VICO, “IL DIRITTO UNIVERSALE”,E IL GRANDE ABBAGLIO DEI DOTTI.
Una nota di Federico La Sala
Benché nel 1968, nel terzo centenario della nascita di Vico, ci sia stata una buona “occasione per una lettura attenta di tutta l’opera vichiana, dai primi componimenti poetici alla Scienza Nuova del 1744”(1), e il lavoro sia continuato con grande impegno, a tutt’oggi, ancora non si è pervenuti a una ‘sintesi’ apprezzabile e condivisa (con tutte le ricadute - a tutti i livelli, fino ai manuali di “storia della filosofia”) dell’intero percorso di ricerca e, con esso, del risultato uno-e-trino del capolavoro di Vico: la Scienza Nuova, prima (1725), seconda (1730), e terza (1744).
Generalizzando una considerazione di Giarrizzo, le ragioni più forti del permanere di questa situazione stanno nella “ingiustificata svalutazione del Diritto Universale” (2), e nella rimozione del “principio dello scrivere”, enunciato dallo stesso Vico, nel “Proloquio” del “De Uno Universi Iuris Principio et Uno”:
“Finalmente leggendo un giorno il libro De civitate Dei di S. Agostino, mi occorse un luogo di Varrone (uomo, che per filosofia ed erudizione meritò il nome di dottissimo, e del più dotto de’ Romani) dov’egli dice, che se avesse avuto l’autorità di proporre al popolo romano gl’iddii da adorarsi, lo avrebbe fatto seguitando “la formula della natura”, cioè proponendo un Dio unico, incorporeo, infinito, e non innumerevoli deità figurate sotto forma di idoli.
Illuminata la mia mente da quella lettura, si portò di sbalzo alle seguenti conclusioni: dunque il diritto naturale è la formola, è l’idea del vero, la quale ci dimostra il vero Iddio.
Dunque il vero Iddio, principio della vera religione, è ugualmente principio del vero diritto, e della vera giurisprudenza. E non perciò incomincia, nel primo suo titolo, il Codex constitutionum imperialium, dove la giurisprudenza cristiana ebbe il suo perfetto e solenne compimento, a porsi sotto la consacrazione del De summa Trinitate et fide catholica?
Dunque la vera giurisprudenza è la vera cognizione delle cose divine e umane. La metafisica è quella dottrina che insegna la critica del vero, perché essa insegna la vera cognizione d’Iddio e dell’uomo.
Conchiusi, alla per fine, che non dagli scritti o dai detti dei pagani filosofi debbansi dedurre i principii della giurisdizione, ma della vera e diretta cognizione della natura umana, la quale è originata dal vero Iddio” (3).
Non essendo stata fatta alcuna chiarezza sull’Orizzonte e sull’Ipotesi teologico-politica del programma di ricerca di Vico, il campo dell’interpretazione si è riempito di molti equivoci ed è stato occupato per lo più e costantemente (salvo rarissime eccezioni) dagli opposti fondamentalismi dello schieramento ateo (storicismo idealistico e materialistico) e dello schieramento devoto (storicismo cattolico-romano) di filosofi monastici e solitari, ben addestrati all’esercizio del metodo cartesiano e della logica hegeliana.
Ma senza tener conto delle premesse chiarite da Vico relative alla “occasione dello scrivere” (4), alle “cagioni dello scrivere” (5), al “principio dello scrivere” all’ “argomento del libro”, al “metodo ed ordine seguito”, alle “parti dell’argomento” (6), e alle “definizioni del vero e del certo” (7), come è possibile comprendere il ‘terreno’ su cui si radica il suo programma e da “dove si tenta la nuova scienza” (8), la ‘crisi’ del 1723 e, infine, lo straordinario e immenso lavoro della prima (1725), della seconda (1730), della terza (1744) “Scienza Nuova”, e della sua eccezionale ultima Orazione Inaugurale (“De Mente Heroica”, 1732)?!
Non è forse meglio non ricalcare le orme dell’“ignoto vagante” (9), dichiarare semplicemente - come invita a fare lo stesso Vico - “di non aver capito l’opera” e non andare in giro a diffondere menzogne (10)?!
Nelle “parti dell’argomento”, nel “Proloquio” del “De Uno Universi Iuris Principio et Uno”, Vico così puntualmente precisa:
Nella cognizione delle cose divine ed umane, tre cose saranno da me considerate: l ’ O r i g i n e, i l C i r c o l o (l’espansione progressiva dal centro alla circonferenza), l a C o n s t a n z a, ossia l’intima e stabile coerenza, mostrando:
Per l’origine, come tutte da Dio provengano:
Pel circolo, come nella loro progressiva espansione tutte verso Iddio s’indirizzino:
Per la costanza, come dall’azione continua d’Iddio sieno tutte nelle originarie lor condizioni mantenute e conservate.
E come tralasciando l’idea d’Iddio, l’uomo da perpetui abbagli abbacinato, incappa in continui errori” (11).
Senza la conoscenza e la presa d’atto di tali premesse, come si può pretendere di dire qualcosa di sensato già sul “Diritto Universale” e, poi, sulla “Scienza Nuova” prima, seconda, e terza?! Non è meglio aprire gli occhi e la mente e cercare di capire ciò che Vico scrive (con il tono quasi di un punto esclamativo) alla fine della seconda (1730) e della terza (1744) “Scienza Nuova”: “Insomma, da tutto ciò, che si è in quest’Opera ragionato, è da finalmente conchiudersi; che questa Scienza porta indivisibilmente seco lo Studio della Pietà; e che, se non siesi pio, non si può daddovero esser Saggio”(12)?!
Il risultato a cui Vico perviene è acquisito proprio sulla base della saggia amministrazione razionale (già affinata dalla critica a Cartesio) della sua Ipotesi (venuta alla luce e formulata con chiarezza - come egli stesso scrive - sotto la spinta dalla lettura del “De civitate Dei”) e delle sue Premesse, unita alla formidabile lucidità metodologico-scientifica della sua “mente eroica”, strutturalmente connessa alla “scoperta fondamentale” del grande abbaglio di tutta la tradizione teologico-filosofica e politica - vale a dire, in questo caso (nel “Diritto Universale”), l’errore di Grozio: il “non aver avvertito quella processualità storica che si dispone tra lo jus naturale prius e lo jus naturale philosophicum” (13), nel confondere il “dopo” (posterius) con “il “prima” (prius) sul piano della realtà (storia) e il "prima" con il "dopo" sul piano del pensiero (della rivelazione teo-logica, storiografica) e nello stravolgere tutto.
IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS. Nicola Badaloni, benché sottovaluti il “vichiano recursus ad Deum” (14) e sorvoli filologicamente sulla vichiana prassi della carità (15), è stato uno dei pochi e saggi interpreti a rendersene conto e a muovere i suoi passi nella direzione indicata da Vico. Nella Introduzione al “Diritto Universale”, intitolata “Sul vichiano diritto naturale delle genti”, così scrive:
“Forse con questi chiarimenti è possibile intendere il senso di ciò che (con una certa forzatura polemica) è stato il il tentativo di riportare il pensiero di Vico entro il ‘700 ed entro l’illuminismo. Non di giusnaturalismo si tratta e neppure di quel tipo di giusnaturalismo che teorizza i termini del consenso a partire dal contratto. Si tratta invece dell’avvertimento di un processo che, prendendo le mosse da comportamenti che sembrano identificarsi con determinazioni naturali (necessitas, utilitas, ferinitas), conduce invece, attraverso la communitas dei linguaggi, delle religioni, delle leggi, ad un modo sociale di riferirsi a valori, che rinvia a un dispiegarsi di una comune razionalità. Vi è in ciò una forte presenza di temi cosmopolitici di matrice cattolica; tuttavia anche essi assumono valore in rapporto alle questioni di diritto internazione, ed in generale di razionalizzazione del diritto, poste da Grozio. (...) in Vico la religione è sì confermata dal progressivo affermarsi della communitas, e dei valori ed idee cui essa fa riferimento, ma anche profondamente trasformata in modo da creare una conformità tra modi di vita sociale ed idealità, che, essendo spontanea e quindi relativamente al di fuori della costrizione statale, influisce sul processo sociale che è in svolgimento e sullo stesso sviluppo delle forme politiche.
La razionalità vichiana è con ciò non il sovrapporsi di una dimensione artificiale a quella naturale, ma piuttosto l’esplicitarsi di questa, in quanto determina un’equazione tra lo sviluppo della razionalità e quello delle forme di convivenza sociale. (...) Costruendo una sua metafisica, difendendo entro di essa la funzione duplice della violenza (radice della storia ed in via di progressiva elisione), Vico tiene a ricordare che la genesi della società non è quella della razionalità del contratto. Lo sviluppo della storia mostra un elidersi violenza, ma anche una resistenza a tale riduzione. Di qui viene affacciandosi l’idea che il ritmo della ragione si svolga in concomitanza col modificarsi di quelle necessità ed utilità che si impongono agli uomini nelle loro relazioni sociali”.
E così conclude: “Dovunque si voglia individuare la fondazione teorica di questa idea per cui il modello del contratto è esso stesso un risultato storico, si tratta di un’idea feconda, una di quelle idee che sono andate anche al di là dell’illuminismo ed hanno aperto la strada alla moderna scienza della società” (16).
Detto diversamente, e a partire proprio dall’Orizzonte del “Diritto Universale” e oltre il pur prezioso lavoro storiografico già fatto, si tratta di rileggere Vico, ancora e di nuovo: dal suo lavoro ciò che emerge è una luminosissima costellazione, che modifica tutto il ‘panorama’ dell’intera cultura occidentale, e svela un inedito possibile orizzonte, al di là della contrapposizione della storia sacra e profana, rivelata e ragionata, e al di là dello “stato di minorità” - senza cadute in uno stato di super-io-rità! (Federico La Sala)
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
STORICISMO ASSOLUTO E STORIOGRAFIA FILOSOFICA....
VICO, LA TAVOLA DI CEBETE, CROCE E SFAFTESBURY. Due note su "la filosofia di G.B. Vico"
Il valore civile della prudenza
di Remo Bodei (Il Sole-24 Ore, Domenica, 25.10.2015)
_***Stefano Zamagni, Prudenza, Il Mulino, Bologna, pagg. 126, e. 12,00
Nel nostro linguaggio comune la prudenza tende oggi a essere confusa con la cautela, mentre per millenni essa è stata la forma più alta di saggezza pratica. Già nel sesto libro dell’Etica nicomachea di Aristotele la prudenza (phronesis) è posta in contrasto con la scienza (episteme). Mentre la prima si riferisce alla capacità di giudicare e valutare, in base a norme, ciò che muta - «ciò che può essere diversamente da quel che è» -, la seconda ha a che fare con l’immutabile, come è nel caso degli enti matematiche o dei movimenti degli astri. La phronesis si serve del regolo lesbio, il metro di piombo usato dai muratori dell’isola di Lesbo, che si adatta all’oggetto da misurare piegandosi ma restando della medesima lunghezza, l’episteme, invece, del “metro di Policleto”, di ferro e indeformabile.
A sua volta, la prudentia romana fonda la iuris-prudentia, basata sui codici, norme formalizzate che si adattano però, in maniera non arbitraria, al variare delle situazioni da interpretare, così da modificarsi e arricchirsi a contatto con le situazioni concrete.
È all’inizio dell’età moderna che l’idea di prudenza subisce una prima curvatura in direzione della cautela. Quando, infatti, la ruota della Fortuna comincia a girare più velocemente e si assiste, secondo Machiavelli, a una «variazione grande delle cose [...] fuora di ogni umana coniettura», allora essa comincia a sembrare una virtù caratteristica della vecchiaia. Nei tempi inquieti, si sostiene, solo i giovani sono in grado di far fronte all’imprevisto. In condizioni normali e pacifiche, infatti, l’«uomo respettivo», ossia prudente e maturo di giudizio e di età, può certo riuscire a governare felicemente le situazioni, ma in epoche travagliate ha più successo l’«impetuoso», il giovane, provvisto di maggiore coraggio e apertura al nuovo e di minore rispetto per il passato e l’esistente.
Il libro di Stefano Zamagni, che appare in una collana opportunamente intitolata “Parole controtempo”, si propone il compito di invertire il discredito moderno della prudenza e di mostrarne, al contrario, il bisogno nella società attuale (governata dall’interesse soggettivo, non bilanciato da una visione ponderata delle relazioni sociali e dal bene comune, e segnato dal privilegiamento dei mezzi e dall’indifferenza dei fini): «la prudenza è pienamente tale quando è virtù civile, quando cioè il suo campo di applicazione è la civitas, la città con le sue istituzioni. Non c’è vita buona in isolamento, fuori dello sguardo dell’altro. Prudente, dunque, è chi eccelle nell’arte di gettare ponti e di costruire relazioni umane, perché è solo nella vita in comune che l’essere umano - animale sociale - può fiorire in pienezza».
Con lucidità e ricchezza d’informazione, il volume ci accompagna nel processo di comprensione di questa dimenticata virtù intellettuale e morale. La prudentia, da providentia, «guardare in avanti, vedere lontano», deliberare prendendo decisioni giuste e valutandone le conseguenze, è quindi strettamente legata alle nozioni di responsabilità e di corretta o attendibile conoscenza della realtà non minata dall’autoinganno. Con l’eccezione degli illuministi italiani (Genovesi, Galiani, Alessandro Verri e Beccaria) e scozzesi (l’Adam Smith della Teoria dei sentimenti morali), i filosofi e gli economisti non hanno, da allora e in maggioranza, tenuto in gran conto la prudenza.
Da economista, Zamagni coglie l’importanza della «svolta della rivoluzione marginalista» degli anni Settanta dell’Ottocento con Jevons, Menger e Walras, nel trasformare - in maniera indiretta, ma radicale - l’idea di prudenza. Ponendo, infatti, l’accento sulla massimizzazione dell’utilità attesa nell’allocazione ottimale delle risorse da parte dell’homo oeconomicus, si perdono di vista sia il bene comune che le relazioni intersoggettive. L’agire umano assume, di conseguenza, una dimensione astorica e si separa dalla virtù in quanto commisurazione di mezzi e fini. Diventa una questione di gusti e una sistematica riduzione dei valori a preferenze individuali. Invece di chiedermi «cosa è bene che io voglia», mi domando invece «cosa devo fare per ottenere ciò che voglio».
Mediante l’inversione tra mezzi e fini, si santifica l’avidità e si accumula ricchezza senza saperla usare e senza neppure goderne a pieno: «Secondo la celebre espressione di Søren Kierkegaard, la porta della felicità si apre verso l’esterno, sicché può essere dischiusa solo andando “fuori di sé”. Il che è proprio quanto l’avido, che manca di prudenza, non sa fare». L’imprenditore che guarda al guadagno, che è timoroso nell’investire sull’innovazione, che non sa tenere insieme «le radici e le ali» rappresenta il simbolo contemporaneo della mancanza di prudenza quale lungimiranza “ben temperata”.
Oggi, tuttavia, si nota un ritorno della prudenza, perché si è compreso che né la vita delle persone, né il funzionamento dell’economia e delle società possono andare avanti secondo criteri in cui siano assenti l’etica e la prudenza, le sole risorse atte a risolvere il conflitto tra interesse privato e interesse collettivo: «Un bel racconto di Chatwin ci indica come fare per favorire lo sviluppo di questa capacità. Uno schiavista bianco riesce a convincere i suoi schiavi neri ad accelerare l’andatura in cambio di denaro. In prossimità della meta, gli schiavi si fermano rifiutandosi di riprendere il cammino. Interrogati per dare spiegazione del loro irragionevole comportamento - all’inizio, infatti, avevano accettato l’offerta - rispondono: “Vogliamo dare tempo alle nostre anime di raggiungerci”. È proprio così: nelle fasi di crisi, cioè di transizione, c’è bisogno di sostare un po’ per consentire al pensiero pensante di raggiungere (almeno) il pensiero calcolante. È questo, in fin dei conti, il grande messaggio della prudenza».
Tutto giusto e condivisibile, anche se il processo per raggiungere tale obiettivo sarà lungo. Come ha detto argutamente Giorgio Ruffolo: «il capitalismo ha i secoli contati»
Che cosa ereditiamo dalla lingua di Cicerone: il primato della parola, la centralità del tempo e la nobiltà dell’agire per il bene comune
Ode civile al latino, padre della politica
di Ivano Dionigi (la Repubblica, 31.10.2015)
Il latino mi ha insegnato che la parola, il “verbum”, è materia prima: come la pietra, il carbone, il ferro; alla parola tutto è possibile, ammoniva Gorgia: “spegnere la paura, eliminare la sofferenza, alimentare la gioia, accrescere la compassione”. La parola “educa”, “affascina”, “convince”: i tre compiti che le affida la retorica classica. Lingua in apparenza familiare, il latino è caratterizzato da parole cariche di una pluralità di sensi, come al centro di un campo magnetico: chi saprebbe tradurre con una parola sola voci come otium, dignitas, pietas?
Lingua duttile ma severa, impegnativa e impegnata, che determina le sorti della politica, della res publica : quando si affermano “i più bravi parlatori”, i comunicatori da quattro soldi, i demagoghi, allora è la rovina. Ce lo insegna Cicerone: «Quando vedo la crisi della nostra repubblica, constato che non piccola è la parte di rovina procurata dagli uomini più bravi a usare le parole (disertissimi homines)».
Il disertus, l’abile parlatore, contrapposto all’ eloquens, “colui che parla bene, per bene, in modo etico”, distinto dal loquens, “colui che parla”: tutta la differenza - non solo linguistica ma anche etica e politica - sta in quel fonema e - che perfeziona e nobilita l’azione del parlare. Come vedere il grande nel piccolo: anche questo è un dono del latino.
Noi oggi abbiamo bisogno - non meno dell’ecologia ambientale - di una ecologia linguistica, che ci faccia riscoprire la differenza tra vocaboli e parole portatrici di senso e di verità, alle quali pertanto - al pari delle persone - non si può torcere il collo. Pensiamo alla parola “competere” che nella sua origine di cum-petere non ha nulla di sgomitante, muscolare, darwiniano, bensì significa “dirigersi insieme nella stessa direzione”, “correre insieme verso la stessa meta”. Una delle cause principali della volgarità attuale è l’incuria delle parole; e parlare scorrettamente - diceva Platone - non solo è una cosa brutta in sé, ma fa male anche all’anima. Noi scontiamo una quotidiana Babele linguistica dove le parole-vocabolo smarriscono la loro capacità e identità comunicativa. Abitudine antica, questa, se pensiamo all’atto di accusa di un personaggio dell’ Agricola di Tacito contro la voracità imperialistica dei Romani: «Il depredare, il massacrare e il rapinare con falsi nomi li chiamano “ impero” (imperium), e dove fanno il deserto lo chiamano “pace” (pax)».
Il latino mi ha insegnato la centralità del tempo. A Roma tutto è nel segno del “qui e ora” (hic et nunc) e “nel segno del tempo” (sub specie temporis)”: una temporalità che impronta l’arte nella sua cifra descrittiva, il diritto nella sua genesi ed evoluzione collettiva, la religione nel suo legame con i ritmi delle stagioni e con le tappe della vita, il destino stesso di Roma bipartito tra il prima e il dopo della sua fondazione (ante e post urbem conditam).
Ma è nella lingua che la dimensione del tempo risulta più evidente e convincente: lingua verbale, la latina, perché tutta incentrata sul verbo, «angelo del movimento che dà spinta alla frase», come lo definiva Baudelaire. Lo vediamo nella sintassi: la maledetta consecutio temporum di memoria ginnasiale non è forse la più conclamata applicazione di questa ferrea legge del tempo? D’altra parte, alla frase gerarchica di Cicerone, espressione e riflesso dell’equilibrata età repubblicana in cui i vari ordines si coniugavano in pur difficile convivenza, subentrerà la sententia di Seneca, vale a dire la frase breve, staccata, acuminata, tutta costruita su antitesi e simmetria: segno della frattura che si era creata con la fine della Repubblica.
Questo acuto senso del tempo era connaturato a un popolo che faceva della “tradizione” la propria religione principale: perché, secondo il felice aforisma di Gustav Mahler, «la tradizione è la salvaguardia del fuoco, non l’adorazione delle ceneri». Una civiltà, quella romana, che, grazie a questo culto e a questa forza del servare , rispetterà e assimilerà tutte le altre civiltà conquistate dalle aquile imperiali.
Noi siamo naturaliter storia e memoria, e natura non facit saltus. Chi stacca la spina della storia e della memoria ha una sola alternativa: essere ignorante o suicida.
Il latino mi ha insegnato la nobiltà della politica. La lingua latina manifesta il carattere pragmatico di quel popolo che definiva la rivoluzione con res novae (“avvenimenti inauditi”) e la storia con res gestae (“opere compiute). Tra tutte le espressioni in cui ricorre la frequentissima e latinissima parola res, quella che mi ha dato sempre più a pensare è res publica: “la cosa pubblica, la proprietà comune, il patrimonio di tutti”.
Questa res publica esige come primo valore la virtus, che non significa “virtù”: significa “impegno”; quell’“impegno” che trova il suo esercizio più compiuto nel “governo della città” (gubernatio civitatis).
Roma segna inequivocabilmente il primato della politica sulla vita dell’individuo. L’uomo romano è prima di tutto cittadino, civis; il suo modello è Enea, il quale subordina e sacrifica le esigenze personali, l’amore per Didone, alla vocazione politica, la fondazione di Roma. E questa virtus del civis verrà ricompensata, perché la politica rappresenta l’espressione più nobile dell’uomo. Lo apprendiamo nel ciceroniano Sogno di Scipione , dove si dice che a tutti coloro che avranno esercitato l’arte della politica a favore della patria e del bene comune è assicurato un posto in cielo.
Ma questo latino riguarda solo il filologo classico, o tutti noi?
Il latino non è né un reperto archeologico, né uno status symbol, né un mestiere per pochi sopravvissuti; e neppure una materia; il latino è un problema, in senso etimologico; è una sorta di “pietra di inciampo” che riguarda tutti noi: non solo perché matrice della nostra lingua, non solo perché segno della cultura della nostra Europa che ha ininterrottamente parlato latino fino a tutto l’Ottocento per il tramite della Chiesa, dell’Impero e della Scienza, - ma anche perché strumento e veicolo della trasmissione e dell’eredità del sapere di Atene e Gerusalemme: della sapienza classica e giudaico-cristiana. Come dire: la lingua latina oggi non ci appartiene, ma noi apparteniamo ad essa. De nobis fabula narratur: questo racconto parla di noi.
È la legge che ci rende civili
Nella concezione vichiana il legislatore deve riflettere il retroterra culturale di un popolo, difendere gli interessi comunitari e l’utilità sociale
di Gennaro Sangiuliano (Il Sole Domenica, 14.09.14)
Per Giambattista Vico, la legge, o meglio l’ordinamento giuridico, che presiede uno Stato e un popolo, è il metro capace di misurare l’avanzamento della civiltà umana. Lo dimostra chiaramente nella sua opera fondamentale La Scienza Nuova laddove ripercorre gli snodi di alcune legislazioni fondamentali dell’antichità attraverso le quali è possibile operare una hermeneutica historiae. La Legge Publilia, ad esempio, «un punto massimo d’istoria romana» segnò il passaggio dalla repubblica aristocratica a quella popolare.
Laureato in legge, profondo conoscitore dei giuristi francesi e olandesi, con una breve esperienza nell’avvocatura, Vico, indaga a fondo sul rapporto fra legge e cultura, perché la legislazione non è altro che l’organizzazione normativa di una comunità e ne riflette il sentire comune, il retroterra culturale. Tema decisivo, non privo di implicazioni delicate se si pensa ai pericoli di una cultura egemone che vuole imporre i suoi postulati attraverso la legge.
Argomento rimasto intatto nel suo valore del quale si occupano i Saggi scelti - Giambattista Vico a Vatolla (Edizioni Palazzo Vargas, pagg. 144, € 10,00) curati e introdotti da Gianpiero Paolo Cirillo che affronta il rapporto fra politica, governo e amministrazione nella formazione dello Stato moderno. Il tema del delicato rapporto fra cultura e diritto, e quindi delle relazioni fra diritto e filosofia, trova in Vico una soluzione che influenzerà a lungo tutto il pensiero a lui successivo.
L’originalità è nell’aver affermato la storicità del diritto, nell’inquadrare il fatto come accadimento storico che diventa fatto normativo. Gli istituti giuridici devono corrispondere agli interessi comunitari che li hanno espressi e mantenere l’utilità sociale.
Il giurista nella concezione di Vico deve elaborare una dimensione assiologica tenendo presente il trascendentale storico di una comunità, individuare «l’intelligenza dei valori» di un popolo, impostazione poi rimarcata da Giovanni Gentile nei suoi studi vichiani. «Quando il giurista si accosta al tema della cultura, lo fa con una sorta di complesso di inferiorità, che forse gli deriva dalla consapevolezza che, anche nell’ipotesi in cui egli crei una teoria giuridica del tutto nuova e appagante, non ci si trovi di fronte ad un atto creativo in senso proprio», avverte Cirillo, che chiarisce come il «rapporto tra il giurista e l’uomo di cultura è un rapporto servente». Ma il giurista può essere esso stesso persona colta capace di ricercare quel «senso comune delle Nazioni», la «primitiva sapienza dei popoli», elementi che Vico ritiene punto di partenza dell’attività del legislatore e di quella interpretativa. Nell’opera De uno universi juris principio et fine uno ricorda, quindi, come la conoscenza della storia sia fondamentale per la produzione della legge.
Del resto, la Scienza Nuova è "nuova" perché apre al riconoscimento della storia delle idee, dei costumi e degli usi dei popoli puntando ad armonizzare senso e ragione. Il sorgere della legge, disegnato dal diritto dei filosofi, è il rinvenimento di questo ordine che ha tratti metafisici capaci di coniugarsi con la verità del fatto.
L’attualità di Vico è anche nella determinazione del delicato rapporto fra ordinamenti nazionali e organismi sovranazionali diventati, in alcuni casi invadenti. «Il problema da affrontare oggi - scrive Cirillo - è quello di individuare degli strumenti con cui i governi e le burocrazie interne possano fronteggiare lo strapotere che le comunità internazionali esercitano attraverso la tecnicizzazione delle norme».
In una lettera scritta nel 1787 da Napoli Wolfgang Goethe definì Giambattista Vico l’Altvater della sapienza, intuendo il debito che la cultura germanica avrebbe contratto con la filosofia vichiana.
Prima ancora che un grande filosofo, l’autore della Scienza Nuova fu un giurista a tutto tondo, un teorico del diritto che rifiuta una legge universale ed astratta in nome di una legge profondamente ancorata alla cultura di un popolo.
"Manifesto
Per un’Europa di progresso”
Il mondo è in rapida trasformazione. Società ed economia della conoscenza hanno profondamente ridisegnato equilibri ritenuti consolidati. Aree geografiche depresse hanno conquistato, in tempi storicamente irrisori, potenziali enormi di sviluppo e crescita. Conoscenza, cultura e innovazione rappresentano più che mai il traino decisivo verso il futuro.
All’opposto l’Occidente, e alcuni aspetti del suo modello di sviluppo, sono entrati in una crisi profonda. L’Europa, in particolare, risulta investita da gravissimi e apparentemente irresolubili problemi: disoccupazione, crisi del tessuto produttivo, riduzione sostanziale del welfare. A pochi anni dalla sua formale consacrazione, con la nascita ufficiale della moneta comune, l’Europa rischia di deflagrare come sogno di una comunità di cittadine e cittadini che avevano ambito ad una nuova Nazione comune: più ampia non solo geograficamente, quanto nello spazio dei diritti, dei valori e delle opportunità. Lo storico americano Walter Laqueur ha parlato della “fine del sogno europeo”.
Le responsabilità sono diverse e distribuite e investono certamente l’eccessiva timidezza nel processo di costituzione politica del soggetto europeo: la responsabilità di presentare questo orizzonte politico, culturale e sociale con le sole fattezze della severità dei “conti in ordine”. L’Europa dei mercanti e dei banchieri, della restrizione e del rigore: una sorta di gendarme che impone limiti spesso insensati, piuttosto che sostegno nell’ampliare prospettive di visuale sugli sviluppi del futuro.
Proprio a causa di ciò, assistiamo, in corrispondenza della crisi, ad un’impressionante crescita di egoismi locali, di particolarismi e di veri e propri nazionalismi.
Fenomeni spesso intenzionalmente organizzati per sfruttare malesseri veri, e reali stati di sofferenza, ma che rischiano di produrre reazioni esattamente opposte a quanto oggi servirebbe alle popolazioni d’Europa.
Come scienziate e scienziati di questo continente - consapevoli che esiste un nesso inscindibile tra scienza e democrazia - sentiamo quindi la necessità di metterci in gioco. Di ribadire che il processo di costruzione degli Stati Uniti d’Europa è la più importante opportunità che ci è concessa dalla Storia. Che società ed economia della conoscenza - essenziali per il processo di reale evoluzione civile, pacifica, economica e culturale - si alimentano di comunità coese e collaborative, di comunicazioni intense e produttive e di uno spirito critico che permei strati sempre più vasti della società.
L’unica risposta possibile alla crisi incombente è allora la costruzione dell’Europa dei popoli, di un’Europa di Progresso! Realizzata sulla base dei principi di libertà, democrazia, conoscenza e solidarietà.
Nutriamo la stessa speranza con cui Albert Einstein e Georg Friedrich Nicolai nel “Manifesto agli Europei” del 1914 richiamarono alla ragione i popoli europei contro la sventura della guerra, e con cui Altiero Spinelli, Eugenio Colorni ed Ernesto Rossi ispirarono l’idea d’Europa nel loro “Manifesto di Ventotene” del 1943. Le stesse idee che ebbero indipendentemente fautori illustri anche in tutti i Paesi d’Europa.
Vogliamo riprendere ed estendere all’Europa lo spirito che nel 1839 portò gli scienziati italiani a organizzare la loro prima riunione e a inaugurare il Risorgimento di una nazione divisa.
Promotori (*) e Primi firmatari
Ugo AMALDI (CERN, Ginevra)
Giovanni BACHELET (Università di Roma “La Sapienza”)
Giorgio BELLETTINI (Università di Pisa e INFN)
Carlo BERNARDINI (*) (Università di Roma “La Sapienza”)
Sergio BERTOLUCCI (Direttore di ricerca, CERN, Ginevra)
Vittorio BIDOLI (INFN, Roma)
Giovanni BIGNAMI (Presidente Istituto Nazionale di AstroFisica - INAF)
Marcello BUIATTI (Università di Firenze)
Cristiano CASTELFRANCHI (Università Luiss, Uninettuno e ISTC-CNR)
Vincenzo CAVASINNI (*) (Università di Pisa e INFN)
Remo CESERANI (Università di Bologna e Stanford University, CA)
Emilia CHIANCONE (Presidente Accademia dei Quaranta)
Paolo DARIO (Scuola Superiore Sant’Anna, Pisa)
Tullio DE MAURO (Università di Roma “La Sapienza”)
Luigi DI LELLA (CERN, Ginevra)
Rino FALCONE (*) (CNR Roma, Direttore Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione)
Stefano FANTONI (Presidente Agenzia Nazionale Valutazione Università e Ricerca)
Sergio FERRARI (già vice direttore ENEA)
Ferdinando FERRONI (Presidente Istituto Nazionale di Fisica Nucleare - INFN)
Fabiola GIANOTTI (CERN, Ginevra)
Mariano GIAQUINTA (Scuola Normale Superiore, Pisa)
Pietro GRECO (*)(Giornalista e scrittore, Roma)
Angelo GUERRAGGIO (Università Bocconi)
Fiorella KOSTORIS (Agenzia Nazionale Valutazione Università e Ricerca)
Francesco LENCI (*) (CNR Pisa e Pugwash Conferences for Science and World Affairs)
Giorgio LETTA (Vice Presidente Accademia dei Quaranta)
Lucio LUZZATTO (Istituto Toscano Tumori)
Tommaso MACCACARO (INAF)
Lamberto MAFFEI (Presidente Accademia dei Lincei)
Italo MANNELLI (Scuola Normale Superiore, Pisa e accademico dei Lincei)
Giovanni MARCHESINI (Università degli studi di Padova)
Ignazio MARINO (Thomas Jefferson University, Sindaco di Roma)
Annibale MOTTANA (Università di Roma 3 e accademico dei Lincei)
Paolo NANNIPIERI (*) (Università di Firenze)
Pietro NASTASI (*) (Università di Palermo)
Luigi NICOLAIS (Presidente Consiglio Nazionale delle Ricerche - CNR)
Giorgio PARISI (Università di Roma “La Sapienza”, accademico dei Lincei)
Maurizio PERSICO (Università di Pisa)
Giulio PERUZZI(*) (Università degli studi di Padova)
Caterina PETRILLO (Università degli studi di Perugia)
Pascal PLAZA (CNRS e Ecole Normale Supérieure, Paris)
Claudio PUCCIANI (*) (Vice Presidente Associazione Caffè della Scienza - Livorno)
Michael PUTSCH (CNR Genova, Direttore Istituto di Biofisica)
Carlo Alberto REDI (Università di Pavia)
Giorgio SALVINI (Università di Roma “La Sapienza”, già Presidente dell’Accademia dei Lincei)
Vittorio SILVESTRINI (Presidente della Fondazione IDIS - Città della Scienza, Napoli)
Settimo TERMINI (*) (Università di Palermo)
Glauco TOCCHINI-VALENTINI (National Academy of Sciences, CNR-EMMA-Infrafrontier-IMPC, Monte Rotondo, Roma)
Guido TONELLI (CERN, Ginevra e Università di Pisa)
Enric TRILLAS (Emeritus Researcher European Centre for Soft Computing, già Presidente CSIC, Spagna)
Fiorenzo UGOLINI (Università di Firenze)
Nicla VASSALLO (Università di Genova)
Virginia VOLTERRA (Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione - CNR)
Elena VOLTERRANI (*) (Provincia di Pisa e INFN)
John WALSH (INFN)
Platone l’africano. E australiano, anche
Whitehead disse: «La filosofia è una serie di note vergate in margine a Platone»
Un saggio esamina figure e scuole di pensiero fuori dalla prospettiva europea
E va ben oltre le antiche tradizioni di India e Cina
di Armando Torno (Corriere della Sera,/La Lettura, 06.04.2014)
La filosofia fu la più bella invenzione dei Greci. Alfred North Whitehead, un pensatore che ha lasciato tracce anche in matematica, asserì che essa è una serie di note vergate in margine a Platone. Non aveva torto. Ma, detto questo, è lecito chiedersi: ci sono filosofie nazionali o sistemi nati oltre l’Occidente che hanno sviluppato qualcosa di simile al miracolo greco? In Africa? Nell’Asia, che ha nel suo seno le sapienze di Cina e India?
A questa e a simili domande risponde un libro curato da Virgilio Melchiorre: Filosofie nel mondo (Bompiani). Uno sguardo sulle avventure di pensiero delle «altre» culture che possono dipendere o no dalla nostra. Dalla scuola australiana alle correnti dell’islam contemporaneo, dai sistemi latinoamericani alle istanze ebraiche e giapponesi. Tredici capitoli con dodici profili, giacché il primo, di Ugo Perone, è intitolato Philosophia Occidentalis.
Lo stesso Melchiorre spiega come è stata realizzata l’opera: «Questo volume nasce dall’esigenza di risalire alle fonti delle diverse civiltà. Si è pensato di raccogliere a confronto alcune voci presenti nella recente Enciclopedia filosofica, curata per le edizioni Bompiani dal Centro studi filosofici di Gallarate... Le abbiamo aggiornate, ove occorreva, e le abbiamo integrate con voci nuove».
Il libro si riallaccia a una nobile tradizione. Già nel decimo volume della Storia della filosofia diretta da Mario Dal Pra (usciva da Vallardi nell’ottobre 1978; parte che verrà poi ripensata in tre tomi editi da Piccin) vi erano due capitoli di Gianni Paganini dedicati rispettivamente alla filosofia negli «altri Paesi europei» (con Russia sovietica e Jugoslavia) e ai «Paesi minori extraeuropei», tra cui non mancavano il Canada, il continente africano, l’Australia e così di seguito. All’India e alla Cina erano dedicati i primi due volumi della grande opera, che precedevano le trattazioni sulla Grecia.
Filosofie nel mondo, che offre utili bibliografie aggiornate, comincia con un essenziale profilo dell’Occidente: emergono i due pilastri su cui si regge ancora molta parte del nostro pensiero, ovvero Platone e Aristotele. Soprattutto vengono messe in evidenza alcune tematiche che percorrono epoche e correnti, quasi incuranti delle infinite discussioni causate. Tra esse il tempo, presente in Agostino e ancora motivo d’angoscia in pieno Novecento (Heidegger insegna). Si passa poi all’esame delle scuole: la prima è l’australiana, che ha elaborato una significativa filosofia analitica e una discreta logica, tanto che Franca D’Agostini, autrice della parte, parla di uno «stile australiano». Una figura di riferimento, tra le diverse possibili, indicata per la logica è Richard Routley.
Segue la filosofia russa. Sostanzialmente il vero esame è dal XVIII secolo, epoca in cui nell’immenso territorio degli zar ci si rivolse al pensiero europeo, a cominciare da figure quali Aleksandr N. Radišcev, autore del libro Viaggio da Pietroburgo a Mosca (1790) che costò all’autore la condanna a morte da parte di Caterina II. I periodi precedenti invece risentono, o si confondono, con l’eredità di Bisanzio; e l’inventario passa più per la teologia che per le costruzioni logico-concettuali. L’autrice Chiara Cantelli, oltre le correnti e le scuole ottocentesche e sovietiche, oltre slavofili e occidentalisti, evidenzia figure quali Florenskij o Dostoevskij; anzi, quest’ultimo con i suoi romanzi costituirà «un essenziale punto di riferimento nella discussione filosofica del Novecento europeo» e creerà le basi nel contesto russo «per accogliere Nietzsche».
Un breve profilo - i caratteri generali sono esposti da Alberto Ventura e Carmela Baffioni - della filosofia islamica (ricchissima nel Medioevo, giacché ha riportato molto di Aristotele in Occidente e ha avuto sommi maestri come Avicenna e Averroè) lascia spazio a una parte contemporanea, trattata da Massimo Campanini e Stefano Minetti.
Figure sorprendenti, anche di femministe: tra esse la conservatrice Zaynab al-Ghazali, la quale «pur rivendicando alle donne il diritto alla rappresentanza e all’attività politica attiva e passiva, ha voluto custodire il ruolo prevalente di moglie e di madre».
Della filosofia ebraica la figura centrale resta il medievale rabbino e medico Maimònide; tuttavia una questione posta da Giuseppe Laras, che ha scritto la parte, è quella di interrogarsi sul contributo dei pensatori ebrei a idee e tendenze occidentali. In tal caso protagonisti quali Spinoza o Bergson sono da evidenziare. C’è poi una filosofia ebraica dopo il 1945, in seguito alla Shoah: è un profilo firmato da Massimo Giuliani. Tra le figure portanti della neo-ortodossia contemporanea ricordiamo Joseph B. Soloveitchik.
La filosofia cinese, esplorata da Alfredo Cadonna, non può prescindere da Confucio, il Platone del Celeste Impero. Per giungere nell’ambito contemporaneo si potrebbe segnalare Fang Dongmei, che indica come le tradizionali categorie confuciane siano ancora utilizzate per distinguere il pensiero cinese da quello greco (o europeo).
Per l’America Latina, esaminata da Pio Colonnello, va notato il fatto che solo dopo il 1856 è possibile parlare in questi termini: prima non aveva un nome. Tra i numerosi pensatori che si sono distinti in quel continente, vale la pena ricordare il messicano (molto occidentale) Antonio Caso, scomparso nel 1946; né mancano spagnoli rifugiatisi là con l’avvento del franchismo. Eduardo Nicol elaborò una filosofia in contrasto con gli altri esiliati.
Per l’Africa - la parte è di Lidia Procesi - è posto in evidenza chi ha dato vita a una filosofia autoctona, come Alexis Kagame, morto nel 1981; c’è stato anche chi ha elaborato una sociologia e una teologia (Il Dio che libera ) come il camerunense Jean-Marc Ela, morto nel 2008.
L’India, di Gianluca Magi, è il ventre di una sapienza superiore: oltre le grandi correnti di induismo, buddhismo, jainismo, si potrebbe giungere al mondo contemporaneo per ricordare Ramana Maharshi, morto nel 1950, pensatore caratterizzato da «una rigorosa forma di astinenza interiore ed esteriore per giungere alla realizzazione della propria identità col divino». Un grande induista del nostro tempo.
C’è infine - ne scrive Giuseppe Jiso Forzani - la filosofia del Giappone, che rampolla da una spiritualità arcaica e che ha nel principe Shotoku Taishi (574-622) con la Costituzione di diciassette articoli un riferimento etico ed esistenziale. Del tempo moderno ricordiamo Nishi Amane, che nel 1862 preparò le prime conferenze sul pensiero occidentale; quindi la scuola di Kyoto (di Brian Shudo Schroeder), che trattò il nulla assoluto e la Grande Morte. Il punto di partenza è Nishida Kitaro, lo sviluppo vide Hajime Tanabe e Keiji Nishitani. Ma qui si torna al linguaggio dell’Occidente. Proprio Nishitani intende la Grande Morte come un progettarsi in cui si passa attraverso la nullità e si «rinasce» con il morire. O meglio è «il ritorno del sé a se stesso nel suo modo di essere originario». Heidegger insegna ancora.