"PRINCIPI DI SCIENZA NUOVA D’INTORNO ALLA COMUNE ORIGINE DELLE NAZIONI": QUALE SIA LA CHIAVE DI ACCESSO AL CAPOLAVORO (1744) DI GIAMBATTISTA VICO, NON E’ ANCORA AFFATTO CHIARO NE’ AI FILOSOFI NE’ AI FILOLOGI E NEPPURE AI TEOLOGI, BENCHE’ SIA SOTTO I LORO OCCHI: "IGNOTA LATEBAT"!
PER QUESTO, FORSE, PUO’ ESSERE COSA UTILE E ILLUMINANTE RIVEDERE INSIEME LA "IMPRESA" E LA "DIPINTURA" CHE APRONO L’OPERA DI VICO (VEDI "PDF" - COPERTINA) E RILEGGERE IL SAGGIO su "Il punto di svolta. L’indicazione di Fachinelli."e sulle "REGOLE Del GIOCO DELL’OCCIDENTE E IL DIVENIRE ACCOGLIENTE DELLA MENTE" (VEDI "PDF": LA MENTE ACCOGLIENTE (Federico La Sala, Roma 1991)*:
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INDICE DEL LIBRO:
Federico La Sala,
LA MENTE ACCOGLIENTE. Tracce per una svolta antropologica
Introduzione: In principio (o, meglio, all’Inizio)
I PARTE - CON NIETZSCHE ...
I. Nietzsche per ipotesi - Prometeico, dionisiaco e apollineo. - Istante, attimo ed Ewigkeit. - Nietzsche, Benjamin e Marx.
II. Nietzsche, ""Columbus novus". - Da dove parla Nietzsche. - Nietzsche e Freud. - Nietzsche e Benjamin. - Nietzsche e Marx.
II PARTE - ... E CON PARMENIDE
I. Fondazione della filosofia e rifondazione della ricerca. Una rilettura del "Perì physeos" di Parmenide.
III. VERSO LA MENTE ACCOGLIENTE
I. Zarathustra, il nano, e la libertà dal destino della necessità.
II. Il punto di svolta. L’indicazione di Fachinelli.
III. Le "regole del gioco" dell’Occidente e il divenire accogliente della mente.
IV. La fanciulla straniera e la civetta hegeliana. Sorte di una metafisica futura che si presenterà come scienza.
V. Un brillante new tono. "Note" per una epistemologia accogliente.
Antonio Pellicani editore, Roma 1991.
Sugli sviluppi della "traccia", qui riproposta, si cfr.:
SPIEGAZIONE DELLA DIPINTURA PROPOSTA AL FRONTISPIZIO CHE SERVE PER L’INTRODUZIONE DELL’OPERA. *
Quale Cebete tebano fece delle morali, tale noi qui diamo a vedere una Tavola delle cose civili, la quale serva al leggitore per concepire l’idea di quest’opera avanti di leggerla, e per ridurla più facilmente a memoria, con tal aiuto che gli somministri la fantasia, dopo di averla letta.
La donna con le tempie alate che sovrasta al globo mondano, o sia al mondo della natura, è la metafisica, ché tanto suona il suo nome. Il triangolo luminoso con ivi dentro un occhio veggente egli è Iddio con l’aspetto della sua provvedenza, per lo qual aspetto la metafisica in atto di estatica il contempla sopra l’ordine delle cose naturali, per lo quale finora l’hanno contemplato i filosofi; perch’ella, in quest’opera, più in suso innalzandosi, contempla in Dio il mondo delle menti umane, ch’è ’l mondo metafisico, per dimostrarne la provvedenza nel mondo degli animi umani, ch’è ’l mondo civile, o sia il mondo delle nazioni; il quale, come da suoi elementi, è formato da tutte quelle cose le quali la dipintura qui rappresenta co’ geroglifici che spone in mostra al di sotto. Perciò il globo, o sia il mondo fisico ovvero naturale, in una sola parte egli dall’altare vien sostenuto; perché i filosofi, infin ad ora, avendo contemplato la divina provvedenza per lo sol ordine naturale, ne hanno solamente dimostrato una parte, per la quale a Dio, come a Mente signora libera ed assoluta della natura (perocché, col suo eterno consiglio, ci ha dato naturalmente l’essere, e naturalmente lo ci conserva), si danno dagli uomini l’adorazioni co’ sagrifici ed altri divini onori; ma nol contemplarono già per la parte ch’era più propia degli uomini, la natura de’ quali ha questa principale propietà: d’essere socievoli. Alla qual Iddio provvedendo, ha così ordinate e disposte le cose umane, che gli uomini, caduti dall’intiera giustizia per lo peccato originale, intendendo di fare quasi sempre tutto il diverso e, sovente ancora, tutto il contrario - onde, per servir all’utilità, vivessero in solitudine da fiere bestie, - per quelle stesse loro diverse e contrarie vie, essi dall’utilità medesima sien tratti da uomini a vivere con giustizia e conservarsi in società, e sì a celebrare la loro natura socievole: la quale, nell’opera, si dimostrerà essere la vera civil natura dell’uomo, e sì esservi diritto in natura. La qual condotta della provvedenza divina è una delle cose che principalmente s’occupa questa Scienza di ragionare; ond’ella, per tal aspetto, vien ad essere una teologia civile ragionata della provvedenza divina (...)
Il raggio della divina provvedenza, ch’alluma un gioiello convesso di che adorna il petto la metafisica, dinota il cuor terso e puro che qui la metafisica dev’avere, non lordo né sporcato da superbia di spirito o da viltà di corporali piaceri; col primo de’ quali Zenone diede il fato, col secondo Epicuro diede il caso, ed entrambi perciò niegarono la provvedenza divina. Oltracciò, dinota che la cognizione di Dio non termini in essolei, perch’ella privatamente s’illumini dell’intellettuali, e quindi regoli le sue sole morali cose, siccome finor han fatto i filosofi; lo che si sarebbe significato con un gioiello piano. Ma convesso, ove il raggio si rifrange e risparge al di fuori, perché la metafisica conosca Dio provvedente nelle cose morali pubbliche, o sia ne’ costumi civili, co’ quali sono provenute al mondo e si conservan le nazioni.
Lo stesso raggio si risparge da petto della metafisica nella statua d’Omero, primo autore della gentilità che ci sia pervenuto, perché, in forza della metafisica (la quale si è fatta da capo sopra una storia dell’idee umane, da che cominciaron tal’uomini a umanamente pensare), si è da noi finalmente disceso nelle menti balorde de’ primi fondatori delle nazioni gentili, tutti robustissimi sensi e vastissime fantasie; e - per questo istesso che non avevan altro che la sola facultà, e pur tutta stordita e stupida, di poter usare l’umana mente e ragione - da quelli che se ne sono finor pensati si truovano tutti contrari, nonché diversi, i princìpi della poesia dentro i finora, per quest’istesse cagioni, nascosti principi della sapienza poetica, o sia la scienza de’ poeti teologi, la quale senza contrasto fu la prima sapienza del mondo per gli gentili. E la statua d’Omero sopra una rovinosa base vuol dire la discoverta del vero Omero (...)
* Giambattista Vico, Principi di Scienza Nuova [1744], "Idea dell’Opera", in: G. Vico, Opere filosofiche, Sansoni editore, Firenze 1971, p. 379, p. 381 - grassetti miei, fls.
LEMURUM FABULA: LA BRUTTEZZA DELLA DIPINTURA TUTTA CONTRARIA [La Scienza Nuova 1730] *
Potrai facilmente, o Leggitore, intendere la bellezza di questa divina Dipintura dall’orrore, che certamente dee farti la bruttezza di quest’altra, ch’ora ti dò a vedere tutta contraria. Il TRIGONO luminoso, e veggente allumi il Globo Mondano, che è la Provvedenza Divina, la quale il governa.
La falsa, e quindi rea Metafisica abbia l’ALE delle tempie inchiovate al Globo dalla parte opposta coverta d’ombre; perchè non possa, e non può, perchè non voglia, nè sa, perchè non vuole alzarsi sopra il Mondo della Natura; onde dentro quelle sue tenebre insegni o ‘l cieco Caso d’Epicuro, o ‘l Fato pur cieco degli Stoici; ed empiamente oppini, che esso Mondo sia Dio o operante per necessità, quale con gli Stoici il vuole Benedetto Spinosa, ovvero operante a caso, che va di seguito alla Metafisica, che Giovanni Locke fa d’ Epicuro: e con entrambi avendo tolto all’huomo ogni elezione, e consigli o, avendo tolta a Dio ogni Provvedenza, insegni, che dappertutto debba regnar’ il Capriccio, per incontrare o ‘l caso , o ‘l fato, che si desidera.
Ella con la sinistra mano tenga la BORSA; perchè tali venenose dottrine non son’insegnate, che da huomini disperati; i quali o vili non ebbero mai parte allo stato, o superbi, tenuti bassi, o non promossi agli onori, de’ quali per la lor boria si credon degni, sono malcontenti dello stato: siccome Benedetto Spinosa, il quale, perchè Ebreo, non aveva niuna Repubblica, truovò una Metafisica da rovinare tutte le Repubbliche del Mondo.
Con la destra tenga la BILANCIA, poichè ella è la Scienza, che dà il criterio del Vero, ovvero l’ Arte di ben giudicare; per la quale troppo fastidiosa, e dilicata, non acquetandosi a niuna verità, finalmente caduta nello Scetticismo estima d’ uguali pesi il giusto, e l’ingiusto; ella, come gl’immanissimi Galli Senoni fecero co’ Romani, caricando una lance con LA SPADA, la faccia sbilanciare, preponderando all’altra, dove sia il CADUCEO DI MERCURIO, ch’è simbolo delle Leggi; e così insegni, dover servire le leggi alla forza ingiusta dell’armi.
L’ALTARE sia rovinato, spezzato il LITUO, rovesciato l’ URCIUOLO, spenta la FIACCOLA: e così ad un Dio sordo, e cieco si nieghino tutti i divini onori, e sien bandite dappertutto le cerimonie divine; e ’n conseguenza sien tolti tralle nazioni i matrimonj solenni, che appo tutte con divine cerimonie si contraggono; e si celebrino il concubinato, e ‘l puttanesimo.
Il FASCIO ROMANO sia sciolto, dissipato, e disperso; e spenta ogni Moral comandata dalle Religioni, con l’annientamento di esse; spenta ogni Disciplina Iconomica, col dissolvimento de’ matrimonj; perisca affatto la Dottrina Politica, onde vadano a dissolversi tutti gl’Imperj civili.
La STATOVA D’OMERO s’atterri; perchè i Poeti fondarono con la Religione a tutti i Gentili l’Umanità.
La TAVOLA DEGLI ALFABETI giacciasi infranta nel suolo; perchè la Scienza delle Lingue, con le quali parlano le religioni, e le leggi, essa è quella, che le conserva.
L’URNA CENERARIA dentro le selve porti iscritto LEMURUM FABULA: e ‘l dente dell’ARATRO abbia spuntata la punta: e tolta l’universal credenza dell’Immortalità dell’anima, lasciandosi i cadaveri inseppolti sopra la terra, s’ abbandoni la coltivazione de’ campi, nonchè si disabitino le città: e ‘l TIMONE, geroglifico degli huomini empj senza niun’ umana lingua, e costume, si rinselvi ne’ boschi; e ritorni la ferina Comunione delle cose, e delle donne; le quali si debbano gli huomini appropiare con la violenza, e col sangue.
Il molto finora detto si è, per facilitarti, o benigno Leggitore, la lezion di quest’Opera [...]
* Giambattista Vico - "OCCASIONE Di meditarsi quest’Opera" - La Scienza Nuova 1730 - (senza corsivi, fls).
VICO, PENSATORE EUROPEO. Teoria e pratica della "Scienza Nuova". Note per una rilettura
I due traduttori raccontano l’impresa impossibile di entrare in un labirinto di sogni, vocaboli, immagini
di Fabio Pedone, Enrico Terrinoni (La Stampa, 23/01/2017)
Quando abbiamo iniziato il lavoro su Finnegans Wake ci siamo trovati di fronte un unicorno dei boschi narrativi, il più imprendibile e affascinante degli organismi verbali, composto con l’idioma caleidoscopico di un Sognatore misterioso nella cui mente va in scena, «riraccontata», la storia umana. Ricco di allusioni e significati disposti con pazienza da Joyce in ogni piega del testo.
Tradurre l’intraducibile, proprio perché «non si può fare», è sempre possibile, cioè ri-pensabile, secondo una rete di rifrazioni e associazioni attente; e conduce, in un rilancio infinito, a una «abnihilisation» di quell’etimo/atomo che per Joyce diventa «etym». Ecco allora una paradossale nascita di atomi dal nulla (ab nihilo) che è pure un annichilimento dell’etimo, della statica origine di ogni parola, verso una ricreazione del caos primordiale, ovvero una plurale, nuova possibilità di cosmo: senza frontiere, distinzioni o identità fisse.
Di fronte a parole-prisma che brulicano sulla pagina quasi fossero materia vivente, altalenando tra le lingue, ogni lettore diventa rabdomante, scettico e aperto alle sorprese, e lui stesso vive in un permanente «stato di traduzione», tessendo in modo accurato o visionario il proprio «libro-sogno».
Se la forza dell’enigma è di essere sempre inesauribile, Finnegans Wake ci immerge nell’oscurità dell’esistere dicendoci che siamo noi a dover portare un bagliore di luce nella sua selva intricata, sciogliendo la lingua; per riscrivere storie e miti della famiglia umana mettendo in viaggio le solite vecchie parole che ci portiamo addosso da sempre, fino a farne qualcosa di «mai sentito».
Luigi Schenoni, il nostro predecessore nel tentativo di rendere in italiano il Wake, chiamava la propria opera una ri/creazione. Questo perché, spiegava, «il nipote di James, figlio di Giorgio Joyce, ha espressamente proibito di chiamare traduzione qualsiasi rifacimento in altra lingua di Finnegans Wake». Il che ricorda un’occasione simile, quando lo stesso erede concesse i diritti di traduzione dell’Ulisse a un team di traduttori, ma li ammonì: «non ne cambiate una sola parola».
Ora, la traduzione - di qualunque testo - impone di cambiarle tutte, le parole; e Joyce lo sapeva bene, quando nel 1930 parlò a Hoffmeister dell’impossibilità di tradurre il suo libro, perché non era scritto in una lingua precisa, e aveva un protagonista, il fiume, che ovviamente parlava il linguaggio di un fiume. Tuttavia, poi, incoraggiandone una traduzione in ceco, disse che era possibile mutare il testo in poesia, «poeticizzarlo con la più grande libertà poetica di cui si è capaci», lasciando così al potenziale traduttore «ogni possibile libertà nella trasformazione delle parole», e aggiungendo: «Devo restare come sono, semplicemente spiegato nella vostra lingua».
Altro che l’impossibilità di tradurre poesia. Qui abbiamo il testo più intraducibile che può esser tradotto soltanto in poesia. E poesia è da intendersi nel suo senso greco, come «fare, creare». Creare le parole, e dedicarvisi, dice Joyce, con il più gran «transfusiasmo» possibile.
Questo fece quando assieme a Nino Frank tradusse parti del suo testo in uno scoppiettante straitaliano, al punto che persino frasi semplici divennero in traduzione arditissime: «What was it he did» diventò «Che cozzo ha fotto», mentre in Schenoni è semplicemente «Che cosa ha fatto». Ma poi, dove Joyce scrive «the roughty old rappe», e Schenoni imitando traduce «la vecchia rozza repceanaglia», il sommo irlandese si straduce e s’inventa: «Forcadea, che carogna!»
Impossibile è sì quel che non si può fare, ma anche quel che non s’è ancora fatto. Missione ancora più importante rispetto a un libro come Finnegans Wake, che per dirla con Beckett «non riguarda qualcosa: è quel qualcosa». Tradurre il Wake non è solo reinventare una lingua, ma andare alle radici, storiche e mitiche, dell’atto linguistico. Joyce ci insegna che ogni parola è inventata. E se è stato capace di riscrivere la Creazione in senso atomistico (Adam and Eve divengono Atoms and ifs, meri «atomi e se»), o se ha saputo inserire nel termine biography («biografia») i semi della paura producendo beogrefright, in cui abbiamo beo che in irlandese è «vita», ogre, «orco» in inglese; e fright che sempre in inglese è «paura», questo è perché i fantasmi del passato possono spaventare, soprattutto se non provengono dal nostro, di passato.
La creatività, o meglio il creazionismo linguistico del Wake, proviene dal crollo di Babele e dal turbinoso ricomporsi delle sue rovine. Nel libro di Joyce Babel diviene babble («cicaleccio»), una nuova lingua ribelle e luciferina, l’idioma ridanciano di Belzebù (belzey babble). Uno slanguage fatto di espressioni giocate in più sensi e di sfrenati e serissimi giochi di parole.
La pagina di Finnegans Wake è il luogo delle metamorfosi, ed è inutile muovervisi per esclusione come nella logica diurna, rigida e disgiuntiva, perché qui errori, sviste ed espressioni dubbie, intrasentite nel dormiveglia, ci gettano in un labirinto, lo stesso che è nell’orecchio di uomini e animali. Un labirinto a forma di punto interrogativo, dove ascoltare e ri-dire sarà anche ridere. Tutto è movimento, le parole fanno capriole e sono in festa, ma sappiamo che dietro di loro si nasconde un potere immane: così ciascuno, traducendosi attraverso il Wake , potrà essere quel che è Shakespeare nel Wake: Shapesphere, un plasmatore di mondi, come il Linguaggio stesso, che trasforma la realtà.
Giambattista Vico
La Scienza nuova
Le tre edizioni del 1725, 1730 e 1744
IL LIBRO - La Scienza nuova, di cui in questo volume si pubblicano le tre edizioni, del 1725, del 1730 e del 1744, è un Classico del pensiero occidentale, essenziale per la comprensione del nostro mondo storico non meno della Repubblica di Platone e dell’Etica di Spinoza, della Metafisica di Aristotele e della Critica della ragion pura di Kant, del De Civitate Dei di Agostino e della Fenomenologia dello spirito di Hegel.
Due le idee-guida che si intrecciano, e anche confliggono, in quest’opera geniale e inquietante: 1) l’estensione al mondo umano della mathesis universalis, che ha segnato la nascita della scienza moderna, ma che in Galilei e Cartesio era limitata alla natura; 2) la genealogia della coscienza e della logica a partire dal “senso” e dalla “fantasia”, da cui discende l’interesse prevalente di Vico per il formarsi della prima umanità. Interesse mai disgiunto dalla consapevolezza dei limiti della ragione, che può a stento “intendere”, ma non “immaginare” quell’età ancora incerta tra storia e pre-storia.
Da questa consapevolezza “critica” nacque quella fusione di logos e mythos, concetto e immagine, che caratterizza il linguaggio barocco della Scienza nuova (in particolare nelle due ultime edizioni, qui presentate nella loro scrittura originaria), nel quale Vico espose due e diverse concezioni del tempo umano-divino della storia. In particolare il quinto e ultimo Libro di quest’Opera in continuo compimento, se per un verso ripropone l’idea pre-cristiana della ciclicità del corso storico, per l’altro, “sospende” l’intero orizzonte del tempo all’attimo presente: il kairologico “adesso” di Paolo, in cui “il tempo s’è contratto” (I Co, 7.29).
Ma proprio questa doppiezza della Scienza Nuova permette di instaurare significative connessioni tra la posizione di Vico e gli esiti più alti della riflessione contemporanea sulla storia, da Heidegger a Benjamin. Certo nel pieno rispetto della specificità dei loro differenti “tempi”, e quindi fuor d’ogni pretesa di stabilire “precorrimenti” e “inveramenti”; ma non meno certamente contro le vane “monumentalizzazioni” di una storiografia volta esclusivamente al passato.
DAL TESTO - “Solo il divino Platone egli meditò in una sapienza riposta che regolasse l’uomo a seconda delle massime che egli ha apprese dalla sapienza volgare della religione e delle leggi. Perché egli è tutto impegnato per la provvedenza e per l’immortalità degli animi umani; pone la virtù nella moderazione delle passioni; insegna che per propio dover di filosofo si debba vivere in conformità delle leggi, ove anche all’eccesso divengan rigide con una qualche ragione, sull’esempio che Socrate, suo maestro, con la sua propia vita lasciò, il quale, quantunque innocente, volle però, condennato qual reo, soddisfare alla pena e prendersi la cicuta.
Però esso Platone perdé di veduta la provvedenza quando, per un errore comune delle menti umane, che misurano da sé le nature non ben conosciute di altrui, innalzò le barbare e rozze origini dell’umanità gentilesca allo stato perfetto delle sue altissime divine cognizioni riposte (il quale, tutto a rovescio, doveva dalle sue «idee» a quelle scendere e profondere), e, sì, con un dotto abbaglio, nel qual è stato fino al dì d’oggi seguito, ci vuol appruovare essere stati sapientissimi di sapienza riposta i primi attori dell’umanità gentilesca, i quali, come di razze d’uomini empi e senza civiltà, quali dovettero un tempo essere quelle di Cam e Giafet, non poterono essere che bestioni tutti stupore e ferocia.
In séguito del qual erudito errore, invece di meditare nella repubblica eterna e nelle leggi d’un giusto eterno, con le quali la provvedenza ordinò il mondo delle nazioni e ‘1 governa con esse bisogne comuni del genere umano, meditò in una repubblica ideale ed uno pur ideal giusto, onde le nazioni non solo non si reggono e si conducono sopra il comun senso di tutta l’umana generazione, ma pur troppo se ne dovrebbono: storcere e disusare: come, per esempio, quel giusto, che e’ comanda nella sua Repubblica, che le donne sieno comuni.”
I CURATORI - Manuela Sanna, direttore dell’”Istituto per la storia del pensiero filosofico e scientifico moderno” del Consiglio Nazionale delle Ricerche, si occupa di cultura storico-filosofica tra ’600 e ’700, con lavori dedicati a Leibniz, Tschirnhaus e Vico, ed è membro del consiglio scientifico dell’edizione critica delle Opere di Giambattista Vico, per la quale ha curato la raccolta delle Epistole, il De rebus gestis Antonj Caraphei, la Scienza nuova del 1730, insieme a Paolo Cristofolini, e la Scienza nuova del 1744, in via di pubblicazione. Ha curato anche la nuova e più recente traduzione italiana del De antiquissima Italorum sapientia (Roma, 2005). Negli ultimi anni le sue ricerche si sono centrate sul rapporto tra conoscenza immaginativa e verità, e su questo sono usciti La "Fantasia, che è l’occhio dell’ingegno". Note sul concetto vichiano di conoscenza (Napoli, 2001) e Immaginazione (Napoli, 2007).
Vincenzo Vitiello, professore ordinario di Filosofia Teoretica, insegna attualmente Filosofia della storia all’Università San Raffaele di Milano. Le sue ricerche di Topologia trascendentale sono negli ultimi anni rivolte all’elaborazione di una logica e di un’etica della seconda persona. Ha tenuto cicli di conferenze e seminari in Europa, negli USA, e in America latina (Argentina, Cile, Messico). Suoi scritti sono stati tradotti in tedesco, francese, inglese e spagnolo. Socio onorario della Asociación de filosofia Latinoamericana y Ciencias sociales (Buonos Aires). Dirige la Rivista "Il Pensiero". Tra le sue pubblicazioni: Elogio dello spazio (1994, trad. tedesca parziale, Freiburg-München, 1993); Cristianesimo senza redenzione (1995, trad. spagnola, Madrid, 1999); Genealogía de la modernidad (Buenos Aires, 1998); Il Dio possibile (Roma, 2002); I tempi della poesia. Ieri / Oggi (Milano, 2008; trad. spagnola Madrid, 2009); Vico. Storia - Linguaggio - Natura (Roma, 2008); Grammatiche del pensiero (Pisa, 2009) .
INDICE DELL’OPERA - Saggio introduttivo. Vico nel suo tempo, di Vincenzo Vitiello - I. Sul ’concetto’ di moderno - In limine. Brevi considerazioni sulla storicità della conoscenza storica (I. Interpretazioni del moderno - II. Mathesis universalis e logica moderna - Appendice) - II. Spinoza e Vico (I. Le ragioni di un confronto - II. Il sistema di Spinoza - III. La filosofia di Vico ’prima’ della Scienza nuova) - III. La Scienza Nuova (I. La fondazione della mathesis universalis della storia - II. La lingua della Scienza nuova. Oltre la mathesis universalis - III. Prospezioni vichiane) - Cronologia della vita e delle opere di Giambattista Vico, di Manuela Sanna - Nota editoriale
LA «SCIENZA NUOVA» DEL 1725 - La «Scienza nuova» nell’edizione del 1725, di Manuela Sanna e Fulvio Tessitore - Introduzione, di Vincenzo Vitiello - La «Scienza nuova» nelle edizioni del 1730 e del 1744, di Manuela Sanna
LA «SCIENZA NUOVA» DEL 1730 - La «Scienza nuova» nell’edizione del 1730, di Manuela Sanna e Fulvio Tessitore
- LA «SCIENZA NUOVA» DEL 1744 - La «Scienza nuova» nell’edizione del 1744, di Manuela Sanna e Fulvio Tessitore - Apparati (I. Storia della fortuna di G.B. Vico, di Manuela Sanna - II. Bibliografia vichiana, a cura di Manuela Sanna - III. Indice generale)
Cosa insegna alla politica la rinuncia di Ratzinger
di Giorgio Agamben (la Repubblica, 16 febbraio 2013)
La decisione di Benedetto XVI deve essere considerata con estrema attenzione da chiunque abbia a cuore le sorti politiche dell’umanità.
Compiendo il “gran rifiuto”, egli ha dato prova non di viltà, come Dante scrisse forse ingiustamente di Celestino V, ma di un coraggio, che acquista oggi un senso e un valore esemplari. Deve essere evidente per tutti, infatti, che le ragioni invocate dal pontefice per motivare la sua decisione, certamente in parte veritiere, non possono in alcun modo spiegare un gesto che nella storia della Chiesa ha un significato del tutto particolare.
E questo gesto acquista tutto il suo peso, se si ricorda che il 4 luglio 2009, Benedetto XVI aveva deposto proprio sulla tomba di Celestino V a Sulmona il pallio che aveva ricevuto al momento dell’investitura, a prova che la decisione era stata meditata.
Perché questa decisione ci appare oggi esemplare? Perché essa richiama con forza l’attenzione sulla distinzione fra due principi essenziali della nostra tradizione etico-politica, di cui le nostre società sembrano aver perduto ogni consapevolezza: la legittimità e la legalità.
Se la crisi che la nostra società sta attraversando è così profonda e grave, è perché essa non mette in questione soltanto la legalità delle istituzioni, ma anche la loro legittimità; non soltanto, come si ripete troppo spesso, le regole e le modalità dell’esercizio del potere, ma il principio stesso che lo fonda e legittima.
I poteri e le istituzioni non sono oggi delegittimati, perché sono caduti nell’illegalità; è vero piuttosto il contrario, e cioè che l’illegalità è così diffusa e generalizzata, perché i poteri hanno smarrito ogni coscienza della loro legittimità.
Per questo è vano credere di potere affrontare la crisi delle nostre società attraverso l’azione - certamente necessaria - del potere giudiziario: una crisi che investe la legittimità, non può essere risolta soltanto sul piano del diritto. L’ipertrofia del diritto, che pretende di legiferare su tutto, tradisce anzi, attraverso un eccesso di legalità formale, la perdita di ogni legittimità sostanziale.
Il tentativo della modernità di far coincidere legalità e legittimità, cercando di assicurare attraverso il diritto positivo la legittimità di un potere, è, come risulta dall’inarrestabile processo di decadenza in cui sono entrate le nostre istituzioni democratiche, del tutto insufficiente.
Le istituzioni di una società restano vive solo se entrambi i principi (che, nella nostra tradizione, hanno anche ricevuto il nome di diritto naturale e diritto positivo, di potere spirituale e potere temporale) restano presenti e agiscono in essa senza mai pretendere di coincidere.
Per questo il gesto di Benedetto XVI è così importante. Quest’uomo, che era a capo dell’istituzione che vanta il più antico e pregnante titolo di legittimità, ha revocato in questione col suo gesto il senso stesso di questo titolo. Di fronte a una curia che, del tutto dimentica della propria legittimità, insegue ostinatamente le ragioni dell’economia e del potere temporale, Benedetto XVI ha scelto di usare soltanto il potere spirituale, nel solo modo che gli è sembrato possibile: cioè rinunciando all’esercizio del vicariato di Cristo. In questo modo, la Chiesa stessa è stata messa in questione fin dalla sua radice.
Non sappiamo se la Chiesa sarà capace di trarre profitto da questa lezione: ma sarebbe certamente importante che i poteri laici vi trovassero occasione per interrogarsi nuovamente sulla propria legittimità.
FILOLOGIA E TEOLOGIA. A Karol J. Wojtyla, in memoria: "Se mi sbalio, mi coriggerete" (Giovanni Paolo II)
GIAMBATTISTA VICO "fa una netta distinzione tra carus - caritas ripettivamente col valore di ’caro, costoso, di alto prezzo’ e ’carestia, scarsità’ da una parte, e charus - charitas rispettivamente col valore di ’grazioso, amabile, richiesto’ e ’grazia, amore di Dio’ dall’altra, perché per il Vico questi due ultimi termini derivano etimologicamente" dai termini greci ’charìeis’ e ’charis’] (cfr. G. Vico, Varia: Il ’De Mente Heroica’ e gli scritti latini minori, a cura di Gian Galeazzo Visconti, Alfredo Guida Editori, Napoli 1996, p. 31)
Sul tema, nel sito, si cfr.:
«DEUS CARITAS EST», LA PRIMA ENCICLICA DI RATZINGER E’ A PAGAMENTO !!!
PER RATZINGER, PER IL PAPA E I CARDINALI, UNA LEZIONE DI GIANNI RODARI. L’Acca in fuga
Federico La Sala
RICORDANDO BACONE (AUTORE AMATO DA VICO), IN MEMORIA DI PAOLO ROSSI:
Nella preghiera che è inserita nella prefazione della Instauratio magna sta scritto:
"Finalmente imploriamo che una volta tolto il veleno infuso dal serpente nella scienza, veleno che fa gonfiare e insuperbire l’animo umano, noi non oltrepassiamo mai i limiti, ma coltiviamo la verità in uno spirito di carità "(nec altum sapiamus, nec ultra sobrium sed veritatem in charitate colamus)"
Vico e il rilancio della retorica
Esce un’edizione filologica della sua «Scienza nuova».
Non convince l’idea di accostarlo a Heidegger o a Walter Benjamin rispetto a Hegel e Croce
Un’occasione per riflettere sull’attualità del filosofo accostandolo per esempio al giurista belga Charles Perelmann che predica una «nuova teoria dell’argomentazione»
di Renato Barilli (l’Unità, 14.1.13)
LA BOMPIANI CI HA OFFERTO LA SCIENZA NUOVA DI GIAMBATTISTA VICO IN UN VOLUMONE (PAGINE 1.318, EURO 30,00) CHE COMPRENDE LE TRE EDIZIONI successive del capolavoro del filosofo napoletano, 1725, 1730, 1744. Nulla da dire sull’aspetto filologico dell’impresa, curato da una studiosa qualificata come Manuela Sanna.
Il punto che qui ci interessa è di chiederci se e quanto l’opera famosa può godere ancora oggi di attualità, come del resto deve essere per ogni capolavoro. È da accantonare la vecchia interpretazione dovuta al Croce, che pretendeva di fare del Vico un antesignano dell’idealismo, cioè di una posizione che dà al soggetto umano la facoltà di creare la realtà, secondo la via impostata soprattutto da Hegel. Si è tentato di rilanciare una eventuale attualità del pensiero crociano, approfittando dei 110 anni dalla sua morte, ma con esiti assai dubbi.
D’altra parte, il modo migliore per accordare al pensiero del Vico una rinnovata attualità non pare consistere nell’agganciarlo a nuovi idoli dei nostri giorni, come fa l’altro curatore del volume Bompiani, Vincenzo Vitiello, con una maxi-introduzione di ben 180 pagine.
Non ritengo che sia un grande vantaggio se da Hegel e Croce passiamo agli a mio avviso ugualmente impropri Heidegger e Walter Benjamin. La via migliore per fornire un Vico ancora «con noi» mi sembra debba battere altre strade, indirizzandosi per esempio verso una figura, se si vuole, di basso o medio profilo come quella del giurista belga Charles Perelmann, da cui è pervenuta, alla metà del secolo scorso, una accanita predicazione a favore del rilancio della retorica, ovvero di una «nuova teoria dell’argomentazione».
Del resto, non dimentichiamolo, Vico fu prima di tutto un docente di retorica, considerata allora, fine Seicento, come una materia alquanto modesta, da cui non riuscì neppure ad accedere al livello superiore della giurisprudenza. Ma nella difesa dell’ancella del sapere sta forse il significato principale di tutta la sua predicazione, che lo vide combattere accanitamente contro una sua cancellazione radicale minacciata da Cartesio e seguaci.
Dentro il nostro «cogito» il Renato francese credeva di ritrovare solo i rigori di una «mathesis universalis», numeri, geometria, tra cui le famose coordinate, pronte a recepire nei loro registri l’intero corpus della geometria euclidea. Di fronte a tanto rigore, impallidivano i pregi pur secolari delle discipline incerte e vaghe care agli umanisti, le vie dubbie dei dibattiti giuridico e politico, l’oscillazione dei giudizi estetici, legati a fattori momentanei e personalistici. Insomma, in una «scienza nuova» o moderna che si volesse dire, non trovava posto la retorica, troppo flessibile ed elastica, regno del vago e dell’incerto.
Ricordiamo subito che una simile lotta tra le «due culture» si è riaccesa proprio un secolo fa, quando si è istruito un processo contro le discipline umanistiche, declassate, ritenute indegne di partecipare allo statuto della scienza. La cosiddetta filosofia analitica ha battuto queste strade, trovando poi il forte appoggio della linguistica e della semiotica, con la loro pretesa di «raddrizzare le gambe ai cani». Roland Barthes ci ha provato perfino con la moda.
Contro tutte queste manovre punitive, si è levato appunto Perelmann, il Vico dei nostri giorni, a farci riflettere che ci sono ambiti della massima importanza per l’uomo, i tre già ben visti nei secoli da tutti i difensori della retorica, il politico, il giudiziario, l’estetico, in cui non è possibile raggiungere una verità perentoria, ma ci si deve accontentare del probabile, tentando di persuadere gli avversari a colpi di argomentazione, appoggiata anche a qualche incanto verbale, e alla forza dell’esempio, del caso concreto.
AMMIRATORE DI CARTESIO
Vico era un ammiratore di Cartesio e del suo metodo di fondazione rigorosa, ma voleva che esso riguardasse anche il campo del probabile, da qui l’innalzamento della retorica a un valore assoluto, da tutelare, da proteggere. Dentro di noi, non troviamo solo le vie dell’analisi «more geometrico», ma anche del dibattito probabilistico.
Nello stesso tempo Vico avvertiva pure la forza dei tempi, allora del tutto a favore del razionalismo, secondo una gerarchia che appunto collocava molto in basso la povera e titubante retorica, e allora accettò questo degrado, rivendicò sì il diritto della retorica a sedersi alla mensa superiore della logica e della matematica, ma mettendosi comunque in un angolino, come del resto accadeva allora ai precettori se ammessi alla tavola dei signori.
È giusto che la prima tappa del processo educativo sia affidata a coltivare i sentimenti, le emozioni, la poesia, di cui la retorica è valida amministratrice. Ma poi viene l’età adulta dei ragionamento analitico, e allora l’imprecisione della retorica deve scomparire.
Questa collocazione «in basso» della vita emozionale è il motivo di cui l’idealismo romantico si impadronirà, l’aspetto nel Vico-pensiero che darà ragione a Croce nel volerlo additare come un suo precursore. Ma è anche l’impostazione da cui oggi abbiamo dovuto liberarci, sollevando il regno del dibattito retorico dalla sua collocazione degradata, portandolo a competere alla pari con le armi analitiche delle scienze fisico-matematiche. Vico è con noi, ma solo con una parte della sua Scienza nuova.
Perché ritorna l’inventore delle scienze umane
Vico, ancora lui
Esce un volume che raccoglie tutte e tre le edizioni dell’opera maggiore del filosofo settecentesco
di Roberto Esposito (la Repubblica, 19.12.2012)
Lo straordinario rilievo della Scienza Nuova di Vico - adesso ripubblicata da Bompiani in tutte le tre le edizioni del 1725, del 1730 e del 1744, a cura di Manuela Sanna e di Vincenzo Vitiello, con un ricchissimo saggio di quest’ultimo - sta nel fatto che per la prima volta, in essa, le vicende degli uomini sono guardate dal punto di vista della loro storicità. Naturalmente la nascita della storiografia è assai precedente - basti pensare, per esempio, a quella greca e romana. Ma è solo con Vico che la storia assume lo statuto di vera scienza. Così come il sapere acquista una dimensione intensamente storica - pur senza perdere la sua portata metafisica.
Questo complesso passaggio di paradigma trova un singolare riscontro metaforico nella “dipintura” che compare sul frontespizio dell’opera. In essa un raggio di luce, che parte da un occhio situato in alto, giunge al petto di una fanciulla in piedi su di un globo, rifrangendosi su una statua. Ai piedi di questa, vari arnesi, tra cui una borsa, un timone, un aratro e una tavola con su scritte alcune lettere. In basso a destra s’intravede una selva, la cui folta vegetazione s’eleva fino al cielo, oscurando parzialmente la luce del sole. Il raggio è quello, divino, che illumina il mondo, transitando prima per la metafisica, simboleggiata dalla ragazza, e poi per la sapienza poetica, rappresentata dalla statua di Omero, mentre la selva incolta rimanda alle origini barbariche in cui le nazioni moderne affondano le proprie radici.
Come spiega lo stesso Vico, il dipinto riproduce il duplice movimento, dall’alto al basso e viceversa, che salda la storia umana alla provvidenza divina.
In un’opera mai del tutto conclusa, a dispetto delle tre edizioni, mito e storia, poesia e diritto, filologia e filosofia trovano una sintesi narrativa di straordinario vigore. Come in un grande affresco barocco, la storia del mondo - scandita nelle tre età degli dei, degli eroi e degli uomini - si dispiega in un’alternanza di luci e ombre, di successi e sconfitte, di slanci e cadute.
Le questioni che la Scienza Nuova solleva, ripercorse anche da Vitiello, sono fondamentalmente tre - intrecciate tra loro in un nodo insolubile. La prima riguarda il rapporto tra eternità e storia, tra origine e sviluppo.
Come si è detto, è stato Vico ad immettere la vita degli uomini nella dimensione complessa e drammatica della storia - ma senza per questo fuoriuscire dall’orizzonte metafisico. Anzi, nell’intento di estendere alla storia il modello matematico adottato dalle scienze naturali, egli la sdoppia in due ordini distinti, ma in parte sovrapposti: quello “ideale eterno”, coincidente con il piano divino e quello in cui «corron in tempo le storie di tutte le nazioni ne’ loro sorgimenti, progressi, stati, decadenze e fini».
Da qui la complessità, ma anche la tensione, che anima la scena vichiana: come si integrano, in essa, permanenza e mutamento senza annullarsi a vicenda? Come può restare identica a se stessa, la storia ideale eterna, se quella delle nazioni trascorre da una stagione barbarica a un’epoca civile, per poi, magari, regredire ad una fase ancora più buia? Ciò è possibile attraverso una sorta di topologia che vede riuniti tempi diversi all’interno della stessa dimensione temporale, come quando, durante le scoperte geografiche, gli europei si trovarono di fronte forme di civiltà eterogenee non solo nello spazio, ma anche sul piano dello sviluppo storico.
Ma se è così, l’altra questione affrontata, e genialmente risolta, da Vico è quella di dar voce al modo di sentire di tempi remotissimi. Egli è perfettamente consapevole del fatto che il senso originario dell’esperienza passata è perduto per sempre. Da qui la sua marcata distanza da autori moderni come Cartesio, che attribuivano al sapere a loro contemporaneo una sorta di validità universale.
La scelta, apparentemente antiquata, in realtà nuovissima, di Vico - non per superare, ma per sottolineare tale difficoltà strutturale - è duplice: da un lato il tentativo di cercare in un’etimologia spesso fantastica la relazione originaria tra parole e cose. Le parole che ancora usiamo trovano la loro radice nei gesti, nelle immagini e perfino nei suoni di ciò che intendono significare.
L’essenza comunicativa del linguaggio risiede nella sua figuratività - nella modalità concreta, gestuale e quasi corporea, con cui i primi uomini si sono rapportati in modo immediato alla vita. Il sapere non è un punto di luce che illumina all’improvviso il mondo, ma un processo avvolto nell’opacità del suo spessore storico. Perciò la sapienza poetica - basata sulla potenza delle immagini, anziché sulla generalità dei concetti - è più ampia di quella scientifica e filosofica. E anzi, come vuole indicare il riferimento ad Omero della dipintura, l’unica capace di esprimere il fondo preistorico custodito in ogni storia.
La terza questione - implicita nelle prime due - è il rapporto tra mente e corpo. Si è detto della genesi corporea del nostro modo di parlare. Ma il primato del corpo non riguarda soltanto il linguaggio. La storia stessa si origina dalla dimensione, confusa e promiscua, del corpo, come quello, sformato e bestiale, dei giganti che vagavano nella grande selva primordiale. In quell’alba del mondo, come si esprime con potenza visionaria Vico, le menti degli uomini «erano tutte immerse ne’ sensi, tutte rintuzzate dalle passioni, tutte seppellite ne’ corpi».
Chi voglia ripercorrere all’indietro il processo di ominazione, deve calarsi nella materia, oscura e ribollente, di quel fondo indistinto. Nella confusione di semi, di donne, di sangue da cui la vita ebbe inizio in un amalgama che sovrappone i corpi e mescola i loro umori, prima che si fissi la differenza tra gli individui e tra le specie.
Perché qualcosa come un mondo umano abbia inizio, quella selva deve essere accecata dal bagliore del fulmine e poi bruciata dai primi eroi. Solo allora la forza diviene autorità e il comune si divide nel proprio. Solo allora si apre lo scenario della storia vera e propria. L’ordine nasce dal solco che l’aratro e la spada incidono nella superficie, prima indifferenziata, della terra. Da qui i regni, e poi le repubbliche, in cui la forza cede al diritto e l’autorità si coniuga con la libertà.
E tuttavia, tale processo di incivilimento non è mai definitivamente compiuto. Anzi, proprio quando si ritiene tale, rischia una brusca regressione in una barbarie ancora più profonda di quella da cui è emerso. Vico mantiene fortissimo il senso della fragilità delle cose umane.
A ciò richiama la presenza della selva sullo sfondo della dipintura: al fatto che la luce del sole non può mai dissolvere del tutto le tenebre dell’origine. Proprio quando la ragione dispiegata pensa di potersi emancipare dagli impulsi del corpo, quando la civiltà si vuole del tutto immunizzare dalle ferite della comunità, rischia di inselvatichirsi di nuovo. È la prima compiuta teorizzazione di quell’eterogenesi dei fini che spesso indirizza il nostro agire lontano dagli esiti che intendevamo conseguire.
Nessun autore moderno - magari più avanti di Vico sul terreno epistemologico - lo sopravanza in questa intuizione di bruciante attualità: la crisi non è una vertigine in cui la storia eccezionalmente precipita, ma una sua possibilità intrinseca. E anzi non di rado attivata proprio dagli strumenti adoperati per evitarla. Solo con tale consapevolezza si può tentare, faticosamente, di superarla.