di Cristiano M. G. Faranna (il manifesto, 16 febbraio 2013)
«Accogliamo con venerazione la scelta di Benedetto», con queste parole il cardinale Angelo Bagnasco ha salutato la rinuncia di Ratzinger al ministero petrino. Ieri il presidente della Cei è stato a capo della delegazione ligure, composta dai sei vescovi, che ha incontrato il papa dimissionario. Un’udienza già stabilita, che fa parte del disbrigo degli affari ordinari che, quasi come un governo uscente, il papa sta svolgendo.
Oggi toccherà ai pastori lombardi guidati dall’arcivescovo di Milano, Angelo Scola. Ed è proprio la traiettoria Milano-Genova a tenere banco nelle chiacchiere di stampa pre-conclave. Entrambi i porporati sono considerati i più quotati tra gli italiani per la successione, con Bagnasco leggermente in vantaggio, fosse soltanto per motivi anagrafici.
Il rappresentante dell’episcopato italiano ha da poco compiuto settant’anni, due in meno di Scola e se si decide di leggere la scelta di Ratzinger come un invito sommesso a preferire un papa giovane pochi anni fanno la differenza, contando anche che Scola secondo il diritto ecclesiale ha ancora due anni e mezzo di incarico effettivo, che scade al compimento del settantacinquesimo anno. Il segno di Ratzinger, vescovo di Roma che si accinge a diventare emerito tra gli emeriti, potrebbe non essere sottovalutato nel silenzio orante della Cappella Sistina.
La cattedra di sant’Ambrogio ha inoltre ribadito l’importanza di Genova nel panorama ecclesiale del Belpaese, di cui il sommo pontefice è primate. A precedere Scola a Milano fu proprio un pastore proveniente dalla repubblica marinara, Dionigi Tettamanzi, divenuto un baluardo della cittadinanza contro le tendenze xenofobe leghiste.
La scelta del Patriarca di Venezia venne considerata come una sorta di par condicio politica, a causa della sua vicinanza con Comunione e liberazione, il movimento di cui fa parte anche Formigoni. Nonostante l’impegno di Scola nel dialogo interreligioso la nomina fu letta da più parti come un mettere le briglie alla chiesa più feconda di novità del panorama cattolico nazionale.
La successione di Scola a Venezia fu il nuovo motivo di attrito tra la Cei - in particolare Bagnasco - e il suo predecessore a Genova e segretario di Stato, Tarcisio Bertone. Alla fine la spuntò Bagnasco con la nomina di Francesco Moraglia, ancora una volta un pastore genovese e presidente del cda di «Comunicazione e Cultura», organismo Cei di cui fa parte Tv2000.
Il grande freddo era scoppiato nel 2009 con l’affaire Boffo, l’opera di distruzione mediatica del direttore di Avvenire portata avanti da Il Giornale come contromossa per le critiche del quotidiano della Cei alla condotta morale di Berlusconi. In quell’occasione fu rimproverato a Bertone di non aver difeso Boffo, con Bagnasco che sembrò non apprezzare alcune uscite pubbliche del direttore de L’Osservatore Romano, Giovanni Maria Vian, circa la linea editoriale di Avvenire.
Da qualche tempo gli attriti tra le due entità e i loro massimi rappresentanti si sono appianati, complici gli ultimi scandali che hanno investito il Vaticano e l’opera di riappacificazione fortemente voluta in maniera personale da Ratzinger. Proprio la decisione del papa, annunciata in piena campagna elettorale, sembra voler indicare ai porporati tricolore di badare meno alla politica del loro Stato di provenienza.
All’alba di un conclave con un vescovo di Roma «nascosto al mondo» Bagnasco, Bertone e Scola rappresentano la portanza italiana. Il primo per il collegio episcopale, il secondo per la Curia e il terzo per i movimenti.
Una quarta figura appare, più mite. Pastore ma da anni curiale, il grande pubblico lo conobbe per il pianto mostrato alle tv dopo la morte di Wojtyla, anche se un’ombra è caduta su di lui nello scandalo Vatileaks, fu accusato di essere tra gli ispiratori dell’ex-maggiordomo del papa Paolo Gabriele. È riapparso mercoledì, imponendo le ceneri a Benedetto. Angelo Comastri, 69 anni, da Grosseto. Il suo motto è Deus charitas est.
Perché il Papa resta ancora un enigma?
di Gian Enrico Rusconi (La Stampa, 13 marzo 2014)
Fenomeno in gran parte mediatico? Rinnovamento solo pastorale? O inizio di una nuova ermeneutica dottrinale? Ad un anno esatto dalla sua elezione, Papa Bergoglio continua a sollevare interesse e forti interrogativi. Ma per molti aspetti rimane ancora un enigma.
Tra devoti entusiasti, clericali mugugnanti e laici che volonterosamente offrono la loro spiegazione. Papa Francesco va per la sua strada, sostento da una fede formidabile. Tutto il resto attorno a lui è incerto. Talvolta dà l’impressione di essere sostanzialmente solo. Incarnando perfettamente il nostro tempo mediatico, affascina direttamente la gente (fedeli e non) con il suo sorriso e le sue parole semplici e penetranti. Smonta l’aura sacrale del suo altissimo ruolo entro cui agivano o su cui si appoggiavano i suoi predecessori. Ma molti temono che questo atteggiamento prima o poi minerà la sua autorità.
In realtà il progetto di Papa Francesco è restaurare l’autorità (e l’attrattività) della Chiesa intesa come espressione di una autentica comunità di credenti, che ragionano e dialogano a partire dal vissuto quotidiano. Non una Chiesa che si avvolge nel mistero ma poi si esprime attraverso un apparato istituzionale che dal vertice distribuisce certezze con il rischio di diventare «una Chiesa fredda che dimentica la speranza e la tenerezza, che non sa dove andare e si imbroglia» - come disse mesi fa in una intervista a questo giornale.
Qual è lo strumento principale per questo audace progetto? E’ il linguaggio. Il linguaggio parlato e dell’immagine, che attinge al vissuto, alla sensibilità umana, al modo di esprimersi comprensibile a tutti per la sua carica emotiva («dolcezza», «misericordia). Una semantica che sembra introdurre ad una nuova ermeneutica della dottrina tradizionale. Ma questa è ancora tutta da inventare. Tutto ciò spiazza i critici che avevano previsto (non senza buone ragioni) una collisione tra dottrina tradizionale e azione pastorale. In realtà siamo appena all’inizio di un conflitto che può rivelarsi più duro e più lungo del previsto, perché trova impreparati gran parte degli uomini di Chiesa.
Qui urtiamo in un brutto paradosso perché l’azione di Bergoglio è efficace se non è una pressione dall’alto. Il Papa non solo non vuole creare tensioni o divisioni all’interno della Chiesa, ma come nessun altro dei suoi predecessori intende valorizzare al massimo le forme di collegialità esistenti. Soprattutto vuole restaurare la piena autorità dei vescovi radicati nel loro popolo. Ma se questi sono i primi a non capire la rivoluzione semantica ed ermeneutica di Bergoglio e vi vedono soltanto pericoli per le certezze dottrinali?
Oggi all’ordine del giorno c’è la «teologia della famiglia», che indirettamente porta alla luce questioni radicali che toccano in profondità quella «antropologia» (o condizione umana o semplicemente natura umana) che sino a qualche tempo fa veniva affermata in modo perentorio e in contrapposizione ad ogni altra concezione, subito declassata a relativismo, immoralismo, laicismo, nichilismo ecc. Adesso finalmente sentiamo autorevoli uomini di Chiesa che pubblicamente parlano di amori e unioni matrimoniali autentiche ma fragili, difficili e infine fallite. Soprattutto della legittimità morale che progetti di vita comune incolpevolmente falliti possano ritrovare una loro soluzione positiva in un altro matrimonio. Ovvero in termini giuridici: divorzio e ricostituzione di un’altra famiglia.
Naturalmente per gli uomini di Chiesa l’ottica che conta è quella della piena permanenza nella vita ecclesiale degli uomini e delle donne che patiscono la situazione ora descritta e desiderano vivere interamente la loro fede. Sbrigativamente e giornalisticamente questo problema si condensa nel tema della «comunione per i divorziati». In realtà la questione è più sofisticata: si parla di percorsi «penitenziali che abbiamo come esito la ritrovata comunione eucaristica».
Con tutto il rispetto per questa impostazione, qui mi preme dire che dietro a questa problematica sono in gioco molto di più delle «patologie» della famiglia o del matrimonio. E’ l’intero discorso sulla «natura umana». Discorso ampio e impegnativo, attorno al quale il confronto tra visione laica e visione religioso-cattolica da tempo si è bloccato.
Vorrei concludere, accennando ad un altro tema, riprendendo un passaggio ironico, breve ma significativo dell’intervista di Bergoglio alla «Stampa» di mesi fa. «Le donne nella Chiesa devono essere valorizzate, non clericalizzate, facendole magari cardinali».
L’arguzia dell’affermazione evade la sostanza di un problema dottrinale eluso. Non intendo affatto in questa sede sollevare la problematica del sacerdozio femminile che nella dottrina cattolica ha una lunga e argomentata tradizione di rifiuto. Ma Papa Francesco avrebbe potuto semplicemente dire: «La donna collocata in posti decisionali e in ruoli istituzionali essenziali, potrà senz’altro de-clericalizzare la Chiesa così come è oggi». Perché non ha detto queste parole? Sarebbe stato un elegante e ancora ortodosso contributo ad una nuova ermeneutica dottrinale.
SALVEZZA PER TUTTI. O PER NESSUNO. IN GERMANIA, 500 PARROCI CONTESTANO IL NUOVO MESSALE *
37212. BERLINO-ADISTA. La nuova traduzione in lingua tedesca del Messale voluta dal Vaticano non piace, da un punto di vista sia formale che sostanziale e teologico. Lo affermano, in un appello ai membri della Conferenza episcopale tedesca, circa 500 parroci tedeschi aderenti alla Pfarrer-Initiative, timorosi che questa traduzione venga approvata e definitivamente adottata in occasione della prossima assemblea generale dei vescovi, in programma a Fulda per settembre.
A costituire il maggiore problema, per i parroci, sono le parole che il prete pronuncia al momento della consacrazione eucaristica: «Questo è il mio sangue, versato per voi e per molti». La modifica al testo era stata annunciata ai vescovi germanofoni da Benedetto XVI nell’aprile 2012: l’espressione latina pro multis avrebbe dovuto essere tradotta con “per molti”, e non più “per tutti” modificando così sostanzialmente l’uso in vigore.
La richiesta è contenuta in una lettera indirizzata all’arcivescovo di Monaco, card. Reinhard Marx, ai vescovi ausiliari della stessa diocesi, mons. Bernhard Hasslberger e mons. Woflgang Bischof, e al vicario episcopale mons. Rupert Graf zu Stolberg, e porta la firma dei portavoce del movimento dei parroci Albert Bauernfeind, Walter Hofmeister, Hans-Jörg Steichele, Christoph Nobs, Karl Feser e Klaus Kempter.
Il documento esprime anche la speranza che nel corso della celebrazione eucaristica sia utilizzata una lingua che «aiuti gli uomini e le donne di oggi ad avere un dialogo con Dio e a partecipare, dunque, attivamente alla liturgia». La nuova traduzione, si legge nel testo della lettera, «è ben poco poetica e suggestiva» e non fa che amplificare i problemi già esistenti, tanto da rischiare di spingere molti preti a rifiutarne il ricorso per motivi di coscienza.
Il documento fa anche riferimento alle prime fasi del pontificato di papa Francesco, il quale ha mostrato segnali che fanno presagire la volontà di instaurare un più intenso rapporto collegiale con i vescovi e di adottare misure che riducano il ruolo di Roma e il centralismo vaticano; i parroci auspicano, infatti, che il nuovo papa «riconosca nuovamente ai vescovi il diritto di esercitare le funzioni di loro competenza senza la tutela della Curia romana». Alla luce di queste considerazioni, chiedono dunque fermamente ai vescovi dell’arcidiocesi di Monaco di non dare la loro approvazione al nuovo testo e di continuare, invece, ad utilizzare la traduzione usata fino a questo momento.
Nella loro lettera i parroci riportano le parole del papa sul concetto di armonia nella diversità, contenute in un’intervista rilasciata da Bergoglio al mensile 30Giorni nel 2007 (n. 11/07), quando era arcivescovo di Buenos Aires: «Nella Chiesa l’armonia la fa lo Spirito Santo. Uno dei primi padri della Chiesa scrisse che lo Spirito Santo “ipse harmonia est”, lui stesso è l’armonia. Lui solo è autore al medesimo tempo della pluralità e dell’unità. Solo lo Spirito può suscitare la diversità, la pluralità, la molteplicità e allo stesso tempo fare l’unità. Perché quando siamo noi a voler fare la diversità facciamo gli scismi e quando siamo noi a voler fare l’unità facciamo l’uniformità, l’omologazione. Ad Aparecida abbiamo collaborato a questo lavoro dello Spirito Santo». E ancora: «Il restare, il rimanere fedeli implica un’uscita. Proprio se si rimane nel Signore si esce da sé stessi. Paradossalmente proprio perché si rimane, proprio se si è fedeli si cambia. Non si rimane fedeli, come i tradizionalisti o i fondamentalisti, alla lettera. La fedeltà è sempre un cambiamento, un fiorire, una crescita. Il Signore opera un cambiamento in colui che gli è fedele. È la dottrina cattolica».
Già nel 2007, il Consiglio presbiterale di Rottenburg-Stuttgart aveva votato a favore del mantenimento della traduzione inclusiva per tutti, giudicando quella del Vaticano, per molti, ambigua. «La promessa di salvezza di Dio - recitava un comunicato stampa diffuso dal Consiglio presbiterale - vale per tutte le persone. Verità di fede espressa in modo più chiaro nella formula “per tutti”».
Un mese e mezzo prima, era stato il Consiglio presbiterale di Augsburg a dire lo stesso chiedendo al vescovo, mons. Walter Mixa, di «promuovere presso il Vaticano e presso la Conferenza episcopale tedesca» la possibilità di continuare a tradurre l’espressione del Messale romano pro multis con per tutti. Subito prima del voto, era intervenuto alla riunione del Consiglio presbiterale il preside dell’Accademia Cattolica della Baviera, p. Florian Schuller, sottolineando che la storia dei testi centrali della liturgia è «profondamente iscritta nelle coscienze» e che un cambiamento come quello prescritto da Roma rischia di provocare polarizzazioni e proteste a livello di parrocchie. (ludovica eugenio)
* Adista Notizie n. 23 del 22/06/2013
Ratzinger torna, due Papi in Vaticano
di Paolo Rodari (la Repubblica, 30 aprile 2013)
Mancano poche ore al ritorno di Benedetto XVI in Vaticano. Da quando il Papa emerito metterà piede nel suo nuovo alloggio, il monastero Mater Ecclesiae, inizierà entro le mura leonine l’inedita “coabitazione” col suo successore Papa Francesco.
S’incontreranno i due? Bergoglio, quando ne sentirà il bisogno, lascerà la residenza di Santa Marta per andare dall’altra parte dei giardini vaticani a trovare il suo predecessore? Difficile rispondere. Di certo c’è che una certa collaborazione fra i due è già iniziata, almeno sul piano teologico.
Infatti, come Ratzinger scrisse la sua prima enciclica, la “Deus caritas est”, nel Natale del 2005, rimodellando un testo sul quale stava lavorando il suo predecessore Giovanni Paolo II, così Papa Francesco potrebbe dare presto alle stampe - si dice entro il prossimo autunno - la sua prima lettera enciclica intervenendo su una bozza dedicata al tema della fede che Benedetto XVI gli ha consegnato durante il loro ultimo incontro avvenuto a Castel Gandolfo il 23 marzo. Se la pubblicazione avverrà, potrebbe essere l’inizio di una collaborazione, seppur discreta, anche su altri temi. Ratzinger, infatti, dal Mater Ecclesiae, sarà ben attrezzato per dare consigli anche teologici al suo successore.
La “bozza Ratzinger” di questa nuova enciclica, un testo di circa 30-40 cartelle, ha avuto una genesi fulminea. Lo scorso ottobre Benedetto XVI, aprendo un anno dedicato alla fede, ha chiesto all’ufficio dottrinale dell’ex Sant’Uffizio di lavorare su una prima bozza che avesse al centro il tema della fede alla luce dei suoi interventi in merito, non soltanto i testi papali ma anche i libri, su tutti il volume del 1968 “Introduzione al cristianesimo”. I teologi vaticani, dopo poche settimane, gli hanno inviato un testo che ha rimandato indietro chiedendo un ulteriore lavoro. La seconda bozza gli è stata consegnata circa un mese prima dell’annuncio della rinuncia al soglio di Pietro.
Ratzinger l’ha tenuta con sé, per poi consegnarla a Bergoglio dicendogli di decidere lui cosa farne. Dicono oltre il Tevere: «Il testo è completo. Dottrinalmente è ineccepibile e ben fatto». La fede è stato il tema principale del pontificato di Benedetto XVI. “Dove c’è Dio, là c’è futuro”, fu non a caso il titolo che egli volle dare alla sua terza visita in Germania, nel 2011. Il programma del pontificato aveva al centro il tentativo di riavvicinare gli uomini a Dio. Ma la sfida riguardava e riguarda anche la Chiesa, nella consapevolezza più volte esplicitata che la crisi profonda della Chiesa odierna «è una crisi di fede ».
È anzitutto la Chiesa ad aver perso la bussola, quasi a non conoscere più l’abc della fede. Di qui un anno dedicato al tema. E un’enciclica ora nelle mani di Bergoglio che, dopo un suo intervento, potrebbe renderla pubblica.
Un pranzo da Papi
Sabato 23 marzo l’inedito incontro a Castel Gandolfo tra un pontefice e il suo successore affidato alla regia di don Georg. “Il protocollo? Nessun precedente”
DI GIACOMO GALEAZZI (La Stampa, 22/03/2013)
CITTA’ DEL VATICANO "Non si sa quale protocollo seguire, non esistono precedenti", spiegano in Curia. Di sicuro un ruolo fondamentale lo avrà nell’evento l’arcivescovo Georg Gaenswein, stretto collaboratore di entrambi gli uomini vestiti di bianco. Quello di domani sarà una sorta di passaggio delle consegne, mai avvenuto in due millenni di storia del cristianesimo. E non è neanche possibile immaginare di quante e quali cose i due potranno parlare, in una vicenda che li lega e li unisce (ma anche li divide) da almeno otto anni, essendo stato Bergoglio il principale rivale di Ratzinger nel Conclave del 2005, che elesse appunto Benedetto XVI. E ora, alle dimissioni di quest’ultimo, è proprio lo sconfitto di allora che ne prende il posto, con tutto quello che significa in termini di svolta nel governo della Chiesa. "Si avverte una radicale sintonia tra Benedetto XVI e Francesco: due figure di altissima spiritualità, il cui rapporto con la vita è completamente ancorato in Dio", sottolinea Civiltà cattolica, il quindicinale dei gesuiti stampato con l’imprimatur della segreteria di Stato vaticana.
"Questa radicalità - si legge in un editoriale dedicato all’elezione di Jorge Mario Bergoglio - si è manifestata in Papa Benedetto con il suo tratto timido e gentile, in Papa Francesco si palesa nell’immediatezza dolce e spontanea che, tra l’altro, si è espressa nelle sue prime parole: ha esordito con un semplice "Buonasera", ha definito i cardinali "fratelli", ha chiesto un "favore" alla gente, che ha definito eloquentemente come "popolo". E questo favore è stato quello di pregare per lui. Come vescovo si è congedato dal suo popolo con un ’Buona notte e buon riposo". "Papa Francesco è il primo Papa gesuita della storia. Ma anche il primo, dell’epoca moderna, che proviene da un continente extra-europeo. Il primo a chiamarsi Francesco. I gesuiti sono stati fondati da sant’Ignazio di Loyola al servizio del Papa circa la missione, per essere inviati ovunque nel mondo dove ci fossero più urgenze. E il servizio del Papa è dovuto al fatto che il Pontefice è colui che ha la visione più universale e conosce le necessità della Ecclesia universa, dovunque esse sorgano. Per un gesuita essere chiamato al Ministero petrino significa essere eletto a incarnare al più alto livello un ministero universale", scrive il più antico quindicinale italiano. "Papa Francesco è un uomo di governo, che ha affrontato momenti anche molto difficili. La sua semplicità, il suo tratto umile e riservato si sposano dunque a una solida capacità di organizzazione e guida".
Non è dato sapere se papa Francesco chiederà consigli al suo predecessore, essendo tra l’altro ora alle prese con le decisioni sul futuro della Curia. Non ci sarà la diretta tv, ma qualche foto e un breve video forse sì, per quello che è un incontro inedito nella storia: due Papi l’uno davanti all’altro. E che uno sia in carica e l’altro solo «emerito», in virtù della sua decisione-shock di rinunciare al pontificato, cambia poco essendo entrambi Vicari di Cristo in terra. Mai, comunque, un Pontefice ha incontrato, ha parlato e (come succederà domani a Castel Gandolfo) è rimasto persino a pranzo con un suo predecessore. Quale migliore fotografia si potrà avere del fatto che neanche il papato va considerato come uno status definitivo, con caratteri di unicità, ma soggetto anch’esso alle libere decisioni degli uomini?
Domani, a dieci giorni dall’elezione, papa Francesco andrà quindi in visita al suo predecessore Benedetto XVI. Alle 12.00 Bergoglio partirà in elicottero dall’eliporto vaticano - paradossalmente la stessa cosa fatta da Benedetto XVI la sera del 28 febbraio, al momento di lasciare il pontificato - e atterrerà dopo circa un quarto d’ora in quello di Castel Gandolfo, a poca distanza dalla residenza pontificia sui Colli Albani dove il «Papa emerito» vive dall’inizio della sede vacante. Lì ci sarà lo storico incontro, seguito da un pranzo. Al termine, il rientro di papa Francesco in Vaticano. Prima di rendere visita a Ratzinger, che pure ha sentito già due volte per telefono appena eletto e il 19 marzo per gli auguri dell’onomastico, Bergoglio ha voluto attendere qualche giorno, e dare inizio ufficiale al suo ministero petrino. Riti che Joseph Ratzinger ha seguito con attenzione, ma soltanto in tv.
Di cosa parleranno i due Pontefici
di Vittorio Messori (Corriere della Sera, 23 marzo 2013)
L’incontro di oggi a Castel Gandolfo tra il Papa regnante, Francesco, e quello emerito, Benedetto XVI, è del tutto inedito. Joseph Ratzinger si asterrà dai consigli a Jorge Mario Bergoglio, limitandosi semmai a richiamare l’attenzione su questioni restate irrisolte. Si parla di una sorta di promemoria riservato, preparato da Benedetto XVI per chi, dopo di lui, avrebbe portato il pesante fardello di Pietro.
In queste settimane vi è stato grande uso (e talvolta abuso) degli aggettivi «storico» ed «epocale». Ma l’evento di oggi merita un po’ di enfasi: l’incontro - e in un clima che sarà certamente di grande, solidale fraternità - tra il Papa regnante e quello emerito è del tutto inedito.
Come è stato ripetuto più e più volte, di questi tempi, non sono mancati esempi antichi di «rinuncia papale», ma in secoli turbinosi, come episodi da inquadrare nella lotta tra papi e antipapi. Il solo precedente assimilabile a ciò che ha avuto inizio l’11 febbraio scorso è quello di Celestino V. Il quale non ebbe certo abbracci dal suo successore in effetti, Bonifacio VIII si preoccupò di neutralizzare il dimissionario, temendo che revocasse l’abdicazione. Il risultato finale - dopo fughe per terra e per mare - fu che il già papa Pietro da Morrone finirà, a 86 anni, i suoi giorni, in una cella non di un monastero ma di una fortezza dove era tenuto rinchiuso. Nulla a che fare, insomma, con l’incontro previsto per oggi a Castel Gandolfo.
Probabilmente non ne sapremo nulla se non, chissà quando, dai diari postumi di Joseph Ratzinger o di Jorge Mario Bergoglio. Eppure assistere a quell’appuntamento senza precedenti sarebbe tra i desideri più vivi non solo di ogni cronista ma anche di ogni storico della Chiesa.
L’arcivescovo di Buenos Aires è stato creato cardinale nel Concistoro del 2001, dunque da Giovanni Paolo II. Ma è certo che sulla sua elezione ha pesato l’indicazione dell’allora Prefetto per la Fede: Ratzinger aveva molto apprezzato che Bergoglio fosse stato tra i pochi gesuiti sudamericani a non approvare le prospettive dei teologi della liberazione. Anzi, che fosse stato bersaglio di critiche e accuse, per questo, dai confratelli.
L’incontro attuale, dunque, non sarà tra un «conservatore» e un «progressista» - come vorrebbe la grossolana lettura ideologica - ma tra due servitori della Chiesa consapevoli che c’è differenza tra carità cristiana e lotta di classe, tra omelia religiosa e comizio politico, tra sacerdote di Cristo e guerrigliero. Non sarà neppure un incontro tra un «giovane» e un «vecchio»: Bergoglio ha quasi la stessa età del suo predecessore quando fu eletto.
Conoscendo la delicatezza dell’uomo Ratzinger, c’è da credere che si asterrà dai consigli, limitandosi semmai a richiamare l’attenzione su questioni restate irrisolte. Si parla di una sorta di promemoria riservato, preparato da Benedetto XVI per chi, dopo di lui, avrebbe portato il pesante fardello di Pietro. Può darsi, ma c’è da supporre che pure in questo caso l’intenzione sia stata informativa e non, come dire?, pedagogica, quasi che il nuovo Pontefice avesse bisogno di essere guidato.
Il Papa ora emerito lo ha detto con chiarezza, prima del congedo: sua intenzione è «sparire dalla vista del mondo», continuare a servire la Chiesa con la preghiera e non con una, seppur discreta, collaborazione al governo della Chiesa.
Certo, resta pur sempre la domanda che molti si sono fatti: restare nel «recinto vaticano» non rende più difficile un simile proposito di nascondimento?
Devo dire che pur non attendendo, almeno per ora, la decisione della «rinuncia», più volte avevo riflettuto su quale avrebbe potuto essere il rifugio di un eventuale Benedetto XVI costretto dall’età e dal peso dei problemi a lasciare il suo servizio. Mi era istintivo pensare innanzitutto a un ritorno nella sua Baviera, dove - in posti magnifici, spesso in foreste circondate da alte montagne - sopravvivono abbazie ancora abitate da monaci benedettini. Ma l’età e la salute fragile dell’uomo non consigliavano certo un severo clima alpestre.
Il Sud italiano, allora? Mi veniva di pensare alla Calabria, alla Certosa di Serra San Bruno, dove tra l’altro giace il corpo venerato dello stesso fondatore dell’Ordine, san Bruno, appunto. Benedetto XVI si è tra l’altro recato in pellegrinaggio in quel luogo sacro.
Ma una Certosa non è il luogo indicato per un anziano, bisognoso - soprattutto in una prospettiva futura - di assistenza costante. I monaci vivono isolati, in una casetta che da una parte dà sul grande chiostro e dall’altra sull’orto-giardino che coltivano essi stessi. La piccola infermeria non può certo bastare.
Se mi avessero chiesto di indicare un luogo per il possibile nascondimento del Papa divenuto emerito, non avrei esitato, puntando il dito sulla Provenza, dipartimento della Vaucluse, ai piedi del Mont Ventoux: per l’esattezza, nella località detta Le Barroux. Qui non solo la temperatura è ideale e il paesaggio incantevole ma qui, dal 1970, è sorta una abbazia talmente cara a Joseph Ratzinger che, da cardinale, spesso vi soggiornava qualche giorno, ora in incognito ora in visita ufficiale.
In effetti il fondatore, dom Gérard, non accettando che anche i benedettini, dopo il Concilio, dovessero abbandonare il latino per la liturgia, aveva lasciato il suo monastero per crearne uno che continuasse la Tradizione e tornasse al severo rispetto della Regola. Qui il canto Gregoriano è eseguito con tale perfezione che le registrazioni su cd sono apprezzate in tutto il mondo e molti sono i giovani che si aggregano come novizi, attratti dall’austerità della vita. Avendo io pure frequentato quel luogo di straordinario fascino, seppi dai Superiori che, prima il cardinale e poi anche il Papa, aveva confidato che quello avrebbe potuto essere il luogo per il suo rifugio finale.
E invece, ecco un provvisorio Castel Gandolfo e, forse definitivi, i giardini del Vaticano. Il Papa emerito ha fatto capire che anche questa vicinanza fisica alla tomba di Pietro è un segno che non lascia di certo la Chiesa, che continua a lavorare per essa col servizio della preghiera.
Problemi di convivenza, ha fatto anche capire, non ve ne saranno, vista la sua vita ritirata. Il problema sembra secondario ma non lo è, come ben sa chi conosce l’ambiente ecclesiale, con le sue sfumature. È chiaro che da parte di papa Francesco vi sarà totale accoglienza, quale che sia la scelta del suo predecessore, ma è probabile che nell’incontro privatissimo di oggi si parlerà anche di questo aspetto inedito in una Chiesa che, in due millenni, credeva di avere tutto sperimentato. Tutto ma non il singolare «condominio», nel chilometro quadrato scarso della Città del Vaticano, di un pontefice emerito e di uno regnante.
Quando Bergoglio puntava il dito contro la borghesia dello spirito
di Jorge Mario Bergoglio (l’Unità, 13 marzo 2013)
L ’ascolto della Parola mi ha fatto sentire tre cose: vicinanza, ipocrisia e mondanità. La prima lettura dice: «Per caso esiste una nazione così grande da avere i propri déi vicini quanto lo è il Signore nostro Dio a noi?». Il nostro Dio è un Dio che si avvicina. È un Dio che si fa vicino. Un Dio che ha iniziato a camminare con il suo popolo e dopo si è fatto uno di loro come Gesù Cristo, per esserci più vicino.
Ma non con una vicinanza metafisica, ma con quella vicinanza che descrive Luca quando Gesù va a curare la figlia di Jairo, con la gente che lo spintona fino a soffocarlo mentre un’anziana tenta di toccargli il mantello. Con questa vicinanza della moltitudine che voleva azzittire il cieco che con le grida voleva farsi sentire all’entrata a Gerico. Con questa vicinanza che ha dato animo a quei dieci lebbrosi per chiedergli di lavarli. Gesù è qui. Nessuno voleva perdersi questa vicinanza, persino il bambino salito sul sicomoro per vederlo.
Il nostro Dio è un Dio vicino. Ed è curioso. Curava, faceva del bene. San Pietro lo dice in maniera chiara: «Ha vissuto facendo il bene e curando». Gesù non ha fatto proselitismo: ha accompagnato. E le conversioni che otteneva erano proprio grazie a questa sua attitudine di accompagnare, insegnare, ascoltare, fino al punto che la sua condizione di non essere uno che fa proseliti gli fa dire: «Se anche voi volete andarvene, fatelo adesso e non perdete tempo. Avete parola di vita eterna, noi rimaniamo qui».
Il Dio vicino, vicino con la nostra carne. Il dio dell’incontro che esce dall’incontro del suo popolo. Il Dio che - userò una parola bella della diocesi di San Justo -: il Dio che mette il suo popolo nelle condizioni dell’incontro. E con questa vicinanza, con questo camminare, crea questa cultura dell’incontro che ci rende fratelli, figli e non soci di una ong o proseliti di una multinazionale. Vicinanza. Questa è la proposta.
La seconda parola è ipocrisia. Mi richiama l’attenzione che San Marco, sempre così conciso e breve, abbia dedicato tanto spazio a questo episodio - che, nella versione liturgica, è ancora più ampio. Sembra che se la prenda con quelli che si allontanano, quelli che del messaggio della vicinanza di questo Dio, che cammina con il suo popolo, che si è fatto uomo per essere uno di noi e camminare, hanno preso questa realtà, la hanno sviscerata in una lunga tradizione, la hanno resa idea, puro precetto e, infine, l’hanno allontana dalla gente.
Gesù sì che accuserà coloro che fanno proseliti per questo: fare proselitismo. Voi percorrete mezzo mondo per fare proseliti e poi li uccidete con tutto ciò. Allontanando la gente. Quelli che si scandalizzavano quando Gesù andava a mangiare con i peccatori, con la gentaglia, a questi Gesù rispondeva: «La gentaglia e le prostitute vi precederanno», che era la peggior cosa da dire all’epoca.
Gesù non li blandisce. Sono quelli che hanno clericalizzato - per usare una parola che si capisca - la chiesa del Signore. La riempiono di precetti e lo dico con dolore e scusatemi, se questa cosa sembra una denuncia o un’offesa, ma nella nostra regione ecclesiastica ci sono presbiteri che non battezzano bambini nati da ragazze madri perché concepiti fuori dalla santità del matrimonio.
Questi sono gli ipocriti di oggi. Quelli che hanno clericalizzato la Chiesa. Quelli che allontanano il Dio della salvezza dalla gente. E questa povera ragazza, pur potendo rispedire suo figlio al mittente, ha avuto il coraggio di portarlo alla luce, sta peregrinando di parrocchia in parrocchia affinché qualcuno lo battezzi.
A coloro che cercano proseliti, i clericali, quelli che clericalizzano il messaggio, Gesù indica il cuore e dice: «Dal vostro cuore escono le cattive intenzioni, le fornicazioni, i furti, gli omicidi, gli adulteri, l’avarizia, il male, gli inganni, la disonestà, l’invidia, la disinformazione, l’orgoglio, la mancanza di stima...». Bella gente, eh? E così li tratta: li denuncia. Clericalizzare la Chiesa è un’ipocrisia farisaica.
La Chiesa del «venite, gente, che vi diamo il premio e chi non entra non entra» è fariseismo. Gesù ci insegna un’altra via: uscire. Uscire a portare testimonianza, uscire a interessarsi al nostro fratello, uscire a compatire, uscire a chiedere. Farsi carne. Contro lo gnosticismo ipocrita dei farisei, Gesù torna a mostrarsi in mezzo alla gente tra gentaglia e peccatori.
La terza parola che mi ha toccato è il finale della lettera di San Giacomo: non contaminarsi con il mondo. Perché se il fariseismo, questo «clericalismo » tra virgolette, ci danneggia, anche la mondanità è uno dei mali che minano la nostra coscienza cristiana. Questo lo dice San Giacomo: non contaminatevi con il mondo.
Nel suo addio, dopo cena, Gesù chiede al Padre che lo salvi dallo spirito del mondo. È la mondanità spirituale. Il peggior danno che possa capitare alla Chiesa: cadere nella mondanità spirituale.
Per questo, sto citando il cardinale De Lubac. Il peggior danno che possa capitare alla Chiesa, persino peggiore di quello di avere avuto Papi libertini. Questa mondanità spirituale di fare quel che sembra buono, di essere come gli altri, questa borghesia dello spirito, degli orari, di spassarsela, dello status: «Sono cristiano, consacrato, clerico».
Non contaminatevi con il mondo, dice San Giacomo. No all’ipocrisia. No al clericalismo ipocrita. No alla mondanità spirituale. Perché questo dimostrerebbe che siamo più imprenditori che uomini o donne di vangelo. Sì alla vicinanza. Al camminare con il popolo di Dio. A sentire tenerezza per i peccatori, per quelli che si sono allontanati, e sapere che Dio vive in mezzo a loro.
Che Dio ci conceda questa grazia della vicinanza, che ci salvi dall’atteggiamento imprenditoriale, mondano, proselitista, clericalista e ci avvicini al Suo cammino: quello di camminare con il santo popolo fedele di Dio. Che così sia. Testo tradotto da Leonardo Sacchetti
“Benedico in silenzio per rispetto degli atei”
la rivoluzione della liturgia
di Bergoglio
di Paolo Rodari (la Repubblica, 17 marzo 2013)
Per non urtare i non credenti ieri ha benedetto in silenzio i giornalisti ricevuti in udienza in Aula Paolo VI: «Poiché molti di voi non appartengono alla Chiesa cattolica, altri non sono credenti, di cuore do questa benedizione in silenzio, a ciascuno di voi, rispettando la coscienza di ognuno, però sapendo che ognuno di voi è figlio di Dio», ha detto mettendo subito in pratica l’auspicio poco prima manifestato di una Chiesa «dei poveri», che non pontifica dai piedistalli ma si fa serva di tutti.
Giovedì scorso, nella messa coi cardinali in Cappella Sistina, al posto degli abiti pontificali ha indossato una semplice casula. Sempre in Sistina ha celebrato non più “spalle al popolo” e con la cattedra al centro, come invece era solito fare Papa Ratzinger ritornando a usi preconciliari, ma di fronte all’assemblea e con la cattedra di lato, sulla sinistra guardando l’affresco del Giudizio universale.
E martedì prossimo, per la messa “d’inaugurazione” del pontificato, un’altra novità: a fianco dei cerimonieri pontifici porterà come ministranti, altrimenti detti chierichetti, non più i seminaristi romani ma i frati francescani del santuario de La Verna, vicino ad Arezzo. Dei religiosi, dunque, e non dei candidati al sacerdozio.
Insomma, tanti piccoli segni che messi assieme formano quella che in molti definiscono la “nuova” impronta liturgica di Papa Francesco, uno stile che di schianto, dopo anni di graduali riavvicinamenti al rito antico e alle sue regole, fa tornare fuori dalle catacombe nelle quali rischiava di essere sepolto il Concilio Vaticano II e con lui tutta la sua teologia: la Chiesa intesa come popolo di Dio, per la quale non soltanto la gerarchia, ma anche tutti i fedeli sono investiti degli uffici del sacerdozio, della profezia e della regalità.
Benedetto XVI amava il rito antico, la messa celebrata in latino con il sacerdote rivolto verso Oriente, il sole che sorge, Cristo che viene. Ma non voleva un ritorno tout court all’antico. Il suo era più che altro un amore per una liturgia a cui aveva partecipato da bambino, nella terra fra le più romane del cattolicesimo tedesco, la Baviera.
Piuttosto, sono stati diversi settori tradizionalisti a sovradimensionare questo feeling di Ratzinger con l’antico, sovrapponendo alla sua idea di un Concilio ancora da interpretare pienamente come rinnovamento nella continuità col passato, il miraggio di un azzeramento delle novità stesse del Concilio.
Ora Papa Francesco azzera ogni nostalgia liturgica e impone uno stile del tutto in scia al Vaticano II: i fedeli non sono dei «presenti assenti», ma sono l’assemblea «soggetto » della celebrazione.
Già dai primi minuti dopo l’elezione, i cardinali che circondavano Papa Francesco hanno compreso che molto sarebbe mutato. Il primo segnale è arrivato dalla stanza delle Lacrime, dove Bergoglio ha abbandonato la talare rossa per indossare la sua nuova veste bianca. Qui, egli ha rifiutato di indossare, sopra la stessa veste, la mozzetta di velluto rosso bordata di ermellino e la croce d’oro.
Alcuni riferiscono che egli avrebbe «liquidato» le insistenze del Maestro delle celebrazioni liturgiche, il fine liturgista Guido Marini, allievo del cardinale Siri, con un deciso: «Questa la mette lei, io mi tengo questa, la croce di quando sono divenuto vescovo». E cioè una croce di ferro che porta incisa la raffigurazione del buon pastore con in spalla la pecorella smarrita e alle spalle il suo gregge.
Ma se resta difficile credere che il mite Francesco abbia usato un tono simile con Marini, è innegabile il suo rifiuto per tutto ciò che non c’entra con l’essenzialità, la fede semplice degli ultimi, Cristo al centro della scena e nessun altro al suo posto.
Quando la Chiesa celebra i sacramenti, confessa la fede ricevuta dagli apostoli. Da qui l’antico adagio: « Lex orandi, lex credendi ». Di qui il detto di Prospero di Aquitania: « Legem credendi lex statuat supplicandi ». La legge della preghiera è la legge della fede, la Chiesa crede come prega.
Per questo Francesco da subito propone il suo stile. Perché è da come prega che la Chiesa crede. La sua Chiesa è umile, povera, anche spoglia. E il primo luogo in cui si manifesta è laddove c’è il suo cuore, appunto la liturgia: a servire alla sua messa d’inizio pontificato verranno dei frati francescani, degli umili religiosi. Francesco non solo predica umiltà, ma anche la ricerca nel suo agire.
Dalla loggia centrale della basilica vaticana la sera dell’elezione ha chiesto al popolo in piazza di pregare in silenzio per lui. Si dice che avrebbe voluto inginocchiarsi per ricevere la preghiera della gente sotto riunita. Gliel’hanno sconsigliato perché la balaustra l’avrebbe nascosto. Così ha semplicemente piegato in avanti il capo, il primo segnale che molto sarebbe cambiato.
di Franco Cardini (il manifesto, 14 marzo 2013)
Roma, piazza San Pietro, alle 7,06 del pomeriggio. Folla enorme, grida, bandiere. Un cielo cupo, una pioggia fitta e sottile, un delirio di voci e di colori. Poi la pioggia si calma, mentre scende il buio. Miracolo, dice qualcuno. Fumata bianca: anzi candida, come non si era mai vista finora: grazie anche ad alcuni additivi chimici, dicono. Luci di flash, poi i suoni delle bande militari, i colori delle bandiere e delle uniformi pontificie e italiane.
Bandiere di tutto il mondo e bandiere italiane, inno nazionale italiano e inno pontificio. «Viva il papa!», in molte lingue ma soprattutto in italiano: è la vecchia Roma, la Roma di Belli e di Trilussa e al tempo stesso la Roma eterna e universale.
Certo, i mass media hanno amplificato la festa: con toni anche pesanti e stucchevoli. Ma lo spettacolo era indubbiamente straordinario: i continui flash fotografici che per lunghissimi minuti hanno lampeggiato incessanti brillando in mezzo alla folla davano l’effetto di un firmamento sceso in terra. La tensione, intanto, cresceva: e ci si andava ripetendo tra la folla perché si stesse tardando tanto nell’annunzio. In effetti, il protodiacono pontificio si è affacciato solo alle 8,20, circa un’ora e un quarto dopo la candida fumata, per il fatidico Nuntio vobis gaudium magnum: habemus papam!
L’uomo che di lì a pochi istanti si è affacciato al balcone della basilica è il capo della Chiesa universale, e al tempo stesso è il vescovo di Roma. Il suo primo gesto sovrano è stata la benedizione Urbi et Orbi, alla città di Roma e al mondo. Poi poche parole, una preghiera e un semplice, cordiale augurio di buona serata.
In un italiano all’inizio un po’ incerto ma corretto, con un lieve ma distinto accento piemontese. Da buon argentino, il nuovo papa ha origini italiane. Jorge Mario Bergoglio, arcivescovo di Buenos Aires, la più europea delle grande città latinoamericane. Settantaseienne, un passato ecclesiale radicato nella Compagnia di Gesù, un forte impegno nei confronti dei ceti più fragili e umili della metropoli della quale è stato pastore e anche alcuni aspetti del suo carattere che hanno già dato adito a polemiche: chi lo dice molto visino alla presidentessa Kirschner, chi adombra una sua qualche connivenza con la dittatura militare. Sono voci confuse, contrastanti: sulle quali forse nei prossimi giorni sapremo cose più precise, ma che nulla tolgono comunque a un evento che ha dello straordinario.
Diciamo la verità: non se lo aspettava nessuno. Un papa latinoamericano sì, ma ci aspettavamo allora un brasiliano d’origine tedesca, personaggio molto interessante.
Bergoglio è il risultato di un accordo, è l’outsider spuntato all’ultimo istante di un conclave molto breve, appena cinque elezioni in tre giorni? E che cosa significa che un non-favorito abbia così rapidamente conseguito la maggioranza qualificata del collegio votante?
Bergoglio viene dalla Compagnia di Gesù: pare vi fosse una specie di tacito accordo, all’interno dei vertici della Chiesa, secondo il quale chi ha il "papa nero" non avrebbe mai avuto un "papa bianco". Ma tutto ciò faceva parte evidentemente di una leggenda: oppure siamo davvero dinanzi a un mutamento epocale anche nelle consuetudini più radicate?
Qualcuno ha commentato, a caldo, che un papa gesuita ci sarebbe voluto dai tempi del candidato Carlo Maria Martini. Ma il fatto è che questo argentino d’origini italiane, gesuita, scompiglia le carte - anche quelle di molti suoi confratelli cardinali: c’è da scommetterci - e va a scegliersi un nume come Francesco.
Incredibile. Inaudito, nel senso etimologico del termine. Dal VI secolo, con pochissime eccezioni, i pontefici romani hanno scelto regolarmente il nome di un loro predecessore. Bergoglio rompe la tradizione e, nel momento nel quale l’istituzione ecclesiastica sembra esitare, senza dubbio colpita dalla rinunzia di un papa "istituzionalista" per eccellenza, rilancia nel nome del càrisma, della profezia. Perché Francesco significa l’adesione intima al Cristo povero e crocifisso; Francesco significa il rifiuto della potenza, della ricchezza, perfino della scienza; e che l’Ordine francescano nei secoli sia stato molte cose meravigliose ma non questo non vuol dir nulla.
Lui, il Povero d’Assisi, era questo. Che cosa significa chiamarsi Francesco per un papa che viene dall’America latina, uno dei continenti più poveri del mondo, un continente nel quale la chiesa cattolica da decenni sembra indietreggiare sotto il colpi dell’offensiva missionaria delle sètte protestanti?
Francesco I è un nome difficile da portare. Ma è anche un nome che è un programma. La scelta di papa Bergoglio è inaspettata, inimmaginabile, impressionante. Nomen omen, si usa dire. Vedremo in che modo il nuovo papa sarà rispondere alla sfida che egli stesso ha lanciato alla Chiesa e al mondo.
Habemus Papam: è Bergoglio
Il protodiacono ha annunciato il nome del successore di Ratzinger: Francesco I *
20.10 Il nuovo papa è Bergoglio
20.20 Il nuovo papa è l’arcivescovo di Buenos Aires Jorge Mario Bergolio, nato i 17 dicembre del 1936 nella stessa città argentina di cui oggi è arcivescovo. È gesuita.
20.23 «Il dovere del Conclave era dare un vescovo a Roma: sembra che i miei fratelli cardinali sono andati a prenderlo quasi alla fine del mondo». Sono le prime parole pronunciate da Papa Francesco I, con un riferimento alla sua origine argentina. Incominciamo questo cammino della chiesa di Roma, vescovo e popolo insieme, di fratellanza, amore, fiducia tra noi, preghiamo uno per l’altro, per tutto il mondo, perché ci sia una grande fratellanza. Questo cammino di chiesa sia fruttuoso per l’evangelizzazione».
«Adesso vorrei dare la benedizione, ma prima vi chiedo un favore. Prima che il vescovo benedica il popolo vi chiedo che voi preghiate Dio di benedire il vostro vescovo».
E’ stata tangibile la commozione in piazza San Pietro tra i fedeli, quando papa Francesco I ha chiesto che fedeli pregassero per alcuni istanti per lui. È stato un continuo vociare di fedeli che dicevano «Bravo, bravo».
Papa Francesco ha benedetto in latino tutti i presenti, concedendo l’indulgenza plenaria. "Buona notte e buon riposo" ha detto congedandosi dalla folla
* La Stampa, 13/03/2013 - ripresa parziale
Il cardinale con le schegge della rapina
di Aldo Maria Valli
in “Vino Nuovo” ( www.vinonuovo.it ) del 12 marzo 2013
Tra gli elettori che oggi entrano nella Cappella Sistina c’è anche Joao Braz de Aviz, che da giovane prete in Brasile visse una gran brutta avventura
C’è un cardinale elettore che porterà con sé nella Sistina uno strano trofeo. E quando diciamo "con sé" dobbiamo essere intesi in senso letterale. Questo cardinale infatti ha in corpo le schegge di qualcosa come centotrenta pallini di piombo. Il cardinale è il brasiliano Joäo Braz de Aviz e la storia che lo riguarda ha dell’incredibile.
È il 1983 e don Joao, allora trentaseienne, è un semplice parroco nella diocesi di Apucarana. Quel giorno sta andando dalla sua parrocchia a un’altra per aiutare un altro parroco. «A metà strada, su un ponticello, vedo una macchina ferma. Mi avvicino per vedere se serve una mano. E mi accorgo che non si tratta di campesiños rimasti con la macchina in panne. Nel vecchio maggiolino ci sono due ragazzi che mi spianano contro le loro armi pesanti, mi tolgono le chiavi della macchina e mi costringono a seguirli dall’altra parte del torrente, senza dire una parola. Dopo mezz’ora, sbuca dalla curva il furgone blindato di una banca. È venerdì pomeriggio, quei ragazzi stanno aspettando il furgone con la raccolta degli incassi, e io mi sono trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato».
I rapinatori sparano alle ruote del blindato, ma anche le guardie sono armate e rispondono al fuoco. «A un certo punto, visto che la situazione era bloccata, i due ragazzi mi hanno puntato di nuovo le armi in faccia: vai tu a parlare con i poliziotti, o ti ammazziamo. Che potevo fare? Ho fatto solo pochi passi e subito dal blindato i poliziotti mi hanno sparato addosso».
Don Joäo sente un fortissimo bruciore in tutto il corpo. I pallini partiti dal fucile a canne mozze lo hanno raggiunto anche a un occhio. Sente il sangue che gli cola sulla faccia, è terrorizzato. Non riuscendo a muoversi, se ne sta disteso a terra e forse è così che si salva: «Dopo mi hanno confermato che se mi fossi mosso mi avrebbero finito».
I rapinatori sono scappati. Don Joäo sente che le forze gli stanno venendo meno. «Dicevo dentro me stesso: Gesù, ma perché devo morire a trentasei anni? Avevo tanto da fare. La risposta mi è sgorgata dentro così: "Io sono morto a trentatre anni. Tu hai avuto già tre anni più di me..."».
«Allora mi sono sentito in pace. Ho detto le mie ultime preghiere, ho fatto le mie offerte, e ho chiesto perdono, ma poi ho anche aggiunto: Signore, dammi dieci anni in più. Non so perché ho chiesto proprio dieci anni».
Fra poche il cardinale Joäo Braz de Aviz, attuale prefetto del dicastero vaticano che si occupa dei religiosi, entrerà in conclave. Gli sono stati concessi ben più di dieci anni, e chissà se mentre farà ingresso nella Sistina penserà a quel lontano episodio che gli ha segnato la vita. Dopo soffrì a lungo per una forma di depressione. Non era più capace di entrare in contatto con le persone. «Non riuscivo più nemmeno a uscire di casa. Sono guarito piano piano, cominciando col fare piccole cose, ad esempio piccole passeggiate intorno a casa, fin dove mi era possibile. Anche questa specie di paralisi della volontà è stata per me un’esperienza importante, per abbracciare il mio limite e la mia fragilità».
Quando nel 1994 è stato nominato vescovo e poi gli è stata attribuita la responsabilità della grande diocesi di Brasilia, don Joäo ha commentato: «È come se il Signore mi avesse voluto dire: fin qui tu mi hai chiesto la vita, d’ora in poi quello che viene io ti chiedo di donarlo a me...». Già, quello che viene.
Angeli e gabbie elettroniche così nella Sistina va in scena il nuovo inizio della Chiesa
di Vittorio Zucconi (la Repubblica, 12 marzo 2013)
Per salire verso il cielo dei loro terrori e delle loro ambizioni questa volta c’è un piccolo gradino che i cardinali dovranno salire. In un vago aroma di legno e di vernice fresca usati per il contro pavimento provvisorio, la Cappella che racchiude un nome e una risposta alla domanda che un miliardo di cattolici si pongono da un mese ha dovuto proteggere il fondo fragile e consunto dallo scalpiccio delle eminenze. Perché i papi passano, ma la Sistina deve restare.
Chi entra in questa meravigliosa nave immobile che da sei secoli conduce la Chiesa verso l’approdo delle successioni pontificali sente che se il Dio nel quale i cristiani chiedono esiste, qui deve avere sfiorato gli intonaci con le dita. Anche nei momenti di incertezza e turbamenti come questo, nello sbigottimento di una Chiesa che deve risorgere senza essere passata dal rito necessario e liberatorio della morte, la Sistina esiste. Entrandoci questo pomeriggio poco dopo le 16.30, facendo attenzione che per ingravescente aetate e gamba un po’ malferma i più anziani non incespichino nello scalino e nelle sottane porpora, i 115 cardinali dovranno soltanto alzare lo sguardo per sentirsi rassicurati. Se la Cappella Sistina c’è, la Chiesa Cattolica Romana c’è.
Li attendono le sedie di ciliegio. Nell’angolo le stufe, questa volta due, una panciuta per le schede da ardere, l’altra, quella nuova, squadrata per i fumogeni che si alzeranno con qualche fatica nel cielo pesante atteso a Roma fino a venerdì, collegate in un unico tubo a forma di “Y” invertita, che potrebbe non corrispondere esattamente alla norme dell’Unione Europea, della quale comunque lo Stato Vaticano non fa parte.
Lungo le pareti gli scranni, esattamente come otto anni or sono, ora sopra il pavimento rialzato. E in fondo, chiusa e paziente, quella porticina che conduce alla stanza della vestizione e delle lacrime, perché alcuni eletti, ma non tutti, vi piansero. E da questo Papa in poi potrebbe essere la porticina che conduce verso le dimissioni.
Nelle ore di fine inverno 2005, nel marzo del calvario di Wojtyla dietro le ultime due finestre all’angolo della terza Loggia, l’ultimo piano del Palazzo Apostolico, già in questo grembo di bellezza sovrumana, carpentieri, restauratori e tecnici avevano segretamente cominciato a lavorare, con il rispettoso cinismo di un’istituzione che aveva metabolizzato ed esaltato come nessun’altra la propria Pasqua umana, il passaggio da un regno all’altro. Addetti, sovrintendenti e portavoce negavano, ma la Sistina si era preparata per tempo a celebrare quella forma di resurrezione che è la scelta di un nuovo Pontefice, dopo l’addio del predecessore.
Ma forse è soltanto quell’odore di vernice e legno, che introduce un elemento prosaico da ristrutturazione più che di misticismo sotto lo sguardo della Morte michelangiolesca incredula, a insinuare un sentimento di smarrimento e transitorietà. Il Dio di Abramo, le anime dei giusti, la disperazione degli iniqui o sbattere d’ali degli angeli per salvare o dannare sotto la volta sembrano più agitati, per questo secondo Conclave del Terzo Millennio.
Il gesto del Cristo che consegna le chiavi del Regno di Dio a Pietro nell’affresco del Perugino sulla parete destra rispetto all’altare maggiore, il dipinto davanti al quale Giovanni Paolo II amava soffermarsi più a lungo, ma che il successore Benedetto ignorava, acquista un sapore diverso, ora che quelle chiavi sono state deposte non per volere della Provvidenza, ma per scelta di un uomo che ha lasciato la tiara per calzare un semplice baseball cap bianco.
Come sempre, la Sistina tenterà di ripetere fedelmente il proprio miracolo, di essere l’incubatrice per una rinascita, se non proprio una resurrezione ecclesiale dopo il Golgota autoinflitto degli ultimi mesi, che non spetta agli angeli sopra l’intonaco ma agli essere umani seduti nei loro troni disposti a ferro di cavallo salire. I tre abiti candidi sono pronti, nelle tre taglie classiche, sperando che non sia uno dei cardinali più massicci, magari uno di quegli americanoni, a doverlo indossare, costringendo sarti e suorine a strappare il finissimo tessuto di lana per poi tenerlo assieme con spille da balia come si dovette fare per Angelo Roncalli.
I cantici saranno quelli di sempre, il Veni Creator Spritus , l’intimazione dell’ extra omnes , lo scattare dei chiavistelli, che la Chiesa del XIII secolo volle non per favorire la discesa dello Spirito Santo, che non deve attendere catenacci e scranni, ma per costringere i rappresentanti cardinales , oggi divenuti cardinali più importanti del popolo di Roma a decidersi o a essere ridotti alla fame.
E se il rito, la clausura temporanea, il silenzio non sono più crudeli come nei tempi della cristianità brutale, e neppure la fame spaventa più le eminenza ora che possono tornare in quel residence di Sanctae Martae dove qualche cardinale non italiano già si lamenta della cucina troppo spartana, forse attendendosi le delizie romane, anche rispetto alla Sistina del 2005 esistono cose e prodigi e tentazioni che ai padri eccellentissimi erano sconosciuti.
Gabbie elettroniche circondano la nave mistica voluta da papa Sisto e intitolata alla Vergine Assunta, più arcigne dei vecchi catenacci. Ma nel 2005 i social network erano ancora neonati, come Facebook partita nel 2004 o Twitter, inesistente. Questo sarà il primo Conclave nell’età dei social network. Un gradino e una tentazione molto più rischiosi di quei pochi centimetri della pedana da salire verso il cielo di una nuova Chiesa.
Autorità nella Chiesa cattolica
di esponenti della Chiesa cattolica universale
in “www.churchautority.org” dell’ottobre 2012 (versione italiana nel sito)
Dichiarazione di studiosi cattolici
In occasione del cinquantesimo anniversario del Concilio Vaticano II (1962-1965), invitiamo tutti i membri del Popolo di Dio a esaminare la situazione nella nostra chiesa.
Molti insegnamenti del Vaticano II non sono stati affatto, o solo parzialmente, tradotti in pratica.
Questo è dovuto alla resistenza di certi ambienti, ma anche, in una certa misura, alla irrisolta ambiguità di alcuni documenti del Concilio.
Una della principali cause della stagnazione odierna dipende dal fraintendimento e abuso nell’esercizio dell’autorità nella nostra Chiesa. In concreto le seguenti tematiche richiedono una urgente riformulazione.
Il ruolo del papato necessita di una chiara ri-definizione in linea con le intenzioni di Cristo. Come supremo pastore, elemento unificante e principale testimone di fede, il papa contribuisce in modo essenziale al bene della chiesa universale. Ma la sua autorità non dovrebbe mai oscurare, diminuire o sopprimere l’autentica autorità che Cristo ha dato direttamente a tutti i membri del popolo di Dio.
I vescovi sono vicari di Cristo e non vicari del papa. Essi hanno la diretta responsabilità del popolo delle loro diocesi, e una condivisa responsabilità con gli altri vescovi e con il papa, nell’ambito dell’universale comunità di fede.
Il Sinodo dei vescovi dovrebbe assumere un più decisivo ruolo nel pianificare e guidare il mantenimento e la crescita della fede nel nostro mondo così complesso.
Il Concilio Vaticano II ha prescritto collegialità e co-responsabilità a tutti i livelli. Questo non è stato messo in atto.
I vari organismi presbiterali e consigli pastorali, previsti dal Concilio, dovrebbero coinvolgere i fedeli in modo più diretto nelle decisioni riguardanti la formulazione della dottrina, l’esercizio del ministero pastorale e l’evangelizzazione nell’ambito della società secolare.
L’abuso di coprire posti di guida nella chiesa con soli candidati di una determinata mentalità, è una scelta che dovrebbe essere sradicata. Al suo posto dovrebbero essere formulate e monitorate nuove norme che assicurino che le elezioni a queste cariche siano condotte in modo corretto, trasparente e, il più possibile, democratico.
La curia romana ha bisogno di una riforma più radicale in linea con le istruzioni e la visione del Vaticano II.
La curia si dovrebbe limitare ai suoi utili ruoli amministrativi ed esecutivi.
La congregazione per la dottrina della fede dovrebbe essere coadiuvata da commissioni internazionali di esperti, scelti, con indipendenza, per la loro competenza professionale.
Questi non sono per nulla tutti i cambiamenti necessari. Ci rendiamo anche conto che l’attuazione di queste revisioni strutturali necessitano di una elaborazione dettagliata in linea con le possibilità e le limitazioni delle circostanze presenti e future.
Sottolineiamo, però, che le riforme, sintetizzate qui sopra, sono urgenti e la loro attuazione dovrebbe partire immediatamente.
L’esercizio dell’autorità nella nostra chiesa dovrebbe emulare gli standards di apertura, responsabilità e democrazia raggiunti nella società moderna.
La leadership dovrebbe essere corretta e credibile; ispirata dall’umiltà e dal servizio; con una trasparente sollecitudine per il popolo invece di preoccuparsi delle regole e della disciplina; irradiare Cristo che ci rende liberi; prestare ascolto allo Spirito di Cristo che parla e agisce attraverso tutti e ciascuno.
I nomi dei primi 160 firmatari, Sponsor Accademici della Dichiarazione (tra i quali citiamo: Leonardo Boff, Pedro Casaldaliga, Hermann Häring, Hans Küng) e dei (ad oggi 19 febbraio) 2048 sottoscrittori sono visibili al sito: http://www.churchauthority.org/.
Conclave breve il triumvirato scende in campo
di Franca Giansoldati (Il Messaggero, 19 febbraio 2013)
Scambi discreti. Consultazioni informali. Colloqui amichevoli. Dietro le quinte si stanno muovendo i cardinali residenti a Roma. Si confrontano, affiorano speranze, si mettono a fuoco i problemi esistenti, si ragiona pensando al bene della Chiesa, al futuro. L’intento è costruttivo. Si tratta di individuare, sulla base della propria esperienza, candidati spendibili. E ormai sono molti in Vaticano ad avvertire la necessità di individuare una figura capace di polarizzare i consensi, di comprendere le differenti culture che compongono l’universalità della Chiesa, di guidare con mano sicura la barca di Pietro in un mondo globalizzato, interdipendente, minato da una cultura che tende a marginalizzare Dio. I cardinali si affidano alla Provvidenza che aiuterà loro a sciogliere tanti nodi.
Ma la caccia al voto è già iniziata. Vista la carenza di figure emergenti in partenza, facilmente individuabili tra tutti, a questo conclave giocheranno un ruolo fondamentale i «grandi elettori», porporati conosciuti, con un peso specifico indiscusso. Saranno loro a influenzare e raccogliere consensi fino alla creazione di una piattaforma la più ampia possibile.
IL TRIUMVIRATO
Tre sono i king maker forti, tutti consapevoli del bisogno di unità: il segretario di Stato, Bertone; Re (al quale spetterà la celebrazione della messa Pro Eligendo Pontifice) e il decano del collegio cardinalizio, Sodano che pur avendo 80 anni, gode di grande stima tra le berrette rosse. «Se questi tre cardinali si metteranno d’accordo su un candidato, avremo una elezione rapida» analizza una autorevole fonte. Il momento è ritenuto delicato anche perché più si protraggono i tempi dell’attesa, maggiore è la tensione che si accumula nella Chiesa. Al disorientamento dei fedeli, si aggiungerebbe la percezione esterna della mancanza di unità. Insomma, un brutto segnale. I tempi di attesa per il nuovo Papa dipenderanno però anche dalla data d’inizio del conclave.
LE REGOLE
La Costituzione stabilisce che siano i cardinali elettori, riuniti nella prima congregazione generale, a definire l’inizio delle votazioni, «il giorno e l’ora». Il primo di marzo, cioè il primo giorno della Sede Vacante, l’assemblea prenderà in esame se mantenere l’intervallo dei 15 giorni previsti o ridurlo. Tutto dipenderà se gli elettori sono nel frattempo già arrivati a Roma. Cosa peraltro assai probabile dato che ormai tutti sono già a conoscenza delle dimissioni papali e del fatto che il 28 febbraio, alle 11 del mattino, Benedetto XVI li ha convocati per un ultimo saluto collettivo. C’è chi non esclude che in tale sede, come ultimo atto, Papa Ratzinger voglia emendare la Costituzione che impone il rispetto del termine dei 15 giorni per facilitare il conclave e l’elezione del successore.
ANTICIPAZIONE
Tra gli esperti consultati dalla Santa Sede per dirimere una serie di questioni giuridiche aperte, si sta prendendo in considerazione anche la possibilità di anticipare il conclave forse già qualche giorno prima del 10 marzo. In questo caso il nuovo pontefice potrebbe essere eletto nel giro di pochi giorni e magari celebrare la messa di inaugurazione del nuovo pontificato il giorno 19 marzo, festa liturgica di San Giuseppe, patrono universale della Chiesa. Un giorno significativo anche per Joseph Ratzinger che festeggia il suo onomastico. Certamente un omaggio al Papa che ha cambiato il corso degli eventi con un atto di enorme coraggio
UNA SCELTA "DEBOLE" TUTTA INTERNA AL SISTEMA
di Marcello Vigli (Adista Notizie, n. 7 del 23/02/2013)
La “rinuncia” di Benedetto XVI costituisce indubbiamente un evento eccezionale. Ne sono testimoni l’attenzione dei media di tutto il mondo e la diversità delle valutazioni che ne sono state date nelle diverse sedi religiose e politiche. Valga per tutte quanto scrive Paolo Naso (Nev, n. 7/13): questo gesto «ha una evidente ricaduta sull’ecclesiologia e forse sulla stessa teologia cattolica: come pochi altri umanizza e vorrei dire “secolarizza” l’istituzione papale».
Nulla sarà più come prima. Una simile scelta, per la prima volta del tutto libera, desacralizza per forza di cose l’istituzione. Ridimensiona la stessa immagine che il papato ha di se stesso attraverso la potenza e la debolezza di un atto solitario espresse nelle parole dello stesso papa che attribuisce la sua rinuncia alla sua «incapacità di amministrare bene il ministero» a lui affidato derivante dal venir meno del «necessario vigore sia del corpo, sia dell’animo».
Si può aggiungere, sono in molti a pensarlo, che al di là della sua debolezza fisica, tale incapacità sia stata determinata dal riconoscimento della sua impotenza a governare una Santa Sede afflitta da scandali, intrighi e lotte di potere aggravati da una struttura accentrata della Curia e mal gestita da quella Segreteria di Stato che Wojtyla aveva voluto ne fosse il perno per garantirne l’efficienza. Non ha avuto l’energia e gli strumenti necessari per attuarla come pure aveva lasciato intendere di voler fare nella sua dura denuncia contro il carrierismo, alla vigilia della sua elezione, confermata nell’omelia alla messa delle ceneri, il 13 febbraio scorso.
I suoi tentativi di ammodernamento e di moralizzazione sono falliti di fronte a meccanismi che non è riuscito a modificare perché, in verità, non intendeva radicalmente ridimensionarli. Ne è testimone la sua scelta di assumere il Concistoro come primo destinatario della sua comunicazione, implicitamente riconoscendogli una preminente funzione istituzionale. Solo dopo due giorni l’ha estesa al Popolo di Dio raccolto per l’udienza settimanale. Ben altro sarebbe stato l’impatto con la pubblica opinione. Soprattutto ben altra forza avrebbe avuto il messaggio destinato al prossimo Conclave sulla necessità di assumere come primo problema da affrontare la riforma della Curia.
Se può sembrare fuori della realtà l’auspicio di un papa che, nell’esercizio della sua funzione di governo, si rapporta direttamente al Popolo di Dio, non lo è un appello alla collegialità sinodale.
La ri-convocazione del Sinodo dei vescovi (la cui ultima assemblea si è svolta nell’autunno scorso), per annunciare la sua volontà di rinunciare, avrebbe avuto quel carattere epocale e rivoluzionario da molti attribuito al suo gesto: indubbiamente innovatore, ma non eversivo dell’attuale assetto centralistico del governo della Chiesa. Tale fu quello compiuto da Giovanni XXIII con la convocazione del Concilio che, proprio con la creazione del Sinodo dei vescovi, aveva avviato una radicale riforma, subito bloccata prima dalla pavidità di Paolo VI, poi dall’autoritarismo pre-conciliare di Giovanni Paolo II.
Il sistema curiale può avere avuto una funzione in passato: quando prima l’imperatore e/o le famiglie nobili romane e poi i sovrani degli stati cattolici interferivano pesantemente nella designazione del successore di Pietro.
In tempo di secolarizzazione - accettata dal Concilio come salutare strumento di purificazione per la Chiesa, pari alla fine del potere temporale riconosciuta come liberatrice da Paolo VI - una piena collegialità è l’antidoto efficace alla solitudine del papa attorniato da collaboratori da lui stesso scelti, portatori magari delle diverse sensibilità ecclesiali diffuse sul territorio, ma non certo delle sempre nuove esperienze di Chiesa sollecitate dall’accelerazione dei processi storici e vissute nella dimensione comunitaria.
PS: Se i cattolici conciliari si autoconvocassero per formulare proposte al Conclave da inserire nell’agenda del futuro papa?
* della Comunità di Base di San Paolo, Roma
di Andrea Tornielli (La Stampa, 18 febbraio 2013)
«Come sarebbe bello per il Papa poter assistere all’elezione del suo successore», disse Giovanni Paolo II ai cardinali della Curia romana. Seduto tra di loro c’era Joseph Ratzinger, che certo all’epoca non immaginava di essere il primo dopo sei secoli al quale questa esperienza sarebbe toccata.
Wojtyla tornò a parlare della futura elezione nel poema «Trittico Romano», pubblicato due anni prima della morte. Immaginava che l’affresco michelangiolesco della Cappella Sistina potesse «parlare» ai porporati: «Tu che penetri tutto - indica! Lui additerà...».
Il Papa può influenzare l’elezione del successore? Sabato scorso il dimissionario Benedetto XVI ha ricevuto l’ultima delegazione di vescovi italiani in visita ad limina, guidata dal cardinale di Milano Angelo Scola. E ha parlato della Lombardia come «cuore credente dell’Europa».
C’è chi ha ritenuto un grande segno della predilezione del Pontefice il trasferimento del cardinale da Venezia a Milano, meno di due anni fa. Ma c’è anche chi, invece, legge il mini-concistoro dello scorso novembre, con l’inclusione di porporati stranieri tra i quali il filippino Luis Antonio Tagle, come un altro possibile segno premonitore per il prossimo conclave.
Nel passato recente episodi simili non sono mancati. In qualche caso sono stati ingigantiti e riletti con il senno di poi, cucendoli agiograficamente su misura addosso al designato. Spesso sono stati smentiti dai fatti, come nel caso di un gesto di affetto di Papa Wojtyla verso il cardinale Dionigi Tettamanzi al momento della nomina a Milano, che qualcuno interpretò alla stregua un presagio in vista del conclave. Altre volte invece se proprio di endorsement non si può parlare, poco ci manca.
Era ben nota, ad esempio, la stima di Pio XI, pontefice irruento, per il suo riflessivo Segretario di Stato Eugenio Pacelli. Lo fece viaggiare molto all’estero, Stati Uniti compresi. Mentre Pacelli si trovava negli Usa, Pio XI disse a un suo collaboratore: «Lo mando in giro perché il mondo conosca lui e lui conosca il mondo. Sarà un bel Papa!». Pacelli venne eletto dopo un conclave-lampo nel marzo 1939.
Fu considerato invece un «siluramento» in vista della successione, nel 1954, la decisione di Pio XII di nominare arcivescovo di Milano Giovanni Battista Montini, lasciandolo però senza porpora e dunque escluso dal conclave. Papa Pacelli avrebbe visto bene quale successore il suo «delfino» genovese Giuseppe Siri, allora molto giovane: «Con lui avremmo non un padre santo, ma un padre eterno», fu la battuta circolata tra i cardinali. Qualche voto, nel conclave del 1958, Montini lo raccolse lo stesso, pur essendo privo del cappello cardinalizio. Giovanni XXIII, tra le prime decisioni prese, rivestì di porpora l’arcivescovo esiliato. E fece presente varie volte la sua certezza sul fatto che sarebbe stato lui a succedergli: «Noi siamo qui a scaldargli il posto al vostro arcivescovo!», ebbe a dire a due milanesi andati in udienza. Montini in effetti divenne Papa nel 1963.
Tra i segnali premonitori dell’elezione del suo successore Giovanni Paolo I, che ha regnato un solo mese nell’estate 1978, ce n’è uno famoso e pubblico. Da lui stesso ricordato poche ore dopo l’elezione. Nel settembre 1972, Albino Luciani, patriarca di Venezia, ricevette Paolo VI in visita alla città lagunare. Il Papa, in piazza San Marco, davanti a migliaia di persone, si tolse la stola pontificia e la pose sulle spalle del patriarca: «Sono diventato tutto rosso...», racconterà Luciani ai fedeli.
L’episodio della stola fu un endorsement velato o soltanto un gesto di cortesia per l’ospite? Di certo Paolo VI nelle ore precedenti doveva aver pensato alla morte, perché proprio quella mattina, prima di partire da Castel Gandolfo, aveva messo mano al testamento.
Qualche anno dopo, mentre riceveva Luciani e altri vescovi in visita ad limina, al termine dell’udienza Papa Montini non riusciva a trovare il campanello celato nel bracciolo della poltrona, con il quale si segnalava che l’incontro era finito e poteva entrare il fotografo. Luciani con discrezione avvicinò al campanello la mano del Papa. «Bene, così sa già dov’è», avrebbe detto Paolo VI.
E la sorpresa Wojtyla? Una profezia si racconta anche per lui. Secondo il segretario di Papa Luciani, due sere prima di morire, il Pontefice veneto aveva accennato alla sua prossima dipartita: dopo di lui - disse - sarebbe toccato al cardinale che gli stava seduto di fronte durante il conclave. Quel cardinale era Wojtyla.
Su Ratzinger non si raccontano particolari segnali premonitori. Ma si sa che per tre volte chiese a Wojtyla di potersi ritirare per tornare agli studi, sentendosi sempre rispondere di no dal Papa che lo voleva vicino fino all’ultimo e che avrebbe tanto desiderato vedere l’elezione del suo successore sotto l’affresco «parlante» della Sistina.
di Gianfranco Ravasi (Il Sole 24 Ore, 17 febbraio 2013)
Oggi, alle ore 18, nella cappella Redemptoris Mater del Palazzo Apostolico, inizierò la mia predicazione degli Esercizi Spirituali per la Curia romana. Davanti a me, dopo secoli e secoli, circondato dai cardinali e dai vescovi curiali, sarà presente per la prima volta un Papa che ha formalmente rinunciato al suo officio pastorale universale, anche se temporaneamente ancora nelle sue funzioni.
Non è certo retorica confessare l’emozione che proverò iniziando un percorso settimanale di isolamento dalla vera e propria bufera mediatica che dallo scorso 11 febbraio, il giorno dell’annuncio di quell’atto di rinuncia, si è scatenata nel mondo.
Un’emozione che è, al tempo stesso, intima, perché è a questo Pontefice che devo il mio essere cardinale: sono stato suo collaboratore per oltre cinque anni, oggetto di costante affetto e di fiducia da parte sua. Mi soffermerò, allora, proprio su questi due eventi: da un lato, le giornate degli Esercizi Spirituali che trascorreremo insieme; d’altro lato, quella rinuncia che rivela certamente il coraggio e la grandezza della persona Ratzinger, ma anche il suo amore per la Chiesa come Papa. E lo faremo risalendo al più celebre antefatto certo.
Il mio ciclo di predicazione - che verrà pubblicato subito dopo, agli inizi di marzo, col titolo L’incontro - si staccherà dalla contingenza e respirerà, proprio secondo il desiderio di Benedetto XVI, l’atmosfera dell’anima che nella preghiera, nell’ascolto e nel silenzio trova il suo respiro. È lungo questo sentiero d’altura che si vive la fede autentica: infatti, un antico asserto latino affermava che lex orandi, lex credendi: la guida, la norma per il credere genuino è la via della preghiera. Anzi, idealmente trasformerò quel motto in ars orandi, ars credendi, perché pregare è un’arte, un esercizio di bellezza, di canto, di liberazione interiore.
È ascesi e ascesa, impegno rigoroso, ma anche volo lieve dell’anima verso Dio. Il tracciato sarà offerto dai Salmi, la raccolta biblica di preghiere sulla quale Dio stesso ha posto il suo sigillo, tant’è vero che il teologo martire, vittima del nazismo, Dietrich Bonhoeffer osservava che «se la Bibbia contiene un libro di preghiere, dobbiamo dedurre che la parola di Dio non è solo quella che egli vuole rivolgere a noi, ma è anche quella che egli vuole sentirsi rivolgere da noi». In questa esperienza il credente ritrova la propria identità spirituale.
Per questo, due saranno i movimenti dell’itinerario che proporrò nelle 17 prediche di questa settimana: da un lato, il volto di Dio, che si rivela all’orante e, dall’altro, il volto dell’uomo che pregando scopre se stesso nella sua fragilità e miseria, ma anche nella sua grandezza e gloria. Come scriveva nel 1548 sant’Ignazio di Loyola, in apertura al celebre testo Gli Esercizi Spirituali, evocando gli atti fisici del camminare, passeggiare, correre, «esaminare la coscienza, meditare, contemplare, pregare» sono «modi di preparare e disporre l’anima, così da scartare da sé tutte le affezioni disordinate, cercare e trovare la volontà divina nella disposizione della propria vita, per la salvezza dell’anima».
Un testimone al di sopra di ogni sospetto apologetico, Roland Barthes, nel 1971 affermava che «non occorre essere né cattolici né cristiani, né credenti né umanisti per essere interessati agli Esercizi Spirituali di Ignazio di Loyola».
Un’esperienza anche "laica", quindi, come l’aveva descritta quella straordinaria donna eliminata ad Auschwitz il 30 novembre 1943 a soli 29 anni, Etty Hillesum. Pochi mesi prima, nel suo Diario, recentemente riedito da Adelphi, confessava: «Dentro di me c’è una sorgente molto profonda. E in quella sorgente c’è Dio. A volte riesco a raggiungerla, più sovente è coperta di pietra e di sabbia: in quel momento Dio è sepolto, bisogna allora dissotterrarlo di nuovo».
Ora, come dicevo, in attesa di entrare nel prossimo conclave per l’elezione di un nuovo successore di Pietro, quando ogni mia testimonianza sarà esclusa secondo le norme della costituzione apostolica Universi Dominici Gregis, emessa da Giovanni Paolo II il 22 febbraio 1996, vorrei evocare sinteticamente il più famoso atto di rinuncia che la storia ci ha consegnato. Altri eventi simili sono più confusi e oscuri o non ben documentati: è, ad esempio, il caso di Gregorio XII che rinunciò nel 1415, in un periodo particolarmente turbolento per la Chiesa con la presenza di vari antipapi.
Che l’atto sia possibile è contemplato anche nell’attuale Codice di diritto canonico, promulgato da Giovanni Paolo II il 25 gennaio 1983. Il canone 332, al paragrafo 2, recita infatti che «nel caso in cui il Romano Pontefice rinunci al suo ufficio, si richiede per la validità che la rinuncia sia fatta liberamente e che venga debitamente (rite) manifestata, non si richiede invece che qualcuno (a quopiam) la accetti».
Anche a prescindere dalle dispute sull’interpretazione del passo dell’Inferno dantesco (III, 59-6o) ove in scena è «l’ombra di colui che fece per viltade il gran rifiuto», certo è che la figura di Pietro di Angelerio, molisano, nato attorno al 1209-10, asceta del monte Morrone, fondatore di una congregazione di eremiti, rimane nella memoria di tutti per la sua vicenda così originale. Dopo la morte di Niccolò IV nel 1292, i pochi cardinali si riunirono in conclave prima a Roma, poi a Perugia, per un paio d’anni, con interruzioni e senza esito per contrasti interni.
Alla fine - su impulso anche del re Carlo II lo Zoppo d’Angiò - elessero all’unanimità proprio l’eremita Pietro del Morrone. Il 28 luglio 1294 faceva il suo ingresso a L’Aquila a dorso di un asino, come Gesù a Gerusalemme, sceglieva il nome di Celestino V, forse per ragioni simboliche (legame con le uniche sue forze, quelle celesti) e il 29 agosto veniva consacrato papa di Roma, sempre a L’Aquila.
Un’altra figura mistica di alto profilo come lacopone da Todi lo ammonì subito sui rischi inerenti a un ufficio così elevato e oggetto di contese. La semplicità del monaco, gli intrighi politici ed ecclesiastici, l’incombente presenza del cardinale Benedetto Caetani, il futuro Bonifacio VIII, ben presto gli crearono una situazione difficile, nonostante la popolarità di cui godeva, e così egli maturò la decisione di dimettersi.
L’atto formale di rinuncia avvenne a Napoli, ove si era trasferito, davanti ai cardinali, il 13 dicembre 1294, dopo un papato di soli cinque mesi e nove giorni. Depose i paramenti pontifici, indossò la tonaca grigia dei suoi eremiti e, dieci giorni più tardi, il 24 dicembre 1294, il conclave eleggeva Bonifacio VIII che si sarebbe poi sempre premurato di controllare il suo predecessore a tal punto da riprenderlo dai vari eremi ove si rifugiava e condurlo in un edificio accanto al palazzo papale di Anagni ove era la corte pontificia.
Alla fine, però, lo riportò a Castel Fumone, presso Ferentino, ove il 19 maggio 1296, a 87 anni Pietro si spegneva. Le sue spoglie, nel 1327, furono traslate nella basilica di S. Maria di Collemaggio a L’Aquila, una chiesa da lui fondata, ove ancor oggi riposano nel sontuoso mausoleo eretto da Girolamo da Vicenza nel 1517 su committenza dell’Arte della Lana aquilana.
Ma anche le spoglie mortali di questo papa avranno una loro tormentata storia. Tra le numerose vicissitudini, basterà qui ricordare il trafugamento della salma nel 1988, ritrovata qualche giorno dopo, e il terremoto dell’Aquila del 6 aprile 2009 che provocò il crollo della volta della Basilica di Collemaggio proprio sul suddetto mausoleo. La fama, legata anche ai miracoli e alla sua vicenda umana ed ecclesiale, portò presto Celestino V sugli altari: il 5 maggio 1313 il papa francese Clemente V lo canonizzava e da allora la sua figura diveniva il modello di una Chiesa più spirituale e povera.
Petrarca lo aveva esaltato come un grande testimone della "vita solitaria" e della purezza celestiale. A lui si riferirà esplicitamente Ignazio Silone nel suo romanzo-saggio Avventura di un povero cristiano (1968), adattato poi a testo teatrale (1969), celebrazione di un cristianesimo primordiale e pauperistico. Per certi versi anche il film Habemus papam di Nanni Moretti (2011) può ammiccare a questo personaggio alonato di leggenda, ma nello stesso tempo di luce spirituale.
Da oggi i giochi stanno appena iniziando, ma uno ha una marcia in più
di Giulio Anselmi (la Repubblica, 18 febbraio 2013)
“Da oggi ha una marcia in più”. Il commento che si coglieva ieri sera tra cardinali, vescovi e monsignori di Curia, all’uscita della cappella Redemptoris Mater, opera dai toni bizantini realizzata all’inizio di questo secolo dal gesuita sloveno Rapnik, si riferiva al cardinale Gianfranco Ravasi.
Non tanto per quello che aveva appena detto col suo amabile garbo di uomo di cultura, nel corso della prima predica degli esercizi spirituali vaticani, su ars orandi e ars credendi. Ma perché il fatto di parlare tre volte al giorno, fino a sabato mattina, davanti a un consesso che comprende i futuri elettori del Conclave (e con Benedetto XVI che assiste senz’essere visto da una stanza con affaccio sui presenti) conferisce alle sue parole e alla sua persona un peso crescente.
Ravasi era stato prescelto da tempo per “dare” gli esercizi, un incarico prestigioso e delicato nel mondo religioso, e veniva già inserito in quasi tutte le liste dei papabili, ma da ieri ha una diversa caratura. Può costruirsi, nei fatti, una piattaforma elettorale. E quelli che dicevano di lui «gran testa, uomo squisito, ma se gli chiedessi com’è fatta una parrocchia non saprebbe rispondere» continueranno a mormorare, ma abbassando la voce.
Il dibattito, che si è infittito assieme al prender corpo dell’accelerazione delle votazioni per il prossimo papa, non riguarda naturalmente solo le qualità pastorali del prelato milanese.
La straordinaria presenza di un Pontefice in carica, con tutti i dubbi di ordine teologico, ecclesiastico, politico e pratico che l’accompagna, ha finora un po’ distratto l’attenzione dai temi della successione ma, poco a poco, prendono corpo alcuni schemi. C’è un imbarazzo generale per il fatto che non esiste una candidatura che si imponga con gran forza.
«Oggi non c’è un Ratzinger», sintetizza un vescovo italiano da poco romanizzato, dimenticando che otto anni fa anche quella candidatura non passò immediatamente, «quindi non si può parlare solo delle persone». In questa logica i primi conciliaboli enumerano le qualità richieste al successore: che abbia capacità pastorale, che sia in salute, che sia dotato di grande correttezza dottrinale ma anche in grado di trascinare, di trasmettere forza e speranza. Che abbia capacità di governo.
Qui emerge la critica, durissima, non solo a papa Ratzinger ma anche al suo predecessore Wojtyla: nessuno degli ultimi due pontefici ha saputo gestire la Curia. È una valutazione molto diffusa: già martedì, all’indomani dell’annuncio-shock, alcuni prelati vicini all’Opus Dei avevano scavalcato le rituali considerazioni laudatorie sull’addio, per confessare sinceramente: «Beh, almeno si è mosso qualcosa. C’era uno stallo mortale».
L’ultima caratteristica considerata necessaria al nuovo papa va sottolineata: occorre che conosca l’italiano. Che vuol dire, al di là dell’ovvia necessità che il vescovo di Roma riesca a farsi capire dai suoi fedeli? Per molti sacerdoti di diverso grado attivi nei 186 Paesi in cui la Chiesa cattolica è presente - ma anche nella Curia di Roma - i cardinali italiani hanno fornito un gramo spettacolo della loro divisione. E la corsa finale per lo Ior ne ha rappresentato l’ultimo atto.
Come se non bastasse a ciascuno dei papabili “di casa” viene trovato un punto debole: all’arcivescovo di Genova Bagnasco la scarsa dimestichezza con le lingue straniere, al cardinale di Milano Scola la vicinanza a Comunione e Liberazione, cui certo non giova lo scandalo in cui sta affogando Formigoni col suo sistema di potere.
Alla Cei è facile trovare monsignori che giurano sull’esistenza di molti prelati stranieri per i quali i porporati italiani sono, malgrado tutto, i più “equilibrati”e, quindi, i preferibili. Ma potrebbe trattarsi di spirito di corpo. O di scaramanzia. I giochi stanno appena iniziando
TRA "CHARITAS" E "CARITAS", UNA DIFFERENZA ABISSALE. La lezione di Giambattista Vico
MEMORIA FILOLOGICA E TEOLOGICA. GESU’, IL FIGLIO DELLA GRAZIA DI DIO ("CHARITAS") O IL "TESORO" DI "MAMMONA" ("CARITAS") E DI "MAMMASANTISSIMA" DEI FARAONI DI IERI E DI OGGI?!! *
GIAMBATTISTA VICO "fa una netta distinzione tra carus - caritas rispettivamente col valore di ’caro, costoso, di alto prezzo’ e ’carestia, scarsità’ da una parte, e charus - charitas rispettivamente col valore di ’grazioso, amabile, richiesto’ e ’grazia, amore di Dio’ dall’altra, perché per il Vico questi due ultimi termini derivano etimologicamente" dai termini greci ’charìeis’ e ’charis’
* cfr. G. Vico, Varia: Il ’De Mente Heroica’ e gli scritti latini minori, a cura di Gian Galeazzo Visconti, Alfredo Guida Editore, Napoli 1996, p. 31.
Identikit del futuro papa: l’appello di 2.000 teologi (Adista)
Sono arrivate a quasi 2mila le adesioni ad un documento di teologi cattolici di tutto il mondo, lanciato nell’ottobre scorso in occasione dei 50 anni dell’apertura del Concilio Vaticano II, che traccia l’identikit del futuro papa e le priorità del prossimo pontificato.
Da Hans Küng a Leonardo Boff, da Paul Knitter a mons. Calsaldáliga, da Peter Phan a Paul Collins, tutti i più grandi nomi della teologia cattolica compaiono in calce a un documento che torna prepotentemente di attualità in questi giorni precedenti al conclave. Di seguito il testo integrale.
Molti insegnamenti del Vaticano II non sono stati affatto, o solo parzialmente, tradotti in pratica. Questo è dovuto alla resistenza di certi ambienti, ma anche, in una certa misura, alla irrisolta ambiguità di alcuni documenti del Concilio. Una delle principali cause della stagnazione odierna dipende dal fraintendimento e abuso nell’esercizio dell’autorità nella nostra Chiesa. In concreto le seguenti tematiche richiedono una urgente riformulazione:
Il ruolo del papato necessita di una chiara ri-definizione in linea con le intenzioni di Cristo. Come supremo pastore, elemento unificante e principale testimone di fede, il papa contribuisce in modo essenziale al bene della chiesa universale. Ma la sua autorità non dovrebbe mai oscurare, diminuire o sopprimere l’autentica autorità che Cristo ha dato direttamente a tutti i membri del popolo di Dio.
I vescovi sono vicari di Cristo e non vicari del papa. Essi hanno la diretta responsabilità del popolo delle loro diocesi, e una condivisa responsabilità con gli altri vescovi e con il papa, nell’ambito dell’universale comunità di fede. Il sinodo centrale dei vescovi dovrebbe assumere un più decisivo ruolo nel pianificare e guidare il mantenimento e la crescita di fede nel nostro mondo così complesso.
Il Concilio Vaticano II ha prescritto collegialità e co-responsabilità a tutti i livelli. Questo non è stato messo in atto. I vari organismi presbiterali e consigli pastorali, previsti dal Concilio, dovrebbero coinvolgere i fedeli in modo più diretto nelle decisioni riguardanti la formulazione della dottrina, l’esercizio del ministero pastorale e l’evangelizzazione nell’ambito della società secolare.
L’abuso di coprire posti di guida nella chiesa con soli candidati di una determinata mentalità è una scelta che dovrebbe essere sradicata. Al suo posto dovrebbero essere formulate e monitorate nuove norme che assicurino che le elezioni a queste cariche siano condotte in modo corretto, trasparente e il più possibile democratico.
La curia romana ha bisogno di una riforma più radicale in linea con le istruzioni e la visione del Vaticano II. La curia si dovrebbe limitare ai suoi utili ruoli amministrativi ed esecutivi. La congregazione per la dottrina della fede dovrebbe essere coadiuvata da commissioni internazionali di esperti, scelti indipendentemente, per la loro competenza professionale.
Questi non sono tutti i cambiamenti necessari. Ci rendiamo anche conto che l’attuazione di queste revisioni strutturali necessitano una elaborazione dettagliata in linea con le possibilità e le limitazioni delle circostanze presenti e future. Sottolineiamo, però, che le riforme, sintetizzate qui sopra, sono urgenti e la loro attuazione dovrebbe partire immediatamente.
L’esercizio dell’autorità nella nostra chiesa dovrebbe emulare gli standards di apertura, responsabilità e democrazia raggiunti nella società moderna. La leadership dovrebbe essere corretta e credibile; ispirata dall’umiltà e dal servizio; con una trasparente sollecitudine per il popolo invece di preoccuparsi delle regole e della disciplina; irradiare Cristo che ci rende liberi; prestare ascolto allo Spirito di Cristo che parla e agisce attraverso tutti e ciascuno
PAROLA A RISCHIO
Risalire gli abissi
La salvezza è per tutti. Alla portata di tutti.
Perché è sorriso, liberazione, gioia.
di Giovanni Mazzillo (Teologo) *
G come gioia, come Gesù, respiro di gioia per tutti gli infelici della terra. Parliamo di Gesù, il cui corrispondente nome greco Iesoûs deriva direttamente dall’originale ebraico Je(ho)šhu e significa JHWH salva, per precisare immediatamente che il termine salvezza oggi non significa gran che per i nostri contemporanei, e di conseguenza risuona poco interessante persino quel nome, pur originariamente portatore di una gioia immensa e inaudita. Ciò avviene non solo per l’inevitabile logorio delle parole più usate e talora abusate, ma per il fatto che ha perso rilevanza e pertanto significato il valore stesso della “salvezza”.
Salvezza Salvezza da chi e/o da che cosa? Appunto, è questo il primo problema. La salvezza appare di primo acchito un concetto immediatamente derivato dal superamento di una situazione negativa, Si salva, o come succede in questo caso, viene salvato, qualcuno che si trova in una situazione di pericolo. Il pericolo di perdere qualcosa, di perdere se stesso. Di essere cancellato, di sparire, appunto come sparisce da un computer un testo non “salvato” o un’immagine non messa al sicuro. Ma essere salvati è per noi persone umane, e pertanto non riducibili a una traccia di codificazione binaria o algoritmica, molto di più che conservare un’impronta e una presenza. Coerentemente con la nostra realtà dinamica e relazionale, essere salvati significa avere un luogo, un senso, una rilevanza nel contesto di una realtà che giustifica, sorregge, garantisce il mantenimento e la crescita qualitativa, e pertanto il conseguente riconoscimento di un originario, inalienabile, imprescindibile valore personale.
La domanda «Chi o che cosa si può dire oggi salvato?» esige pertanto una primordiale differenziazione. Altro è il concetto di ciò che è salvato (cioè il dato messo al sicuro), ben altro è l’essere umano salvato. Questi non è solo garantito in ciò che ha di più proprio e pertanto è distinto dal mero “dato”, che invece è una sorta di file compilato (non per nulla in tedesco proprio il file è chiamato Datei, leggi datai, cioè «rea-ltà data»). L’essere umano è tale solo in un incontro, in una relazione. La persona è tutta nelle relazioni delle quali vive. Proprio la relazionalità sorregge il senso e la gioia del suo esistere.
L’annuncio di Gesù, già nella sua venuta in questo nostro mondo, è l’annuncio di una relazionalità umana felicemente riuscita. Nel Vangelo è direttamente collegato alla Grazia, termine che esprime tutto ciò e anche qualcosa di più.
Nell’annuncio della sua nascita, diversamente da quanto appare nella traduzione latina, e in quella italiana da essa derivata, nella preghiera più popolare che ci sia, Maria è salutata non con il saluto che si dava all’imperatore, alle autorità o anche agli amici con l’esclamativo «Ave!», bensì con l’invito a rallegrarsi, cioè a gioire (chaîre): a entrare in un circuito di esultanza per un dono gratuito e inatteso. Colei che è piena di grazia (kecharitōménē) è invitata a rallegrarsi perché tutto in lei è frutto ed espressione della «grazia» (cháris), cioè di un dono amorevole quanto sorprendente, che sarà presto annuncio di gioia per tutto il popolo e per ogni uomo: “Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù...”. L’angelo disse loro: «Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia...» (Lc 1,30-31; 2,10-11).
Il resto del Vangelo, soprattutto quello di Luca, evidenzia la gioia improvvisa e incontenibile che contagia quanti vengono a contatto con Ješhu. A cominciare da Elisabetta e dal suo bambino, che le esulta nel grembo, il futuro Battista. Così esultano ancora due anziani che sembrano essere rimasti in vita per mantenere viva la speranza d’Israele: Simeone e Anna, o i pastori; mentre nel racconto di Matteo, viene detto che i Magi “provarono una grandissima gioia” nel rivedere la stella che indicava il luogo della natività di Gesù.
La stessa gioia è testimoniata dai semplici e dagli umili, dagli infelici e dai peccatori che si sentono aiutati, capiti, perdonati. A gioire sono ancora i bambini e le donne, classi tradizionalmente neglette dalla piena partecipazione alla grazia collegata alle tradizionali benedizioni di Dio. Insomma il cuore del Vangelo è la lieta notizia annunciata ai bisognosi e agli infelici della terra. Il Dio che si dona totalmente, è il Dio che dona illimitatamente la gioia agli uomini. E perché la nostra gioia fosse piena (Gv 15,11), il Figlio di Dio è arrivato umanamente a perdere se stesso.
Perché avessimo una gioia che nessuno avrebbe mai più potuto toglierci, ha permesso che fosse tolta a lui la vita, per riprenderla di nuovo, ma con la conoscenza ormai nella sua carne e nella sua psiche di cosa significhi la morte umana. Di cosa voglia dire la gioia di vivere, di vivere non con il naturale sorriso con cui vive ogni creatura per la stessa gioia dell’esistere, ma di provare e diffondere la gioia di chi conosce la sofferenza e non resta inchiodato alla sofferenza. O al limite, di chi, nonostante le ferite e talora i chiodi mai interamente rimossi della sofferenza, sa sorridere della vita, perché questa è ormai rischiarata da colui che vince la morte e la depressione della sofferenza.
La gioia è dunque uno dei nomi della salvezza, ma di una salvezza che assume di volta in volta nomi nuovi e nomi antichi: riscatto, liberazione, sensatezza, leggerezza dell’esistere... Se la parola non fosse tanto inflazionata, si potrebbe dire che la salvezza altro non è che la felicità. È la felicità nel suo senso etimologico: come abbondanza e fertilità. Possiamo tradurre: come vita sensata che raggiunge il suo scopo e nasce da relazioni benevole, tendenti al bene altrui, trovando negli altri la propria gioia e comunicandola con relazioni che fanno crescere se stessi e gli altri.
In quanto tale, la felicità è simile alla pace e ne è la forma storica: è star bene con sé e con gli altri, con il proprio passato e con il proprio futuro. Perché, soprattutto oggi, c’è bisogno paradossalmente più di ricostruire il futuro che il passato o il presente. Per poterlo fare c’è bisogno di quella gioia consapevole che non si arrende e che non si ripiega su se stessa. Si ritrova nel futuro di una convivenza che non nasconde, ma sa riconoscere e superare i conflitti attraverso uno sguardo d’amore verso ciò che ci è intorno. È uno guardo che viene da lontano e tuttavia tocca la nostra umanità, questa mia e questa tua umanità, quella assunta, attraversata e come divinizzata da quel Gesù che continuamente dà senso a ogni tentativo di superare la violenza con l’amore. È l’unico a dar senso a ogni discorso di pace, anche questo che hai appena finito di leggere.
* MOSAICO DI PACE, LUGLIO 2012
Papa Ratzinger delinea la figura del successore
di Gian Guido Vecchi (Corriere della Sera, 16 febbraio 2013)
Il cardinale Christoph Schönborn, anche lui «sorpreso» e insieme ammirato per «l’immenso senso di responsabilità» del Papa, dice da Vienna che il «motto» del pontificato di Joseph Ratzinger, che fu suo professore di teologia, «si potrebbe riassumere nell’espressione: "Riflessione dell’essenziale"».
Benedetto XVI non intende interferire nell’elezione del successore, dopo le 20 del 28 febbraio rimarrà «nascosto al mondo», ma le sue parole e gesti di questi giorni sono destinati ad avere un peso. Il calendario degli impegni prosegue immutato e ieri Benedetto XVI ha ricevuto in udienza i vescovi liguri guidati dal cardinale Angelo Bagnasco, oggi accoglierà i lombardi con l’arcivescovo di Milano Angelo Scola, da domenica sera e per tutta la settimana parteciperà con la Curia agli esercizi spirituali che quest’anno ha voluto affidare al cardinale Gianfranco Ravasi, il 25 vedrà in udienza privata «altri cardinali» e la mattina del 28 li saluterà tutti quanti nella Sala Clementina prima di andare a Castel Gandolfo e lasciare i porporati a discutere in vista dell’ingresso nella Sistina.
La situazione è inedita ma il Papa a un tempo rassicura e raccomanda: «La figura di Pietro non tramonta», ha spiegato ieri ai vescovi. «Ci ha esortato ad essere tanto uniti alla Chiesa e a saper pregare, perché la promessa di Gesù a Pietro è una promessa che non viene meno», ha raccontato alla Radio Vaticana il vescovo di Ventimiglia Alberto Maria Careggio. La preghiera, l’unità della Chiesa. Già nella declaratio sulla sua «rinuncia» Ratzinger aveva tratteggiato una sorta di profilo del successore: occorre avere «nel corpo e nell’animo» il «vigore» necessario ad affrontare «rapidi mutamenti» del «mondo di oggi». Un mandato in positivo a proseguire le «vere riforme».
Certo «non è una resa», dice al Tg2 il cardinale Angelo Bagnasco: «Il Papa ha affrontato momenti difficilissimi rispetto all’oggi, problemi che tutti conosciamo. Se la chiave di lettura fosse quella di una fuga, di una resa, lo avrebbe fatto molto prima e non adesso, in un momento sostanzialmente più tranquillo».
Una decisione, quella di Benedetto XVI «presa in coscienza davanti a Dio, in totale libertà e motivata unicamente per il bene della Chiesa», ha scritto il cardinale Angelo Scola in una lettera che domani sarà letta in tutte le chiese della diocesi di Milano. «Di fronte all’inaspettato e umile gesto di Benedetto XVI non sono importanti i sentimenti che, sul momento, hanno occupato il nostro cuore. Conta la limpidezza del gesto di fede e di testimonianza del nostro caro Papa. Esso si è subito imposto, a noi e a tutto il mondo».
I cardinali lo dovranno ascoltare, e non si tratta solo di un omaggio dovuto. L’invito (ripetuto) all’unità della Chiesa è nelle cose: il quorum fisso di due terzi voluto da Ratzinger, 78 voti su 117, impone che la scelta cada su un candidato di equilibrio tra le varie anime del conclave. A papabili «forti» come Scola e il canadese Marc Ouellet si affiancano così personalità come Ravasi e Schönborn, lo stesso Bagnasco, il newyorchese Timothy Dolan e l’astro crescente del giovane filippino Luis Antonio Gokim Tagle, 55 anni, di madre cinese, considerato una sorta di Wojtyla d’Oriente. La Chiesa guarda alla Cina, del resto. «Il giorno prima della rinuncia, il Papa ha inviato una benedizione e i suoi auguri alle popolazioni che celebravano il Nuovo anno lunare, in particolare ai cinesi in ogni nazione», ricorda ad Asianews il cardinale John Tong, vescovo di Hong Kong e primo cinese della storia a partecipare a un conclave.
Benedetto XVI si prepara a una vita riservata di preghiera e studio prima a Castel Gandolfo e poi nel monastero in Vaticano. Ma non sarà isolato. Il neoarcivescovo Georg Gänswein sarà una sorta di trait d’union tra il prossimo Papa e il predecessore: ha deciso di alloggiare come Ratzinger nel monastero e continuare ad aiutarlo e insieme, in quanto prefetto della Casa pontificia, lavorerà a stretto contatto con il nuovo Pontefice.
“Il Pontefice prenda esempio dal Dalai Lama”
intervista a Jean Baubérot,
a cura di Alberto Mattioli (La Stampa, 17 febbraio 2013)
«La vera riforma da fare in Vaticano? Separare lo Stato dalla Chiesa». Là: dopo le dimissioni più clamorose della storia recente, finalmente un’analisi originale fino al paradosso. Arriva da Jean Baubérot, celebre storico delle religioni e fondatore della sociologia della laicità.
Professor Baubérot, si spieghi.
«E’ molto semplice. Mi sembra che sia un problema, per la Chiesa cattolica e per come il mondo guarda alla Chiesa, che il Pontefice abbia una doppia funzione, sia insieme un capo spirituale e un capo di Stato. Certo, il Vaticano è uno Stato piccolissimo, ma il suo peso politico è tutt’altro che piccolo, anche su scala internazionale. Ora, quest’ambivalenza genera inevitabilmente ambiguità e malintesi, come si è visto anche di recente».
Quindi cosa dovrebbe fare il nuovo Papa?
«Quello che ha fatto il Dalai Lama, che ha rinunciato a ogni ruolo politico per consacrarsi interamente a quello religioso».
Ma il Tibet è occupato militarmente dai cinesi. Invece i cosacchi non sono mai riusciti ad arrivare in piazza San Pietro...
«Sì, ma per decenni il Dalai Lama ha conservato e rivendicato le sue prerogative politiche. Quando ci ha rinunciato, e lo ha fatto solo nel 2011, quando era già in esilio da decenni, è stato certamente un atto simbolico. Ma dal valore, sempre simbolico, molto grande».
Intanto, a proposito di peso politico, in Francia ci sono polemiche per il ruolo della Chiesa nell’opposizione al matrimonio per tutti...
«Questa è l’altra grande riforma che la Chiesa cattolica dovrebbe fare, e lo dico beninteso da osservatore esterno e non cattolico. Io trovo che la Chiesa abbia tutto il diritto di pronunciarsi su temi politici o di società. Trovo però sbagliato che lo faccia in nome di una morale “naturale” che sarebbe valida per tutti, anche per chi non ha le stesse convinzioni religiose. No: è soltanto la morale cattolica. Le due riforme sono connesse».
L’Islam, però, è pieno di capi insieme religiosi e politici.
«Sì, ma nell’Islam non c’è un’autorità unica che parla a nome di tutti i musulmani. Aggiungerei anche che questa confusione fra spirituale e temporale indebolisce entrambi i poteri e non ha buoni effetti sulla società. Basta dare un’occhiata a quel che succede in Iran».