivelazione e alla discussione pubblica di abusi sessuali nella Chiesa i preti si sentono assolutamente lasciati soli dai vescovi. Forte è stata anche la critica alla lingua del nuovo messale di lingua inglese e della sua imposizione dall’alto.
Il Consiglio direttivo dell’ACP ha ricevuto una chiara approvazione da parte dei membri di formulare i singoli obiettivi in maniera ancora più precisa e concreta, e di rappresentarli. A questo proposito all’ “Appello alla disobbedienza” della Pfarrer-Initiative in Austria è stata riservata particolare attenzione, appello su cui i membri della ACP erano già bene informati. Al termine della mia relazione sulla situazione attuale ho avuto richieste di chiarimenti in innumerevoli conversazioni. Nelle discussioni plenarie è stato più volte proposto di riflettere sulla possibilità dell’ACP di seguire un percorso analogo. Il Consiglio direttivo dell’ACP ha accolto queste proposte e ha espresso il suo grande interesse per un collegamento in rete con la PfarrerInitiative.
“Tutti i pastori sono uomini, tutte le donne sono pecore”
intervista a Uta Ranke-Heinemann, a cura di Elisabeth Lind
in “dersstandard.at” del 22 settembre 2011 (traduzione: www.finesettimana.org)
Papa Benedetto visita la Germania, suo paese natale. Sei anni fa i tedeschi esultavano per il “loro” papa, ora gli viene preparata solo una “tiepida” accoglienza. Perché i tedeschi hanno perso il loro entusiasmo?
Non è solo “tiepida accoglienza”, c’è piuttosto una vivace protesta. Credo che la cosa peggiore che questo papa si sia permesso, è la faccenda dei casi di abuso. Infatti dal 2001 ad oggi non ha ancora ritirato il suo scritto “De Delictis gravioribus” (Sui delitti più gravi).
In quello scritto, a cui lei ha appena fatto riferimento, si parla di una lettera che Ratzinger nelle sue funzioni come prefetto della congregazione per la dottrina della fede (ex inquisizione) ha inviato a tutti i vescovi.
Esattamente. Non una parola per le vittime. A tutti i vescovi si intima, pena la scomunica, di trasmettere tutti i casi di abuso esclusivamente al Vaticano come corte di giustizia apostolica, il che ha come conseguenza la totale impossibilità di attivare procedimenti giudiziari per i tribunali degli Stati, e porta ad un continuo trasferimento dei preti e dei religiosi pedofili, che dopo una “terapia” continuano a perpetrare per decenni i loro crimini. Tale scritto non lo ha finora ritirato. Solo, di tanto in tanto, versa lacrime di coccodrillo, quando incontra in vari paesi vittime di abusi.
Tuttavia, un anno fa, Joseph Ratzinger ha presentato per la prima volta come papa le sue scuse alle vittime e ha promesso che sarebbe stato fatto di tutto per evitare che gli abusi si ripetessero. Lei crede a questo cambiamento?
No, questo papa cambia solo di male in peggio. Gli sono stata fedele per più di cinquant’anni, da quando nel 1953/54 abbiamo studiato insieme per un anno a Monaco e ci siamo aiutati reciprocamente a tradurre in latino le nostre rispettive tesi di dottorato. Lo ritenevo un teologo intelligente e riservato. Solo nel 2005, quando è diventato papa, mi si sono aperti gli occhi.
Allora, crede che la critica attuale dei tedeschi a papa Benedetto XVI dipenda principalmente dal modo in cui il papa si è occupato dei casi di abuso?
Certamente. Ma c’è anche una seconda cosa che fa orrore. Per Benedetto XVI i preservativi sono permessi solo “per prostituti maschi”, come dice nel libro del 2010 “Luce del mondo”. Perché pensa a “prostituti maschi”, consegnando invece al fuoco eterno dell’inferno le mogli che usano il preservativo per difendersi dal contagio dell’AIDS? Papa Benedetto coglie ogni occasione per - se non annullare - almeno “ascetizzare”, “eunuchizzare”, “monacheizzare” e “celibatizzare” il matrimonio. Perché non si allontana alla fine dalle camere matrimoniali, che sono diventate nel frattempo il luogo del suo massimo soggiorno per il controllo dei rapporti? Con la sua teologia del preservativo ha pervertito l’annuncio evangelico di Gesù in un annuncio di bordello per prostituti maschi. Al resto della popolazione che non si prostituisce predica il fuoco eterno dell’inferno. Accuso papa Benedetto per il suo micidiale raggiro dell’umanità.
Perché pensa che così tante persone in tutto il mondo si allontanano dalla Chiesa cattolica?
Per 26 anni ho avuto da ridire su papa Giovanni Paolo II. Poi, quando Benedetto è diventato papa, mi è stato chiaro nel giro di un paio di mesi, che tutta la politica del Vaticano già dal 1981 (quando Ratzinger è diventato prefetto della congregazione per la dottrina della fede) dipendeva da Joseph Ratzinger. È stata la più grande delusione della mia vita. Non mi sono mai sbagliata così tanto.
In Austria c’è una iniziativa, che invita alla rivoluzione dei fedeli e alla disobbedienza al papa. Tra le altre cose, si chiede l’ammissione delle donne e delle persone sposate al presbiterato, la comunione per i divorziati risposati ed un cambiamento per il celibato. Anche in Germania c’è un ampio dialogo a favore di riforme nella Chiesa. Quali opportunità vede per queste iniziative?
C’è il rischio di una spaccatura tra chi è in alto e chi è in basso. Tutti quelli che si mettono in testa cappelli da carnevale, dal vescovo al cardinale fino al papa, non vengono più accettati. Ma i semplici preti, che sono sempre pronti ad annunciare la buona notizia di Gesù: “non cercare ricompense, fare del bene ai nemici”, e ad aiutare, e comunque tutte le donne, a poco a poco si staccheranno dai pastori di grado superiore. Da 2000 anni, tutti i pastori sono uomini, tutte le donne pecore. L’allontanamento delle donne sotto gli ultimi due papi ha raggiunto il punto massimo, e anche il punto finale. Una spaccatura tra la gerarchia e il popolo è possibile. (...)
Uta Ranke-Heinemann è stata la prima donna al mondo ad aver ottenuto una cattedra di teologia cattolica (1970), che poi ha perso (1987) per i suoi dubbi sull’immacolata concezione. Nel 1953/54 è stata compagna di studi di Joseph Ratzinger a Monaco. I suoi due libri “Eunuchi per il Regno dei cieli. Chiesa cattolica e Sessualità” e “No! e così sia” sono bestseller internazionali.
“La Chiesa è malata del sistema romano”
di suc/dpa
in “www.spiegel.de” del 18 settembre 2011 (traduzione: www.finesettimana.org)
In occasione della visita in Germania del papa, secondo il famoso teologo svizzero ottantatreenne Hans Küng, esiste “una enorme discrepanza tra la facciata che viene costruita e la realtà” della Chiesa. “La vita della Chiesa” a livello di comunità è decisamente crollata in molti paesi, ha detto Küng nell’intervista a “Spiegel”.
Ma “la gerarchia ecclesiastica non ha finora trovato il coraggio, di ammettere onestamente e chiaramente quale sia veramente la situazione.” Di fronte all’ “occultamento dello stato di emergenza”, la diagnosi di Küng è “che la Chiesa è malata del sistema romano”. Le immagini dell’evento papale ingannano, a suo avviso, presentando una Chiesa potente.
“Si sa invece che questi eventi non portano quasi niente alle comunità”, avverte l’ex compagno di Joseph Ratzinger, oggi Papa Benedetto XVI. “Non abbiamo quasi più persone che vengono alle celebrazioni, non abbiamo praticamente più candidati al presbiterato, abbiamo non pochi abbandoni.”
Benedeto XVI visiterà la Germania la prossima settimana. La cancelliera Angela Merkel spera che la visita unisca maggiormente cristiani cattolici ed evangelici. L’ecumenismo è un momento centrale nella visita, ha detto sabato nel suo videomessaggio settimanale la signora Merkel, che è anche capo della CDU. Secondo quanto riferito dal Frankfurter Allgemeine Sonntagszeitung, il papa dovrebbe incontrare anche alcune vittime di abusi. A tale incontro dovrebbero partecipare anche persone che si sono prese a cuore il dolore delle vittime, scrive il giornale. Nel frattempo si discute molto sul previsto intervento del papa al Bundestag. Alcuni politici della CDU definivano vergognoso l’annunciato boicottaggio del discorso da parte di deputati dell’opposizione.
Küng critica nell’intervista a “Spiegel” un tale “culto della persona, che è in contrasto con tutto ciò che si legge nel Nuovo Testamento”. “Oggi mi chiedo se non stiamo vivendo in una fase di ’putinizzazione’ della Chiesa cattolica”, dice Küng, perché a suo parere esistono analogie strutturali e politiche tra il presidente russo Vladimir Putin e la politica di restaurazione dei papi in Vaticano dopo il Concilio Ecumenico Vaticano II, che parlava invece di rinnovamento e di dialogo ecumenico.
“Praticamente, sia Ratzinger che Putin hanno messo i loro vecchi collaboratori in posizioni di guida ed allontanato invece altri meno amati”. E “in questo sistema i delatori tornano a crescere”. Ogni parroco favorevole alle riforme, e anche ogni vescovo, deve temere di essere denunciato a Roma. Secondo Küng, la conseguenza è che sotto il papa tedesco alle leve del potere ha potuto mettersi una cricca di “yes-men” prevalentemente italiana, che non ha alcuna considerazione per le esigenze di riforma.
VATICANO
Benedetto XVI: "Pedofilia, capisco chi si allontana dalla Chiesa"
Il Papa è arrivato a Berlino per la sua prima visita ufficiale in Germania. Quattro giorni di alta portata politica ed ecumenica, su cui grava la prospettiva di manifestazioni contro gli abusi dei sacerdoti sui minori. "Nulla da dire contro proteste civili" *
ROMA - "Posso capire che, di fronte a crimini come gli abusi su minori commessi da sacerdoti, se le vittime sono persone vicine uno dica: questa non è la mia Chiesa, la Chiesa è una forza di umanizzazione e moralizzazione e se loro stessi fanno il contrario io non posso più stare con questa Chiesa". Cosi, sul volo che lo ha condotto a Berlino, Benedetto XVI ha risposto a una domanda dei giornalisti sull’aumento delle uscite dalla chiesa cattolica in Germania, anche in relazione allo scandalo pedofilia.
Come è tradizione di ogni viaggio internazionale, il Pontefice ha inviato un telegramma al presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano al momento di partire per la Germania. Nel testo, Benedetto XVI esprime "l’auspicio di un sempre più intenso rinnovamento etico per il bene della diletta Italia", "auspicio" indirizzato al capo dello Stato e "all’intero popolo italiano", insieme con un "cordiale saluto".
Il Papa è giunto a Berlino per il 21mo viaggio del suo pontificato, momento principale della giornata la visita al Bundestag, dove Benedetto XVI è stato invitato a tenere un discorso, in qualità di Capo di Stato, nel pomeriggio. Alle 18.20 è prevista invece una messa nell’Olympiastadion, alla quale saranno presenti 70.000 fedeli.
Per Ratzinger una visita di quattro giorni nel suo Paese natale di alta portata politica ed ecumenica, ma su cui grava la prospettiva di manifestazioni di protesta legate alle vicende della pedofilia nel clero. Migliaia di tedeschi sono attesi oggi in strada, durante la visita del Papa al parlamento tedesco, per una manifestazione di protesta a cui potrebbero unirsi un centinaio di parlamentari dell’opposizione, che hanno annunciato di volere boicottare il discorso, interpretato come una violazione dello spazio pubblico da parte di una autorità religiosa.
Al proposito, Benedetto XVI ha affermato di non avere "nulla da dire contro una contestazione che si svolga in modo civile. E’ normale, in una società libera e marcata da una forte secolarizzazione. Ne prendo atto e non ho nulla da obiettare se si esprime in modo civile. Rispetto quanti si esprimono".
Anche se si tratta della prima visita ufficiale di Benedetto XVI in Germania, Ratzinger era già tornato in Germania nel 2005 in occasione della Giornata Mondiale della Gioventù di Colonia, poco dopo la sua elezione a Pontefice, e nel 2006 era stato in Baviera, suo "land" d’origine.
* la Repubblica, 22 settembre 2011
Dura critica di Eco al Papa: non è un grande teologo
di Maria Antonietta Calabrò (Corriere della Sera, 20 settembre 2011)
«Non credo che Ratzinger sia un grande filosofo, né un grande teologo, anche se generalmente viene rappresentato come tale». Lo ha affermato, a due giorni dall’inizio del viaggio in Germania di Benedetto XVI, Umberto Eco intervistato dal quotidiano tedesco «Berliner Zeitung» in edicola ieri. «Le sue polemiche, la sua lotta contro il relativismo sono, a mio avviso, semplicemente molto grossolane - ha commentato Eco riferendosi ancora a papa Ratzinger - nemmeno uno studente della scuola dell’obbligo le formulerebbe come lui. La sua formazione filosofica è estremamente debole».
Per argomentare il suo giudizio Eco fa riferimento proprio alla questione del relativismo, che è stata il cuore dell’approccio di Ratzinger al declino della cultura occidentale e in particolare europea. In una risposta diretta al suo intervistatore Eco ha detto: «In sei mesi potrei organizzarle un seminario sul tema. E può starne certo: alla fine presenterei almeno venti posizioni filosofiche differenti sul relativismo. Metterle tutte insieme come fa papa Benedetto, come se ci fosse una posizione unitaria è, per me, estremamente naïf». Eco, infine, ha fatto anche un paragone con Giovanni Paolo II, sostenendo che dopo papa Wojtyla era difficile per Ratzinger essere una «big star».
«Naturalmente Eco è un grande filosofo ed un grande teologo!», commenta con una punta d’ironia Jorg Bremer, vaticanista della «Frankfurter Allgemeine Zeitung», che pochi giorni fa ha intervistato il Papa a Castelgandolfo. «Sono stato da Sua Santità e ho visto in anteprima insieme all’editore Manuel Herder la mostra che, organizzata con la Libreria editrice Vaticana, per la prima volta mette insieme le copertine di 600 diverse edizioni di opere pubblicate in 25 paesi nei 50 anni di attività scientifica dal teologo Joseph Ratzinger, un’esposizione che si sposterà presso la sede della casa editrice a Friburgo, in occasione della visita che il Papa compirà in Germania da giovedì a domenica. Mi chiedo: è questo il teologo e il filosofo con un’educazione troppo debole?». Bremer, che pure è di religione protestante, sostiene «che i due pilastri del pensiero di Ratzinger sono da una parte la teologia del dogma cattolico, dall’altro il metodo e la ratio di Platone» (il quale combatté tutta la vita per demolire l’edificio relativista dei sofisti e sostituirlo con un sistema che rendesse possibile una conoscenza certa).
La lotta contro il relativismo e le sue conseguenze che rendono «senza radici» la costruzione dell’Europa è stato il leitmotiv di tutto il pontificato di Ratzinger che già il 18 aprile 2005 nell’omelia della Missa pro eligendo Pontifice affermava: «Avere una fede chiara, secondo il Credo della Chiesa, viene spesso etichettato come fondamentalismo. Mentre il relativismo, cioè il lasciarsi portare "qua e là da qualsiasi vento di dottrina", appare come l’unico atteggiamento all’altezza dei tempi odierni. Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie».
Benedetto XVI non è più il pastore tedesco
di Marco Politi (il Fatto Quotidiano, 18 settembre 2011)
La luna di miele tra Joseph Ratzinger e la Germania è finita da tempo. Il terzo viaggio in patria di Benedetto XVI, che inizia giovedì, non si svolge nel clima di gioiosa eccitazione che regnava dopo la sua elezione quando la Bild Zeitung proclamava “Noi siamo Papa”. A Berlino, dove il pontefice parlerà al Bundestag, si preannunciano cortei di dimostranti. L’Associazione gay e lesbiche tedeschi manifesterà contro la sua “politica misantropa e discriminatoria nei confronti degli omosessuali”. Nell’aula parlamentare un centinaio di deputati socialdemocratici, verdi e del partito della Sinistra (Linke) lo boicotteranno, abbandonando i seggi. Allarmato, il governo riempirà i vuoti con parlamentari in pensione.
Ma non sono le manifestazioni il punto dolente di questo pellegrinaggio, che durerà sino a domenica in tre tappe: Berlino, Erfurt, Friburgo. Ratzinger ci è abituato e in altri paesi europei, come a Londra un anno fa, è riuscito a riconquistare la scena con discorsi di alto profilo.
È l’indifferenza e il rifiuto della linea di governo papale a marcare il ritorno a casa del primo pontefice tedesco dell’era moderna. L’86 per cento dei suoi connazionali ritiene “poco importante” il suo arrivo (sondaggio dell’istituto Forsa). L’opinione è condivisa da due terzi dei cattolici tedeschi. Appena un 36 per cento dei fedeli giudica il viaggio rilevante.
Lo scandalo degli abusi sessuali, l’imposizione della messa preconciliare come rito universale della Chiesa, la cancellazione della scomunica ai vescovi lefebvriani tra cui il negazionista Williamson, l’assurda polemica sul preservativo, lo stallo di qualsiasi riforma hanno allontanato il cattolicesimo tedesco da Roma. Su contraccezione, divorzio, coppie di fatto, testamento biologico gran parte dei vescovi tedeschi non sono disposti a fossilizzarsi sulla linea rigida di Ratzinger.
IN UN’INTERVISTA al settimanale Zeit, il presidente della conferenza episcopale mons. Zollitsch ha preannunciato un’“intensa discussione” sui divorziati risposati, cui il Vaticano nega tuttora la comunione. “È una questione di misericordia”, ha detto, spiegando che la Chiesa ha il compito di aiutare le persone.
In Germania, dove è possibile per motivi fiscali cancellarsi dalla lista degli appartenenti a una Chiesa, le “fughe” dei cattolici sono aumentate vertiginosamente durante il pontificato ratzingeriano. Ottantaquattromila erano i fuoriusciti nel 2006, nel 2009 erano già centoventitremila. L’anno scorso hanno raggiunto il picco di centottantunomila.
A febbraio, in previsione della visita papale, un manifesto di trecento teologi ha chiesto l’avvio di profonde riforme e l’apertura di una discussione sulle “strutture di potere e di comunicazione” nella Chiesa. I firmatari, tra cui Hans Kueng, a fronte della crisi delle vocazioni e del bisogno di rimodellare le comunità cristiane nel XXI secolo chiedono la possibilità di un clero sposato e l’affidamento di ruoli ecclesiali alle donne, la partecipazione dei fedeli alla scelta dei vescovi, la creazione di tribunali amministrativi per assicurare vera giustizia alle controversie intraecclesiali.
Un’altra richiesta è di cessare di escludere dalla Chiesa “coloro che in amore e fedeltà e con reciproca cura vivono un rapporto di coppia dello stesso sesso o sono divorziati risposati”. L’ABITUDINE del Vaticano è di ribattere che si tratta delle “solite polemiche”. Ma la questione è molto più rilevante. La Germania è lo specchio della società contemporanea in cui l’area della non credenza, dell’indifferenza e della secolarizzazione si è estesa enormemente. A Erfurt, città dell’ex Germania dell’Est che sarà la seconda tappa del viaggio papale, i cristiani si misurano in percentuali minime. In Germania complessivamente la pratica domenicale è scesa fortemente e la frequenzaalla confessione è a livelli irrisori. Ecco perché nell’episcopato più avvertito si è fatta strada la convinzione che la Chiesa intera va rimodellata in queste circostanze storiche completamente nuove.
“Dove c’è Dio, là c’è il futuro”, è il motto che l’episcopato tedesco ha scelto per il viaggio papale. La sfida è proprio di avere una Chiesa capace di proclamare Dio nei tempi attuali. Il cardinale Lehmann per venti anni influente capo dell’episcopato tedesco, sottolinea la necessità di analizzare i cambiamenti intervenuti nel corpo sociale e nella comunità cattolica. “La Chiesa - mi spiega - non può essere solo per i fedeli attivi. Deve rivolgersi a tutte le persone che soffrono”. Capace di interloquire con il mondo esterno, con tutte le formazioni della realtà sociale.
“Oggi - sottolinea il cardinale - bisogna discutere a fondo la situazione. Invece ai sinodi dei vescovi non c’è mai spazio per affrontare i problemi con calma”. Lehmann nel 1970 firmò da giovane teologo assieme a Ratzinger un memorandum per discutere del clero non celibatario. “Studiamo la questione senza paraocchi”, era il suo parere allora. Non ha cambiato idea. È inoltre convinto che “andrebbe discusso il diaconato delle donne. Io ho incoraggiato studi su questo tema: bisogna capire in concreto che funzioni potrebbero avere”.
A Erfurt il vescovo Wanke organizza momenti di incontro in cattedrale con gli adolescenti non battezzati e per San Valentino concede la benedizione delle “coppie innamorate”. Con ogni generazione, sostiene il vescovo, il “cristianesimo ricomincia daccapo”. Benedetto XVI arriva tra credenti lontani dall’immobilismo vaticano. Per questo in patria rischia di apparire estraneo.
Der Tagesspiegel, Berlino - 26 gennaio 2011
Commentario di Matthias Katsch
“Quanto a lungo volete ancora restare pecorelle?“
(traduzione dal tedesco di José F. Padova)
http://www.tagesspiegel.de/berlin/wie-lange-wollt-ihr-noch-schaefchen-sein/3736296.html
Parole chiare. Matthias Katsch, 47 anni, diplomato dal Canisius-Kollegs, ha studiato fra l’altro Scienze politiche e Teologia. Lavora come trainer in Management. Sulla dittatura dello Stato della Chiesa e della morale sessuale rigida il dibattito pubblico è cambiato poco. Matthias Katsch è stato egli stesso vittima di abuso sessuale al Collegio Canisius. Qui valuta la situazione un anno dopo lo scandalo degli abusi sessuali.
La Chiesa cattolica in Germania si è posta di fronte alle questioni legate allo scandalo sessuale? Si danno forse già risposte? Purtroppo le cose non sembrano finora giunte a tanto. Sembra che le vittime, scomode, soltanto disturbino. Fino a oggi i vescovi non reagiscono alla richiesta da parte delle vittime di un dialogo diretto.
In sostanza il dibattito, che si cerca apprensivamente di evitare, dovrebbe orientarsi su tre aspetti, che all’interno dipendono l’uno dall’altro: la forma di ordinamento della Chiesa, la sua dottrina sulla sessualità e il collante che tiene insieme tutto: il denaro. Detto alla maniera antica si tratta quindi di ubbidienza, castità e povertà - e dell’uso snaturato, che la Gerarchia continuamente mette in pratica, di queste virtù allo scopo di mantenere il potere,.
La Chiesa cattolica è già da lungo tempo una dittatura spirituale dei chierici, una monarchia per lo più benevola, che si regge su questo o su quel buffone di corte. Con questa organizzazione essa è diventata molto vecchia. Naturalmente ci furono e ci sono correnti all’interno della Chiesa: di sinistra, liberale, ultraconservatrice e in mezzo l’ampia mainstream. Queste correnti alla fine però nulla hanno da comunicare al laico, se la gerarchia decide. Nel suo centralismo assolutistico la Chiesa nel mondo moderno è un anacronismo, mentre per alcuni essa rappresenta nello stesso tempo un qualcosa di fascinoso.
Senza opporre resistenza, le pecorelle sopportano tutto ciò che arriva dall’alto È anche vero che questo dominio da parte del clero già da molto tempo sarebbe giunto alla fine se la maggioranza dei cattolici non avessero collaborato a sopportarlo in silenzio. Non sempre approvando, ma in generale senza opporre resistenza, le pecorelle sopportano tutto quello che viene dall’alto, tengono per sé le loro riflessioni e permettono al Papa a Roma di passare per un brav’uomo. Domina una cultura del “come se”. Noi ci comportiamo come se seguissimo la vostra dottrina, e voi vi comportate come se non sapeste per niente che noi non lo facciamo. Da decenni le cose vanno avanti così.
Urge un confronto. Come prima del 1989 nelle dittature mummificate dell’Europa dell’Est, nel privato la gran parte dei credenti non si attiene a ciò che prescrive il ministero ecclesiastico, in particolare per le questioni riguardanti la condotta personale della vita, come la contraccezione, l’autoerotismo, i rapporti sessuali prematrimoniali, l’omosessualità, ma anche su temi come l’ecumenismo. Essi tuttavia non si oppongono apertamente, al massimo si richiamano alla loro personale coscienza. E vescovi e preti si comportano come se non ne sapessero nulla e si accontentano dell’ubbidienza simulata, finché la contraddizione non diviene palese.
Eppure questo accomodamento fra l’alto e il basso nella Chiesa cattolica non è tanto innocuo come vorrebbe apparire. Infatti i cattolici del mainstream tollerano anche la violenza che la Chiesa esercita contro i suoi critici. Questo non è inteso soltanto metaforicamente, perché vi sono vittime effettive, delle quali però all’interno dell’ambiente ecclesiastico non si può fare parola. Non soltanto teologi , pur sempre di specchiata fama anche se oggetto di misure punitive, che perdono il loro lavoro
[ndt.: p.es., Luigi Lombardi Vallauri, cacciato dall’Università Cattolica di Milano per aver espresso opinioni non allineate sul magistero papale - in generale vedi fra l’altro: http://avalonra.altervista.org/sections/03_Downloads/AvalonRa/Il%20libro%20nero%20della%20Chiesa.pdf] ,
ma per esempio centinaia di figli di preti, soltanto in Germania. Essi vengono mantenuti dalla Chiesa fintantoché restano nascosti e le loro madri sono disposte a rimanere nell’oscurità. Poi vi sono nella Chiesa i numerosi omosessuali occultati, che ora dovrebbero diventare i capri espiatori per i crimini sessuali degli ecclesiastici, ormai palesati.
L’avversione sessuale è l’arma più importante della Gerarchia nella lotta per il potere nella Chiesa. Anche se si comportano diversamente, il perpetuo predicozzo di minaccia dei pastori provoca in molti fedeli un senso di cattiva coscienza. Ciò aiuta a tenerli sotto controllo. Anche all’interno della Gerarchia le molteplici difficoltà del clero riguardo al celibato sono utilizzate quali strumenti disciplinari.
Preti hanno figli, preti hanno donne, preti hanno uomini, preti abusano di bambini come compensazione di una sessualità non vissuta o non vivibile. Tutto questo accade, ma verso l’esterno si tiene alto l’ideale dell’astinenza e della “sessualità senza sesso”. Questo infatti è un principio organizzativo perfetto per un’organizzazione transnazionale, che è tenuta insieme dall’assoluta fedeltà dei suoi quadri. In questo modo la Chiesa è oggi la più grande organizzazione transnazionale di gay di tutto il mondo, cosa sulla quale nel 2005 proprio un gesuita richiamò l’attenzione, nonostante per la Chiesa l’omosessualità vissuta sia considerata un peccato. Una morale più doppia di così non c’è. E ciò non stupisce, se si guarda al di là dell’orticello tedesco: in molti Paesi del mondo la Chiesa romana è un rifugio per gli omosessuali oppressi e perseguitati. Nessuno molesta questi uomini se non si sposano, nessuno analizza criticamente il loro amore per la musica, per la bella arte, per i vestiti e i profumi. Come membri del clero essi sono trattati con grande rispetto, tenuti in considerazione, importanti e spesso anche potenti.
Il celibato pretende troppo da molti uomini Il prezzo, che essi devono pagare, è l’ipocrita ripudio della loro natura. Rapporti di coppia vissuti fra uomini o donne sono un male, l’omosessualità celata, bloccata o messa a tacere è tollerata. Questi servitori della Chiesa sono i più fidati dei fidati. Essi rinnegano loro stessi, prendono perfino parte alla demonizzazione della sessualità, che essi hanno patito come insopportabile, e in questo modo rendono stabile la dittatura della Gerarchia. Che ora essi siano messi alla berlina per le azioni commesse dai loro colleghi in prevalenza eterosessuali, i quali hanno scaricato la loro immatura sessualità su piccole vittime, è un triste effetto finale.
Più volte inoltre viene respinto il pensiero di molti cattolici che l’avversione per la sessualità, la doppia morale e le forme organizzative della Chiesa, celibato compreso, sono intimamente collegati e potrebbero avere a che fare con le centinaia di crimini di abuso sessuale nell’ambito di istituzioni ecclesiastiche, ora diventate di dominio pubblico. Quindi la dottrina ecclesiastica sulla sessualità ha spianato la strada ai colpevoli alla volta delle loro vittime. L’esagerato spirito di corpo della Gerarchia ha poi impedito che agli autori degli abusi si ponesse un freno, men che meno che fossero consegnati alle Autorità giudiziarie penali. Il principio organizzativo della Chiesa è la subordinazione. Insieme alla rinuncia alla sessualità questo permette il dominio di poche centinaia di uomini su 400.000 preti e un miliardo di credenti. In contraccambio per la loro fedeltà il vertice della Chiesa protegge i suoi collaboratori, se si trovano in difficoltà.
Il celibato quindi sovraccarica molti uomini. Perciò un trasgressore del celibato può contare all’interno del mondo ecclesiastico su molta simpatia e comprensione, anche presso i fedeli e naturalmente i propri confratelli, che magari stanno lottando sullo stesso fronte. Così crimini di abuso sessuale su bambini sono intesi soprattutto come peccati del colpevole contro il suo voto religioso. Sotto questo aspetto le vittime non erano proprio tenute in conto. I sensi di colpa delle vittime sono ancor più rinforzati dalla dottrina sessuale della Chiesa. Più tardi questi sensi di colpa provvedono a che le vittime tacciano per lungo tempo. Esse si sentono colpevoli. Così il cerchio si chiude.
La florida situazione economica della Chiesa corrompe Oltre a ciò arriva il collante, che tiene insieme il tutto: il denaro. I membri degli ordini promettono la povertà soltanto formalmente. Clero e gerarchia hanno sovente messo da parte questo ideale. Nondimeno la fiorente situazione economica della Chiesa è corruttrice. I versamenti della società civile e i contributi delle tante pecorelle, incassati tramite lo Stato, servono soprattutto a mantenere il cartello di potere interno alla Chiesa. Nessun membro della Chiesa può avere voce in capitolo sull’impiego dei soldi incassati.
Le organizzazioni a fini sociali, sovente attribuite alla Chiesa come la Caritas, lavorano alla stregua di moderne imprese economiche e nulla hanno a che fare con i contributi dei fedeli. Di regola più del 90 percento dei costi di tali Enti sono pagati direttamente dallo Stato. Lo stesso accade per gli ospedali ecclesiastici, per le scuole, per le case di riposo per anziani.
Coloro però che dovrebbero essere i destinatari della carità cristiana sono persi di vista: invece che verso i veri poveri e bisognosi, le offerte caritatevoli si orientano per lo più verso gli strati sociali medio e alto. Ciò è non soltanto lontano dalle beatitudini del Nuovo Testamento, ma in uno Stato moderno è semplicemente inutile. Senzatetto, malati di AIDS, profughi ricevono in proporzione solamente una piccolissima parte dell’attenzione della Chiesa e dei suoi mezzi finanziari. L’impegno di molti combattenti individuali in questo settore deve essere tenuto in grande considerazione, ma non è tale da influenzare la percezione che in Germania si ha della Chiesa cattolica.
Ascoltare e farsi coinvolgere anziché minimizzare e smentire E adesso arrivano le vittime della violenza sessuale in istituti e scuole e chiedono soldi alla Chiesa quale risarcimento per il loro patimento e come indennizzo per la loro vita rovinata. Tuttavia come reagisce la Chiesa di quel Figlio dell’Uomo che aveva detto: “Beati sono i poveri”? Blocca, barrica, rinvia. Allo stesso tempo sottolinea che per risarcire le vittime non potrebbero essere utilizzati i soldi della tassa per la Chiesa [ndt.: in Germania l’imposta ecclesiastica è pagata individualmente e personalmente da chi dichiara di appartenere a una Chiesa, sia cattolica, sia protestante, o altra]. Perché no? I contributi dei fedeli non sono forse destinati al sostentamento della loro Chiesa? E questa Chiesa non ha totalmente fallito? La Gerarchia, perché ha messo a tacere lo scandalo, e i fedeli, perché hanno permesso che la Gerarchia lasciasse fare? Non dovrebbero anche adesso affrontare insieme le conseguenze?
L’anno scorso si sono incontrati due volte a Berlino, all’ “Eckiger Tisch” [ndt.: gruppo di vittime di abusi da parte dei Gesuiti], vittime di abusi sessuali e rappresentanti dell’Ordine dei Gesuiti, fra i quali il Provinciale responsabile negli anni ’70 e il suo attuale successore. Essi hanno ascoltato per sei ore e posto domande alle vittime, che hanno riferito sulle offese subite come pure dei tentativi andati a vuoto di trovare allora ascolto. Questo difficile confronto è stato un momento storicamente significativo per il modo in cui la Chiesa potrebbe comunicare: ascoltare e farsi coinvolgere anziché minimizzare e smentire.
Eppure nella Chiesa in generale un dialogo sui problemi qui toccati è finora rifiutato. Gerarchia e fedeli invece sfiorano soltanto il tema. Come alla Domenica di Pasqua 2010, quando tutto il mondo aspettava una parola chiarificatrice del Papa circa i casi di abuso e invece il capo del Collegio cardinalizio assicurò al Papa la fedeltà incondizionata della Gerarchia e definì la discussione circa i bambini oggetto di abusi come “Ciance del momento”.
Quanto a lungo vogliono i cattolici lasciarsi presentare cose simili dal loro personale di vertice? Quando diranno finalmente: “Adesso basta”? Finché i credenti, che al di fuori della Chiesa, nella vita vera, si comportano come cittadini dello Stato adulti e consci della propria responsabilità, mentre all’interno della Chiesa se ne stanno come pecore non cresciute alla maggiore età, la pia dittatura va avanti.
ANTISERI COME REALE E REALE COME ANTISERI: PER CARITA’!!! Prof. Giovanni Reale, si svegli dal sonno dogmatico!!! L’amore evangelico è "charitas", non "caritas"!!! Alcune note - a cura di Federico La Sala
La lezione di Pascal. Genio della scienza, paladino della fede. La scommessa su Dio e il valore del Vangelo
«Riconoscere i limiti della ragione umana».
di Dario Antiseri Corriere della Sera 1.12.10
«C’era un uomo che a dodici anni, con delle sbarre e dei tondi, aveva creato le matematiche, che a sedici aveva fatto il più dotto trattato sulle coniche che si fosse visto dall’antichità; che a diciannove ridusse in una macchina una scienza che esiste tutt’intera nell’intelletto; che a ventidue anni dimostrò i fenomeni dell’aria e debellò uno dei grandi errori dell’antica fisica; a quell’età in cui gli altri uomini incominciano appena a crescere, avendo compiuto il ciclo delle scienze umane, si avvide del loro nulla e rivolse i suoi pensieri alla religione; che da quel momento fino alla morte, giunto al trentanovesimo anno, sempre infermo e sofferente, fissò la lingua che parlarono Bossuet e Racine, diede il modello della più perfetta arguzia come del ragionamento più forte; che, infine, nei brevi intervalli dei suoi mali, risolvette per distrazione uno dei più alti problemi della geometria, e gettò sulla carta dei pensieri che hanno tanto del Dio quanto dell’uomo: quello spaventoso genio si chiamava Blaise Pascal». Così René de Chateaubriand.
Dio e l’uomo. E il Dio di Pascal non è «il Dio dei filosofi e dei sapienti», ma è «il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe». Contrario a Cartesio «inutile e incerto», lontano dalla illusoria presunzione razionalistica degli Scolastici, Pascal tiene distinta la sfera della ragione da quella della fede: «La fede è un dono di Dio. Non crediate che diciamo che è un dono del ragionamento. (...) La fede è differente dalla dimostrazione: questa è umana, quella è un dono di Dio». D’altro canto, «perché una religione sia vera, è necessario che abbia conosciuto la nostra natura. Bisogna che ne abbia conosciuto la grandezza e la miseria. (...) E chi, tranne la religione cristiana, l’ha conosciuta?». La corruzione della natura umana e l’opera redentrice di Gesù Cristo: questi, dice Pascal, sono i due soli principi della fede cristiana. In Cristo scopriamo Dio e, davanti a Lui, non copriamo la nostra miseria. L’uomo non è un costruttore di senso, è un mendicante di senso: «È bene sentirsi stanchi e affaticati dell’inutile ricerca del vero bene, al fine di tendere le mani al Liberatore».
Sull’esistenza o non esistenza di Dio la ragione tace, «non può determinare nulla», e tuttavia la ragione può mostrare che scegliere Dio è tutt’altro che follia. Ed è qui che Pascal innesca il grande tema della «scommessa»: «Scommettere bisogna: non è una cosa che dipende dal vostro volere, ci siete impegnato. Che cosa sceglierete, dunque? (...) Pesiamo il guadagno e la perdita, nel caso che scommettiate in favore dell’esistenza di Dio. Valutiamo questi due casi: se vincete, guadagnate tutto; se perdete, non perdete nulla. Scommettete, dunque, senza esitare che Egli esiste».
Se Dio non scende nell’animo umano sulla scala dei nostri sillogismi, si dà anche che tutti i nostri «lumi» non sono in grado di farci conoscere la vera giustizia: «Nulla, in base alla pura ragione, è per sé giusto. (...) Tre gradi di latitudine sovvertono tutta la giurisprudenza; un meridiano decide della verità; nel giro di pochi anni le leggi fondamentali cambiano; il diritto ha le sue epoche. (...) Singolare giustizia che ha come confine un fiume! Verità di qua dei Pirenei, errore di là». Nel campo dell’etica la ragione si lascia piegare per ogni verso. E, difatti, è facile constatare che «il furto, l’incesto, l’uccisione dei figli o dei padri, tutto ha trovato posto tra le azioni virtuose». Ma, allora, dov’è che la morale potrà trovare il suo porto? Lo trova - dice Pascal - nella fede: la vera giustizia è quella «secondo a Dio piacque di rivelarcela».
La vera giustizia è, dunque, la norma evangelica: «Senza la fede l’uomo non può conoscere né il vero né la giustizia». Una soluzione, questa, che - se da una parte spinge il non credente a riflettere, in un campo dove la logica non aiuta, su quanto l’Occidente deve al messaggio antropologico ed etico del Cristianesimo -, dall’altra pone il credente davanti ad un ineludibile interrogativo: il cristiano ciò che è Bene e ciò che è Male lo sa dal Vangelo o dalla ragione? Da quale ragione?
«Il più grande scrittore cristiano, più grande dello stesso Newman»: così T.S. Eliot ha definito Pascal. Ma intanto: Pascal è un «fideista» che umilia la ragione, o è piuttosto un «iperrazionalista» che ha messo e pone in guardia contro gli abusi della ragione?
LA SOLIDARIETÀ NON BASTA. CARITÀ FONDAMENTALE
Fraternità: perché non continui a perdersi
di GIUSEPPE DALLA TORRE (Avvenire, 24.09.2010)
Nel considerare il volgere della situazione italiana, si è lamentato in questi giorni l’affievolirsi e il venire meno del senso di fraternità. L’osservazione è pertinente per molti aspetti e con riferimento a molti ambiti, anche se vien fatto di chiedersi come possa sopravvivere tale sentimento tra i consociati in una società sempre più individualistica, più edonistica, più crudamente competitiva, in cui l’avere fa aggio sull’essere, in cui non si esita a rompere i vincoli più sacri quando ne vengano meno le utilità personali, in cui l’etica della responsabilità impallidisce.
Bisogna in sostanza avere il coraggio di prendere atto che il problema non deriva da questa o quella scelta politica; il problema è assai più generale e tocca la cultura in cui, volenti o nolenti, siamo immersi. Il problema non è solo italiano, ma lambisce in misura più o meno ampia tutto l’Occidente.
Soprattutto il problema non è di oggi, ma viene di lontano. Tutti sanno che la fraternité , insieme alla liberté e alla egalité, ha fatto parte del vessillo ideale della Rivoluzione francese. A oltre due secoli di distanza ci si dovrebbe domandare perché libertà ed eguaglianza sono diventate acquisizioni consolidate, anche se sempre da custodire con cura e da rifondare e promuovere con intelligenza, mentre lo stesso non sembra potersi dire della fraternità. Insomma: una delle mete ideali della Rivoluzione ha stentato a farsi strada sin qui, dappertutto, a cominciare dalla stessa terra d’origine. In altre parole, mentre libertà ed eguaglianza sono cresciute, la fraternità è rimasta pressocché una espressione vuota, un flatus vocis avrebbero detto i romani; anzi, i vincoli di una certa fraternità che, almeno nei Paesi europei, secoli di cristianesimo avevano suscitato e rafforzato plasmando la cultura del nostro continente, sembrano da duecento anni a questa parte declinare.
Per quanto riguarda il nostro Paese, basti pensare a che cosa si è ridotto, a livello di percezione comune e di principio vivente, quel precetto sui «doveri di solidarietà» che la nostra Costituzione, tralucendo anche qui le radici cristiane della identità italiana, ha osato definire come «inderogabili».
La realtà è che l’evoluzione dei termini tradisce le trasformazioni culturali e del comune sentire. Nella società del passato il senso della coesistenzialità e del doveroso sostegno reciproco era radicato nel principio cristiano della carità, che comprende, ma va oltre la giustizia. Poi venne il tempo della secolarizzazione e, come prevedeva già Newman, si è passati a sostenere «un’educazione totalmente secolarizzata, intesa a far capire ad ogni individuo che essere ordinato, laborioso e sobrio torna a suo personale vantaggio»; a fornire «i grandi principi che devono sostituire la religione e che le masse così educate dovrebbero seguire, le verità etiche fondamentali nel loro senso più ampio, la giustizia, la benevolenza, l’onestà, ecc.; l’esperienza acquisita; e quelle leggi naturali che esistono e agiscono spontaneamente nella società e nelle cose sociali, sia fisiche che psicologiche, ad esempio, nel governo, nel commercio, nella finanza, nel campo sanitario e nei rapporti tra le Nazioni». In un mondo che si scristianizzava la carità è stata sostituita dalla fraternità.
Ma la sostituzione non è servita, perché la pretesa secolaristica di costruire la società senza o addirittura contro la religione ha fatto venire meno il presupposto stesso del riconoscersi fratelli: la discendenza da un Padre comune.
Ecco dunque giungere in sostituzione la solidarietà: termine bellissimo, alto, nobile, ma riferito a un dovere inesigibile e concretamente insoddisfatto, se non radicato in un fondamento più profondo di un mero precetto di legge.
Il «giusto posto» del credo religioso nel processo politico al centro della riflessione del Papa nella Westminster Hall di Londra.
Il modello: Tommaso Moro, lo statista che nel primato di Dio seppe radicare la sua libertà di coscienza e la dedizione al bene comune
«Dall’alleanza fede-ragione un’etica per la democrazia»
la sfida
Il processo democratico è fragile se i «principi morali» che lo sostengono si basano soltanto sul consenso sociale. È questa la «sfida reale» che Ratzinger ha additato rivolgendosi, ieri in Parlamento, al corpo diplomatico e agli esponenti della cultura, della società civile e dell’economia
Pubblichiamo il testo integrale del discorso pronunciato ieri pomeriggio da Benedetto XVI nella Westminster Hall di Londra all’incontro con gli esponenti della società civile, del mondo accademico, culturale e imprenditoriale, con il corpo diplomatico e con i leader religiosi. (AVVENIRE, 18.09.2010)
Signor presidente,
la ringrazio per le parole di benvenuto che mi ha rivolto a nome di questa distinta assemblea. Nel rivolgermi a voi, sono consapevole del privilegio che mi è concesso di parlare al popolo britannico e ai suoi rappresentanti nella Westminster Hall, un edificio che ha un significato unico nella storia civile e politica degli abitanti di queste Isole.
Permettetemi di manifestare la mia stima per il Parlamento, che da secoli ha sede in questo luogo e che ha avuto un’influenza così profonda sullo sviluppo di forme di governo partecipative nel mondo, specialmente nel Commonwealth e più in generale nei Paesi di lingua inglese. La vostra tradizione di «common law» costituisce la base del sistema legale in molte nazioni, e la vostra particolare visione dei rispettivi diritti e doveri dello Stato e del singolo cittadino, e della separazione dei poteri, rimane come fonte di ispirazione per molti nel mondo.
Mentre parlo a voi in questo luogo storico, penso agli innumerevoli uomini e donne che lungo i secoli hanno svolto la loro parte in importanti eventi che hanno avuto luogo tra queste mura e hanno segnato la vita di molte generazione di britannici e di altri popoli.
In particolare, vorrei ricordare la figura di san Tommaso Moro, il grande studioso e statista inglese, ammirato da credenti e non credenti per l’integrità con cui fu capace di seguire la propria coscienza, anche a costo di dispiacere al sovrano, di cui era «buon servitore», poiché aveva scelto di servire Dio per primo. Il dilemma con cui Tommaso Moro si confrontava, in quei tempi difficili, la perenne questione del rapporto tra ciò che è dovuto a Cesare e ciò che è dovuto a Dio, mi offre l’opportunità di riflettere brevemente con voi sul giusto posto che il credo religioso mantiene nel processo politico.
La tradizione parlamentare di questo Paese deve molto al senso istintivo di moderazione presente nella nazione, al desiderio di raggiungere un giusto equilibrio tra le legittime esigenze del potere dello Stato e i diritti di coloro che gli sono soggetti. Se da un lato, nella vostra storia, sono stati compiuti a più riprese dei passi decisivi per porre dei limiti all’esercizio del potere, dall’altro le istituzioni politiche della nazione sono state in grado di evolvere all’interno di un notevole grado di stabilità. In tale processo storico, la Gran Bretagna è emersa come una democrazia pluralista, che attribuisce un grande valore alla libertà di espressione, alla libertà di affiliazione politica e al rispetto dello Stato di diritto, con un forte senso dei diritti e doveri dei singoli, e dell’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge.
La dottrina sociale cattolica, pur formulata in un linguaggio diverso, ha molto in comune con un tale approccio, se si considera la sua fondamentale preoccupazione per la salvaguardia della dignità di ogni singola persona, creata ad immagine e somiglianza di Dio, e la sua sottolineatura del dovere delle autorità civili di promuovere il bene comune. E , in verità, le questioni di fondo che furono in gioco nel processo contro Tommaso Moro continuano a presentarsi, in termini sempre nuovi, con il mutare delle condizioni sociali. Ogni generazione, mentre cerca di promuovere il bene comune, deve chiedersi sempre di nuovo: quali sono le esigenze che i governi possono ragionevolmente imporre ai propri cittadini, e fin dove esse possono estendersi? A quale autorità ci si può appellare per risolvere i dilemmi morali?
Queste questioni ci portano direttamente ai fondamenti etici del discorso civile. Se i principi morali che sostengono il processo democratico non si fondano, a loro volta, su nient’altro di più solido che sul consenso sociale, allora la fragilità del processo si mostra in tutta la sua evidenza. Qui si trova la reale sfida per la democrazia.
L’inadeguatezza di soluzioni pragmatiche, di breve termine, ai complessi problemi sociali ed etici è stata messa in tutta evidenza dalla recente crisi finanziaria globale. Vi è un vasto consenso sul fatto che la mancanza di un solido fondamento etico dell’attività economica abbia contribuito a creare la situazione di grave difficoltà nella quale si trovano ora milioni di persone nel mondo. Così come «ogni decisione economica ha una conseguenza di carattere morale» ( Caritas in veritate, 37 ), analogamente, nel campo politico, la dimensione morale delle politiche attuate ha conseguenze di vasto raggio, che nessun governo può permettersi di ignorare.
Una positiva esemplificazione di ciò si può trovare in una delle conquiste particolarmente rimarchevoli del Parlamento britannico: l’abolizione del commercio degli schiavi. La campagna che portò a questa legislazione epocale, si basò su principi morali solidi, fondati sulla legge naturale, e ha costituito un contributo alla civilizzazione di cui questa nazione può essere giustamente orgogliosa.
La questione centrale in gioco, dunque, è la seguente: dove può essere trovato il fondamento etico per le scelte politiche? La tradizione cattolica sostiene che le norme obiettive che governano il retto agire sono accessibili alla ragione, prescindendo dal contenuto della rivelazione. Secondo questa comprensione, il ruolo della religione nel dibattito politico non è tanto quello di fornire tali norme, come se esse non potessero esser conosciute dai non credenti - ancora meno è quello di proporre soluzioni politiche concrete, cosa che è del tutto al di fuori della competenza della religione - bensì piuttosto di aiutare nel purificare e gettare luce sull’applicazione della ragione nella scoperta dei principi morali oggettivi.
Questo ruolo «correttivo» della religione nei confronti della ragione, tuttavia, non è sempre bene accolto, in parte poiché delle forme distorte di religione, come il settarismo e il fondamentalismo, possono mostrarsi esse stesse causa di seri problemi sociali. E, a loro volta, queste distorsioni della religione emergono quando viene data una non sufficiente attenzione al ruolo purificatore e strutturante della ragione all’interno della religione. È un processo che funziona nel doppio senso.
Senza il correttivo fornito dalla religione, infatti, anche la ragione può cadere preda di distorsioni, come avviene quando essa è manipolata dall’ideologia, o applicata in un modo parziale, che non tiene conto pienamente della dignità della persona umana. Fu questo uso distorto della ragione, in fin dei conti, che diede origine al commercio degli schiavi e poi a molti altri mali sociali, non da ultimo le ideologie totalitarie del ventesimo secolo. Per questo vorrei suggerire che il mondo della ragione ed il mondo della fede - il mondo della secolarità razionale e il mondo del credo religioso - hanno bisogno l’uno dell’altro e non dovrebbero avere timore di entrare in un profondo e continuo dialogo, per il bene della nostra civiltà.
La religione, in altre parole, per i legislatori non è un problema da risolvere, ma un fattore che contribuisce in modo vitale al dibattito pubblico nella nazione. In tale contesto, non posso che esprimere la mia preoccupazione di fronte alla crescente marginalizzazione della religione, in particolare del cristianesimo, che sta prendendo piede in alcuni ambienti, anche in nazioni che attribuiscono alla tolleranza un grande valore.
Vi sono alcuni che sostengono che la voce della religione andrebbe messa a tacere, o tutt’al più relegata alla sfera puramente privata. Vi sono alcuni che sostengono che la celebrazione pubblica di festività come il Natale andrebbe scoraggiata, secondo la discutibile convinzione che essa potrebbe in qualche modo offendere coloro che appartengono ad altre religioni o a nessuna. E vi sono altri ancora che - paradossalmente con lo scopo di eliminare le discriminazioni - ritengono che i cristiani che rivestono cariche pubbliche dovrebbero, in determinati casi, agire contro la propria coscienza.
Questi sono segni preoccupanti dell’incapacità di tenere nel giusto conto non solo i diritti dei credenti alla libertà di coscienza e di religione, ma anche il ruolo legittimo della religione nella sfera pubblica. Vorrei pertanto invitare tutti voi, ciascuno nelle rispettive sfere di influenza, a cercare vie per promuovere ed incoraggiare il dialogo tra fede e ragione ad ogni livello della vita nazionale.
La vostra disponibilità in questo senso si è già manifestata nell’invito senza precedenti che mi avete rivolto oggi, e trova espressione in quei settori di interesse nei quali il vostro Governo si è impegnato insieme alla Santa Sede.
Nel campo della pace, vi sono stati degli scambi circa l’elaborazione di un trattato internazionale sul commercio di armi; circa i diritti umani, la Santa Sede e il Regno Unito hanno visto positivamente il diffondersi della democrazia, specialmente negli ultimi 65 anni; nel campo dello sviluppo, vi è stata collaborazione nella remissione del debito, nel commercio equo e nel finanziamento allo sviluppo, in particolare attraverso la International Finance Facility, l’ International Immunization Bond e l’Advanced Market Commitment .
La Santa Sede è inoltre desiderosa di ricercare, con il Regno Unito, nuove strade per promuovere la responsabilità ambientale, a beneficio di tutti. Noto inoltre che l’attuale Governo si è impegnato a devolvere entro il 2013 lo 0,7% del reddito nazionale in favore degli aiuti allo sviluppo. È stato incoraggiante, negli ultimi anni, notare i segni positivi di una crescita della solidarietà verso i poveri che riguarda tutto il mondo.
Ma per tradurre questa solidarietà in azione effettiva c’è bisogno di idee nuove, che migliorino le condizioni di vita in aree importanti quali la produzione del cibo, la pulizia dell’acqua, la creazione di posti di lavoro, la formazione, l’aiuto alle famiglie, specialmente dei migranti, e i servizi sanitari di base. Quando è in gioco la vita umana, il tempo si fa sempre breve: in verità, il mondo è stato testimone delle vaste risorse che i governi sono in grado di raccogliere per salvare istituzioni finanziarie ritenute «troppo grandi per fallire». Certamente lo sviluppo integrale dei popoli della terra non è meno importante: è un’impresa degna dell’attenzione del mondo, veramente «troppo grande per fallire».
Questo sguardo generale alla cooperazione recente tra Regno Unito e Santa Sede mostra bene quanto progresso sia stato fatto negli anni trascorsi dallo stabilimento di relazioni diplomatiche bilaterali, in favore della promozione nel mondo dei molti valori di fondo che condividiamo. Spero e prego che questa relazione continuerà a portare frutto e che si rifletterà in una crescente accettazione della necessità di dialogo e rispetto, a tutti i livelli della società, tra il mondo della ragione ed il mondo della fede.
Sono certo che anche in questo Paese vi sono molti campi in cui la Chiesa e le pubbliche autorità possono lavorare insieme per il bene dei cittadini, in armonia con la storica pratica di questo Parlamento di invocare la guida dello Spirito su quanti cercano di migliorare le condizioni di vita di tutto il genere umano.
Affinché questa cooperazione sia possibile, le istituzioni religiose, comprese quelle legate alla Chiesa cattolica, devono essere libere di agire in accordo con i propri principi e le proprie specifiche convinzioni, basate sulla fede e sull’insegnamento ufficiale della Chiesa. In questo modo potranno essere garantiti quei diritti fondamentali, quali la libertà religiosa, la libertà di coscienza e la libertà di associazione.
Gli angeli che ci guardano dalla magnifica volta di questa antica Sala ci ricordano la lunga tradizione da cui il Parlamento britannico si è sviluppato. Essi ci ricordano che Dio vigila costantemente su di noi, per guidarci e proteggerci. Ed essi ci chiamano a riconoscere il contributo vitale che il credo religioso ha reso e può continuare a rendere alla vita della nazione.
Signor presidente, la ringrazio ancora per questa opportunità di rivolgermi brevemente a questo distinto uditorio. Mi permetta di assicurare a lei e al signor presidente della Camera dei Lord i miei auguri e la mia costante preghiera per voi e per il fruttuoso lavoro di entrambe le Camere di questo antico Parlamento. Grazie, e Dio vi benedica tutti!
Benedetto XVI
EVANGELO E AMORE DELLA PAROLA. LA CARESTIA, L’EU-CHARIS-TIA, E LA MEMORIA EVANGELICA! "CHARISSIMI, NOLITE OMNI SPIRITUI CREDERE... DEUS CHARITAS EST" (1 Gv., 4., 1-16).
BENEDETTO XVI, FORSE, COMINCIA A RICORDARE. "Lo stile di Dio è diverso: lo sperimentiamo nella Santa Eucaristia" ("Wir erleben es in der heiligen Eucharistie").
(...) in realtà continuiamo a vivere alla maniera dei pagani; come invitiamo, per reciprocità, soltanto chi ricambierà l’invito; come doniamo solo a chi ci restituirà. Ma lo stile di Dio è diverso (...)
a cura di Federico La Sala
Benedetto XVI all’inizio della messa celebrata con i suoi ex allievi *
Lo stile di Dio significa accogliere chi non ha nulla da dare
I cristiani non possono continuare a comportarsi come i pagani; devono imparare lo stile di Dio: donare a chi non ha nulla da restituire. Lo ha ricordato Benedetto XVI domenica mattina, 29 agosto, introducendo la messa celebrata nella cappella del Centro Mariapoli, a Castel Gandolfo, alla quale hanno partecipato i suoi ex allievi riuniti nel cosiddetto Ratzinger Schülerkreis. Queste le parole del Papa.
Liebe Freunde, am Ende des heutigen Evangeliums weist uns der Herr darauf hin, wie sehr wir immer noch nach der Weise der Heiden leben; nur in der Gegenseitigkeit die einladen, die uns wieder einladen, denen geben, von denen wir wieder empfangen. Die Weise Gottes ist anders: Wir erleben es in der heiligen Eucharistie, er lädt uns zu Tisch, die wir vor ihm lahm, blind und taub sind; er lädt uns, die wir ihm nichts zu geben haben. Wir wollen uns bei diesem Geschehen vor allem von der Dankbarkeit berühren lassen, daß es Gott gibt, daß Gott so ist, wie er ist, daß er so ist, wie Jesus Christus ist, daß er uns, obwohl wir nichts zu geben haben und voller Schuld sind, an seinen Tisch lädt und mit uns zu Tische sein will. Aber wir wollen doch auch uns davon berühren lassen, Schuld zu empfinden, daß wir so wenig aus dem Heidnischen heraustreten, so wenig wirklich das Neue, die Weise Gottes leben. Und deswegen beginnen wir die heilige Messe mit der Bitte um Vergebung, um eine Vergebung die uns ändert, die uns wirklich Gott ähnlich, Gott ebenbildlich werden läßt.
Pubblichiamo qui di seguito una traduzione in italiano.
Cari amici, alla fine del Vangelo di oggi, il Signore ci fa notare come in realtà continuiamo a vivere alla maniera dei pagani; come invitiamo, per reciprocità, soltanto chi ricambierà l’invito; come doniamo solo a chi ci restituirà. Ma lo stile di Dio è diverso: lo sperimentiamo nella Santa Eucaristia. Egli invita alla sua mensa noi, che davanti a lui siamo zoppi, ciechi e sordi; egli invita noi, che non abbiamo nulla da dargli. Durante questo evento dell’Eucaristia, lasciamoci toccare soprattutto dalla gratitudine per il fatto che Dio esiste, che Egli è così com’è, che Egli è così com’è Gesù Cristo, che Egli - nonostante non abbiamo nulla da dargli e siamo pieni di colpe - ci invita alla sua mensa e vuole stare a tavola con noi. Ma vogliamo anche essere toccati dal sentire la colpa di staccarci così poco dallo stile pagano, di vivere così poco la novità, lo stile di Dio. E per questo iniziamo la Santa Messa chiedendo perdono: un perdono che ci cambi, che ci faccia diventare veramente simili a Dio, a sua immagine e somiglianza.
* ©L’Osservatore Romano - 1 settembre 2010
Oggi, Domenica di Pentecoste, il Papa - senza grazia ("charis") e senza amore ("charitas") - ricorda ’’Hiroshima e Nagasaki ". E’ proprio vero: ’’L’inquinamento dell’ambiente e quello del cuore avvelenano l’esistenza’’. VENI, CREATOR SPIRITUS ...
’’L’uomo non vuole piu’ essere immagine di Dio’’
Papa: ’’Hiroshima e Nagasaki restano a monito dei rischi dell’atomo per l’uomo’’
Il Santo Padre nella solenne messa della Domenica di Pentecoste: ’"L’energia atomica, utilizzata per scopi bellici, ha finito per seminare morte in proporzioni inaudite"
Citta’ del Vaticano, 31 mag. (Adnkronos) - "A perenne monito rimangono le tragedie di Hiroshima e Nagasaki, dove l’energia atomica, utilizzata per scopi bellici, ha finito per seminare morte in proporzioni inaudite". E’ quanto ha detto il Papa che oggi, Domenica di Pentecoste, ha presieduto la solenne messa nella Basilica Vaticana. "Impossessatosi delle energie del cosmo, il ’fuoco’, l’essere umano sembra oggi affermare se stesso come dio e voler trasformare il mondo escludendo, mettendo da parte o addirittura rifiutando il creatore dell’universo - ha spiegato il Papa - L’uomo non vuole piu’ essere immagine di Dio, ma di se stesso; si dichiara autonomo, libero, adulto.
Evidentemente tale atteggiamento rivela un rapporto non autentico con Dio, conseguenza di una falsa immagine che di lui si e’ costruita, come il figlio prodigo della parabola evangelica che crede di realizzare se stesso allontanandosi dalla casa del padre". "Nelle mani di un uomo cosi’, il ’fuoco’ e le sue enormi potenzialita’ diventano pericolosi: possono ritorcersi contro la vita e l’umanita’ stessa, come dimostra purtroppo la storia - ha ricordato - A perenne monito rimangono le tragedie di Hiroshima e Nagasaki, dove l’energia atomica, utilizzata per scopi bellici, ha finito per seminare morte in proporzioni inaudite.
Si potrebbero in verita’ trovare molti esempi, meno gravi eppure altrettanto sintomatici, nella realta’ di ogni giorno". "La Sacra Scrittura ci rivela che l’energia capace di muovere il mondo non e’ una forza anonima e cieca, ma e’ l’azione dello ’spirito di Dio che aleggiava sulle acque’ - ha detto il Papa - all’inizio della creazione. E Gesu’ Cristo ha ’portato sulla terra’ non la forza vitale, che gia’ vi abitava, ma lo Spirito Santo, cioe’ l’amore di Dio che ’rinnova la faccia della terra’ purificandola dal male e liberandola dal dominio della morte". "Questo ’fuoco’ puro, essenziale e personale, il fuoco dell’amore, e’ disceso sugli Apostoli, riuniti in preghiera con Maria nel Cenacolo, per fare della Chiesa il prolungamento dell’opera rinnovatrice di Cristo", ha concluso.
Benedetto XVI: ’’L’inquinamento dell’ambiente e quello del cuore avvelenano l’esistenza’’
Il Santo Padre nella solenne messa della Domenica di Pentecoste: ’’Allo stesso modo in cui non bisogna assuefarsi ai veleni dell’aria, e per questo l’impegno ecologico rappresenta oggi una priorità, altrettanto si dovrebbe fare per ciò che corrompe lo spirito’’. Sono troppe le ’’immagini che spettacolarizzano il piacere, la violenza o il disprezzo per l’uomo e la donna, a questo sembra che ci si abitui senza difficoltà’’
Citta’ del Vaticano, 31 mag. (Adnkronos) - "Nel mondo antico la tempesta era vista come segno della potenza divina, al cui cospetto l’uomo si sentiva soggiogato e atterrito. Ma vorrei sottolineare anche un altro aspetto: la tempesta e’ descritta come ’vento impetuoso’, e questo fa pensare all’aria, che distingue il nostro pianeta dagli altri astri e ci permette di vivere su di esso. Quello che l’aria e’ per la vita biologica, lo e’ lo Spirito Santo per la vita spirituale; e come esiste un inquinamento atmosferico, che avvelena l’ambiente e gli esseri viventi, cosi’ esiste un inquinamento del cuore e dello spirito, che mortifica ed avvelena l’esistenza spirituale". Ad affermarlo e’ stato il Papa che oggi, nella Domenica di Pentecoste, ha presieduto nella Basilica Vaticana la solenne messa.
"Allo stesso modo in cui non bisogna assuefarsi ai veleni dell’aria, e per questo l’impegno ecologico rappresenta oggi una priorita’, altrettanto si dovrebbe fare per cio’ che corrompe lo spirito - ha proseguito il Papa - sembra invece che a tanti prodotti inquinanti la mente e il cuore che circolano nelle nostre societa’, ad esempio immagini che spettacolarizzano il piacere, la violenza o il disprezzo per l’uomo e la donna, a questo sembra che ci si abitui senza difficolta’".
"Anche questo e’ liberta’, si dice, senza riconoscere che tutto cio’ inquina, intossica l’animo soprattutto delle nuove generazioni, e finisce poi per condizionarne la stessa liberta’ - ha sottolineato - La metafora del vento impetuoso di Pentecoste fa pensare a quanto invece sia prezioso respirare aria pulita, sia con i polmoni, quella fisica, sia con il cuore, quella spirituale, l’aria salubre dello spirito che e’ l’amore".
PAPA: OGGI AVVELENATI DA UN INQUINAMENTO MORALE *
CITTA’ DEL VATICANO - Il mondo di oggi è "avvelenato" oltre che da un inquinamento atmosferico anche da un inquinamento morale che offusca le menti e i cuori, "con immagini che spettacolarizzano il piacere, la violenza o il disprezzo per l’uomo e la donna": è quanto ha rimarcato papa Benedetto XVI , durante la messa di Pentecoste, festività che ricorda la discesa dello SpIrito Santo sugli apostoli, celebrata oggi nella Basilica di San Pietro.
Una Chiesa cattolica "meno affannata per le attività", "più dedita alla preghiera" e più concorde: è quella auspicata da Benedetto XVI oggi, nella messa solenne celebrata nella Basilica di San Pietro, in occasione della Pentecoste, il giorno in cui i vangeli collocano la discesa dello Spirito Santo - sotto forma di fiammelle di fuoco illuminanti- sugli apostoli. Ciò avvenne, secondo le Sacre Scritture, nella sala del Cenacolo, la stessa dell’Ultima Cena. Ma più del luogo fisico - ha spiegato il papa durante l’omelia - si parla dell’atteggiamento interiore dei discepoli, ’tutti questi erano perseveranti e concordi nella preghiera’, spiegano gli Atti degli Apostoli. "Dunque - ha commentato - la concordia dei discepoli è la condizione perché venga lo Spirito Santo e presupposto della concordia è la preghiera".
* ANSA» 2009-05-31 10:37 (per ulteriori aggiornamenti, cliccare sul rosso).
Ansa» 2009-05-30 15:01
PAPA: NON HO CAPITO PERCHE’ DIO HA SCELTO PROPRIO ME
CITTA’ DEL VATICANO - Papa Benedetto XVI, incontrando oggi i bambini dell’Opera missionaria, ha confessato di avere ancora oggi "difficoltà a capire come il Signore" possa avere destinato proprio lui a questo "mestiere". "Ma lo accetto, anche se mi sembra una cosa che vada molto oltre le mie forze; so che il Signore mi aiuta", ha detto.
’’Ancora ho difficolta’ di capire come il Signore poteva pensare a me, destinare me proprio a questo ministero, ma lo accetto dalle sue mani, anche se era una cosa sorprendente e che andava molto oltre le mie forze. Ma il Signore mi aiuta’’, ha detto Benedetto XVI parlando a braccio e rispondendo alla domanda di un bambino, che gli aveva chiesto se avesse mai pensato di diventare pontefice. Ratzinger ha sorriso e gli ha detto che non avrebbe mai pensato da bambino di diventare un giorno papa. ’’Sono stato un ragazzo abbastanza ingenuo in un piccolo paese, dimenticato nella provincia, lontano dai grandi centri’’, ha spiegato. Certo, ha ricordato, amava come tutti i suoi compaesani Pio XI, un papa che appariva ai suoi occhi come ad ’’un’altezza irraggiungibile’’.
Un bambino "ingenuo", a cui talvolta capitava anche di litigare con i suoi coetanei, ma per fare poi subito pace. Così papa Ratzinger ha ricordato la sua infanzia a Traunstein - il paesino a ridosso del confine austriaco dove la sua famiglia si era trasferita da Marktl Am Inn - incontrando oggi in Vaticano alcune migliaia di ragazzi che fanno parte dell’associazione cattolica dell’Opera per l’Infanzia Missionarià. Alle domande di alcuni suoi piccoli fedeli, Ratzinger si è lasciato andare, volentieri, ad un amarcord. "Ho vissuto gli anni della scuola elementare - ha raccontato - in un piccolo paese di 400 abitanti, lontano dai centri abitati. Eravamo un po’ ingenui. La nostra famiglia era arrivata da un altro paese e noi, agli inizi, eravamo un po’ stranieri per loro, parlavamo anche un altro dialetto". "Tuttavia - ha proseguito - si era creata una bella comunione tra noi; mi hanno insegnato il loro dialetto, abbiamo collaborato, anche litigato e poi ci siamo riconciliati e dimenticato quanto accaduto". "Capita di litigare nella vita, ma l’importante è l’arte del perdono e della riconciliazione, che non lascia amarezze nell’anima", ha spiegato al suo uditorio nell’Aula Nervi.
Ratzinger ha ricordato come a 8-9 anni diventò chierichetto. "Le ragazze - ha osservato - leggevano meglio di noi e a loro era affidato il compito di leggere le sacre scritture". "Non eravamo santi - ha aggiunto sorridendo - ma eravamo una bella comunità, dove non c’erano distinzioni tra ricchi e poveri". Nel 1937, la sua famiglia si trasferì ancora e da allora non é più tornato in quel paesino. "Ma siamo ancora amici", ha concluso.
Il Papa: «L’Europa riscopra
e difenda le radici cristiane» (Avvenire, 11 Novembre 2009)
"Tutti coloro che hanno a cuore l’autentico umanesimo e il futuro dell’Europa sappiano riscoprire, apprezzare e difendere il ricco patrimonio culturale e religioso di questi secoli". Con questo appello il Papa a concluso la catechesi generale dell’udienza di oggi, interamente dedicata al "contributo importante e prezioso" apportato dalla riforma cluniacense al "processo di formazione dell’identità europea", che mille anni fa era in pieno svolgimento.
Quando l’Ordine di Cluny era in "piena espansione", ha ricordato infatti Benedetto XVI, tale riforma nel processo di "lunga gestazione" dell’identità del nostro Continente "ha portato a riconoscere in modo sempre più chiaro due elementi fondamentali per la costruzione della società: il valore della persona umana e il bene primario della pace". "Mille anni fa - le parole del Pontefice - mentre era in pieno svolgimento il processo di formazione dell’identità europea, la riforma di Cluny ha dato un contributo importante e prezioso: ha richiamato il primato dei beni dello Spirito, ha tenuto desta l’attenzione verso il primato di Dio, ha favorito nelle istituzioni la promozione dei valori umani, ha educato ad uno spirito di pace".
“La riforma cluniacense - ha detto Benedetto XVI ai 9 mila fedeli riuniti nell’Aula Paolo VI - ha avuto effetti positivi non solo per la purificazione e il risveglio della vita monastica, ma della vita della Chiesa universale”. In particolare, il movimento partito dall’abbazia di Cluny - che nel XII secolo, “momento della sua massima espansione”, contava quasi 1.200 monasteri - rappresentò “uno stimolo a combattere due grandi mali”, tipici della Chiesa dell’epoca: “la simonia, cioè l’acquisizione di cariche pastorali dietro compenso, e l’immoralità del clero secolare”. ”Con la loro autorevolezza morale”, ha sottolineato il Papa, gli abati di Cluny sono stati “protagonisti di un imponente azione di rinnovamento spirituale”; in particolare, “il celibato sacerdotale tornò ad essere stimato e furono introdotte procedure più trasparenti” nell’attribuzione delle cariche ecclesiastiche. Molti, inoltre, i “benefici” portati da tale movimento monastico “alla società”, soprattutto con due istituzioni tipicamente medioevali: le “tregue di Dio” e la “pace di Dio”. “In un’epoca dominata dalla violenza e dallo spirito di vendetta - ha ricordato il Papa - le tregue di Dio assicuravano lunghi periodi di non belligeranza, e con l pace di Dio si chiedeva, pena la sanzione canonica, di rispettare le persone inermi e i luoghi santi”.
Grazie al “grande movimento monastico” di Cluny - è in sintesi l’analisi del Papa - si formò “un’Europa dello Spirito” nelle varie regioni del nostro continente, come in Francia, Italia, Germania, Spagna e Ungheria. “Un successo assicurato - ha precisato Benedetto XVI - dalla spiritualità elevata, ma anche da alcune condizioni che ne garantirono lo sviluppo”. Tra queste, il Pontefice ha citato il fatto che i monasteri che facevano capo a Cluny erano “esenti dalla giurisdizione del vescovo e sottoposti direttamente a quella del Pontefice”. Proprio grazie a questo “legame speciale con la sede di Pietro” l’Ordine di Cluny poté mantenere e diffondere il suo “ideale di purezza e di fedeltà” evangelica, “senza alcuna ingerenza delle autorità civili”. Fra le caratteristiche della riforma cluniacense che hanno portato ad un “profondo rinnovamento della vita monastica”, il Papa ha menzionato la “tanta importanza” riservata alla liturgia. “Per custodire e alimentare il clima di preghiera”, ha aggiunto il Pontefice, l’Ordine di Cluny “accentuò l’importanza del silenzio, a cui i monaci si sottoponevano volentieri, convinti che la purezza delle virtù a cui aspiravano richiedessero un intimo e costante raccoglimento”. I monaci cluniacensi arricchirono, infine, il calendario liturgico, inserendovi ad esempio la festività dei Defunti.