Discorso Papa: "Non posso imporre fede, chiedo verita’"
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Il Papa non può imporre "ad altri in modo autoritario la fede", ma può mantenere "desta la sensibilità per la verità": così spiega Benedetto XVI , nel discorso che avrebbe dovuto tenere domani all’Università della Sapienza e che è stato diffuso oggi pomeriggio dalla Sala Stampa Vaticana. Un discorso che non è stato modificato in quelle parti dove contiene riferimenti alla presenza fisica del Pontefice nell’Aula Magna dell’ateneo romano. "Cosa ha da fare o da dire il Papa nell’Università?" si chiede Ratzinger. "Sicuramente non deve cercare di imporre ad altri in modo autoritario la fede, che può essere solo donata in libertà", risponde. "E’ suo compito - spiega - mantenere desta la sensibilità per la verità; invitare sempre di nuovo la ragione a mettersi alla ricerca del vero, del bene, di Dio e, su questo cammino, sollecitarla a scorgere le utili luci sorte lungo la storia cristiana e a percepire così Gesù Cristo come la luce che illumina la storia e aiuta a trovare la via verso il futuro".
La ragione non diventi sorda al messaggio della fede cristiana, altrimenti "inaridisce" come un albero che non ha più acqua. Lo afferma Benedetto XVI. "Il pericolo del mondo occidentale - osserva papa Ratzinger - è oggi che l’uomo, proprio in considerazione della grandezza del suo sapere e potere, si arrenda davanti alla questione della verità". E ciò significa "allo stesso tempo che la ragione, alla fine, si piega davanti alla pressione degli interessi e all’attrattiva dell’utilità, costretta a riconoscerla come criterio ultimo". Dal punto di vista "della struttura dell’università", ciò significa che "esiste il pericolo che la filosofia, non sentendosi più capace del suo vero compito, si degradi in positivismo; che la teologia col suo messaggio rivolto alla ragione, venga confinata nella sfera privata di un gruppo più o meno grande". Secondo Benedetto XVI, "se però la ragione - sollecita della sua presunta purezza - diventa sorda al grande messaggio che le viene dalla fede cristiana e dalla sua sapienza, inaridisce come un albero le cui radici non raggiungono più le acque che gli danno vita. Perde il coraggio per la verità e così non diventa più grande, ma più piccola". Per il Papa, "applicato alla nostra cultura europea ciò significa: se essa vuole solo autocostruirsi in base al cerchio delle proprie argomentazioni e a ciò che al momento la convince e - preoccupata della sua laicità - si distacca dalle radici delle quali vive, allora non diventa più ragionevole e più pura, ma si scompone e si frantuma".
Papa Benedetto XVI, nel discorso che avrebbe dovuto tenere domani alla Sapienza e il cui testo è stato diffuso stasera, ammette che le "autorità ecclesiali" hanno talvolta sbagliato nel corso della storia. "Ma allo stesso tempo - avverte - è vero che la storia dei santi, la storia dell’umanesimo cresciuto sulla base della fede cristiana dimostra la verità di questa fede nel suo nucleo essenziale, rendendola con ciò anche un’istanza per la ragione pubblica". "Varie cose dette da teologi nel corso della storia o anche tradotte nella pratica dalle autorità ecclesiali, sono state dimostrate false dalla storia e oggi ci confondono", riconosce Benedetto XVI; tuttavia, ciò non deve provocare chiusure "davanti a ciò che le religioni ed in particolare la fede cristiana hanno ricevuto e donato all’umanità come indicazione di cammino".
PAPA-SAPIENZA, APPELLO DI RUINI PER MANIFESTAZIONE A S.PIETRO *
Il Cardinale vicario Camillo Ruini ha oggi invitato tutti i fedeli e i cittadini romani ad una manifestazione riparatoria e di solidarietà con Benedetto XVI, una sorta di "Papa-day" dopo l’"oltraggio" subito da Ratzinger ad opera dei contestatori anti-pontifici dell’Università La Sapienza. Appuntamento per le 12:00 di domenica 20 gennaio in piazza San Pietro per la preghiera dell’Angelus. L’iniziativa del porporato ha già raccolto l’adesione di partiti politici, da Forza Italia ad Alleanza Nazionale, ed ha catalizzato l’entusiasmo di movimenti e organizzazioni cattoliche, tra cui quel Forum delle Famiglie, che il 12 maggio a San Giovanni radunò centinaia di migliaia di persone. Anche se il vicariato parla sopratutto di una manifestazione di "amore e gratitudine" verso il Papa, dopo una vicenda "che colpisce dolorosamente tutta la città di Roma", è probabile che ciò si trasformi in una prova di forza della mobilitazione cattolica contro le "ristrettezze dell’ideologia", come le ha definite Ruini. Stavolta la Chiesa non ha aspettato o voluto che fossero altri a cavalcare l’ondata dell’indignazione provocata dalla mancata visita del Papa nell’Ateno romano. Ha agito in prima persona.
Nella mattinata, mentre il Papa si affacciava per l’udienza generale nell’Aula Nervi, il porporato ha diffuso il suo comunicato per indire il raduno di domenica. "La Chiesa di Roma - ha scritto il porporato - esprime la sua filiale e totale vicinanza al proprio vescovo , il Papa, e dà voce a quell’amore, a quella fiducia, a quell’ammirazione e gratitudine per Benedetto XVI che è nel cuore del popolo di Roma". "Per consentire a tutti di manifestare questi sentimenti - ha argomentato - invito i fedeli, ma anche tutti i romani, ad essere presenti in piazza San Pietro per la recita dell’Angelus di domenica prossima 20 gennaio. Sarà un gesto di affetto e di serenità, sarà espressione della gioia che proviamo nell’avere Benedetto XVI come nostro Vescovo e come nostro Papa". Poi, al Tg2, il porporato ha attaccato a testa bassa i contestatori della Sapienza.
"E’ stata una vicenda triste e anche in fondo banale, perché non c’era nessun motivo per ostacolare la visita del Papa", ha detto. "Gli studenti mi hanno fatto veramente tristezza - ha aggiunto - Li ho sentiti anche in televisione dopo l’annuncio, l’esultanza, e pensavo: questi giovani, purtroppo, non hanno senso della realtà e sono fermi almeno a 40 anni fa, come se adesso, nel 2008, vivessimo la stagione del ’68’’. "Penso il contrario - ha affermato -, il Tevere non è mai diventato realmente più largo, diventa più largo nelle immagini pubbliche ma non nel sentimento della gente". E così, l’iniziativa di domenica servirà anche a dimostrare, secondo Ruini , che a Roma vive "un popolo solo". Il messaggio del cardinale vicario è stato subito recepito: "andremo all’Angelus", hanno promesso i dirigenti di An, Gasparri, la Russa e Ronchi; anche il leader dell’Udc, Pier Ferdinando Casini si è unito all’iniziativa, come pure gli studenti di Forza Italia, e la fondazione Magna Charta; poi a pioggia sono arrivate le adesioni dell’associazionismo cattolico: da "Rinnovamento nello Spirito" a "Scienza e Vita", dal Movimento Cristiani Lavoratori al Forum delle Famiglie.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA TRAPPOLA DEL DOPPIO LEGAME.
PER UN RI-ORIENTAMENTO TEOLOGICO-POLITICO E ANTROPOLOGICO!!!
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Pubblichiamo di seguito il testo dell’Allocuzione che il Santo Padre Benedetto XVI avrebbe pronunciato nel corso della Visita all’Università degli Studi “La Sapienza” di Roma, prevista per giovedì 17 gennaio e annullata martedì.
ALLOCUZIONE DEL SANTO PADRE
Magnifico Rettore,
Autorità politiche e civili,
Illustri docenti e personale tecnico amministrativo,
cari giovani studenti!
È per me motivo di profonda gioia incontrare la comunità della “Sapienza - Università di Roma” in occasione della inaugurazione dell’anno accademico. Da secoli ormai questa Università segna il cammino e la vita della città di Roma, facendo fruttare le migliori energie intellettuali in ogni campo del sapere. Sia nel tempo in cui, dopo la fondazione voluta dal Papa Bonifacio VIII, l’istituzione era alle dirette dipendenze dell’Autorità ecclesiastica, sia successivamente quando lo Studium Urbis si è sviluppato come istituzione dello Stato italiano, la vostra comunità accademica ha conservato un grande livello scientifico e culturale, che la colloca tra le più prestigiose università del mondo. Da sempre la Chiesa di Roma guarda con simpatia e ammirazione a questo centro universitario, riconoscendone l’impegno, talvolta arduo e faticoso, della ricerca e della formazione delle nuove generazioni. Non sono mancati in questi ultimi anni momenti significativi di collaborazione e di dialogo. Vorrei ricordare, in particolare, l’Incontro mondiale dei Rettori in occasione del Giubileo delle Università, che ha visto la vostra comunità farsi carico non solo dell’accoglienza e dell’organizzazione, ma soprattutto della profetica e complessa proposta della elaborazione di un “nuovo umanesimo per il terzo millennio”.
Mi è caro, in questa circostanza, esprimere la mia gratitudine per l’invito che mi è stato rivolto a venire nella vostra università per tenervi una lezione. In questa prospettiva mi sono posto innanzitutto la domanda: Che cosa può e deve dire un Papa in un’occasione come questa? Nella mia lezione a Ratisbona ho parlato, sì, da Papa, ma soprattutto ho parlato nella veste del già professore di quella mia università, cercando di collegare ricordi ed attualità. Nell’università “Sapienza”, l’antica università di Roma, però, sono invitato proprio come Vescovo di Roma, e perciò debbo parlare come tale. Certo, la “Sapienza” era un tempo l’università del Papa, ma oggi è un’università laica con quell’autonomia che, in base al suo stesso concetto fondativo, ha fatto sempre parte della natura di università, la quale deve essere legata esclusivamente all’autorità della verità. Nella sua libertà da autorità politiche ed ecclesiastiche l’università trova la sua funzione particolare, proprio anche per la società moderna, che ha bisogno di un’istituzione del genere.
Ritorno alla mia domanda di partenza: Che cosa può e deve dire il Papa nell’incontro con l’università della sua città? Riflettendo su questo interrogativo, mi è sembrato che esso ne includesse due altri, la cui chiarificazione dovrebbe condurre da sé alla risposta. Bisogna, infatti, chiedersi: Qual è la natura e la missione del Papato? E ancora: Qual è la natura e la missione dell’università? Non vorrei in questa sede trattenere Voi e me in lunghe disquisizioni sulla natura del Papato. Basti un breve accenno. Il Papa è anzitutto Vescovo di Roma e come tale, in virtù della successione all’Apostolo Pietro, ha una responsabilità episcopale nei riguardi dell’intera Chiesa cattolica. La parola “vescovo”-episkopos, che nel suo significato immediato rimanda a “sorvegliante”, già nel Nuovo Testamento è stata fusa insieme con il concetto biblico di Pastore: egli è colui che, da un punto di osservazione sopraelevato, guarda all’insieme, prendendosi cura del giusto cammino e della coesione dell’insieme. In questo senso, tale designazione del compito orienta lo sguardo anzitutto verso l’interno della comunità credente. Il Vescovo - il Pastore - è l’uomo che si prende cura di questa comunità; colui che la conserva unita mantenendola sulla via verso Dio, indicata secondo la fede cristiana da Gesù - e non soltanto indicata: Egli stesso è per noi la via. Ma questa comunità della quale il Vescovo si prende cura - grande o piccola che sia - vive nel mondo; le sue condizioni, il suo cammino, il suo esempio e la sua parola influiscono inevitabilmente su tutto il resto della comunità umana nel suo insieme. Quanto più grande essa è, tanto più le sue buone condizioni o il suo eventuale degrado si ripercuoteranno sull’insieme dell’umanità. Vediamo oggi con molta chiarezza, come le condizioni delle religioni e come la situazione della Chiesa - le sue crisi e i suoi rinnovamenti - agiscano sull’insieme dell’umanità. Così il Papa, proprio come Pastore della sua comunità, è diventato sempre di più anche una voce della ragione etica dell’umanità.
Qui, però, emerge subito l’obiezione, secondo cui il Papa, di fatto, non parlerebbe veramente in base alla ragione etica, ma trarrebbe i suoi giudizi dalla fede e per questo non potrebbe pretendere una loro validità per quanti non condividono questa fede. Dovremo ancora ritornare su questo argomento, perché si pone qui la questione assolutamente fondamentale: Che cosa è la ragione? Come può un’affermazione - soprattutto una norma morale - dimostrarsi “ragionevole”? A questo punto vorrei per il momento solo brevemente rilevare che John Rawls, pur negando a dottrine religiose comprensive il carattere della ragione “pubblica”, vede tuttavia nella loro ragione “non pubblica” almeno una ragione che non potrebbe, nel nome di una razionalità secolaristicamente indurita, essere semplicemente disconosciuta a coloro che la sostengono. Egli vede un criterio di questa ragionevolezza fra l’altro nel fatto che simili dottrine derivano da una tradizione responsabile e motivata, in cui nel corso di lunghi tempi sono state sviluppate argomentazioni sufficientemente buone a sostegno della relativa dottrina. In questa affermazione mi sembra importante il riconoscimento che l’esperienza e la dimostrazione nel corso di generazioni, il fondo storico dell’umana sapienza, sono anche un segno della sua ragionevolezza e del suo perdurante significato. Di fronte ad una ragione a-storica che cerca di autocostruirsi soltanto in una razionalità a-storica, la sapienza dell’umanità come tale - la sapienza delle grandi tradizioni religiose - è da valorizzare come realtà che non si può impunemente gettare nel cestino della storia delle idee.
Ritorniamo alla domanda di partenza. Il Papa parla come rappresentante di una comunità credente, nella quale durante i secoli della sua esistenza è maturata una determinata sapienza della vita; parla come rappresentante di una comunità che custodisce in sé un tesoro di conoscenza e di esperienza etiche, che risulta importante per l’intera umanità: in questo senso parla come rappresentante di una ragione etica. Ma ora ci si deve chiedere: E che cosa è l’università? Qual è il suo compito? È una domanda gigantesca alla quale, ancora una volta, posso cercare di rispondere soltanto in stile quasi telegrafico con qualche osservazione. Penso si possa dire che la vera, intima origine dell’università stia nella brama di conoscenza che è propria dell’uomo. Egli vuol sapere che cosa sia tutto ciò che lo circonda. Vuole verità. In questo senso si può vedere l’interrogarsi di Socrate come l’impulso dal quale è nata l’università occidentale. Penso ad esempio - per menzionare soltanto un testo - alla disputa con Eutifrone, che di fronte a Socrate difende la religione mitica e la sua devozione. A ciò Socrate contrappone la domanda: “Tu credi che fra gli dei esistano realmente una guerra vicendevole e terribili inimicizie e combattimenti ... Dobbiamo, Eutifrone, effettivamente dire che tutto ciò è vero?” (6 b - c). In questa domanda apparentemente poco devota - che, però, in Socrate derivava da una religiosità più profonda e più pura, dalla ricerca del Dio veramente divino - i cristiani dei primi secoli hanno riconosciuto se stessi e il loro cammino. Hanno accolto la loro fede non in modo positivista, o come la via d’uscita da desideri non appagati; l’hanno compresa come il dissolvimento della nebbia della religione mitologica per far posto alla scoperta di quel Dio che è Ragione creatrice e al contempo Ragione-Amore. Per questo, l’interrogarsi della ragione sul Dio più grande come anche sulla vera natura e sul vero senso dell’essere umano era per loro non una forma problematica di mancanza di religiosità, ma faceva parte dell’essenza del loro modo di essere religiosi. Non avevano bisogno, quindi, di sciogliere o accantonare l’interrogarsi socratico, ma potevano, anzi, dovevano accoglierlo e riconoscere come parte della propria identità la ricerca faticosa della ragione per raggiungere la conoscenza della verità intera. Poteva, anzi doveva così, nell’ambito della fede cristiana, nel mondo cristiano, nascere l’università.
È necessario fare un ulteriore passo. L’uomo vuole conoscere - vuole verità. Verità è innanzitutto una cosa del vedere, del comprendere, della theoría, come la chiama la tradizione greca. Ma la verità non è mai soltanto teorica. Agostino, nel porre una correlazione tra le Beatitudini del Discorso della Montagna e i doni dello Spirito menzionati in Isaia 11, ha affermato una reciprocità tra “scientia” e “tristitia”: il semplice sapere, dice, rende tristi. E di fatto - chi vede e apprende soltanto tutto ciò che avviene nel mondo, finisce per diventare triste. Ma verità significa di più che sapere: la conoscenza della verità ha come scopo la conoscenza del bene. Questo è anche il senso dell’interrogarsi socratico: Qual è quel bene che ci rende veri? La verità ci rende buoni, e la bontà è vera: è questo l’ottimismo che vive nella fede cristiana, perché ad essa è stata concessa la visione del Logos, della Ragione creatrice che, nell’incarnazione di Dio, si è rivelata insieme come il Bene, come la Bontà stessa.
Nella teologia medievale c’è stata una disputa approfondita sul rapporto tra teoria e prassi, sulla giusta relazione tra conoscere ed agire - una disputa che qui non dobbiamo sviluppare. Di fatto l’università medievale con le sue quattro Facoltà presenta questa correlazione. Cominciamo con la Facoltà che, secondo la comprensione di allora, era la quarta, quella di medicina. Anche se era considerata più come “arte” che non come scienza, tuttavia, il suo inserimento nel cosmo dell’universitas significava chiaramente che era collocata nell’ambito della razionalità, che l’arte del guarire stava sotto la guida della ragione e veniva sottratta all’ambito della magia. Guarire è un compito che richiede sempre più della semplice ragione, ma proprio per questo ha bisogno della connessione tra sapere e potere, ha bisogno di appartenere alla sfera della ratio. Inevitabilmente appare la questione della relazione tra prassi e teoria, tra conoscenza ed agire nella Facoltà di giurisprudenza. Si tratta del dare giusta forma alla libertà umana che è sempre libertà nella comunione reciproca: il diritto è il presupposto della libertà, non il suo antagonista. Ma qui emerge subito la domanda: Come s’individuano i criteri di giustizia che rendono possibile una libertà vissuta insieme e servono all’essere buono dell’uomo? A questo punto s’impone un salto nel presente: è la questione del come possa essere trovata una normativa giuridica che costituisca un ordinamento della libertà, della dignità umana e dei diritti dell’uomo. È la questione che ci occupa oggi nei processi democratici di formazione dell’opinione e che al contempo ci angustia come questione per il futuro dell’umanità. Jürgen Habermas esprime, a mio parere, un vasto consenso del pensiero attuale, quando dice che la legittimità di una carta costituzionale, quale presupposto della legalità, deriverebbe da due fonti: dalla partecipazione politica egualitaria di tutti i cittadini e dalla forma ragionevole in cui i contrasti politici vengono risolti. Riguardo a questa “forma ragionevole” egli annota che essa non può essere solo una lotta per maggioranze aritmetiche, ma che deve caratterizzarsi come un “processo di argomentazione sensibile alla verità” (wahrheitssensibles Argumentationsverfahren). È detto bene, ma è cosa molto difficile da trasformare in una prassi politica. I rappresentanti di quel pubblico “processo di argomentazione” sono - lo sappiamo - prevalentemente i partiti come responsabili della formazione della volontà politica. Di fatto, essi avranno immancabilmente di mira soprattutto il conseguimento di maggioranze e con ciò baderanno quasi inevitabilmente ad interessi che promettono di soddisfare; tali interessi però sono spesso particolari e non servono veramente all’insieme. La sensibilità per la verità sempre di nuovo viene sopraffatta dalla sensibilità per gli interessi. Io trovo significativo il fatto che Habermas parli della sensibilità per la verità come di elemento necessario nel processo di argomentazione politica, reinserendo così il concetto di verità nel dibattito filosofico ed in quello politico.
Ma allora diventa inevitabile la domanda di Pilato: Che cos’è la verità? E come la si riconosce? Se per questo si rimanda alla “ragione pubblica”, come fa Rawls, segue necessariamente ancora la domanda: Che cosa è ragionevole? Come una ragione si dimostra ragione vera? In ogni caso, si rende in base a ciò evidente che, nella ricerca del diritto della libertà, della verità della giusta convivenza devono essere ascoltate istanze diverse rispetto a partiti e gruppi d’interesse, senza con ciò voler minimamente contestare la loro importanza. Torniamo così alla struttura dell’università medievale. Accanto a quella di giurisprudenza c’erano le Facoltà di filosofia e di teologia, a cui era affidata la ricerca sull’essere uomo nella sua totalità e con ciò il compito di tener desta la sensibilità per la verità. Si potrebbe dire addirittura che questo è il senso permanente e vero di ambedue le Facoltà: essere custodi della sensibilità per la verità, non permettere che l’uomo sia distolto dalla ricerca della verità. Ma come possono esse corrispondere a questo compito? Questa è una domanda per la quale bisogna sempre di nuovo affaticarsi e che non è mai posta e risolta definitivamente. Così, a questo punto, neppure io posso offrire propriamente una risposta, ma piuttosto un invito a restare in cammino con questa domanda - in cammino con i grandi che lungo tutta la storia hanno lottato e cercato, con le loro risposte e con la loro inquietudine per la verità, che rimanda continuamente al di là di ogni singola risposta.
Teologia e filosofia formano in ciò una peculiare coppia di gemelli, nella quale nessuna delle due può essere distaccata totalmente dall’altra e, tuttavia, ciascuna deve conservare il proprio compito e la propria identità. È merito storico di san Tommaso d’Aquino - di fronte alla differente risposta dei Padri a causa del loro contesto storico - di aver messo in luce l’autonomia della filosofia e con essa il diritto e la responsabilità propri della ragione che s’interroga in base alle sue forze. Differenziandosi dalle filosofie neoplatoniche, in cui religione e filosofia erano inseparabilmente intrecciate, i Padri avevano presentato la fede cristiana come la vera filosofia, sottolineando anche che questa fede corrisponde alle esigenze della ragione in ricerca della verità; che la fede è il “sì” alla verità, rispetto alle religioni mitiche diventate semplice consuetudine. Ma poi, al momento della nascita dell’università, in Occidente non esistevano più quelle religioni, ma solo il cristianesimo, e così bisognava sottolineare in modo nuovo la responsabilità propria della ragione, che non viene assorbita dalla fede. Tommaso si trovò ad agire in un momento privilegiato: per la prima volta gli scritti filosofici di Aristotele erano accessibili nella loro integralità; erano presenti le filosofie ebraiche ed arabe, come specifiche appropriazioni e prosecuzioni della filosofia greca. Così il cristianesimo, in un nuovo dialogo con la ragione degli altri, che veniva incontrando, dovette lottare per la propria ragionevolezza. La Facoltà di filosofia che, come cosiddetta “Facoltà degli artisti”, fino a quel momento era stata solo propedeutica alla teologia, divenne ora una Facoltà vera e propria, un partner autonomo della teologia e della fede in questa riflessa. Non possiamo qui soffermarci sull’avvincente confronto che ne derivò. Io direi che l’idea di san Tommaso circa il rapporto tra filosofia e teologia potrebbe essere espressa nella formula trovata dal Concilio di Calcedonia per la cristologia: filosofia e teologia devono rapportarsi tra loro “senza confusione e senza separazione”. “Senza confusione” vuol dire che ognuna delle due deve conservare la propria identità. La filosofia deve rimanere veramente una ricerca della ragione nella propria libertà e nella propria responsabilità; deve vedere i suoi limiti e proprio così anche la sua grandezza e vastità. La teologia deve continuare ad attingere ad un tesoro di conoscenza che non ha inventato essa stessa, che sempre la supera e che, non essendo mai totalmente esauribile mediante la riflessione, proprio per questo avvia sempre di nuovo il pensiero. Insieme al “senza confusione” vige anche il “senza separazione”: la filosofia non ricomincia ogni volta dal punto zero del soggetto pensante in modo isolato, ma sta nel grande dialogo della sapienza storica, che essa criticamente e insieme docilmente sempre di nuovo accoglie e sviluppa; ma non deve neppure chiudersi davanti a ciò che le religioni ed in particolare la fede cristiana hanno ricevuto e donato all’umanità come indicazione del cammino. Varie cose dette da teologi nel corso della storia o anche tradotte nella pratica dalle autorità ecclesiali, sono state dimostrate false dalla storia e oggi ci confondono. Ma allo stesso tempo è vero che la storia dei santi, la storia dell’umanesimo cresciuto sulla basa della fede cristiana dimostra la verità di questa fede nel suo nucleo essenziale, rendendola con ciò anche un’istanza per la ragione pubblica. Certo, molto di ciò che dicono la teologia e la fede può essere fatto proprio soltanto all’interno della fede e quindi non può presentarsi come esigenza per coloro ai quali questa fede rimane inaccessibile. È vero, però, al contempo che il messaggio della fede cristiana non è mai soltanto una “comprehensive religious doctrine” nel senso di Rawls, ma una forza purificatrice per la ragione stessa, che aiuta ad essere più se stessa. Il messaggio cristiano, in base alla sua origine, dovrebbe essere sempre un incoraggiamento verso la verità e così una forza contro la pressione del potere e degli interessi.
Ebbene, finora ho solo parlato dell’università medievale, cercando tuttavia di lasciar trasparire la natura permanente dell’università e del suo compito. Nei tempi moderni si sono dischiuse nuove dimensioni del sapere, che nell’università sono valorizzate soprattutto in due grandi ambiti: innanzitutto nelle scienze naturali, che si sono sviluppate sulla base della connessione di sperimentazione e di presupposta razionalità della materia; in secondo luogo, nelle scienze storiche e umanistiche, in cui l’uomo, scrutando lo specchio della sua storia e chiarendo le dimensioni della sua natura, cerca di comprendere meglio se stesso. In questo sviluppo si è aperta all’umanità non solo una misura immensa di sapere e di potere; sono cresciuti anche la conoscenza e il riconoscimento dei diritti e della dignità dell’uomo, e di questo possiamo solo essere grati. Ma il cammino dell’uomo non può mai dirsi completato e il pericolo della caduta nella disumanità non è mai semplicemente scongiurato: come lo vediamo nel panorama della storia attuale! Il pericolo del mondo occidentale - per parlare solo di questo - è oggi che l’uomo, proprio in considerazione della grandezza del suo sapere e potere, si arrenda davanti alla questione della verità. E ciò significa allo stesso tempo che la ragione, alla fine, si piega davanti alla pressione degli interessi e all’attrattiva dell’utilità, costretta a riconoscerla come criterio ultimo. Detto dal punto di vista della struttura dell’università: esiste il pericolo che la filosofia, non sentendosi più capace del suo vero compito, si degradi in positivismo; che la teologia col suo messaggio rivolto alla ragione, venga confinata nella sfera privata di un gruppo più o meno grande. Se però la ragione - sollecita della sua presunta purezza - diventa sorda al grande messaggio che le viene dalla fede cristiana e dalla sua sapienza, inaridisce come un albero le cui radici non raggiungono più le acque che gli danno vita. Perde il coraggio per la verità e così non diventa più grande, ma più piccola. Applicato alla nostra cultura europea ciò significa: se essa vuole solo autocostruirsi in base al cerchio delle proprie argomentazioni e a ciò che al momento la convince e - preoccupata della sua laicità - si distacca dalle radici delle quali vive, allora non diventa più ragionevole e più pura, ma si scompone e si frantuma.
Con ciò ritorno al punto di partenza. Che cosa ha da fare o da dire il Papa nell’università? Sicuramente non deve cercare di imporre ad altri in modo autoritario la fede, che può essere solo donata in libertà. Al di là del suo ministero di Pastore nella Chiesa e in base alla natura intrinseca di questo ministero pastorale è suo compito mantenere desta la sensibilità per la verità; invitare sempre di nuovo la ragione a mettersi alla ricerca del vero, del bene, di Dio e, su questo cammino, sollecitarla a scorgere le utili luci sorte lungo la storia della fede cristiana e a percepire così Gesù Cristo come la Luce che illumina la storia ed aiuta a trovare la via verso il futuro.
Dal Vaticano, 17 gennaio 2008
Un papa incompatibile con la ‘Sapienza’
di Elio Rindone *
L’università, se è luogo di libera ricerca e di confronto rispettoso non solo delle persone ma anche delle tesi sostenute dai vari interlocutori, è incompatibile con maestri che presumono di possedere essi soli la verità. E simili maestri, oltretutto, pare che non siano apprezzati neanche da Gesù di Nazaret che, stando a Matteo 23, 6-10, criticava gli scribi e i farisei che “amano posti d’onore nei conviti, i primi seggi nelle sinagoghe e i saluti nelle piazze, come anche sentirsi chiamare ‘rabbì’ dalla gente".
La lettera dei 67 professori della ‘Sapienza’, che esprimevano al Rettore dell’Università la propria indignazione per l’invito rivolto al papa a intervenire all’inaugurazione dell’anno accademico, e le proteste annunciate per l’occasione da qualche centinaio di studenti sono state sufficienti al Vaticano per declinare l’invito, presentandosi come vittima di un’inaccettabile censura. I toni ossequiosi usati abitualmente da quasi tutti i politici e i giornalisti nei confronti della gerarchia ecclesiastica hanno evidentemente indotto Benedetto XVI a considerare intollerabile persino la contestazione di una sparuta minoranza critica. Eppure i motivi per giudicare decisamente poco opportuna l’iniziativa del Rettore non mancavano affatto.
Quell’invito, infatti, non pare giustificato dal prestigio dello studioso Joseph Ratzinger, uno dei tanti professori di teologia, forse neanche tra i più brillanti: se non fosse diventato papa, pochi si sarebbero accorti di lui al di fuori degli ambienti ecclesiastici. È la carica che riveste, dunque, che conferisce un peso rilevante alle sue parole, che del resto riecheggiano quotidianamente su tutti o quasi i mezzi d’informazione .......
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Il papa, infine, afferma di poter parlare anche ai non credenti ponendosi sul piano dell’argomentazione razionale: ‘come rappresentante di una ragione etica’, egli intende offrire ‘un tesoro di conoscenza e di esperienza etiche, che risulta importante per l’intera umanità’. Se il dialogo si svolge sul piano della ragione, perché gli studiosi, credenti o meno, dovrebbero rifiutarlo? Per un motivo semplicissimo: perché un vero confronto può realizzarsi solo tra soggetti che si riconoscono come ugualmente impegnati nella ricerca della verità e tutti disposti a mettere in discussione le proprie certezze. Non c’è invece alcuna possibilità di dialogo con chi ritiene che le proprie tesi siano incontestabilmente vere e che chi non le condivide attenta con ciò stesso alla dignità dell’uomo, essendo con tutta evidenza indotto in errore da una ragione non sufficientemente pura.
Purtroppo è proprio questa la posizione di Benedetto XVI. Egli infatti ha ribadito più volte quanto sosteneva nel 2002 come prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, e cioè che ci sono valori indiscutibili che non sono confessionali in quanto per essere riconosciuti non presuppongono la professione di fede cristiana, che la chiesa cattolica tuttavia ha il merito di confermare e tutelare sempre e dovunque. Ne consegue che le concezioni morali diverse da quella cattolica sono espressione di un pluralismo etico che testimonia la decadenza e la dissoluzione della ragione e dei principi della legge naturale (cfr. Nota Dottrinale circa alcune questioni riguardanti l’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica, nn 5 e 2).
Quindi l’intangibilità della vita umana dal concepimento al termine naturale, per esempio, per il papa non è una tesi opinabile ma una verità fondata sulla legge naturale. Ma come si fa a stabilire che si tratta di una verità e non di una semplice opinione, dal momento che, se è vero che alcuni pensatori portano argomenti a favore di questa tesi, è altrettanto vero che altri pensatori ne portano in senso contrario?
È a questo punto che Benedetto XVI getta sul piatto della bilancia il peso della sua autorità: vera è la tesi che appartiene a una lunga tradizione di saggezza morale, di cui il papa è in qualche modo il ‘rappresentante’. Questa mossa, però, sposta il livello del dibattito: non siamo più su un piano puramente razionale, in cui una tesi vale quanto valgono gli argomenti che la supportano. Siamo su un altro piano: infatti, per vedere proprio nel vescovo di Roma il custode di ‘un tesoro di conoscenza e di esperienza etiche’ è necessario un atto di fede, e non una fede qualunque ma specificamente cattolica, e per giunta di tipo tradizionale.
Né sembra sufficiente a giustificare la fiducia nel papa quale garante della verità etica l’argomento per cui protagonisti del dibattito pubblico sono prevalentemente i partiti politici che, mirando a conseguire la maggioranza in parlamento, tendono a preoccuparsi più di interessi particolari da soddisfare che del bene oggettivo da salvaguardare, sicché “La sensibilità per la verità sempre di nuovo viene sopraffatta dalla sensibilità per gli interessi”. Per riconoscere che i partiti sono mossi spesso dalla leva dell’interesse basta infatti l’uso della ragione, ma per credere che il Vaticano sia sempre mosso dalla sensibilità per la verità occorre una fede addirittura cieca!
In effetti, sebbene Benedetto XVI voglia far mostra di parlare in nome della ragione, la sua impostazione implica indubbiamente delle premesse che esulano dal piano razionale. Essa, infatti, presuppone una tesi che il papa dà per scontata ma che scontata non è: la fede cristiana, è ‘una forza purificatrice per la ragione stessa, che aiuta ad essere più se stessa’. Dietro quest’affermazione c’è evidentemente la dottrina del peccato originale, che avrebbe ferito la natura umana, sicché oggi l’uomo, facile preda dell’errore, può trovare soccorso, anche per quanto riguarda le verità naturali, nella rivelazione divina custodita dalla chiesa.
Ora, che la ragione umana sia fallibile è assolutamente certo: la tesi, invece, che la fede risani i guasti di un’umanità segnata dal peccato originale - la cui storicità si basa del resto su una discutibilissima interpretazione della Bibbia - è tutta da dimostrare, e non pare che la storia della chiesa possa confermarla. Basti pensare a grandi teologi cattolici, come Tommaso d’Aquino, per i quali l’inferiorità della donna e la schiavitù sono realtà iscritte nella natura, o a papi come Innocenzo IV, che autorizzano nei tribunali dell’Inquisizione l’uso della tortura. Tali idee non sono certo sostenute oggi dal magistero ma non possono essere giustificate ricordando che i loro autori, la cui ragione era certamente purificata dalla fede, subivano i condizionamenti del loro tempo: bisognerebbe altrimenti riconoscere che simili condizionamenti potrebbero esserci anche oggi, con conseguenze devastanti per chi pretende di purificare la ragione altrui.
È evidente, in ogni caso, che l’idea che una ragione non animata dalla fede cattolica sia particolarmente esposta all’errore rende impossibile un confronto paritetico, e non solo con il pensiero laico, irrimediabilmente inficiato dal suo relativismo, ma anche con le altre religioni e persino con le altre confessioni cristiane. Del resto, la Dichiarazione Dominus Jesus circa l’unicità e l’universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa, firmata nel 2000 dal card. Ratzinger come prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, afferma ciò esplicitamente. La parità vale per le persone ma non per le convinzioni, che non stanno affatto sullo stesso piano: “La parità, che è presupposto del dialogo, si riferisce alla pari dignità personale delle parti, non ai contenuti dottrinali”(n 22).
Alla luce di queste considerazioni, pare del tutto comprensibile l’inopportunità di offrire, in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico, una nuova tribuna per affermare le sue posizioni dogmatiche a un’autorità che ancora oggi, come scriveva Gilson riferendosi al medioevo, mira a instaurare ‘una vera teocrazia intellettuale’ e che, con sovrano sprezzo del ridicolo, nel corso dell’Angelus del 20 gennaio a piazza S. Pietro, ha avuto il coraggio di invitare i «cari universitari ad essere sempre rispettosi delle opinioni altrui e a ricercare [...] la verità e il bene».
L’università, se è luogo di libera ricerca e di confronto rispettoso non solo delle persone ma anche delle tesi sostenute dai vari interlocutori, è incompatibile con maestri che presumono di possedere essi soli la verità. E simili maestri, oltretutto, pare che non siano apprezzati neanche da Gesù di Nazaret che, stando a Matteo 23, 6-10, criticava gli scribi e i farisei che “amano posti d’onore nei conviti, i primi seggi nelle sinagoghe e i saluti nelle piazze, come anche sentirsi chiamare ‘rabbì’ dalla gente. Ma voi non fatevi chiamare ‘rabbì’, perché uno solo è il vostro maestro e voi siete tutti fratelli. E non chiamate nessuno ‘padre’ sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello del cielo. E non fatevi chiamare ‘maestri’, perché uno solo è il vostro Maestro, il Cristo”.
www.italialaica.it (15-5-2008)
* Per leggere l’intero articolo, cliccare qui-> sul rosso, Il Dialogo, Giovedì, 22 maggio 2008
Il Papa alla Sapienza
Signor Papa...
di Iacopo Fo
Signor Papa,
Ancora lei accusa altri di immoralità, se la prende con gli omosessuali, con chi soffre tanto da non poter più vivere, con chi cerca di avere figli con l’inseminazione artificiale. E strepita contro il decadimento dei costumi, la perdita del senso del sacro del Natale.
Lei dice che il diritto di stabilire ciò che è giusto gliel’ha dato Gesù direttamente affidando a San Pietro il compito di edificare la Chiesa del Signore.
Ora ci sono due cose che stanno sotto gli occhi del mondo: la Chiesa stessa ha ammesso che i Papi per secoli si sono macchiati di grandi crimini: hanno condotto guerre di conquista, bruciato decine di migliaia di supposti eretici e supposte streghe. E ci sono stati Papi che hanno venduto il perdono per gli assassini, pagavi ed eri perdonato prima ancora di commettere l’omicidio. Sono stati i frati Francescani a dare inizio alla tratta degli schiavi costata decine di milioni di morti. Sono stati i Papi a benedire lo sterminio di decine di milioni di nativi americani e tutti gli sterminii di 5 secoli di colonialismo. E cosa dire della persecuzione degli ebrei durata secoli e tollerata a volte, a volte incoraggiata dalla chiesa? E cosa dire di secoli di stupri e di ruberie, della complicità imperitura con ogni despota assassino, della benedizione dei colpi di stato, delle torture...ipocrisie menzogne Insomma, se una cosa è certa è che l’infallibilità dei Papi è un’assurdità.
Ora si dice che i papi possono errare sulle questioni materiali, politiche ma che la loro parola è infallibile sulle questioni spirituali.
Fu spiritualmente corretto vietare la traduzione dei Vangeli e la loro lettura ai laici fino al 1800?
Fu spiritualmente corretto far mercato delle cariche religiose, delle indulgenze, costringere alla conversione ebrei e indios?
In realtà, signor Papa, è sotto gli occhi del mondo che i Papi commisero ogni sorta di crimini e di errori dottrinali. Tant’è che via via molti si staccarono dalla Chiesa di Roma formando chiese meno impudenti. I protestanti di Martin Lutero, i Calvinisti, i Valdesi...
Le scelte attuali della Chiesa di Roma discendono non dalle parole di Gesù ma dalle scelte dottrinali di quei Papi dei quali la Chiesa ha recentemente riconosciuto le colpe. La concezione della parola di Gesù che la porta oggi ad essere così severo e poco tollerante, tanto da accettare che il povero Welby, non abbia un funerale in chiesa, non discende dai Vangeli. Discende dalle decisioni di uomini che avevano le mani sporche di sangue.
Nei Vangeli c’è scritto ben poco di quello che la Chiesa considera dogma religioso e di quel che viene insegnato a Catechismo. Gesù non nacque nell’anno zero ma qualche tempo prima, non nacque il 25 dicembre, non fu crocefisso a 33 anni.
Da nessuna parte nei Vangeli si dice che Maria fosse vergine fino alla nascita di Gesù, non si parla di Sacramenti, non si nomina né il Limbo né il Purgatorio e gli accenni all’Inferno sono molto vaghi e discutibili. Non si nominano chiese e cattedrali e anzi Gesù invita a non pregare in pubblico. Non si parla di sacerdozio né tanto meno di celibato dei preti (che fu stabilito solo intorno all’anno mille ma che fino al 1600 si poteva evitare comprando un’indulgenza). Non si parla del diritto della Chiesa a possedimenti materiali o a possedere banche (Gesù scacciò i mercanti dal Tempio). Non si parla di divieti sessuali: Gesù difese due donne condannate alla lapidazione per la loro condotta sessualmente immorale. Gesù le salva dicendo: perdonatele perché hanno peccato per troppo amore, stabilendo in questo modo l’assoluzione a priori delle trasgressioni amorose.
La dottrina della Chiesa è in realtà molto lontana dalla parola di Gesù. Per questo i Papi hanno vietato per più di un millennio la conoscenza diretta dei Vangeli e hanno torturato e ucciso chi cercava una pratica religiosa più vicina alla parola di Gesù: i Patarini, i Catari, Dolciniani. Sono morti perché volevano seguire i Vangeli. Rinchiusero in una cella immobilizzato, per anni Jacopo da Todi per la sua fede in Gesù. Quando fu liberato le sue ginocchia erano calcificate e non potè più camminare. Con Lutero non ci riuscirono. E quel che vedo, signor Papa è che ancora la Chiesa di Roma è restata a difendere posizioni autoritarie. Ancora vediamo l’amicizia con i dittatori sanguinari, banche e grandi interessi economici.
Per fortuna non bruciate più nessuno sul rogo ma quando qualcuno parla in modo irritante le leve economiche e politiche vengono spinte in modo tale da colpirlo violentemente. Ancora oggi la chiesa usa del suo potere terreno per condurre guerre contro gli eretici. Mi creda, caro Papa, gliene potrei raccontare parecchie subite personalmente. E allora mi sembra che qui ci siano parecchi problemi inerenti alla fede. E direi che lei, che mi dicono essere un fine filosofo, non può non notare che il seme della decadenza morale ha le proprie radici proprio nell’alveo della Chiesa di Roma, madre della cultura europea.
Quindi, caro Papa, non possiamo non annoverare tra le cause storiche che hanno portato alla perdita del senso del sacro e alla mercificazione della vita il cattolicesimo stesso. Da questo punto di vista le religioni primitive hanno dimostrato un’indiscutibile superiorità morale. Ora, santità, io e lei abbiamo una cosa in comune. Entrambi crediamo che solo da una rinascita del senso del sacro possa scaturire qualche cosa di buono.
Dall’alto della sua profonda conoscenza di grandi e indiscussi cristiani come San Tommaso potrà certamente convenire che Dio è mistero e che qualunque tentativo di definire questo mistero è una riduzione dell’immensa imponderabilità del segreto dell’esistenza del mondo. Quindi, che ci importa se Maria era Vergine o no? Converrà che non è quello il centro del problema.
E che ci importa se il matrimonio dei gay viene riconosciuto?
La questione è trovare il modo di raccontare la magia del mondo. Regalare agli altri la nostra sensazione di stupore di fronte al fatto di essere vivi. La gratitudine che l’essere coscienti di vivere sprigiona. E l’amore! Ma servono grandi gesti, oggi, per comunicare questa gioia (intermittente) assurda e impossibile di fronte alla sfida della vita.
Ecco, vorrei dire, lei, tutto inamidato, che appare al balcone e lancia anatemi, non mi sembra proprio il massimo dal punto di vista del marketing dello stupore della sensazione della comunione con il sacro. La vedrei più francescano, essenziale ma dinamico... Comunque non discuto.
Ma diamoci da fare veramente: ci sono milioni di possessori di cellulari da evangelizzare. Gli parli veramente di Gesù laddove dice che un’ora passata a giocare con i propri figli vale molto di più di un’auto nuova. Una sola ora. Suppongo che lei sia d’accordo sul concetto. Lo so che Gesù non lo ha detto con queste parole. Però ha detto: lasciate che i bambini vengano a me e qualche cosa a proposito dei semplici che erediteranno la terra. Bisogna giocare con i bambini. Perché avvicina al senso del sacro.
Lei che può faccia una postilla ai Vangeli. Oppure perché non si fa riprendere mentre gioca per un paio d’ore con un gruppo di bambini? Proprio giocare. Sarebbe un’immagine potente pensi ai titoloni sui giornali: “Anche il Papa ha bisogno della spiritualità dei bambini.” Portentoso!!! Un’immagine così potrebbe fare muro contro la decadenza dei costumi!!! Che poi, decadenza... smettiamola di parlare di decadenza. Nonostante tutto negli ultimi duemila anni c’è stato un continuo miglioramento morale. Anche nell’ambito dei Papi. Sono solo 150 anni che i Papi hanno smesso di essere dittatori sanguinari. E oggi la gente si indigna di fronte ai crimini e alle ingiustizie. Solo 50 anni fa non esistevano quasi i volontari della solidarietà che oggi in tutto il mondo sono decine di milioni. E fino a 50 anni fa picchiare le mogli e i figli era un diritto sancito dalla chiesa e dallo stato. Oggi è un crimine.
E vogliamo parlare di alfabetizzazione, di cultura, di qualità della fede? Le cose vanno meglio. E questo succede proprio perché esiste una potente forza positiva che muove la storia umana verso una continua, difficile, lenta e contraddittoria crescita mentale e spirituale.
Dobbiamo affermare questo. Dobbiamo sostenerlo. Dobbiamo farlo sapere. Basta con questo vezzo apocalittico. E’ possibile avere fede in un mondo migliore.
Dio ci vuole veramente bene!
Iacopo Fo
* Fonte: il dialogo. 18.01.2008
Sapienza e ironia
di Giulio Ferroni *
Tornando a Roma dopo un breve soggiorno in California per una conferenza all’Università di Los Angeles, Ucla ho trovato l’università dove insegno, la «Sapienza», proiettata sulla scena nazionale per la vicenda dell’invito al Papa: amplificata in un flusso di chiacchiere, di indignazioni, di deplorazioni, di posizionamenti, nel gioco delle parti a cui ci ha da tempo abituato il mondo dei talk show. La mente ancora carica delle impressioni del campus californiano avverte in modo estremo l’assurdità di questo teatro mediatico: sarebbe quasi tentata di mostrarne il carattere grottesco, se non fosse trattenuta da carità di patria, dalla vergogna per il livello della polemica e per lo scadimento dell’immagine e del prestigio della nostra università (e della «Sapienza» in particolare).
Ciò che è avvenuto, con tutti gli sproloqui e le amplificazioni che ci si avvolgono intorno, procura davvero un grave danno all’istituzione universitaria e alla sua funzione di centro vitale di discussione culturale, di elaborazione critica di scienza e ragione, di confronto con l’aggrovigliata complessità del presente. Come docente della stessa «Sapienza» ne ricavo ulteriore motivo di depressione, constatando che tutto è nato dalle iniziative di un gruppo di potere che gestisce la più grande università italiana affidandosi alle illusioni della comunicazione, ad una ricerca di effetti mediatici, a scapito dell’efficienza gestionale e della dinamica culturale. Come tanti altri “eventi” a cui la «Sapienza» ci ha abituato negli ultimi anni (come la parte che prende nell’Estate Romana), l’inaugurazione dell’anno accademico viene concepita come un’occasione di immagine: e se in passato si è avuta tutta una gamma di presenze, da Umberto Eco a Claudio Baglioni, quest’anno si era cercato di fare le cose più in grande, con un’esposizione a livello mondiale, grazie alla benedizione del papa teologo e filosofo. Folgorante illuminazione degli strateghi della comunicazione che, come capita spesso, attratti dallo splendore della loro immaginazione, non riescono a valutare le condizioni concrete della comunicazione, i suoi contesti critici, i suoi contenuti culturali. E tra le condizioni della «Sapienza» non andrebbe dimenticata la deriva amministrativa: basta pensare alla mancanza di spazi e di strumenti, che talvolta costringe ad avventurose peregrinazioni tra aule insufficienti, che ammassa spesso più docenti in stanzette dove è impossibile svolgere qualsiasi attività di ricerca (inutile pensarci freschi di una visita alla Ucla).
In queste condizioni non può darsi nessuna coinvolgente discussione culturale, nessuna valutazione e condivisione di scelte, come è accaduto nel caso dell’invito al papa. Una preliminare discussione in proposito poteva far toccare da vicino l’attuale contraddizione tra i livelli delle conoscenze e delle tecnologie e il ritorno invadente delle religioni, tra le sicurezze promesse dalle varie fedi e la radicale incertezza del mondo globalizzato; un confronto che avrebbe dovuto chiamare in causa non soltanto le scienze della natura, ma anche tutto l’orizzonte della cultura umanistica, i modelli di vita, le domande radicali sul senso e sul destino dei singoli e del mondo. Senza nessun confronto di questo tipo, il cercato effetto mediatico si è alla fine rovesciato su se stesso: e se l’evento è stato organizzato con superficiale leggerezza, malaccorto e affrettato è stato certamente anche il documento dei firmatari opponenti, la cui forma ha danneggiato le stesse giustissime ragioni laiche a cui essi facevano riferimento (peraltro non si trattava di dire di no ad una presenza del papa in generale, ma ad una sua presenza in una inaugurazione di anno accademico). A tutto ciò si è poi aggiunta l’azione di uno sparuto “collettivo”, che è riuscito addirittura ad “occupare” il Rettorato della «Sapienza», ma che non ha nessun rapporto con la base studentesca (che per giunta appare, ahimè, del tutto indifferente alla vicenda). Uno spaventoso boomerang, alla fine, da tutti i punti di vista, che danneggia non solo la «Sapienza» nel suo insieme, ma dà esca all’incredibile canaio dei media, amplificando la voce dei più diversi e variamente truccati nemici della scienza e della cultura, dei devoti più o meno fittizi di “Verità” supreme e definitive. Uno stupido colpo al rilievo di quel pensiero autenticamente critico e illuministico che solo può tentare oggi di salvare un mondo minacciato dall’accoppiata micidiale tra disastro ambientale, sovrappopolazione e fondamentalismi religiosi. Ma di fronte a tutto ciò, e a tanta furia di politici, giornalisti e opinionisti, sarebbe anche necessario sdrammatizzare, magari con un po’ d’ironia, come suggeriva ieri Adriano Prosperi sulle pagine di Repubblica: e forse un segno di ironia (illuministica e laica, certamente) potremmo estrarlo perfino dal programma ufficiale del fallito evento, dove si può leggere il nome del giovane destinato a porgere il saluto studentesco al pontefice, che si chiama Cristian Buonafede (non è uno scherzo, ma è proprio così: Borges non avrebbe potuto trovare di meglio).
* l’Unità, Pubblicato il: 17.01.08, Modificato il: 17.01.08 alle ore 8.23
Dai professori di fisica nessun intento censorio
di Giancarlo Ruocco (il manifesto, 16.01.2008)
Il 14 novembre del 2007 il professor Marcello Cini, docente emerito dell’ateneo, inviò una lettera aperta al rettore, pubblicata dal manifesto. La lettera esprimeva il disappunto per la decisione del rettore di invitare Benedetto XVI a tenere la Lectio magistralis di apertura dell’anno accademico dell’Università La Sapienza.
Pochi giorni dopo, alcuni docenti hanno sentito il dovere di appoggiare l’iniziativa, inviando una seconda lettera al rettore Renato Guarini nella quale si chiedeva di rinunciare all’invito. In queste due lettere non c’era alcun intento censorio nei confronti del Papa, bensì il desiderio di una parte della comunità accademica di esprimere la propria opinione sulla decisione del rettore.
Queste lettere, infatti, erano rivolte al rettore che aveva fatto la scelta di inaugurare l’anno accademico, momento simbolico per l’inizio di un percorso formativo, proponendo come docente Benedetto XVI, ossia il maggior rappresentante culturale di una confessione specifica. L’inaugurazione dell’anno accademico, cui partecipa un pubblico di docenti e studenti di diversa formazione politica e religiosa, non sembra essere il giusto contesto per una visita del Papa, o di qualsiasi altra autorità religiosa o politica che non si rapporti direttamente all’accademia. Infatti, insegnare ai giovani è una grande responsabilità che richiede di prescindere in ogni momento dalle proprie convinzioni religiose e ideologiche.
La presenza del Papa alla cerimonia di inaugurazione dell’anno accademico propone invece una interpretazione e lettura del mondo ben precisa, che pone la fede innanzi a ogni percorso della conoscenza. Tale posizione può risultare, come troppo spesso è avvenuto in passato, fonte di censura della conoscenza e non di confronto libero del sapere. In un altro, diverso contesto la visita sarebbe benvenuta, come qualsiasi forma di dialogo e confronto fra culture diverse.
Nessuno, tantomeno i docenti della Sapienza, vuole esercitare un arrogante diritto censorio sulla libertà di espressione del pensiero religioso, o politico che sia, in nome di un laicismo di stato, come afferma Galli della Loggia sul Corriere della Sera di ieri. I mezzi di comunicazione di massa, che raramente rivolgono la loro attenzione al mondo scientifico e universitario, dedicano l’apertura dei giornali e dei telegiornali a una lettera che si intendeva essere una lettera privata di un gruppo di docenti al loro rettore, ignorando invece la lettera aperta, pubblica, di Marcello Cini, inviata due mesi fa come quella qui in oggetto. Questa posizione da vigore e incoraggia schieramenti estremisti che nulla hanno a che vedere con la discussione avvenuta due mesi fa tra docenti e rettore.
Speriamo che questo evento, che sulla stampa ha acquisito connotati che non favoriscono il dialogo, possa invece incoraggiare un confronto sulla libertà del pensiero laico, non confessionale né politico, nelle istituzioni di formazione dei giovani, per arrivare nel caso a un confronto sui luoghi della fede e i luoghi della conoscenza, e su come e quando e dove sia lecito intrecciare fede e ragione.
* Direttore del Dipartimento di Fisica, destinatario della lettera dei docenti
RISPOSTA A MONSIGNOR RAVASI
sul rifiuto della Sapienza di Roma *
Monsignor Gianfranco Ravasi, fine biblista in questo articolo tratta soltanto di ciò che gli altri, gli studenti per esempio hanno detto al Papa: il NO! sonoro...
non dice però quel che il suo Papa (che adesso l’ha fatto arcivescovo) va affermando sempre in ogni sede circa i diritti civili moderni... a partire dal rispetto dell’autonomia scientifica e della ricerca...(ecco perchè è divenuto d’attualità Galileo ) e poi anche tutte le questioni della bioetica che toccano da vicino la vita delle persone... Per Ratzinger infatti la natura e la cultura o sono cattoliche o altrimenti sono nichilismo relativista (declino della civiltà occidentale)...no questo Ravasi lo tace!
E bravo Monsignor Ravasi neo- prelato vaticano. già imparata bene la lezione!: se vuoi far carriera col papa tedesco acqua in bocca o finisci da qualche parte... magari a lavare i piatti di un convento per esempio...
e mentre Lei Ravasi era applaudito dalle zitelle cattoliche e dalle donne pomeridiane dei suoi incontri milanesi di teologia, trasmessi anche in Radio... non applaudivano di certo i suoi studenti seminaristi che Lei trattava con fare di sufficienza e con buona dose di dispotismo (illuminato?)
eh i metodi alla Sapienza sono diversi che nei Seminari: mica lì son tutti allineati come a Venegono, Monsignore!
lo si capisce dalla supponenza e sbrigatività con la quale tratta quei professori e quei studenti...
Non valuta perchè hanno detto No al Papa: peferisce farli vedere cattivi o sprovveduti del tutto?
E dipingere il Papa come una vittima...
comodo, ma non realistico.
Riduttivo poi...
Chi cerca lo scontro non può poi gridare ai nemici!
Forse la sua è una difesa d’ufficio di Benedetto XVI, dovuta.
Ma almeno non bistratti più gli studenti...quelli altrui poi!
E se ama la cultura,anche quella degli "altri", cultura di cui è Presidente di un Pontificio Consiglio, cominci a farla apprezzare anche in Vaticano...
sarebbe un bel primo passo!
Tanti cari saluti, con fraterna cordialità.
+ Joannis Climacos Mapelli
PERCHE’
“Chi semina vento raccoglie tempesta”!
A me non piace ricorrere ai detti o citare proverbi perché li ritengo la tomba della ragione, una sorta di cristallizzazione della pigrizia mentale. Ma questa volta il detto/proverbio mi si è presentato immediato e spontaneo nella sua apoditticità.
Quando ci si ingolfa in un processo di sovraesposizione, mediatica e/o politica che sia, non ci si può che aspettare una reazione altrettanto alta di intolleranza e di insofferenza.
Da troppi anni andiamo assistendo ad una prevaricazione da parte della gerarchia ecclesiastica che mortifica la politica, emargina la diversità e condanna l’altrui pensiero. La brama ossessiva e possessiva nel rivendicare privilegi ed esenzioni, finanziamenti e protezioni; gli interventi altezzosi sul parlamento perché legiferi a suo (di lei Chiesa) piacimento; la miopia tutta autoreferenziale nel non scorgere valori là dove laicamente pur ci sono; tutto ciò ha contribuito a infliggere nella Chiesa una mutazione genetica tale da rendere difficile scorgere sul suo volto i lineamenti di quella comunità nella quale “le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo” (Lumen Gentium 1). Il volto di tenerezza e di simpatia che guarda al mondo con la passione dell’attenzione e dell’amore ha lasciato il posto, in questi lunghi e tristi anni, alla maschera del cipiglio che ordina e redarguisce. Il pastorale è diventato bastone, al grembiule del servo è stato sostituito il paludamento del principe e la testimonianza, unica, legittima forma di presenza della chiesa nella società, ha ceduto il passo all’ordinanza. Questo stravolgimento, a sua volta, ha trasformato la base stessa della chiesa “appiattita sulle logiche dello scambio, impoverita di ogni slancio profetico, lontana dal compito di offrire ad una società inquieta e per tanti aspetti lacerata motivi di fiducia, di speranza, di coesione” come ebbe a dire Pietro Scoppola già nel febbraio del 2001. La penna di Eugenio Scalfari, su Repubblica di domenica 13 Gennaio, ha descritto molto bene la situazione disastrosa in cui è stata ridotta ultimamente la comunità ecclesiale e quella civile insieme. «In Italia ci sono oggi due minoranze, quelle dei cattolici autentici e quella degli autentici laici. In mezzo c’è un corpaccione di laici e di cattolici “dimezzati”, che ostentano virtù civiche e religiose che non praticano affatto. Quella è la maggioranza del paese». E aggiunge «Il guaio è che la gerarchia ecclesiastica e il Magistero non sono affatto turbati da questa situazione paganeggiante. La loro preoccupazione è l’otto per mille, i contributi pubblici....».
Ora, se una tale affatto evangelica presenza della Chiesa nel paese lascia l’amaro in bocca a molti credenti, teologi e semplici fedeli, cosa non può creare nella coscienza dei dubbiosi e dei diffidenti? Se questa regia devastante riesce a disaffezionare il fedele, come non seminerà odio e risentimento nell’animo del miscredente?
Non c’è dubbio che nel ritorno di questo vecchio e becero anticlericalismo una buona parte di responsabilità è da addebitare alla chiesa stessa.
Il cardinale Ruini, sordo e miope allo stesso tempo, invece che chiedersi se non sia stato lui stesso il fautore di tanto sfascio, pervicacemente insiste sulla linea dello scontro, convocando in piazza San Pietro tutti i romani che “amano il papa”. Ci toccherà assistere ancora una volta al pubblico concubinaggio tra chiesa e politica, tra semplici, sprovveduti fedeli e interessati opportunisti politici, tra l’impudenza di atei devoti e l’imprudenza di pietosi devoti.
Siamo lontani anni luce dalla chiesa che emergeva dal Vaticano II, che era una Chiesa più attenta a lavare i piedi dell’umanità che non preoccupata di curare le vesti che portava addosso.
Lontani dall’ardire del grande teologo Enrico Chiavacci che nel 1996 scriveva: «Nessuna preoccupazione per il proprio trionfo e neppure per la propria sicurezza e tranquillità deve dettare le scelte della Chiesa...Tutte le espressioni esterne di autocompiacimento, di reclamizzazione o promozione dell’immagine, di trionfo ecclesiastico, devono essere senza esitazione bandite; esse annunciano un vangelo falso, e rendono non credibile l’autentico annuncio cristiano».
Aldo Antonelli
Antrosano 16 Gennaio 2008
Il primato che ritorna
di Rossana Rossanda (il manifesto, 16.01.2008)
Due giorni fa Joseph Ratzinger ha celebrato la messa nella cappella Sistina dando le spalle ai fedeli. Liturgia che il Vaticano II aveva sostituito con la celebrazione faccia a faccia perché non fosse un dialogo del sacerdote con dio, e i fedeli dietro, ma una celebrazione in comune. Ora si ritorna indietro. Da quando è papa ha riaperto ai lefebvriani, ha chiuso con il dialogo ecumenico all’interno stesso dell’area cristiana, ha negato nel non casuale lapsus culturale a Ratisbona, qualsiasi spiritualità all’islam, ha messo un alt all’avanzata di un sacerdozio femminile, ha ribadito l’obbligo del celibato per i sacerdoti, ha negato i sacramenti ai divorziati che si risposino, ha respinto nelle tenebre gli omosessuali, ha condannato non solo aborto e eutanasia, ma ogni forma di fecondazione assistita, ha interdetto la ricerca sugli embrioni, intervenendo ogni giorno direttamente o tramite i vescovi sulle politiche dello stato italiano. Tra un po’ risaremo al Sillabo.
Sono scelte meditate, che significano un passo indietro rispetto al Concilio Vaticano II, che era stato un aprire le braccia all’intera comunità cristiana e oltre, a quel più vasto «popolo di dio» che era costituito, per il clero più illuminato, anche dai laici. Insomma, come Cristo la chiesa ridiscendeva fra la gente, e non saliva obbligatoriamente con lui sulla croce. Era stato Giovanni XXIII - un papa che non vantava grandi meriti teologici - a guardare con generosità alla crisi del cattolicesimo nel mondo moderno e a riaprirne i varchi. E ne venne un grande fervore, la crisi parve per breve tempo sciogliersi negli anni Sessanta. Ora si incancrenisce di nuovo basta leggere le preoccupate informazioni di Filippo Gentiloni sul posto che ha oggi la pratica del cattolicesimo fra gli italiani, e la crisi delle vocazioni che ne consegue.
E’ con questo papa che l’intera sfera politica italiana, da destra a sinistra, a eccezione dei radicali, dialoga e compone, cedendo ogni giorno qualcosa di più. Già aveva cominciato Luigi Berlinguer a eludere il divieto costituzionale finanziando le scuole confessionali ma, se era una concessione, almeno non era il consenso a una perpetua interferenza. Che si è andata invece accentuando con Karol Woityla, dovunque le scelte politiche sfiorino il terreno della coscienza. Come se questa fosse dominio riservato alla religione, e perdipiù cattolica, e una coscienza laica non esistesse, o fosse di ordine inferiore.
Così ieri Giovanni Paolo II è stato invitato in quella sede eminentemente politica che è il Parlamento, cosa che ad Alcide de Gasperi non sarebbe mai venuta in mente e oggi Walter Veltroni trova che, Roma essendo sede del seggio pontificio, non è il caso di celebrarvi le unioni civili fra persone del medesimo sesso, e speriamo che non trovi maleducato continuare a celebrare quelle fra sessi diversi, ma maleducatamente civili. E l’università della capitale, dimentica che negli atenei nessuna autorità estranea, neppure i tedeschi occupanti aveva mai messo piede, invita Ratzinger - che ieri ha saggiamente rinunciato - a elargirle non so se parole o benedizioni, qualcuno sostenendo che sarebbe un sommo teologo l’autore delle due modeste encicliche su carità (o amore depurato da ogni eros) e speranza (nella salvezza), e d’un libro su Cristo che non ha fatto palpitare.
Che la destra vaticana voglia la riconquista dello stato si capisce. Che questo le spalanchi le porte no. Inviterei Veltroni e la costituente del Pd a rileggere il dibattito del 1905 sulla separazione fra stato e chiesa. In essa Jaurès argomentava come essa costituisca la sola garanzia di libertà per l’uno e per l’altra. O in una democrazia postmoderna, postcomunista, riformista è più trend ispirarsi all’Opus Dei della signora Binetti?
Papa e politica
In ginocchio da Ratzinger
di Marco Bascetta (il manifesto, 17.01.2008)
In una sola mossa, disdicendo la visita di Benedetto XVI all’Università La Sapienza di Roma, il Vaticano ha messo abilmente in ginocchio, e col capo cosparso di cenere, l’intera classe politica italiana, le istituzioni, la quasi totalità dei media. Non era imprevedibile, vista la qualità che oggi le contraddistingue. Dalla Presidenza della Repubblica a quella del Consiglio, dalle segreterie di partito all’ultimo sindaco, un coro unanime intona il dies irae.
E strepita sulla catastrofe della democrazia, sul trionfo dell’intolleranza e della censura. Ci propone l’incredibile immagine di un pontefice ( che come ognuno può constatare occupa quotidianamente un enorme spazio nell’informazione) imbavagliato e messo al bando da un manipolo di «laicisti». Gli insulti e le minacce, più o meno larvate, contro i collettivi studenteschi e i docenti che avevano segnalato, mesi fa, l’inopportunità di invitare il pontefice all’inaugurazione dell’anno accademico non si contano. Se c’è uno spettacolo vergognoso, ebbene, è questo. Messo in scena dalla grande maggioranza dei media con un dispiego di forze e un’enfasi senza precedenti.
Tutta questa vicenda, del resto, non è maturata nel vuoto. E non mi riferisco qui alle posizioni rigide di Ratzinger riguardo all’autonomia della scienza o della coscienza che dovrebbero essere discusse nel merito, ma a un mondo politico e istituzionale pronto a scattare sull’attenti a ogni nota della Santa sede, a ogni presa di posizione della Conferenza episcopale, se non a ogni editoriale de L’osservatore romano. L’invito di Benedetto XVI alla Sapienza ha infatti ben poco a che fare con un confronto culturale e molto con questo ossequio, non di rado dettato da cinismo e opportunismo politico.
Quello che la contestazione ha scompigliato (la più temuta, quella degli studenti soprattutto) non è certo il procedere impetuoso del discorso pubblico pontificio, ma il minuetto che la «casta» politica di centrodestra e di centrosinistra intende condurre con la gerarchia ecclesiastica, incurante delle sensibilità e delle scelte di vita di innumerevoli cittadini e cittadine. Non è un caso che, dopo la rinuncia di Ratzinger, la contestazione prenda di mira il ministro per l’università Fabio Mussi e il leader del Pd Walter Veltroni. Continuatore, il primo, delle peggiori politiche della sinistra nell’ università e garante, il secondo, della vocazione clericale di Roma, tra paternalismo e tolleranze zero, tra i più ferventi, entrambi, nello stracciarsi le vesti in difesa del pontefice.
Il dialogo e il confronto che questa classe politica ha in mente non è che un negoziato tra poteri sulla testa e sulla pelle di tutti. E la visita di Ratzinger alla Sapienza non poteva che assumere questa tonalità. O davvero, come scrive Ezio Mauro ai limiti dell’improntitudine, il mancato intervento di Benedetto XVI all’università sarebbe stato un libero e aperto confronto tra credenti e non, tra darwinisti e creazionisti, tra scienziati e guardiani della morale cattolica? Un dialogo? Non scherziamo. Si trattava di un monologo tanto sacrale da non ammettere espressioni di dissenso. E infatti, quando il dissenso si è manifestato, è stato assunto dal Vaticano come un’interdizione. E dal mondo politico come un crimine. marco bascetta
Bagnasco riaccende la polemica sulla mancata visita di Ratzinger alla Sapienza
La 194 "abominevole, da aggiornare". L’Italia "un Paese a coriandoli"
"Papa sconsigliato da autorità italiane"
Palazzo Chigi: "Mai date indicazioni" *
ROMA - La visita di Ratzinger alla Sapienza sarebbe stata sconsigliata dalle autorità italiane. Lo dice il presidente della Cei, cardinale Angelo Bagnasco, che nella prolusione d’apertura del Consiglio episcopale permanente riaccende la polemica sulla mancata visita di Benedetto XVI all’università di Roma. Parole alle quali replica una nota di Palazzo Chigi: "Il governo italiano non ha mai suggerito alle autorità vaticane di cancellare la visita". Il porporato torna all’attacco della legge sull’interruzione di gravidanza ("abominevole", va "almeno aggiornata in qualche punto"), rinnova il no alle unioni di fatto e conferma le analisi più preoccupate sulla situazione italiana: "paura del futuro" e "senso di fatalistico declino", "un Paese a coriandoli".
"La Sapienza, clima di ostilità". Benedetto XVI ha rinunciato alla visita alla Sapienza su suggerimento "dell’autorità italiana". Bagnasco parla del "grave episodio di intolleranza" e del "clima di ostilità" che ha "suggerito questa amara soluzione". Una rinuncia che, "se si è fatta necessariamente carico dei suggerimenti dell’autorità italiana, nasce essa stessa da un atto di amore del Papa per la sua città".
Palazzo Chigi: "Sicurezza Papa era garantita". Palazzo Chigi affida a una nota la replica alle parole di Bagnasco. Il governo italiano "non ha mai suggerito alle autorità vaticane di cancellare la visita" del 17 gennaio. Sia il presidente del Consiglio che il ministro dell’Interno, dopo la riunione del Comitato provinciale per la sicurezza - alla quale erano presenti anche i responsabili della gendarmeria vaticana - "hanno comunicato alle autorità vaticane che lo Stato italiano garantiva assolutamente la sicurezza e l’ordinato svolgimento della visita del Santo Padre".
"194 da aggiornare". La legge sull’interruzione di gravidanza, "abominevole", "va almeno aggiornata in qualche punto", visto "il portato delle nuove conoscenze e i progressi di scienza e medicina", e visto che "oltre le 22 settimane di gestazione c’è qualche possibilità di sopravvivenza" del feto. Il presidente della Cei ribadisce la posizione già espressa dal cardinale Camillo Ruini e sottolinea: "Il fatto che a trent’anni dall’approvazione della 194 la coscienza pubblica non abbia ’naturalizzato’ ciò che naturale non è, è un risultato importante, grazie a chi, come il Movimento per la vita, mai si è rassegnato". I vescovi chiedono "che si verifichi ciò che la legge ha prodotto, e ciò che non si è attivato, soprattutto in termini di prevenzione e aiuto alle donne, alle famiglie". E suggerisce che i fondi previsti dalla 194, "accresciuti da apporti delle Regioni, siano dati in dotazione trasparente a consultori e centri di aiuto alla vita".
"Italia, Paese a coriandoli". Il Paese è "sfilacciato, frammentato", "ridotto a coriandoli". E’ senza mezzi termini il ritratto dell’Italia fatto dal presidente della Cei. "Bloccato lo slancio e la crescita anche economica", vede "in giro paura del futuro e senso di fatalistico declino", "sfiducia diffusa e pericolosa", manifestata "anche da osservatori stranieri". Di fronte a tale quadro, "non credo di sbagliare se dico che è l’Italia, in particolare, ad avere oggi bisogno della speranza". Quel che interessa ai vescovi, precisa, è "guardare in profondità alla crisi interiore che è in parte causa e radice della crisi pubblica" pur tenendo conto delle "testimonianze di bene che prendono forma sul territorio" e della "riservatezza e capacità di sopportazione che rappresentano un indizio di ripresa e capacità di futuro".
"No a unioni di fatto e divorzio breve". La Chiesa sostiene "la famiglia fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna", per questo "si oppone alla regolamentazione per legge delle coppie di fatto, o all’introduzione di registri che surrogano lo stato civile". Da Bagnasco un secco no anche a riforme come quelle del "divorzio breve". "Conferendo diritti e privilegi alle persone conviventi - spiega - all’apparenza non si tolgono diritti e privilegi ai coniugi, ma di fatto si sottrae ai diritti e ai privilegi dei coniugi il motivo che è alla loro radice, ossia l’istituto matrimoniale. Che nessuno, a questo punto, può avere interesse a rendere inutile" o a "offuscare con iniziative, quali il divorzio breve, che avrebbero la forza di incidere sulla mentalità e il costume inducendo atteggiamenti di deresponsabilizzazione".
* la Repubblica, 21 gennaio 2008.
Io difendo quel palco
di Marco Travaglio *
Caro Direttore,
quando tutta la stampa (Unità compresa), tutte le tv e persino alcuni protagonisti dicono la stessa cosa, e cioè che l’altroieri in Piazza Navona due comici (Beppe Grillo e Sabina Guzzanti) e un giornalista (il sottoscritto) avrebbero “insultato” e addirittura “vilipeso” il capo dello Stato italiano e quello vaticano, la prima reazione è inevitabile: mi sono perso qualcosa? Mi sono distratto e non ho sentito alcune cose - le più gravi - dette da Beppe, da Sabina e da me stesso? Poi ho controllato direttamente sui video, tutti disponibili su You Tube e sui siti di vari giornali, ma non vi ho ritrovato ciò che è stato scritto e detto da tv e giornali.
Nessuno ha insultato né vilipeso Giorgio Napolitano né Benedetto XVI. Nessuno ha “rovinato una bella piazza”. È stata, come tu hai potuto constatare de visu, una manifestazione di grande successo, sia per la folla, sia per la qualità degli interventi (escluso ovviamente il mio). Per la prima volta si sono fuse in una cinque piazze che finora si erano soltanto sfiorate: quella di Di Pietro, quella di molti elettori del Pd, quella della sinistra cosiddetta radicale, quella dei girotondi e quella dei grillini, non sempre sovrapponibili. E un minimo di rigetto era da mettere in conto. Ma è stata una bella piazza plurale, sia sotto che sopra il palco: idee, linguaggi, culture, sensibilità, mestieri diversi, uniti da un solo obiettivo. Cacciare il Caimano.
Le prese di distanze e i distinguo interni, per non parlare delle polemiche esterne, sono un prodotto autoreferenziale del Palazzo (chi fa politica deve tener conto degli alleati, delle opportunità, degli elettori, di cui per fortuna gli artisti e i giornalisti, essendo “impolitici”, possono tranquillamente infischiarsi). La gente invece ha applaudito Grillo e Sabina come Colombo (anche quando ha chiesto consensi per Napolitano), Di Pietro, Flores e gli altri oratori, ma anche i politici delle più varie provenienze venuti a manifestare silenziosamente. Applausi contraddittorii, visto che gli applauditi dicevano cose diverse? Non credo proprio. Era chiaro a tutti che il bersaglio era il regime berlusconiano con le sue leggi canaglia, compresi ovviamente quanti non gli si oppongono.
Come mai allora questa percezione non è emersa, nemmeno nei commenti delle persone più vicine, come per esempio te e Furio? Io temo che viviamo tutti nel Truman Show inaugurato 15 anni fa da Al Tappone, che ci ha imposto paletti (anche mentali) sempre più assurdi e ci ha costretti, senza nemmeno rendercene conto, a rinunciare ogni giorno a un pezzettino della nostra libertà. Per cui oggi troviamo eccessivo, o addirittura intollerabile, ciò che qualche anno fa era normale e lo è tuttora nel resto del mondo libero (dove tra l’altro, a parte lo Zimbabwe, non c’è nulla di simile al governo Al Tappone). In Italia l’elenco delle cose che non si possono dire si allunga di giorno in giorno. Negli Stati Uniti, qualche anno fa, uscì senz’alcuno scandalo un libro di Michael Moore dal titolo «Stupid White Man» (pubblicato in Italia da Mondadori...), tutto dedicato alle non eccelse qualità intellettive del presidente Bush. Da dieci anni l’ex presidente Clinton non riesce a uscire da quella che è stata chiamata la «sala orale». In Francia, la tv pubblica ha trasmesso un programma satirico in cui un attore, parodiando il film «Pulp Fiction» in «Peuple fiction», irrompe nello studio del presidente Chirac, lo processa sommariamente per le sue innumerevoli menzogne, e poi lo fredda col mitra. A nessuno è mai venuto in mente di parlare di «antibushismo», di «anticlintonismo», di «antichirachismo», di «insulti alla Casa Bianca» o di «vilipendio all’Eliseo».
Tanto più alta è la poltrona su cui siede il politico, tanto più ampio è il diritto di critica e di satira e anche di attacco personale. Quelli che son risuonati l’altroieri in piazza Navona non erano «insulti». Erano critiche. Grillo, insolitamente moderato e perfino affettuoso, ha detto che «a Napolitano gli voglio bene, ma sonnecchia come Morfeo e firma tutto», compreso il via libera al lodo Alfano che crea una «banda dei quattro» con licenza di delinquere. Ha sostenuto che Pertini, Scalfaro e Ciampi non l’avrebbero mai firmato (sui primi due ha ragione: non su Ciampi, che firmò il lodo Schifani). E ha ricordato che l’altro giorno, mentre Napoli boccheggia sotto la monnezza, il presidente era a Capri a festeggiare il compleanno con la signora Mastella, reduce dagli arresti domiciliari, e Bassolino, rinviato a giudizio per truffa alla Regione che egli stesso presiede. Tutti dati di fatto che possono essere variamente commentati: non insulti o vilipendi. Io, in tre parole tre, ho descritto la vergognosa legge Berlusconi che istituisce un’«aggravante razziale» e dunque incostituzionale, punendo per lo stesso reato - gli immigrati irregolari più severamente degli italiani, e mi sono rammaricato del fatto che il Quirinale l’abbia firmata promulgando il decreto sicurezza. Nessun insulto: critica. Veltroni sostiene che io avrei «insultato» anche lui, e che «non è la prima volta».
Lo invito a rivedersi il mio intervento: nessun insulto, un paio di citazioni appena; per il resto la cronistoria puntuale dell’ennesima resurrezione di Al Tappone dalle sue ceneri grazie a chi come dice Furio Colombo «confonde il dialogo con i suoi monologhi». Sono altri dati di fatto, che possono esser variamente valutati, ma non è né insulto né vilipendio. O forse il Colle ha respinto al mittente qualche legge incostituzionale, e non me ne sono accorto? Sono o non sono libero di pensare e di dire che preferivo Scalfaro e i suoi no al Cavaliere? Oppure la libertà di parola, conquistata al prezzo del sangue dai nostri padri, s’è ridotta a libertà di applauso? Forse qualcuno dimentica che quella c’è anche nelle dittature. È la libertà di critica che contraddistingue le democrazie. Se poi a esercitarla su temi quali la laicità, gli infortuni sul lavoro, l’ambiente, la malafinanza, la malapolitica, il precariato, la legalità, la libertà d’informazione sono più i comici che i politici, questa non è certo colpa dei comici.
Poi c’è Sabina. Che ha fatto, di tanto grave, Sabina? Ha usato fino in fondo il privilegio della satira, che le consente di chiamare le cose con il loro nome senza le tartuferie e le ipocrisie del politically correct, del politichese e del giornalese: ha tradotto in italiano, con le parole più appropriate, quel che emerge da decine di cronache di giornale sulle presunte telefonate di una signorina dedita ad antichissime attività con l’attuale premier, che poi l’ha promossa ministra. Enrico Fierro ha raccolto l’altro giorno, su l’Unità, i pissi-pissi-bao-bao con cui i giornali di ogni orientamento, da Repubblica al Corriere, dal “Riformatorio” financo al Giornale, han raccontato quelle presunte chiamate (con la “m”). Ci voleva un quotidiano argentino, il Clarin, per usare il termine che comunemente descrive queste cose in Italia: «pompini», naturalmente di Stato. Quello di Sabina è stato un capolavoro di invettiva satirica, urticante e spiazzante come dev’essere un’invettiva satirica, senza mediazioni artistiche né perifrasi. Gli ignorantelli di ritorno che gridano «vergogna» non possono sapere che già nell’antica Atene, Aristofane era solito far interrompere le sue commedie con una «paràbasi», cioè con un’invettiva del corifeo che avanzava verso il pubblico e parlava a nome del commediografo, dicendo la sua sui problemi della città. Anche questa è satira (a meno che qualcuno non la confonda ancora con le barzellette). Si dirà: ma Sabina ha pure mandato il papa all’inferno. Posso garantire che, diversamente da me, lei all’inferno non crede. Quella era un’incursione artistica in un genere letterario inaugurato, se non ricordo male, da Dante Alighieri. Il quale spedì anticipatamente all’inferno il pontefice di allora, Bonifacio VIII, che non gli piaceva più o meno per le stesse ragioni per cui questo papa non piace a lei e a molti: le continue intromissioni del Vaticano nella politica.
Anche Dante era girotondino? Il fatto è che un vasto e variopinto fronte politico-giornalistico aveva preparato i commenti alla manifestazione ancor prima che iniziasse: demonizzatori, giustizialisti, estremisti, forcaioli, nemici delle istituzioni, e ovviamente alleati occulti del Cavaliere. Qualunque cosa fosse accaduta, avrebbero scritto quel che hanno scritto. Lo sapevamo, e abbiamo deciso di non cedere al ricatto, parlando liberamente a chi era venuto per ascoltarci, non per usarci come pedine dei soliti giochetti. Poi, per fortuna, a ristabilire la verità sono arrivati i commenti schiumanti di Al Tappone e di tutto il centrodestra: tutti inferociti perché la manifestazione spazza via le tentazioni di un’opposizione più morbida o addirittura di un inciucio sul lodo Alfano (ancora martedì sera, a Primo Piano, due direttori della sinistra «che vince», Polito e Sansonetti, proclamavano in stereo: «Chi se ne frega del lodo Alfano»). La prova migliore del fatto che la manifestazione contro il Caimano e le sue leggi-canaglia è perfettamente riuscita.
* l’Unità, Pubblicato il: 10.07.08, Modificato il: 10.07.08 alle ore 13.42