SCELTO IL SUCCESSORE DI RATZINGER
Il Pontefice è l’argentino Bergoglio
Francesco, primo Papa non europeo
“Vengo quasi dalla fine del mondo”
Figlio di una coppia piemontese,
gesuita, è cresciuto a Buenos Aires.
Vicino ai poveri, per spostarsi non
usa le auto blu ma la metropolitana
di Andrea Tornielli *
Città del Vaticano. Il gesuita Jorge Mario Bergoglio, Francesco, il primo Papa latinoamericano della storia, è un vescovo senza auto blu che nella sua Buenos Aires si sposta in metropolitana, rifugge gli appuntamenti mondani, e nel palazzo arcivescovile ha ricavato per sé soltanto un piccolo appartamento. Un vescovo che preferisce trascorrere il suo tempo nelle «villas miserias», le baraccopoli della capitale argentina. È un vescovo umile e profondamente spirituale, che quando ti saluta, chiede sempre di pregare per lui e che in questi anni nella grande metropoli argentina ha continuato a ripetere che la Chiesa deve mostrare il volto della misericordia di Dio. «Cerchiamo di essere una Chiesa che esce da se stessa e va verso gli uomini e le donne che non la frequentano, che non la conoscono, che se ne sono andate, che sono indifferenti...».
Nato 76 anni fa a Buenos Aires, figlio di una famiglia originaria di Portacomaro, nell’Astigiano, arrivata in Argentina un’afosa mattina di gennaio del 1929, Jorge è il quarto di cinque figli. Il padre, contabile, nel nuovo mondo si lascia alle spalle ogni nostalgia e con i figli non parla italiano. «La nonna Rosa veniva a prendermi, mi portava a casa con lei... I miei nonni tra di loro parlavano piemontese, ed è così che l’ho imparato».
Con il padre giocava a briscola e seguiva le partite di pallacanestro, con la madre ascoltava musica. «Ogni sabato, alle due del pomeriggio, ascoltavamo le opere liriche che venivano trasmesse dalla Radio di Stato. Prima che iniziasse, la mamma ci spiegava l’opera, ci avvisava quando stava per cominciare l’aria più importante e conosciuta... Era una bellezza, per me, gustare la musica».
Insieme ai fratelli, il nuovo Papa ha imparato presto a cucinare: «Mia madre - ha raccontato nel libro intervista “El Jesuita” pubblicato tre anni fa - rimase paralitica dopo aver partorito l’ultimo figlio, il quinto. Quando tornavamo da scuola, la trovavamo seduta a pelare patate, con tutti gli altri ingredienti per il pranzo già disposti. Ci diceva come dovevamo mescolarli e cucinarli».
Diventato sacerdote e professore, Bergoglio ha continuato ad esercitarsi: «Nel Collegio Massimo la domenica non c’era la cuoca, e allora preparavo io il pranzo per i miei studenti». Al giornalista che gli chiedeva se fosse bravo, ha risposto: «Beh, non ho mai ammazzato nessuno col mio cibo...».
La famiglia Bergoglio non era povera. «Non ci avanzava niente, non avevamo l’automobile né andavamo a fare le vacanze estive, ma non ci mancava niente». All’età di 13 anni, quando inizia le superiori frequentando un istituto industriale specializzato in chimica, Jorge comincia a lavorare. Il padre vuole che il figlio conosca la fatica del lavoro. Così il futuro Papa Francesco prima fa le pulizie in una fabbrica di calzini, poi dopo due anni passa a compiti amministrativi e infine lavora in un laboratorio di analisi.
A fine mattinata ha meno di un’ora di tempo per il pranzo, quindi va a seguire le lezioni in classe fino alle otto di sera. «Ringrazio tanto mio padre perché mi ha mandato a lavorare. Il lavoro è stata una delle cose che meglio mi hanno fatto nella mia vita e, in particolare, nel laboratorio ho imparato il bene e il male di ogni attività umana... Il mio capo era una donna straordinaria».
Il futuro Papa da ragazzo si ammala gravemente e rischia di morire di polmonite. «Ricordo il momento in cui, con la febbre altissima, abbracciai mia mamma e gli chiesi: “Dimmi che cosa mi sta succedendo!”. Lei non sapeva che cosa rispondere, perché i medici erano sconcertati». Jorge dovette subire l’ablazione della parte superiore del polmone destro. Mesi di convalescenza con dolori tremendi.
Al giovane Bergoglio davano fastidio le parole di circostanza che molte delle persone che gli facevano visita in ospedale, quando per rincuorarlo gli dicevano: «Ora passa». Fino a che non va a visitarlo suor Dolores, la monaca che lo aveva preparato per la prima comunione. «Mi disse qualcosa che mi colpì molto e che mi diede molta pace: “Stai imitando Gesù”». «Il dolore - ha raccontato il nuovo Papa - non è una virtù per se stesso, però sì, può essere virtuoso il modo in cui si vive. La nostra vocazione è la pienezza e la felicità, e in questa ricerca, il dolore è un limite. Per questo, il senso del dolore, uno lo capisce davvero attraverso il dolore del Dio fattosi uomo, Gesù Cristo».
La vocazione, per Papa Francesco, non arriva presto. È il 21 settembre 1953, aveva 17 anni, si prepara a festeggiare la Giornata dello studente con i suoi compagni. Entra nella chiesa di San José de Flores. Lì incontra un sacerdote che non conosce e decide di confessarsi. Quella confessione avrebbe cambiato la sua vita.
Non torna più alla stazione ferroviaria per ritrovare gli amici perché ha deciso di farsi prete. «Mi accadde qualcosa di raro, lo stupore di un incontro. Mi resi conto che mi stavano aspettando. Questa è l’esperienza religiosa: lo stupore di incontrare qualcuno che ti stava aspettando. Da quel momento per me Dio divenne colui che ti precede. Uno lo sta cercando, Lui ti cerca per primo».
Il padre accoglie bene la decisione di Jorge. La madre molto meno. «Disse: non lo so, non ti vedo... Dovresti aspettare un po’, continua a lavorare... finisci l’università. La verità è che la mia vecchia mamma la prese male. Mio padre mi comprese di più».
A 21 anni il nuovo Papa entra nel noviziato dei gesuiti. «Fui attratto dal loro essere una forza di avanzata della Chiesa, perché nella Compagnia si usava un linguaggio militare, perché c’era un clima di obbedienza e disciplina. E perché era orientata al compito missionario. Mi nacque il desiderio di andare missionario in Giappone. Ma a motivo del serio problema di salute che mi trascinavo dietro, non venni autorizzato».
La sua storia, da quel momento in poi, è quella di un padre gesuita. Studi umanistici in Cile e quindi in Argentina, laurea in filosofia e teologia. Professore, rettore di collegi e facoltà, ma al contempo anche parroco nella chiesa del Patriarca San José, nella diocesi di San Miguel. Vive gli anni bui della dittatura e da arcivescovo chiederà perdono per i legami della Chiesa argentina con la giunta militare. Completa in Germania la tesi di dottorato, quindi torna in Argentina, a Cordoba, a fare il direttore spirituale e il confessore.
Nel 1992, Papa Wojtyla lo nomina vescovo ausiliare di Buenos Aires, cinque anni dopo diviene coadiutore e nel 1998 arcivescovo, successore di Antonio Quarracino.
Nel 2001 Giovanni Paolo II lo crea cardinale. Dedica una linea telefonica soltanto per i suoi preti, perché possano chiamarlo in qualunque momento per qualsiasi problema. Tiene lui stesso l’agenda degli appuntamenti e delle udienze. Vuole una Chiesa di «prossimità», vicina all’umanità e alle sue sofferenze.
Coltiva un dialogo particolare con la comunità ebraica - ha pubblicato un libro di dialoghi con il rabbino Abraham Skorka - ma anche con i gruppi evangelici. Confessa ancora molto, ha voluto che ci fossero sacerdoti che si prendessero cura delle prostitute nelle strade di Buenos Aires. Attacca pubblicamente il progetto di legge per il riconoscimento delle coppie gay perché contrario al «progetto divino», ma vuole che tutte le persone sentano di essere amate da Dio.
Papa Francesco ha un film preferito, «Il pranzo di Babette». «Vi si vede - ha spiegato Bergoglio - un caso tipico di esagerazione di limiti e proibizioni. I protagonisti sono persone che vivono in un calvinismo puritano esagerato, a tal punto che la redenzione di Cristo si vive come una negazione delle cose di questo mondo. Quando arriva la freschezza della libertà, lo spreco per una cena, tutti finiscono trasformati. In verità questa comunità non sapeva che cosa fosse la felicità. Viveva schiacciata dal dolore... aveva paura dell’amore». Lui, che da professore faceva leggere Jorge Luis Borges ai suoi studenti, dice che bisogna passare da una Chiesa «regolatrice della fede» a una Chiesa «che trasmette e facilita la fede».
HABEMUS PAPAM
Le prime parole di Papa Francesco
"Fratelli e sorelle buonasera. Voi sapete che il dovere del Conclave è di dare un Vescovo a Roma. Sembra che i miei fratelli cardinali sono andati a prenderlo quasi alla fine del mondo. Ma siamo qui... Vi ringrazio dell’accoglienza, alla comunità diocesana di Roma, al suo Vescovo, grazie. E prima di tutto vorrei fare una preghiera per il nostro Vescovo emerito Benedetto XVI. Preghiamo tutti insieme per lui, perché il Signore lo benedica e la Madonna lo custodisca".
Quindi ha recitato il Padre nostro, l’Ave Maria e il Gloria.
"E adesso - ha proseguito - incominciamo questo cammino, Vescovo e popolo, questo cammino della Chiesa di Roma, che è quella che presiede nella carità a tutte le chiese. Un cammino di fratellanza, di amore e di fiducia tra noi. Preghiamo sempre per noi, l’uno per l’altro, preghiamo per tutto il mondo, perchè ci sia una grande fratellanza. Vi auguro che questo cammino di Chiesa che oggi incominciamo - mi aiuterà il mio cardinale vicario qui presente - sia fruttuoso per la evangelizzazione di questa sempre bella città... Adesso vorrei dare la benedizione, ma prima vi chiedo un favore. Prima che il Vescovo benedica il popolo io vi chiedo che voi pregate il Signore perchè mi benedica: la preghiera del popolo chiedendo la benedizione per il suo Vescovo. Facciamo in silenzio questa preghiera di voi su di me".
"Adesso darò la benedizione a voi e a tutto il mondo, a tutti gli uomini e donne di buona volontà", ha proseguito, impartendo la benedizione in latino e concedendo l’indulgenza plenaria. "Grazie tante dell’accoglienza. Pregate per me e a presto, ci vediamo presto. Domani voglio andare a pregare la Madonna perchè custodisca tutta Roma. Buona notte e buon riposo".
* L’Avvenire, 14 marzo 2013
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
PAPA FRANCESCO / I SIMBOLI
-Conservato il motto,
l’anello sarà d’argento
di Marco Roncalli (Avvenire, 18 marzo 2013)
Nel segno della continuità. Potremmo definire questa la decisione di papa Francesco circa il motto e lo stemma papale. Infatti il motto resterà «miserando atque eligendo», ed è tratto dalle Omelie di san Beda il Venerabile, il quale, commentando l’episodio evangelico della vocazione di san Matteo, scrive: «Vidit ergo lesus publicanum et quia miserando atque eligendo vidit, ait illi Sequere me» (Vide Gesù un pubblicano e siccome lo guardò con sentimento di amore e lo scelse, gli disse: Seguimi).
Questa omelia è un omaggio alla misericordia divina ed è riprodotta nella Liturgia delle Ore della festa di san Matteo. Essa riveste un significato particolare nella vita e nell’itinerario spirituale del Papa. Infatti, nella festa di san Matteo dell’anno 1953, il giovane Jorge Bergoglio sperimentò, all’età di 17 anni, in un modo del tutto particolare, la presenza amorosa di Dio nella sua vita. In seguito ad una confessione, si sentì toccare il cuore ed avvertì la discesa della misericordia di Dio, che con sguardo di tenero amore, lo chiamava alla vita religiosa, sull’esempio di Sant’Ignazio di Loyola.
Anche per lo stemma papale, Francesco ha deciso di conservare tutti gli elementi presenti nello stemma scelto fin dalla sua consacrazione episcopale.
Lo scudo blu è sormontato dai simboli della dignità pontificia, uguali a quelli voluti dal predecessore Benedetto XVI (mitra collocata tra chiavi decussate d’oro e d’argento, rilegate da un cordone rosso). Confermato dunque l’abbandono del simbolo della tiara papale o triregno, che veniva posta sul capo del nuovo Papa (l’ultimo a indossarla fu Paolo VI, che poi la vendette per raccogliere fondi per le missioni in Africa. In alto allo scudo del nuovo stemma papale, campeggia l’emblema dell’ordine di provenienza del Papa, la Compagnia di Gesù: un sole raggiante e fiammeggiante caricato dalle lettere, in rosso, IHS, monogramma di Cristo. La lettera H è sormontata da una croce; in punta, i tre chiodi in nero.
Nella parte bassa dello scudo, si trovano due immagini: la stella e il fiore di nardo. La stella, secondo l’antica tradizione araldica, simboleggia la Vergine Maria, madre di Cristo e della Chiesa; mentre il fiore di nardo indica san Giuseppe, patrono della Chiesa universale. Nella tradizione iconografica ispanica, infatti, san Giuseppe è raffigurato con un ramo di nardo in mano. Ponendo nel suo scudo tali immagini, il Papa ha inteso esprimere la propria particolare devozione verso la Vergine e san Giuseppe. E proprio oggi, Solennità di san Giuseppe, il nuovo Papa ha voluto collocare la Messa di inizio pontificato.
Il nuovo anello papale ha già 35 anni di storia
Conclusa l’elezione, il nuovo Pontefice, come vuole la tradizione, si vede presentare tre modelli tra i quali scegliere il nuovo anello pontificale. È stato così anche per Francesco. E il Papa che non ha rinunciato alla sua croce «povera» indossata da vescovo prima e da cardinale poi, ha indicato per sé il modello di un anello che già ha una piccola una storia: è lo stesso che Paolo VI aveva chiesto allo scultore Enrico Manfrini, e - particolarmente semplice - reca incisa la figura di Pietro che tiene le Chiavi. Paolo VI lo ebbe fra le mani l’anno della sua morte, il 1978, poco prima del delitto di Aldo Moro. Poi, però, poi continuò a usare il suo, quello del Concilio, e non pensò più a sostituirlo. Il modello dell’anello rimase al segretario di Paolo VI, monsignor Pasquale Macchi, e dopo la morte di questi pervenne a monsignor Ettore Malnati, oggi vicario episcopale per la cultura della diocesi di Trieste.
È stato lui stesso, sacerdote da sempre vicino ai segretari dei due Papi del Concilio Vaticano II, Pasquale Macchi e Loris Capovilla, poco prima dell’inizio del pre-conclave, a far avere al cardinale Giovanni Battista Re questo modello lasciatogli in eredità da Macchi. Poi la decisione di papa Francesco. L’altro ieri l’orafo pontificio ha completato la fusione ed oggi - durante il rito previsto in piazza San Pietro - questo anello «conciliare» sarà messo all’anulare destro del nuovo «vescovo di Roma» da parte del decano del Collegio cardinalizio, prima della Messa di inizio pontificato.
E sarà un anello d’argento dorato e non d’oro, come ha spiegato ieri mattina il portavoce vaticano padre Federico Lombardi, dando l’annuncio della decisione presa da Francesco su uno dei simboli del pontificato. «Anche questa scelta di papa Francesco, solo in apparenza minore, indica una continuità nello stile e nello spirito del Concilio voluto da Giovanni XXIII e concluso da Paolo VI, che sta già facendo rivivere con una sua cifra originale, ma pure con rimandi ai due papi del Vaticano II», osserva monsignor Malnati. Scomparso dieci anni fa, molto apprezzato dal filosofo Jean Guitton, tra gli artisti conciliari vicini a papa Montini, fine medaglista e tra i pochi esponenti di un’arte sacra tutta conciliare, Enrico Manfrini - sempre su commissione di Paolo VI - realizzò anche il calco degli anelli da lui donati ai Padri conciliari a conclusione del Vaticano II, quelli con il Cristo con gli apostoli Pietro e Paolo, come pure le campanelle in bronzo raffiguranti i quattro evangelisti , delicato omaggio di papa Montini agli osservatori del Concilio. Ma c’è altro da ricordare legando il tema dell’anello di Pietro alla festa liturgica odierna. Prima Giovanni XXIII, poi Giovanni Paolo II donarono i loro anelli a san Giuseppe: il primo, all’inaugurazione del Concilio Vaticano II lo inviò al San Giuseppe della Concattedrale di Kalisz, in Polonia, mentre papa Wojtyla, offrì il suo a quello della chiesa carmelitana di Wadowice, sua città natale, in Polonia, in occasione del suo XXV anno di pontificato. Doni accolti con gioia a testimonianza di vincoli spirituali a ricordare l’uomo giusto di Nazareth tanto caro anche all’arcivescovo di Buenos Aires, cardinale Jorge Mario Bergoglio.
Quell’uomo rimasto fedele sino alla fine alla chiamata di Dio e oggi patrono universale della Chiesa. E anche papa Francesco ha deciso di mantenere un vincolo con l’arcidiocesi di Buenos Aires, in Argentina. «Il Pontefice donerà alla Cattedrale della capitale argentina l’anello che fino ad ora aveva portato come cardinale arcivescovo. A consegnarlo sarà il vescovo ausiliare di Buenos Aires, Eduardo Horacio Garcìa questo fine settimana». Lo scrive l’Osservatore Romano, riportando quanto riferito da padre Alejandro Russo, rettore della Cattedrale metropolitana di Buenos Aires, che «ha avuto occasione di parlare con papa Francesco e ha subito annunciato un suo gesto, che sottolinea il profondo legame che lega il nuovo Pontefice all’arcidiocesi di cui fino a pochi giorni fa era pastore».
Quando Bergoglio puntava il dito contro la borghesia dello spirito
di Jorge Mario Bergoglio (l’Unità, 13 marzo 2013)
L ’ascolto della Parola mi ha fatto sentire tre cose: vicinanza, ipocrisia e mondanità. La prima lettura dice: «Per caso esiste una nazione così grande da avere i propri déi vicini quanto lo è il Signore nostro Dio a noi?». Il nostro Dio è un Dio che si avvicina. È un Dio che si fa vicino. Un Dio che ha iniziato a camminare con il suo popolo e dopo si è fatto uno di loro come Gesù Cristo, per esserci più vicino.
Ma non con una vicinanza metafisica, ma con quella vicinanza che descrive Luca quando Gesù va a curare la figlia di Jairo, con la gente che lo spintona fino a soffocarlo mentre un’anziana tenta di toccargli il mantello. Con questa vicinanza della moltitudine che voleva azzittire il cieco che con le grida voleva farsi sentire all’entrata a Gerico. Con questa vicinanza che ha dato animo a quei dieci lebbrosi per chiedergli di lavarli. Gesù è qui. Nessuno voleva perdersi questa vicinanza, persino il bambino salito sul sicomoro per vederlo.
Il nostro Dio è un Dio vicino. Ed è curioso. Curava, faceva del bene. San Pietro lo dice in maniera chiara: «Ha vissuto facendo il bene e curando». Gesù non ha fatto proselitismo: ha accompagnato. E le conversioni che otteneva erano proprio grazie a questa sua attitudine di accompagnare, insegnare, ascoltare, fino al punto che la sua condizione di non essere uno che fa proseliti gli fa dire: «Se anche voi volete andarvene, fatelo adesso e non perdete tempo. Avete parola di vita eterna, noi rimaniamo qui».
Il Dio vicino, vicino con la nostra carne. Il dio dell’incontro che esce dall’incontro del suo popolo. Il Dio che - userò una parola bella della diocesi di San Justo -: il Dio che mette il suo popolo nelle condizioni dell’incontro. E con questa vicinanza, con questo camminare, crea questa cultura dell’incontro che ci rende fratelli, figli e non soci di una ong o proseliti di una multinazionale. Vicinanza. Questa è la proposta.
La seconda parola è ipocrisia. Mi richiama l’attenzione che San Marco, sempre così conciso e breve, abbia dedicato tanto spazio a questo episodio - che, nella versione liturgica, è ancora più ampio. Sembra che se la prenda con quelli che si allontanano, quelli che del messaggio della vicinanza di questo Dio, che cammina con il suo popolo, che si è fatto uomo per essere uno di noi e camminare, hanno preso questa realtà, la hanno sviscerata in una lunga tradizione, la hanno resa idea, puro precetto e, infine, l’hanno allontana dalla gente.
Gesù sì che accuserà coloro che fanno proseliti per questo: fare proselitismo. Voi percorrete mezzo mondo per fare proseliti e poi li uccidete con tutto ciò. Allontanando la gente. Quelli che si scandalizzavano quando Gesù andava a mangiare con i peccatori, con la gentaglia, a questi Gesù rispondeva: «La gentaglia e le prostitute vi precederanno», che era la peggior cosa da dire all’epoca.
Gesù non li blandisce. Sono quelli che hanno clericalizzato - per usare una parola che si capisca - la chiesa del Signore. La riempiono di precetti e lo dico con dolore e scusatemi, se questa cosa sembra una denuncia o un’offesa, ma nella nostra regione ecclesiastica ci sono presbiteri che non battezzano bambini nati da ragazze madri perché concepiti fuori dalla santità del matrimonio.
Questi sono gli ipocriti di oggi. Quelli che hanno clericalizzato la Chiesa. Quelli che allontanano il Dio della salvezza dalla gente. E questa povera ragazza, pur potendo rispedire suo figlio al mittente, ha avuto il coraggio di portarlo alla luce, sta peregrinando di parrocchia in parrocchia affinché qualcuno lo battezzi.
A coloro che cercano proseliti, i clericali, quelli che clericalizzano il messaggio, Gesù indica il cuore e dice: «Dal vostro cuore escono le cattive intenzioni, le fornicazioni, i furti, gli omicidi, gli adulteri, l’avarizia, il male, gli inganni, la disonestà, l’invidia, la disinformazione, l’orgoglio, la mancanza di stima...». Bella gente, eh? E così li tratta: li denuncia. Clericalizzare la Chiesa è un’ipocrisia farisaica.
La Chiesa del «venite, gente, che vi diamo il premio e chi non entra non entra» è fariseismo. Gesù ci insegna un’altra via: uscire. Uscire a portare testimonianza, uscire a interessarsi al nostro fratello, uscire a compatire, uscire a chiedere. Farsi carne. Contro lo gnosticismo ipocrita dei farisei, Gesù torna a mostrarsi in mezzo alla gente tra gentaglia e peccatori.
La terza parola che mi ha toccato è il finale della lettera di San Giacomo: non contaminarsi con il mondo. Perché se il fariseismo, questo «clericalismo » tra virgolette, ci danneggia, anche la mondanità è uno dei mali che minano la nostra coscienza cristiana. Questo lo dice San Giacomo: non contaminatevi con il mondo.
Nel suo addio, dopo cena, Gesù chiede al Padre che lo salvi dallo spirito del mondo. È la mondanità spirituale. Il peggior danno che possa capitare alla Chiesa: cadere nella mondanità spirituale.
Per questo, sto citando il cardinale De Lubac. Il peggior danno che possa capitare alla Chiesa, persino peggiore di quello di avere avuto Papi libertini. Questa mondanità spirituale di fare quel che sembra buono, di essere come gli altri, questa borghesia dello spirito, degli orari, di spassarsela, dello status: «Sono cristiano, consacrato, clerico».
Non contaminatevi con il mondo, dice San Giacomo. No all’ipocrisia. No al clericalismo ipocrita. No alla mondanità spirituale. Perché questo dimostrerebbe che siamo più imprenditori che uomini o donne di vangelo. Sì alla vicinanza. Al camminare con il popolo di Dio. A sentire tenerezza per i peccatori, per quelli che si sono allontanati, e sapere che Dio vive in mezzo a loro.
Che Dio ci conceda questa grazia della vicinanza, che ci salvi dall’atteggiamento imprenditoriale, mondano, proselitista, clericalista e ci avvicini al Suo cammino: quello di camminare con il santo popolo fedele di Dio. Che così sia.
Testo tradotto da Leonardo Sacchetti
Quei fantasmi della dittatura che la memoria si porta dietro
L’impegno di alcuni sacerdoti oscurato dall’appoggio ai generali
«Non ti impicciare», era la frase che sintetizzava la paura della gente
Gli oppositori venivano rapiti in auto con i vetri oscurati e fatti sparire
Per molti l’unico modo per continuare a vivere è stato voltare la testa
di Mimmo Càndito (La Stampa, 16.03.2013)
C’erano parole che giravano pesanti, in quegli anni, in Argentina. Parole che suonavano come una condanna, parole che spalancavano le porte dell’inferno ma tu te ne lavavi le mani. Si sparava, si ammazzava, sequestravano uomini e donne e anche i ragazzi, ma bastava girare la testa, non guardare, non sapere; non voler sapere. Ed era fatta. La coscienza è un lusso che non sempre ci si può permettere, e quelli erano tempi di un sacco di morti per le strade dell’Argentina, morti ammazzati o morti fattisi fantasmi, come d’una guerra che nessuno aveva dichiarato e che però bruciava la vita della gente qualunque, giorno dopo giorno. Era la paura, il terrore che si faceva scelta di vita.
I preti in quegli anni praticavano il loro mestiere, alcuni; e tentavano aiuto a chi cercava rifugio, in parrocchia, o anche nella casa di Dio. Ma non era facile, per loro, perché la Chiesa - la Chiesa del Papa, del Nunzio, del cardinale, di quelli insomma con tutti i paramenti dorati e l’ufficialità e le sfilate accanto ai generali della Junta - quella Chiesa aveva fa t t o una scelta di campo, e poiché i generali ammazzavano e torturavano e violentavano «in nome di Cristo e dell’Occidente» quella Chiesa ringraziava e benediceva.
Fare il prete «contro» quella Chiesa voleva dire forse disubbidire, o forse scegliere l’Iddio che sta dentro gli uomini e non l’Iddio dei paramenti dorati. E magari non tutti volevano girare la testa.Ma magari la testa invece la giravano, ed erano i più, perché alla fine anche un prete è un uomo, e chi può sapere che cosa è più giusto fare quando la gente s’ammazza e chi può sapere che un giorno uno diventa Papa.
I morti ammazzati li facevano i guerriglieri dell’Erp, e i Montoneros, ma poi anche gli Squadroni della morte e la Triple A. I primi si giocavano la guerra perché volevano la rivoluzione, e Marx e Perón potevano valere allo stesso modo; q u e s t ’a l t r i facevano la guerra invece per conto della Junta, che era la «guerra sucia», la guerra sporca, e andavano in giro con le loro Falcon verdi e i vetri oscurati e con i soldati che chiudevano le strade e facevano la retata. Se eri un «subversivo», t’aspettava l’inferno; ma non l’inferno astratto, di chi muore e finisce lì, no, era l’inferno vero, delle torture e della violenza usati fino a farti pregare di morire subito e che finisca per sempre.
In questo viaggio verso la morte, c’erano preti che davano la benedizione nelle stanze della tortura, perfino l’estrema unzione, come se soltanto d’un dovere d’ufficio si trattasse; e dimenticavano l’agnello di Dio predicato la domenica e davano una mano ancora più sporca agli Squadroni e alle loro Falcon verdi, segnalando, spiando, consegnando i sovversivi.
È stata una guerra bestiale, nella quale il nome di Cristo è stato usato per negare anche la dignità dell’uomo. Non ci sono registri, gli archivi sono spariti; resta la memoria, che talvolta aiuta e talvolta inganna.
Sotto un cielo cupo d’angoscia, in un vivere segnato dal terrore che una Falcon ora s’avvicina a prendere qualcuno da portare all’inferno, l’unica forma di sopravvivenza diventava allora girare la testa da un’altra parte, non guardare, non vedere, non sapere. No te metás, por algo sera. Così finirono per s e m p r e 30.000 uomini donne ragazzi, anche preti; cancellati, desaparecidos. E quasi 10 mila morirono di guerra rivoluzionaria.
Durò 7 anni, il tempo buono per ammazzare una generazione e distruggere le coscienze. Poi le Malvinas cambiarono la storia e venne il tempo della giustizia. I generali finirono dentro, l’amnistia cancellò il passato. Ma non sempre. Il passato torna talvolta, si mostra più forte del perdono, brucia nel sospetto i rimorsi della coscienza. Nunca mas, mai più, hanno detto.
Ma il prete di un tempo che ora è diventato Papa deve farsi carico dei fantasmi che la memoria si porta dentro.
Papa: "Come vorrei una Chiesa povera".
Bergoglio da Ratzinger il 23 marzo *
Città del Vaticano - (Adnkronos/Ign) - Parlando ai giornalisti, il Pontefice abbandona il foglio con il discorso e racconta con sorprendente spontaneità i momenti dell’elezione e la scelta del nome, ispirato al santo di Assisi: "Ho pensato ai poveri e alla pace". Sabato prossimo a Castel Gandolfo. Domani il primo Angelus
Citta’ del Vaticano, 16 mar. (Adnkronos/Ign) - "Come vorrei una Chiesa povera". Papa Francesco, incontrando la stampa nell’Aula Paolo VI, abbandona il foglio che gli era stato passato per il discorso ed esprime il desiderio che lo ha portato ad accettare il pontificato: "Vorrei tanto una Chiesa povera e per i poveri", ripete.
Con grande spontaneita’, Papa Bergoglio racconta l’iter che ha portato alla sua elezione. "Adesso vi spiego -dice- perche’ il vescovo di Roma ha voluto chiamarsi Francesco. Nell’elezione io avevo accanto l’arcivescovo emerito di San Paolo e il cardinale Claudio Hummes, che ’’confortava" colui che di li’ a poco sarebbe stato proclamato Pontefice.
Quindi la votazione arrivava ai due terzi come previsto dal motu proprio di Ratzinger. "E’ arrivato l’applauso -racconta ancora Papa Francesco- e Hummes mi abbraccio’ e mi bacio’ e mi ha detto non dimenticarti dei poveri’". Da qui e’ maturata la decisione del Papa di chiamarsi Francesco. "Ho subito pensato a San Francesco d’Assisi, poi alle guerre mentre lo scrutinio proseguiva. Ho detto sia Francesco, e’ l’uomo della pace".
Nell’udienza alla stampa, Francesco rivela uno scherzoso retroscena seguito al raggiungimento dei due terzi dei voti necessari per la proclamazione a Pontefice. Diverse le ’’battute’’ a lui rivolte in quei momenti, come quella di chi gli disse ’’’Dovresti chiamarti Adriano perche’ Adriano VI e’ stato un riformatore e bisogna riformare’. Un altro -ha raccontato il Papa- mi ha detto ’il tuo nome dovrebbe essere Clemente XV cosi ti vendichi contro Clemente XIV che ha soppresso la Compagnia di Gesu’!’’.
Nel salutare ’’cordialmente’’ i giornalisti riuniti nell’Aula Paolo VI, il Papa ha quindi sottolineato che ’’il ruolo dei mass media e’ andato sempre crescendo in questi ultimi tempi, tanto che e’ divenuto indispensabile -ha rilevato Francesco- per narrare al mondo la realta’ contemporanea’’.
Il Pontefice, entrando nell’Aula Nervi per l’udienza con i media viene accolto da un’autentica ovazione: "Viva il Papa, viva il Papa". Lui con grande spontaneita’ rivolge un pensiero scherzoso al lavoro che la stampa vaticana ha svolto nei giorni successivi alle dimissioni di Papa Ratzinger che hanno portato al Conclave e alla successione del Papa argentino. "Rivolgo un grazie, nei giorni scorsi avete lavorato eh", scherza Papa Francesco.
Ricevendo una rappresentanza di giornalisti, il Pontefice ha accarezzato il cane labrador che accompagnava un operatore dell’informazione non vedente, Alessandro Forlani del giornale radio. A differenza del lupo di Assisi, che San Francesco riusci’ ad ammansire, il labrador e’ stato esemplare per il comportamento, paziente e discilpinato lungo tutta la fila.
L’opera della Chiesa e quella svolta dai media sono strettamente collegate nella promozione di "verita’, bonta’ e bellezza" ha sottolineato Papa Francesco. Accogliendo la stampa nella sua prima udienza nell’Aula Paolo VI, elogia "la preziosa opera" svolta dalla stampa. "Voi -ha detto alla stampa- raccogliete ed esprimete le esigenze del nostro tempo. Il vostro lavoro comporta una particolare attenzione nei confronti di verita’, bonta’ e bellezza. E questo ci rende vicini".
Il Papa ha detto quindi che "la Chiesa, pur essendo una istituzione storica, non ha natura politica ma e’ spirituale". Il Pontefice, arrivato con la sua consueta semplicita’ avvolto nella talare bianca, ha ammonito nuovamente a mettere Cristo al centro. "Senza di Lui, Pietro e la Chiesa non esisterebbero. Il protagonista, in ultima analisi e’ sempre lo Spirito Santo".
Papa Francesco ricorda che e’ stato lo Spirito Santo a guidare Benedetto XVI nella decisione delle dimissioni, ed e’ sempre stato lo Spirito Santo ad intervenire nella fase successiva, quella della elezione del Papa argentino.
Intanto, Sabato prossimo Papa Francesco incontrerà il Papa emerito Benedetto XVI a Castel Gandolfo. Ne da’ notizia il bollettino della Sala Stampa della Santa Sede, precisando che alle 12 e’ in programma la partenza in elicottero dall’eliporto vaticano e alle 12.15 e’ previsto l’arrivo a Castel Gandolfo. All’incontro con Ratzinger fara’ seguito il pranzo, successivamente e’ previsto il rientro in Vaticano.
CONCORDATI O SOVRANITA’
STORIA DEI RAPPORTI TRA CHIESA E STATI *
Ernesto Rossi scriveva che il Vaticano era il più pericoloso centro della reazione mondiale, la chiesa cattolica ha sempre minacciato ogni libertà di coscienza, il Vaticano appoggiò Mussolini, Hitler, Franco, Salazar, Vichy, Pavelic, Peron, Pinochet, in generale tutte le dittature dei paesi cattolici, con le quali ha fatto un concordato.
Con questi concordati, gli Stati, per rafforzarsi, conferiscono alla Chiesa privilegi a spese del popolo; l’unità dello Stato e la sottomissione dei sudditi sono garantiti dalla polizia, dalla pubblica istruzione, dalla legge, dalla propaganda e dalle omissioni dei mezzi d’informazione fiancheggiatrici, dalla religione e dall’odio verso gli altri popoli.
Nel 325 Costantino, per assumere il controllo dell’impero, fece il primo concordato con la Chiesa Cattolica, facendola divenire religione privilegiata dell’impero, Teodosio I (378-395) rafforzò il monopolio religioso della chiesa; nel 781 Carlo Magno fece un’altro concordato, gettando le basi del potere temporale dei papi e dello Stato della Chiesa. Nel 1122 si fece il concordato di Worms, tra papa Callisto II e l’imperatore Enrico V, che pose termine alla lotta sulle investiture dei vescovi, durata sessant’anni, sulle quali imperatori e papi guadagnavano perché abituati a vendere le cariche.
Nel 1801 fece un concordato Napoleone I, nel 1853 Napoleone III, nel 1855 ne fece uno Francesco Giuseppe d’Austria, nel 1929 fu la volta di Benito Mussolini, nel 1933 di Adolf Hitler, nel 1940 di Salazar, nel 1953 di Francisco Franco. Lo scopo di questi concordati era il rafforzamento di regimi liberticidi, in cambio di privilegi concessi alla Chiesa.
* RIPRESA PARZIALE DA:
Padre Lombardi: «Calunnie della sinistra anticlericale»
di Alessandro Oppes (il Fatto Quotidiano, 16 marzo 2013)
Sono solo “diffamazioni e calunnie” che arrivano da “una sinistra anticlericale per attaccare la Chiesa e devono essere respinte con decisione”. La Santa Sede è preoccupata dall’insistente tam- tam di stampa che riprende i vecchi sospetti di connivenza tra Jorge Mario Bergoglio e la dittatura del generale Videla, rilanciati ieri nell’intervista al Fatto Quotidiano dal giornalista argentino Horacio Verbitsky.
Il portavoce vaticano, padre Federico Lombardi, in un comunicato letto durante il briefing di ieri nel tentativo di liquidare una volta per tutte la questione, parla di un’operazione “portata avanti da una pubblicazione caratterizzata da campagne a volte calunniose e diffamatorie”.
Il riferimento evidente è al quotidiano di Buenos Aires Pagina12, da anni vicino al kirchenerismo, un giornale che ha tra i suoi editorialisti di punta proprio Verbitsky, l’autore del libro L’isola del silenzio (in Italia edito da Fandango).
In quel testo Verbitsky accusa Bergoglio di non aver protetto, all’epoca in cui era superiore provinciale della Compagnia di Gesù in Argentina, due gesuiti sequestrati dai militari e torturati per sei mesi nei locali dell’Esma, la scuola di meccanica della Marina. “Non vi è mai stata un’accusa credibile concreta nei suoi confronti”, ricorda Lombardi. “La giustizia argentina lo ha interrogato una volta come persona informata sui fatti, ma non gli ha mai imputato nulla”.
IN EFFETTI, due anni fa l’arcivescovo Bergoglio venne chiamato a deporre davanti al Tribunal Oral n.5 di Buenos Aires, che poi condannò all’ergastolo Alfredo Astiz e El Tigre Acosta insieme ad altri leader della brutale repressione dell’Esma.
La sua dichiarazione era stata richiesta dall’avvocato Luís Zamora, che rappresentava i familiari delle suore francesi Leonie Duquet e Alice Dumont, uccise dal regime. Bergoglio disse di aver saputo che i suoi confratelli gesuiti Orlando Yorio e Francisco Jalic, rapiti tra maggio e ottobre del 1976, si trovavano detenuti all’Esma, e che intervenne presso l’ammiraglio Massera e il generale Videla in persona nel tentativo di farli rilasciare. “Fu un testimone reticente”, dice l’avvocato Zamora al quotidiano La Nación.
Nel frattempo, morto ormai Yorio (in Uruguay, nel 2000), l’unico sopravvissuto di quella vicenda, padre Jalics, che vive in Germania, è intervenuto ieri in soccorso del nuovo pontefice con una dichiarazione pubblicata sul sito jesuiten.org : “Sono riconciliato con quegli eventi, per me quella vicenda è conclusa. Solo anni dopo abbiamo avuto la possibilità di parlare di quegli avvenimenti con padre Bergoglio, che nel frattempo era stato nominato arcivescovo. Dopo quel colloquio abbiamo celebrato insieme una messa pubblica e ci siamo abbracciati solennemente”.
Nel libro-intervista El jesuita, una biografia di Bergoglio pubblicata in Argentina dai giornalisti Sergio Rubín, del Clarín, e Francesca Ambrogetti, dell’Ansa, si sostiene che il ruolo Bergoglio fu quello di aiutare a far scappare i perseguitati dalla dittatura. A un ragazzo che gli somigliava, rivelano, cedette la propria carta d’identità perché potesse attraversare la frontiera travestito da prete.
Una versione che non convince tutti. Come la presidente delle Abuela de Plazas de Mayo, Estela Carlotto: “La gerarchia della Chiesa cattolica è stata partecipe e complice, direttamente o indirettamente, delle violazioni dei diritti umani”.
Poi c’è il cardinale George Pell, arcivescovo di Sydney, che afferma: “I dirigenti di Amnesty International dell’epoca avevano detto che le accuse erano false. Diffamazione e menzogna”. Ma Amnesty precisa: “Non siamo in possesso di alcun documento che confermi o smentisca il presunto coinvolgimento di Jorge Mario Bergoglio nella sparizione di due preti gesuiti in Argentina”.
Papa: "Come vorrei una Chiesa povera"
E spiega perché ha scelto il nome Francesco
Il pontefice racconta la sua elezione e la scelta del nome ai giornalisti.
Sarà a Castel Gandolfo da Ratzinger sabato prossimo. Domani il primo Angelus *
CITTA’ DEL VATICANO - "Come vorrei una Chiesa povera e per i poveri". Ha scelto di rivolgere la sua attenzione ai più deboli, ’agli ultimi’, il Papa nell’incontro con i giornalisti, spiegando di aver scelto il nome di Francesco perché "è l’uomo della povertà e della pace". Molti si sono chiesti se fosse Francesco Saverio o Francesco di Sales, ma la decisione è stata ispirata al santo di Assisi. "Avevo accanto a me l’arcivescovo emerito di San Paolo e anche prefetto emerito della Congregazione per il Clero, Claudio Hummes, un grande amico", ha raccontato il pontefice. "Quando la cosa è divenuta un po’ pericolosa - ha proseguito - lui mi confortava, e quando i voti sono saliti a due terzi, momento in cui viene l’applauso consueto perché è stato eletto il Papa, lui mi ha abbracciato, mi ha baciato, e mi ha detto: non ti dimenticare dei poveri". "Quella parola è entrata qui - ha aggiunto il Pontefice toccandosi il capo -, i poveri, i poveri". "Poi subito, in relazione ai poveri, ho pensato a Francesco d’Assisi". "Molti mi hanno detto ti dovevi chiamare Adriano per essere un vero riformatore, oppure Clemente per vendicarsi di Clemente XIV che abolì la Compagnia di Gesù", ha aggiunto.
Nel primo incontro con la stampa il papa ha rivolto "un ringraziamento speciale" ai giornalisti "per il qualificato servizio dei giorni sorsi". Poi ha esclamato con un sorriso: "Avete lavorato!", salutato da un applauso degli operatori dei media. Sono queste le prime parole che il pontefice ha rivolto ai giornalisti, incontrandoli. "Il vostro ruolo è indispensabile per raccontare la realtà contemporanea".
Tra i giornalisti salutati da Papa Francesco al termine dell’udienza nell’Aula Paolo VI, Giovanna Chirri, che per prima diede al mondo la notizia delle dimissioni di papa Benedetto XVI. Con emozione Giovanna ha stretto la mano al Pontefice, sorridendo.
Intanto è arrivata la notizia che l’atteso incontro tra il Papa emerito e il nuovo pontefice si terrà il 23 marzo, la settimana prossima. Papa Francesco andrà in elicottero a Castel Gandolfo per incontrare Benedetto XVI. Il pontefice e il Papa emerito saranno insieme a pranzo. "Rivolgo un pensiero colmo di grande affetto al mio predecessore, che ha rinvigorito la Chiesa con il suo magistero, la sua umiltà e la sua mitezza", ha detto oggi Papa Francesco, incontrando i cardinali in Sala Clementina. Papa Francesco presiederà poi domenica 24 marzo la processione e la messa delle Palme in piazza San Pietro.
Oggi sulle polemiche del ruolo del Papa durante la dittatura in Argentina si è espresso il premio Nobel la pace Adolfo Perez Esquivel, argentino. "Bergoglio non appoggiò mai la dittatura e le accuse nei suoi confronti sono false", ha detto Esquivel, a margine della manifestazione organizzata da Libera in ricordo delle vittime di mafia. "Molti vescovi - ha detto Esquivel - chiedevano il rilascio dei prigionieri, ma i militari facevano quello che volevano e non quello che dovevano". Ai giornalisti, il Nobel argentino ha aggiunto, parlando di Papa Francesco: "Mi piace, con lui finisce l’eurocentrismo e un Papa latinoamericano è un segno di speranza forte per tutti".
* la Repubblica, 16.03.2013
Bergoglio, i latinos e il muro panamericano
di Massimo Faggioli (Europa, 15 marzo 2013)
Papa Francesco è il primo papa che viene da una chiesa latinoamericana, ma anche il primo papa dalle Americhe, un continente in cui il diritto di primogenitura del cristianesimo - tra America centrale, Nordamerica e Sudamerica - è da sempre una disputa non solo teologica e storica ma anche geopolitica.
L’elezione di Bergoglio al pontificato assume il significato di una correzione di rotta impressa alla chiesa cattolica anche dal punto di vista della geopolitica del cattolicesimo. La chiesa latinoamericana, che venne elevata a laboratorio della dottrina sociale della chiesa sotto Paolo VI, ha sofferto durante il pontificato di Giovanni Paolo II e ancora di più durante quello di Benedetto XVI: per la lotta contro la teologia della liberazione prima, e per un chiaro eurocentrismo del papa teologo poi.
Questa parte negletta del cattolicesimo mondiale è emersa dal conclave con il cardinale gesuita, nonostante un’evidente mancanza di rappresentanza nel collegio cardinalizio: l’America Latina ha il 42% dei fedeli cattolici di tutto il mondo (mezzo miliardo su un totale di 1,2 miliardi), ma solo 19 cardinali su 117, contro i 62 dall’Europa (dove oggi vive il 25% di tutti i cattolici).
Giovanni Paolo II aveva visto l’unità del continente quando convocò il Sinodo dei vescovi per le Americhe del 1997: ma da allora in poi gli Stati Uniti hanno iniziato a percorrere una propria strada sulla mappa mondiale e oggi i legami delle chiese cattoliche degli Stati Uniti con quelle latinoamericane sono molto più tenui di una volta - a riprova che la geopolitica degli stati e quella delle chiese non sono mai completamente indipendenti.
Ma alla luce dei cambiamenti nella demografia religiosa del continente americano, è ancora legittimo parlare di un’unità tra le Americhe: negli Stati Uniti la componente latinos è crescente e diventerà maggioranza relativa all’interno del cattolicesimo prima della metà del secolo. Dall’altro lato, sebbene la maggioranza degli ispanici negli Stati Uniti siano cattolici, quelli di origine cattolica sono più secolarizzati dei latinos protestanti.
Le radici ispanofone del nuovo papa risuonano particolarmente in tutto il continente, anche a nord del Messico. Ma è anche la biografia di papa Francesco che avvicina il pontefice ad una gran parte dei cattolici americani: un papa figlio di migranti come papa Francesco potrà capire le sfide di un cattolicesimo di emigrazione come quello dei latinos negli Stati Uniti, che divide famiglie tra i confini degli Stati. Giovanni Paolo II aveva il Muro di Berlino, papa Francesco ha il muro del confine tra Stati Uniti e Messico. Papa Francesco potrebbe riunire il continente americano come Giovanni Paolo II riunì l’Europa della guerra fredda. La ricomprensione cattolica del continente americano sarebbe il primo passo per ricomprendere un mondo che è evidentemente meno europeo di cento o cinquanta o venti anni fa.
Con un papa filippino (di madre cinese) come il cardinal Luis Antonio Tagle, la chiesa avrebbe cavalcato la tigre asiatica e lo spostamento del baricentro del mondo verso l’Asia-Pacifico.
Ma, come si sa, “la chiesa è sempre in ritardo di una rivoluzione” - in questo caso, la rivoluzione geopolitica - e per ora la chiesa guarda a sud. Potrebbe essere un ritardo salutare: ripartire dall’America Latina equivale anche ad una sorta di ricompensa per le umiliazioni inflitte alla teologia latinoamericana nel lungo periodo Wojtyla-Ratzinger, e un nuovo modo di guardare al Concilio Vaticano II, senza il quale è impossibile comprendere la chiesa in America Latina.
La Compagnia seppe propagare la fede nel mondo oggi per il Papa venuto da lontano la sfida d’Europa
L’altro Francesco quel gesuita che curò la Chiesa con i missionari
di Adriano Prosperi (la Repubblica, 15.03.2013)
“Il nome è un programma”, ha detto il padre guardiano del convento francescano della Verna. Già: ma quale nome? È istintivo per un italiano immaginare che sia quello di San Francesco d’Assisi affiorato d’istinto alla memoria di un figlio d’emigranti piemontesi. Ma se avessimo la pazienza di porci davvero nei panni di un vescovo argentino di formazione gesuita scopriremmo che la nostra è una tipica illusione etnocentrica. «Romano lo volemo o almanco italiano », si gridava a Roma nel Medioevo alle porte del conclave. Così oggi. E chi deve rassegnarsi al fatto che il Papa non sia né romano né milanese e nemmanco italiano non rinunzia ad attribuire a chi viene da un altro continente e da un’altra cultura la devozione a quel san Francesco divenuto patrono d’Italia.
Ma non è quello o almeno non solo quello il nome presente alla cultura e alla religiosità dell’uomo che è diventato Papa, o meglio, come lui stesso ha preferito dire, vescovo di Roma. L’arcivescovo di Buenos Aires non è soltanto il primo Papa venuto dall’America; è anche il primo papa della Compagnia di Gesù. È cresciuto e si è formato all’interno di un Ordine che ha residenze, scuole, archivi e luoghi di memoria a Buenos Aires e in tutta l’Argentina, anzi in tutta l’America Latina.
Nella memoria ufficiale della Compagnia ci sono almeno altri due santi con quel nome, tutt’e due del ’500. C’è san Francesco Borgia, il terzo generale della Compagnia, membro di una potente famiglia aragonese alla quale regalò un uomo di Chiesa più presentabile del malfamato zio Rodrigo Borgia, papa Alessandro VI. Ma è piuttosto improbabile che sia stato il suo profilo ad affacciarsi nella mente del cardinal Bergoglio. Che, nel suo primo messaggio, ha parlato di evangelizzazione.
Ora, per un gesuita c’è da sempre un nome che significa evangelizzazione e apertura missionaria alle culture non cristiane. È quello di Francisco Xavier, noto in Italia come Francesco Saverio, compagno di Ignazio di Loyola e cofondatore della Compagnia: un uomo che ben presto lasciò Roma per una missione che lo condusse in un decennio di straordinarie esperienze prima nell’India portoghese, poi fino al Giappone; né finì lì, perché dopo aver fatto una deludente esperienza di battesimi di massa tra le folle dei paria di Goa al riparo delle armi portoghesi, e dopo aver affrontato con pochi compagni il lungo viaggio via mare, sulle rotte dei mercanti e dei contrabbandieri di armi, fino al remoto impero giapponese, volle raggiungere la Cina.
Le sue lettere portarono in Europa il racconto di quel lontanissimo Oriente e un appello a tutti i giovani studenti delle università perché si candidassero a un’impresa missionaria di vastissime dimensioni. Diffuse immediatamente a stampa e inserite anche nella bella raccolta di relazioni di viaggi curata a Venezia da Gian Battista Ramusio, quelle lettere furono uno straordinario incentivo al maturare di vocazioni per l’opera della propagazione del Vangelo nel mondo extraeuropeo. Vi si legge di popolazioni accoglienti e di raffinata cultura, molto ben disposte nei confronti dei predicatori della “santa fede”. C’era l’ostacolo della ignoranza della lingua: Francesco Saverio e i suoi compagni erano obbligati «a esser come fanciulli », a tacere e ascoltare. Ma così potevano scordarsi di se stessi, liberarsi da quell’amore di padri e madri e amici e patria che tratteneva dal dare alla propria vita la forma voluta da Dio: bisognava recarsi in quella «terra strana» a farvi l’opera della conquista spirituale.
Altre notizie arrivarono ancora di quell’irrequieto missionario: fino al solitario e clandestino approdo sul suolo dell’Impero cinese, luogo delle meraviglie descritte da Marco Polo e supremo oggetto del desiderio per Saverio. Morì su quella costa e il suo corpo, portato a Goa dai portoghesi, fu oggetto di una grande devozione coronata dalla canonizzazione ufficiale nel 1622. Dal suo esempio e dalle sue narrazioni prese avvio un fenomeno straordinario: quello del desiderio delle Indie che animò una schiera crescente di giovani e li spinse a supplicare il generale della Compagnia di mandarli nelle lontane Indie d’Oriente e d’Occidente a propagare la fede. Li muoveva una volontà di eroismo e di martirio, una ricerca della santità eroica, ma anche un profumo di terre lontane.
L’impresa della “fides propaganda” fu quella di un corpo scelto di inviati nel mondo esterno, fuori dei confini di un cristianesimo che apparve improvvisamente invecchiato. Fuori delle mura delle città europee si aprì lo scenario vastissimo di popoli pagani da evangelizzare. Abitavano nelle remote Indie ma erano presenti anche nelle periferie interne: avevano i volti degli indios peruviani e dei letterati cinesi ma anche quelli dei contadini e dei pastori della Corsica e dell’Abruzzo. Di fatto si era riaccesa la fiamma della predicazione degli Apostoli.
Il missionario gesuita partiva lasciandosi alle spalle le incrostazioni della cultura europea e portava il messaggio universale di un cristianesimo che si presentava come la forma naturale della religione, iscritta da Dio nelle coscienze e latente nelle diverse confessioni nel mondo. Fu questo il contributo maggiore dei gesuiti alla ripresa della Chiesa di Roma nel, momento della massima crisi del cattolicesimo, quando la corte romana era gravata dal peso di accuse infamanti e l’unità della Chiesa europea si spezzava in tanti frammenti. Da allora i gesuiti si mossero sul difficile crinale fra culture diverse, osteggiati da altri ordini, sospettati di varcare i confini dell’ortodossia, tentati di dar vita a una nuova Chiesa apostolica senza le rughe di quella europea. Oggi uno di loro ha lasciato le antiche terre di missione. Quella che si è aperta col suo papato è una missione nuova, quella d’Europa. È facile prevedere che non sarà per nessuno una festa di gala.
Francesco, sì, ma con Chiara
di Anne Soupa
in “quebec.huffingtonpost.ca” del 14 marzo 2013 (traduzione: www.finesettimana.org)
La veloce elezione del papa porta con sé la sua dose di sorpresa e di domande a cui si muore dalla voglia di poter rispondere. Si ha un bel dire che il cardinal Bergoglio era il numero due dell’elezione del 2005, non era comunque tra i favoriti del 2013. Senza dubbio le caratteristiche abbastanza evidenti della sua personalità, grande rigore morale, ascesi, livello intellettuale elevato (gesuita) e forte orientamento a favore dei poveri, mostrano, a specchio, i bisogni urgenti a cui rispondere: ricentramento sull’essenziale, risanamento morale, capacità di discernimento.
Questa maniera di far adottare dai cardinali, questa convinzione che i disordini collettivi devono essere curati innanzitutto con l’esempio di uno solo la cui personalità, la cui esperienza, il cui ardore sono considerati determinanti, mi sembra assolutamente conforme alla grande tradizione della Chiesa e, andando oltre, alla corrente profetica della Bibbia. Il profeta è quella figura unica nella quale si gioca la conversione di tutti. Ora, oggi, è di una conversione gigantesca di cui ha bisogno la Chiesa. Il collegio dei cardinali ha voluto mostrare che l’esempio viene dall’alto.
La lezione mi pare chiara e potrebbe ispirare le politiche di ciascuno di noi, elettore, quando mette la sua scheda nell’urna: non sarebbe fruttuoso, in questi tempi di crisi, che l’esempio venga dai politici stessi? Perché il successo di una politica non viene solo dalla soluzione di un problema tecnico, per la quale basterebbero le competenze, ma anche della capacità di accogliere l’uomo nella sua interezza: non solo colui che guida, ma anche coloro che, solo se lui mostra l’esempio, lo seguiranno. La vera politica è l’arte di creare dei rapporti, non dimentichiamolo.
Spero quindi che questo papa sappia trascinare con sé molti fedeli nella conversione che intraprenderà. Allora, il problema sarà di non fare di questa figura emblematica il padre, il capo, l’idolo, bensì il fratello. Anche in questo, i pochi indizi che abbiamo già, sono chiari.
Questo papa si chiama Francesco, in riferimento al poverello di Assisi, il campione della fraternità, l’uomo che non ha mai voluto essere prete per non rischiare di creare la minima distanza coi suoi fratelli!
Se il nuovo papa riesce a restare l’uomo che incarna la conversione della Chiesa senza cadere nella trappola della “papolatria”, cosa che il suo primo messaggio fa pensare (non ha pronunciato la parola papa, ma quella di vescovo di Roma), avremo guadagnato qualcosa. Che cosa?
Forse l’inizio per la Chiesa cattolica di un migliore rapporto con il mondo, il rapporto della fraternità, di cui il vangelo è una inesauribile miniera, nel mondo aperto che è diventato quello in cui viviamo. Nessun dubbio anche che la scelta di un nome che non era ancora mai stato portato sia presagio di questa volontà di fare cose nuove, inedite.
In ogni caso, il riferimento francescano mi sembra di estrema ricchezza e si adatta al meglio alle realtà attuali. Francesco è un grande innovatore, un essere in ascolto dei bisogni nuovi del mondo del suo tempo. È anche il santo che non ha mai represso il suo essere profondo, ma lo ha unificato, accettando il male, la finitudine, il fallimento. Leonardo Boff, il teologo della Liberazione, opponeva il santo “perfetto” che combatteva le sue tendenze “cattive” per raggiungere la perfezione, il cui modello era Carlo Borromeo, a Francesco, modello del santo “unificato”, che accoglie tutti gli aspetti del suo essere e li mette al loro giusto posto.
Nella sensibilità francescana c’è un grande ascolto di se stesso. Sicuramente è ciò che ha fatto dire al cardinal Bergoglio, quando gli avevano proposto un incarico romano, nel 2001: “Per carità, in curia muoio!”
Bella prova di salute! Certamente un tale sussulto fa presagire l’estrema vigilanza che questo papa manifesterà nei confronti della curia. Ma non basterà che sia vigilante, occorrerà che non abbassi la guardia, perché la forza della curia è di durare, mentre i papi passano. La curia è una fenice che rinasce dalle proprie ceneri quando la si credeva morta. Basta un solo esempio: i titolari dei dicasteri non danno mai le dimissioni: muoiono con la loro carica.
Sicuramente le donne hanno qualcosa da guadagnare dal fatto che la curia venga governata, perché questo luogo è con tutta evidenza quello della massima paura nei loro confronti. Ma un altro indizio, ancor più simpatico, è a favore di una revisione profonda della concezione inaccettabile che prevale ancora a Roma sulle donne. Ancora una volta, si tratta del riferimento francescano.
L’amicizia di Francesco e di Chiara, nobile ragazza di Assisi che Francesco ha trascinato al suo seguito, è uno dei tesori del cristianesimo. Francesco ha manifestato verso Chiara una estrema delicatezza di sentimenti, una capacità di presenza straordinaria. Non c’è cristiano che non sia nutrito da questa amicizia, tanto essa va al limite dei sentimenti umani, tanto li lascia esprimere senza reprimerli.
Quindi, posso solo rallegrarmi dell’elezione di un papa non compromesso con la curia, armato per il discernimento, che si mette sui passi del Poverello d’Assisi, fratello prima di tutto; “neanche prete”. E, come donna, poiché lo sono, non posso che ripetere: Francesco sì, ma non senza Chiara!
di Franco Cardini (il manifesto, 14 marzo 2013)
Roma, piazza San Pietro, alle 7,06 del pomeriggio. Folla enorme, grida, bandiere. Un cielo cupo, una pioggia fitta e sottile, un delirio di voci e di colori. Poi la pioggia si calma, mentre scende il buio. Miracolo, dice qualcuno. Fumata bianca: anzi candida, come non si era mai vista finora: grazie anche ad alcuni additivi chimici, dicono. Luci di flash, poi i suoni delle bande militari, i colori delle bandiere e delle uniformi pontificie e italiane.
Bandiere di tutto il mondo e bandiere italiane, inno nazionale italiano e inno pontificio. «Viva il papa!», in molte lingue ma soprattutto in italiano: è la vecchia Roma, la Roma di Belli e di Trilussa e al tempo stesso la Roma eterna e universale.
Certo, i mass media hanno amplificato la festa: con toni anche pesanti e stucchevoli. Ma lo spettacolo era indubbiamente straordinario: i continui flash fotografici che per lunghissimi minuti hanno lampeggiato incessanti brillando in mezzo alla folla davano l’effetto di un firmamento sceso in terra. La tensione, intanto, cresceva: e ci si andava ripetendo tra la folla perché si stesse tardando tanto nell’annunzio. In effetti, il protodiacono pontificio si è affacciato solo alle 8,20, circa un’ora e un quarto dopo la candida fumata, per il fatidico Nuntio vobis gaudium magnum: habemus papam!
L’uomo che di lì a pochi istanti si è affacciato al balcone della basilica è il capo della Chiesa universale, e al tempo stesso è il vescovo di Roma. Il suo primo gesto sovrano è stata la benedizione Urbi et Orbi, alla città di Roma e al mondo. Poi poche parole, una preghiera e un semplice, cordiale augurio di buona serata.
In un italiano all’inizio un po’ incerto ma corretto, con un lieve ma distinto accento piemontese. Da buon argentino, il nuovo papa ha origini italiane. Jorge Mario Bergoglio, arcivescovo di Buenos Aires, la più europea delle grande città latinoamericane. Settantaseienne, un passato ecclesiale radicato nella Compagnia di Gesù, un forte impegno nei confronti dei ceti più fragili e umili della metropoli della quale è stato pastore e anche alcuni aspetti del suo carattere che hanno già dato adito a polemiche: chi lo dice molto visino alla presidentessa Kirschner, chi adombra una sua qualche connivenza con la dittatura militare. Sono voci confuse, contrastanti: sulle quali forse nei prossimi giorni sapremo cose più precise, ma che nulla tolgono comunque a un evento che ha dello straordinario.
Diciamo la verità: non se lo aspettava nessuno. Un papa latinoamericano sì, ma ci aspettavamo allora un brasiliano d’origine tedesca, personaggio molto interessante.
Bergoglio è il risultato di un accordo, è l’outsider spuntato all’ultimo istante di un conclave molto breve, appena cinque elezioni in tre giorni? E che cosa significa che un non-favorito abbia così rapidamente conseguito la maggioranza qualificata del collegio votante?
Bergoglio viene dalla Compagnia di Gesù: pare vi fosse una specie di tacito accordo, all’interno dei vertici della Chiesa, secondo il quale chi ha il "papa nero" non avrebbe mai avuto un "papa bianco". Ma tutto ciò faceva parte evidentemente di una leggenda: oppure siamo davvero dinanzi a un mutamento epocale anche nelle consuetudini più radicate?
Qualcuno ha commentato, a caldo, che un papa gesuita ci sarebbe voluto dai tempi del candidato Carlo Maria Martini. Ma il fatto è che questo argentino d’origini italiane, gesuita, scompiglia le carte - anche quelle di molti suoi confratelli cardinali: c’è da scommetterci - e va a scegliersi un nume come Francesco.
Incredibile. Inaudito, nel senso etimologico del termine. Dal VI secolo, con pochissime eccezioni, i pontefici romani hanno scelto regolarmente il nome di un loro predecessore. Bergoglio rompe la tradizione e, nel momento nel quale l’istituzione ecclesiastica sembra esitare, senza dubbio colpita dalla rinunzia di un papa "istituzionalista" per eccellenza, rilancia nel nome del càrisma, della profezia. Perché Francesco significa l’adesione intima al Cristo povero e crocifisso; Francesco significa il rifiuto della potenza, della ricchezza, perfino della scienza; e che l’Ordine francescano nei secoli sia stato molte cose meravigliose ma non questo non vuol dir nulla.
Lui, il Povero d’Assisi, era questo. Che cosa significa chiamarsi Francesco per un papa che viene dall’America latina, uno dei continenti più poveri del mondo, un continente nel quale la chiesa cattolica da decenni sembra indietreggiare sotto il colpi dell’offensiva missionaria delle sètte protestanti?
Francesco I è un nome difficile da portare. Ma è anche un nome che è un programma. La scelta di papa Bergoglio è inaspettata, inimmaginabile, impressionante. Nomen omen, si usa dire. Vedremo in che modo il nuovo papa sarà rispondere alla sfida che egli stesso ha lanciato alla Chiesa e al mondo.
Il nuovo papa Bergoglio: la dittatura argentina e le ombre sul passato
di Redazione (Il Fatto Quotidiano, 13 marzo 2013)
Il primo gesuita ad essere papa, il primo a prendere il nome di Francesco. Il primo papa latinoamericano. E’ un progressista Jorge Mario Bergoglio? Forse può essere considerato tale a Roma, perché la sua è una candidatura esterna alla Curia (il candidato curiale argentino era Leonardo Sandri) e perché viene da un luogo geografico lontano dal potere romano. In Argentina però ha sempre rappresentato l’ala conservatrice della Chiesa. Non è mai stato amico della teologia della liberazione. Ha sempre mantenuto posizioni di destra nella gestione del potere a Buenos Aires.
Di certo è il più temibile avversario di Cristina Kirchner, la presidente argentina. Che difficilmente stasera festeggerà di cuore la sua elezione. Questo non ne fa automaticamente un esponente della destra argentina, ma sì il simbolo dell’opposizione conservatrice (e sempre detestato dall’opposizione di sinistra al governo) alla presidenta Kirchner. “Tanto aperta è stata la battaglia politica di Bergoglio contro il governo dei Kirchner, prima di Nestor, poi di sua moglie Cristina, che la presidente ha deciso da tempo di non festeggiare più il 25 de julio, principale festa patriottica in Argentina, nella cattedrale di Buenos Aires”, ricorda alla notizia dell’elezione un funzionario dell’ambasciata argentina a Roma.
Ombre su Bergoglio riguardano il periodo della dittatura militare (1976-83). Tutta la gerarchia ecclesiastica argentina non fece una gran figura in quel periodo. I dubbi su di lui li ha sollevati il giornalista argentino Horacio Verbitsky, l’autore del celebre libro “Il volo” in cui per la prima volta si svela l’esistenza del piano sistematico di soppressione degli oppositori al regime attarverso i voli della morte (30mila vittime secondo le Madri di plaza de Mayo, ottomila secondo altre fonti).
Verbitsky ha ricostruito le responsabilità e le omertà della chiesa in Argentina durante la dittatura. Da quell’inchiesta Bergoglio non ne esce benissimo. Non ci sono testimonianze che lo inchiodano, come ci sono invece per monsignor Pio Laghi, che amava passare i pomeriggi a giocare a tennis con i capi della dittatura. Ma non risulta nemmeno essere stato un eroe nella difesa dai perseguitati del regime.
Non ci sono prove né indizi pesanti sulle sue responsabilità. C’è però una storia molto chiara raccontata da Verbitsky nel suo libro. Subito dopo il golpe del 24 marzo 1976 Bergoglio era Superiore provinciale della Compagnia di Gesù in Argentina. Da gesuita aveva un potere enorme sulle comunità ecclesiastiche di base, che lavoravano molto nelle baraccopoli di Buenos Aires.
Nel febbraio del ’76, un mese prima del colpo di stato, Bergoglio avrebbe chiesto a due sacerdoti, Orlando Yorio e Francisco Jalics, che lavoravano nelle comunità di base, di lasciar perdere, di andarsene, di abbandonare quel lavoro. Loro si rifiutarono. Verbitsky racconta che Bergoglio, dopo averli cacciati dalla Compagnia di Gesù senza averli informati della decisione, fece pressione sull’allora arcivescovo di Buenos Aires perché impedisse loro di dir messa.
Non è una accusa da poco. In quei tempi a Buenos Aires bastava essere lontanamente riconducibili a un’area progressista, risultare impegnati in un lavoro considerato “di sinistra” nelle baraccopoli, per essere additati come potenziali sovversivi. Togliere ai due sacerdoti protezione e ancora più punirli come disobbedienti - è il ragionamento di Verbitsky - equivaleva a far correre loro il serio rischio di finire nelle liste nere dei militari. Così fu.
Pochi giorni dopo il golpe i due sacerdoti furono rapiti. Erano i giorni in cui sparirono anche decine di sindacalisti, i primi ad essere segnalati come potenziali sovversivi poiché, appunto, considerati inclini alla disobbedienza. Dopo sei mesi di prigionia nei solai della Escuela mecanica del armada (Esma), il centro clandestino da cui partirono poi i voli della morte, i due religiosi furono rilasciati. Pare che furono pressioni esercitate dalla Chiesa da Roma a salvar loro la vita.
Il Papa argentino. Francesco I, il conservatore popolare nei torbidi della dittatura
di Gennaro Carotenuto *
Infatti può essere davvero l’uomo in grado di metter fine ai veleni curiali che secondo lo Spiegel hanno portato al “fallimento” Benedetto XVI. È quello che i giornali stanno indicando come esponente del partito della trasparenza. Lo ha fatto, e bene, in alcuni contesti. Allo stesso tempo rilancia il cattolicesimo in un continente letteralmente assalito dalle chiese protestanti conservatrici. La percezione europea di una chiesa cattolica egemone in America latina è gravemente viziata dalla mancanza di notizie su di un fenomeno che sfiora il 50% dei fedeli in alcuni paesi e figlio della guerra senza quartiere alla teologia della liberazione che ha portato i poveri a cercare una spiegazione altra in un dio meno lontano.
Inoltre Bergoglio può rappresentare allo stesso tempo un’alternativa conservatrice ai governi progressisti e integrazionisti latinoamericani dei quali in molti si aspettano che possa diventare un leader alternativo continentale. Per qualcuno -chi scrive non ne è convinto anche se l’idea ha un suo fascino- Bergoglio può stare all’America latina integrazionista come Wojtyla stava all’Europa dell’Est del socialismo reale. Nonostante abbia spesso puntato il dito contro la politica, la corruzione di questa e la disattenzione ai problemi delle periferie, Bergoglio si è scontrato ripetutamente anche coi governi della sinistra peronista di Néstor Kirchner e Cristina Fernández. Gli scontri più duri, ma questo non può sorprendere, sono stati sull’aborto e sul matrimonio egualitario. Le nozze gay per papa Francesco sono «la distruzione del piano di dio».
Infine: Francesco I ha una missione difficile ma chiara ed appare avere la solidità ed esperienza per portarla avanti, ma è sufficientemente anziano -77 anni- per rappresentare un nuovo papato di transizione in termini di durata. Tuttavia Bergoglio viene da lontano e, nonostante non abbia avuto un ruolo apicale nella chiesa argentina complice della dittatura, emerge da quella storia con un passato che potrebbe fiaccarne l’autorità e che è corretto conoscere fuor da demonizzazioni e santificazioni.
Per iniziare dalle demonizzazioni: la foto che gira da ore in Internet e che è al momento in apertura sul sito del settimanale messicano Proceso, dove si vede un prelato dare la comunione al dittatore Videla, è un falso: non è Bergoglio. Inoltre, tra le accuse che esamineremo, al contrario di quanto si trova ripetutamente affermato, non ve ne sono che abbiano condotto alla morte di alcuno.
È difficile essere stati un prelato importante in Argentina negli anni ’70 essendo estraneo ad una storia di lacerazioni, drammi, crimini, persecuzioni quale quella della chiesa argentina. Questa, al contrario di quella cilena e quella brasiliana, che poterono vantare più luci che ombre, fu sicuramente la peggiore, complice e spesso perfino mandante tra tutte le chiese cattoliche, dei crimini commessi dalle dittature civico-militari che devastarono l’America latina negli anni ’60 e ‘70. Appena un mese fa fu messa nero su bianco in una sentenza della magistratura la piena complicità della chiesa cattolica, incluso il primate dell’epoca, Cardinal Raúl Primatesta e del nunzio apostolico Pio Laghi, nell’assassinio del vescovo Enrique Angelelli e dei sacerdoti Carlos de Dios Murias e Gabriel Longueville. La sentenza confermava quanto si sapeva da mille testimonianze e documenti.
All’interno del genocidio la chiesa cattolica argentina non fu solo complice ma i suoi vertici operarono una sorta di sterminio interno facendo eliminare preti e suore vicini all’opzione preferenziale per i poveri decisa nella Conferenza Eucaristica di Medellin del 1968 o semplicemente scomodi. Furono almeno 125 i sacerdoti impegnati a fianco degli ultimi a morire o essere fatti sparire. Molti di quelli che persero la vita furono indicati ai carnefici dalle stesse gerarchie cattoliche, Tortolo, Primatesta, Aramburu, che collaborarono attivamente sia ai crimini che al successivo occultamento.
Stiamo parlando di un crinale difficile tra la complicità e la morte ed è in quest’ambito che azioni ed omissioni vanno misurate. L’ordine di appartenenza di Papa Francesco I, quello gesuita, resta al margine della complicità con la dittatura dei 30.000 desaparecidos e della guerra intestina nella stessa chiesa. Tuttavia non sono poche le accuse che colpiscono l’oggi papa argentino per quei sei anni da provinciale gesuita dal 1973 al 1979. Quella più grave e circostanziata gli viene mossa in particolare da Horacio Verbitsky, l’autore di “El Vuelo”, il primo libro che denunciava i voli della morte, sempre scrupoloso nelle sue denunce, e oggi presidente del CELS, la più importante istituzione in difesa dei diritti umani del paese, è l’aver privato di protezione alcuni giovani parroci del suo ordine, troppo esposti nel lavoro sociale con i più poveri. Due di loro furono sequestrati per cinque mesi.
Uno di questi, Orlando Yorio, denunciò a Verbitsky di essere stato consegnato da Bergoglio allo stesso Massera e sono molte le testimonianze sull’amicizia tra il nuovo papa e l’Ammiraglio piduista: «Bergoglio se ne lavò le mani. Non pensava che uscissi vivo». Per Emilio Bignone, una delle più cristalline figure di difensore dei diritti umani in Argentina, che conferma i dettagli della denuncia di Verbitsky, e autore di uno dei testi tuttora fondamentali su chiesa e dittatura, Bergoglio «è uno di quei pastori che hanno consegnato le loro pecorelle». Le accuse di Verbitsky sono confermate anche da Olga Wornat, il lavoro della quale è in genere suffragato da un numero enorme di testimonianze.
Dopo la dittatura, anche negli ultimi anni, Bergoglio fu chiamato a testimoniare in molteplici circostanze in inchieste e processi per violazioni di diritti umani. Non ha mai parlato. Chi scrive ha personalmente verificato in queste ore il suo silenzio con il PM che indagava sul sequestro di una giovane incinta. Se quelli indicati sono precedenti che ne fanno un complice pieno della dittatura sta al lettore deciderlo. A chi scrive il puntare il dito sembra troppo e l’assoluzione troppo poco. Bergoglio non fu né un Aramburu né un Von Wernich ma neanche un padre Mujíca, uno dei sacerdoti assassinati. Sta in una zona grigia, un quarantenne in ascesa, con un ruolo importante ma non ancora di spicco, in una chiesa argentina dove si mandava ad uccidere o si rischiava di essere uccisi.
Bergoglio era dal 1973 provinciale dei gesuiti. In un ordine tradizionalmente progressista, e condotto da Padre Arrupe, il papa nero che nei primi anni ‘80 si scontrava e veniva ridotto all’impotenza da Giovanni Paolo II, è Bergoglio ad essere emarginato dai suoi. Per Luís “Perico” Pérez Aguirre, prestigioso gesuita uruguayano, fondatore del SERPAJ e consigliere dell’ONU in materia di diritti umani, che chi scrive ha avuto occasione di conoscere e ammirare, prima della morte nel 2000, in una testimonianza raccolta da Olga Wornat: «Bergoglio [che si era da tempo votato ad una relazione di obbedienza asosluta a Karol Wojtyla] stravolse completamente il segno della Compagnia da progressista in conservatrice e retrograda. Ho rotto ogni rapporto con lui, soprattutto rispetto al suo agire durante la dittatura».
Il cambiamento sarà strutturale, nella retrograda Chiesa argentina la Compagnia non fa più eccezione. Lui però guarda oltre ed è al di fuori del suo ordine che saprà tornare in pista. Formalmente ancora gesuita, dal 1979 in avanti si muoverà al di fuori. Della sua carriera Bergoglio deve molto al successore di Primatesta, Antonio Quarracino. Differente da Primatesta, e con un lontano passato progressista concluso già alla fine degli anni ’60, Quarracino era tutt’altro che un santo. L’ostentazione della ricchezza, basta pensare ad Aramburu, è un altro tratto delle gerarchie argentine dal quale il nuovo papa è completamente esente. Scegliere come ausiliare Bergoglio, quel vescovo semplice e irreprensibile, era per Quarracino una maniera di coprirsi il fianco da tante critiche.
Non si comprometteva Bergoglio con le feste che frequentava il Cardinal Quarracino nella casa di Olivos e dove s’intratteneva come un Apicella qualsiasi suonando la chitarra per Carlos Menem. Erano altri anni oscuri per l’Argentina, quelli del menemismo. Molte cose distanziavano i due prelati. Il primate aveva interessi mondani, l’ausiliare faceva il vescovo, centrando la propria missione nella formazione del clero e nell’attenzione al popolo delle villa miseria che circondano tutt’ora il gran Buenos Aires. Bergoglio seppe mantenere con Quarracino relazioni cordiali ma distanti. Forse era l’unica maniera di tener fede sia ai voti di castità e povertà che a quello di obbedienza.
Fu in questa relazione tra due prelati così diversi che Bergoglio si costruì un ruolo di punto di riferimento per una nuova generazione di sacerdoti argentini anche quando, primo gesuita della storia, succederà a questo nel 1998. Sulle sue spalle cadrà di nuovo il peso di riscattare una chiesa cattolica dal passato tenebroso. Emergeranno però anche le caratteristiche che oggi lo portano al soglio pontificio: la mano di ferro con la quale ha condotto la chiesa argentina (e che ne fa uno spauracchio ora per la curia romana), la marcata preoccupazione sociale, la critica alla politica.
Soprattutto Bergoglio -ed è un punto di forza rilevante- risulta straordinariamente interessato alla vita del suo clero. Si preoccupa per le necessità materiali, è presente, è vicino e accessibile. Perfino Clelia Luro (testimonianza a chi scrive), la terribile compagna del vescovo Jerónimo Podestá, salva solo Bergoglio di tutto il clero argentino che aveva isolato il prelato che aveva deciso di combattere la battaglia per la fine del celibato. Bergoglio, nonostante non condividesse la decisione del vescovo, che fu infine ridotto allo stato laicale, gli rimase vicino umanamente fino alla fine.
Il passato ritorna però e il profilo di Bergoglio resta basso. Tenta di difendere se stesso e la chiesa argentina. In particolare per quest’ultima c’è poco da difendere. Primatesta e Aramburu avevano eretto un muro di inaccessibilità ai familiari delle vittime che neanche in chiesa -al contrario di quanto era successo con la Vicaría della Solidaridad a Santiago del Cile- avevano trovato sicurezza. Una macchia indelebile che continua a distanziare molti fedeli dalla Chiesa cattolica. Lui ha scelto di denunciare in maniera generica e spesso netta i peccati (con una posizione non lontana dalla teoria dei due demoni) ma di salvare i peccatori, sia quando è stato chiamato a testimoniare in tribunale, sia quando ha scritto o ha preso decisioni politiche.
Quando nel 2007 fu chiamato a prendere provvedimenti nei confronti di Christian Von Wernich, il sacerdote condannato all’ergastolo per avere sequestrato personalmente 42 persone, assassinate 7 e torturate 32, espresse parole forti ma non comminò alcuna sanzione come tutto il mondo democratico e dei diritti umani chiedeva. Von Wernich sta oggi scontando l’ergastolo ma è a tutti gli effetti un sacerdote e nessun provvedimento disciplinare è stato preso nei confronti del carnefice che le vittime descrivono come un vero demonio.
Ma chi è davvero Jorge Bergoglio, Papa Francesco I che comincia il suo cammino di Vescovo di Roma con un passato così pesante? Integralista di destra mette i poveri al centro del suo apostolato. Vicino alla dittatura militare rende omaggio ai sacerdoti assassinati da questi ultimi. Ha fatto una carriera tutta controcorrente, conservatore in un ordine considerato progressista, primo gesuita primate argentino, primo gesuita papa, primo papa latinoamericano. Nemico dei progressisti e di tutti i politici (li detesta e non lo manda a dire, quasi grillino in questo) e lontano dagli organismi per i diritti umani, esige dallo Stato educazione cattolica ed è contrario ai contraccettivi, ma nessuno può accusarlo di non onorare i propri voti, in particolare quello di povertà.
Chi scrive sconsiglia di incastrarlo nella figura a lui aliena di sacerdote proveniente da una “chiesa giovane” e varie altre semplificazioni giornalistiche che domattina troveremo. Viene da una chiesa strutturata e complessa e da una realtà metropolitana dura. L’associazione con Medellin poi è del tutto fuori luogo.
L’attenzione di Bergoglio per i poveri è di stampo infaticabilmente caritatevole, mai politico. Tuttavia bisogna rifuggere anche l’interpretazione tenebrosa del complice della dittatura tout court, come quella di una papa scelto per fermare il cambiamento in America. Nonostante sia una figura ben diversa da quella di Ratzinger, è un papa con tratti di forte continuità soprattutto con Karol Wojtyla. Questo combatté e vinse la battaglia con la teologia della liberazione senza comprendere le ragioni di questa, per perdere poi quella con le chiese protestanti. È lì che va atteso fin dal prossimo viaggio in Brasile il nuovo papa.
A Buenos Aires, dicono gli amici ma senza che alcun detrattore lo contesti, sparisce ogni volta che può per infilarsi in orfanotrofi, carceri, ospedali a compiere il suo apostolato. Chissà se potrà farlo anche a Roma.
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