Il testo, qui ripreso, senza le note, è il proseguimento di un lavoro su Vico: vedi (nel sito) IL PROBLEMA GIAMBATTISTA VICO. CROCE IN INGHILTERRA E SHAFTESBURY IN ITALIA. La punta di un iceberg.
PREMESSA. Il 14 febbraio 1929, Pio XI, per ringraziare pubblicamente Mussolini dopo la firma del Concordato e dei Patti Lateranensi, così pontifica felicemente:
TRONO E ALTARE. Nel 1911, nella prima appendice (un testo del 1909) al lavoro su “La filosofia di G. B. Vico”, Croce così scrive: “Alla trasfigurazione rettorico-leggendaria, che negli inizi e nel fervore del Risorgimento nazionale si compì dei poeti, dei filosofi, di quasi tutti gli uomini più o meno rappresentativi della storia italiana, atteggiandoli come patrioti, liberali, ribelli, o almeno frementi, contro il trono e l’altare, si tentò per un momento di sottomettere anche, con lieve tocco di bacchetta magica, Giambattista Vico. (...) questa leggenda, che corse soprattutto tra i patrioti napoletani dei primi dell’Ottocento, non poté reggere a lungo, nonché alla critica, al lume del buon senso”(2).
Nel 1946, nella postilla aggiunta alla quarta edizione, egli ritorna sul tema e così precisa: -***“dapprima anch’io (...) definii cotesta una “leggenda”, senza tener conto che quella tradizione, trasmessa oralmente agli studiosi napoletani del settecento, risaliva a uno scolaro del Vico, che non era uomo di poca autorità, Antonio Genovesi, e, inesatta che fosse, nei particolari, doveva pur contenere un nòcciolo di verità. Di quel che accadesse al Vico nelle sue lunghe pratiche con la censura e col canonico Torno, - feci osservare poi, ritornando sul primo detto, - noi non siamo informati.
Per Croce non ci sono dubbi: Vico è sì un “eroe della vita filosofica”(vale a dire: un “ateo”, uno “storicista”, un metafisico immanentistico moderno) ma è anche un cattolico tradizionalissimo “nella vita religiosa, sociale e politica”(4).
Come con Dante, l’abbaglio e la cecità di Croce è grande: incapace di essere pio, mostra di non essere affatto saggio(5) e, al contempo, di non essere affatto giusto nei confronti né del cristiano né del filosofo Giambattista Vico:
La TEORIA DELLA SCIENZA NUOVA. In una stringata sintesi, al di là di ogni decenza storiografica, questo è il “nòcciolo della verità” della filosofia di Giambattista Vico secondo Benedetto Croce, come dalla postilla del 1946):
GLI “ATEISTI” NAPOLETANI. Fausto Nicolini, l’anno dopo - nel 1947, nel recensire il libro di Carlo Cappello, G. B. Vico e il processo contro gli «ateisti» napoletani (1688-92), porta a sostegno ulteriori elementi:
VICO E DANTE. Che al di là di Lucrezio, Vico abbia potuto leggere e far tesoro della lezione di Virgilio e di Dante (9), per Croce, è impensabile; e che Vico, come Dante, potesse portare avanti da cristiano una feroce battaglia anticurialistica è assolutamente inimmaginabile! La denuncia da parte di Vico del “puttanesismo” dello spirito non è senza legame con la denuncia del “puttaneggiar” della Chiesa da parte di Dante (“Di voi pastor s’accorse il Vangelista, /quando colei che siede sopra l’acque /puttaneggiar coi regi a lui fu vista”: Inf. XIX, vv. 106-108)(10)! Per entrambi, senza la bussola "della carità [charitas]” non c’è né società né storia.
IL PROGRAMMA DI VICO: LA "BIBBIA CIVILE" RAGIONATA. Come sia nata l’idea e quale sia il “principio dello scrivere” della “scienza nuova”, Vico lo scrive con molta chiarezza nel “Proloquio” del “De universi iuris principio et fine uno”(1720):
“Nova scientia tentatur”: questo è l’orizzonte da cui nasce e da “dove si tenta la nuova scienza” (12), non altro!
FEDERICO LA SALA
Sul tema, oggi, nel sito, si cfr.:
VIVA L’ITALIA!!! LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico.
FLS
Storia della filosofia
È scomparso all’età di 82 anni Paolo Cristofolini
Storico della Filosofia, grande studioso del pensiero di Cartesio e Spinoza
di RAI cultura
Il 20 maggio 2020 e’ scomparso a Pisa Paolo Cristofolini, storico della filosofia e professore di Storia della filosofia alla Scuola Normale Superiore di Pisa.
Nato ad Arezzo nel 1937, nel 1956 aveva vinto il concorso di allievo della Classe di Filosofia presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, dove si laurea discutendo una tesi su René Descartes. Dopo il Perfezionamento alla Normale e alla Sorbona, inizia il suo insegnamento presso l’Ateneo pisano di Filosofia della storia. Dal 1982 fino al pensionamento, ha insegnato alla Scuola Normale Superiore presso la cattedra di Storia della filosofia rinascimentale.
Da sempre studioso di grandi filosofi del Seicento come Descartes e Spinoza, aveva concentrato il suo interesse anche sulla tradizione manoscritta dei cosiddetti “ testi filosofici clandestini o edonisti ” del 1700 in Francia e su aspetti del pensiero “ereticale” italiano del XVI secolo, in particolare Giordano Bruno.
Sua l’importantissima edizione critica de "La Scienza Nuova". Ha insegnato presso l’Universita’ di Parigi e fatto parte del Comitato internazionale del "Corpus de philosophie générale et de philosophie des sciences en langue française". È stato presidente dell’ “Associazione italiana degli amici di Spinoza” , fondatore e direttore scientifico di "Historia philosophica", rivista internazionale di storia della filosofia.
Tra i suoi testi piu’ importanti “Spinoza per tutti”, “ Vico pagano e barbaro”, “Spinoza edonista”.
BENEDETTO CROCE, Recensione 1934*:
Il prof. Heidegger non vuole che la filosofia e la scienza siano altro, per i tedeschi, che un affare tedesco, a vantaggio del popolo tedesco. Gli studenti tedeschi, a suo dire, hanno tre «Bindungen», tre obblighi, il primo e fondamentale dei quali è la «Volksgemeinschaft», il nazionalismo. Ma se egli si ripiegasse davvero sulla sua coscienza morale (l’ha ogni uomo e l’avrà anche lui), direbbe piuttosto che il primo obbligo, di studenti e di professori, è il timor Dei, come sta scritto sul frontone della Sapienza di Roma.
Scrittore di generiche sottigliezze, arieggiante a un Proust cattedratico, egli che nei suoi libri non ha dato mai segno di prendere alcun interesse o di avere alcuna conoscenza della storia, dell’etica, della politica, della poesia, dell’arte, della concreta vita spirituale nelle sue varie forme - quale decadenza a fronte dei filosofi, veri filosofi, tedeschi di un tempo, dei Kant, degli Schelling, degli Hegel! -, oggi si sprofonda di colpo nel gorgo del più falso storicismo, in quello, che la storia nega, per il quale il moto deila storia viene rozzamente e materialisticamente concepito come asserzione di etnicismi e di razzismi, come celebrazione delle gesta di lupi e volpi, leoni e sciacalli, assente l’unico e vero attore, l’umanità.
Scrive nel bello stile che ci è già noto dai suoi libri filosofici: «Der Wille zum Wesen der deutschen Universitat ist der Wille zur Wissenschaft als Wille zum geschichtlichen geistigen Auftrag des deutschen Volkes als eines in seinem Staat sich selbst wissende Volkces. Wissenschaft und deutsche. Schicksal mussen zumal in Wesenswillen zur Macht kommen» (p. 7). E così si appresta o si offre a rendere servigi filosofico-politici: che è certamente un modo di prostituire la filosofia, senza con ciò recare nessun sussidio alla soda politica, e, anzi, credo, neppure a quella non soda, che di cotesto ibrido scolasticume non sa che cosa farsi, reggendosi e operando per mezzo di altre forze, che le son proprie.
Ben diverso atteggiamento è quello del teologo Karl Barth, che dice il fatto loro ai «Deutschen Christen», ai tedesco-cristiani, pronti a gridare che la chiesa evangelica deve servire alla fortuna del popolo tedesco e del terzo Impero, a richiedere un capo, una sorta cli papa, che fermamente li governi nella nuova vita cominciata con la primavera del 1933, e ad escludere, per intanto, dal loro seno i cristiani di sangue giudaico o a trattarli come cristiani di second’ordine, e via per simili turpitudini.
«Noi - scrive il Barth - abbiamo l’ufficio di portare al popolo tedesco la parola di Dio; e pecchiamo non solo verso Dio, ma anche verso questo popolo stesso se perseguiamo altri ideali e fini, che non sono cominessi a noi. Nella natura del nostro ufficio è che esso non possa essere subordinato o coordinato ad alcun’altra istanza; e di nuovo peccheremmo verso Dio e verso il nostro popolo, se lasciassirilo scuotere anche solo menomamente quest’ordine gerarchico!».
Il Barth degnamente tutela l’indipendenza della teologia, mentre il prof. Heidegger si è affrettato a far getto di quella della filosofia.
B. C.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
CROCE “CRISTIANO” , VICO “ATEO”, E L’UOMO DELLA PROVVIDENZA.
VENI, CREATOR SPIRITUS: LO SPIRITO DELLA VERITA’. Lo Spirito "costituzionale" di Benedetto Croce, lo spirito cattolico-romano di Giacomo Biffi, e la testimonianza di venti cristiani danesi (ricerca scientifica)
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
Federico La Sala
MITO E STORIA, POLITICA E TEOLOGIA: "LUCIFERO!" E LA STELLA DEL DESTINO. Storiografia in crisi d’identità ... *
Diritto
Nel saggio di Daniele Menozzi (Carocci) la storia di come la Carta regolò i rapporti tra Stato e Chiesa
Nella Costituzione senza esserlo. Il destino ambiguo del Concordato
I tessitori. Dossetti e Togliatti con il liberale Lucifero trovarono la soluzione sancita nell’articolo 7
di Roberto Finzi (Corriere della Sera, 30.03.2018)
Non c’è dubbio che tra i «principi fondamentali» che reggono la nostra Repubblica racchiusi nei primi dodici articoli della Carta del 1948 (cui Carocci dedica una serie diretta da Pietro Costa e Mariuccia Salvati) il più controverso sia stato (in parte continui a essere) l’articolo 7 o meglio, e soprattutto, il primo asserto del suo secondo comma. Se, al di là delle sfumature, ogni forza politica e ogni cittadino, poteva ammettere che «lo Stato e la Chiesa sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani» perplessità e opposizioni nascevano e continuarono dalla affermazione che seguiva: «I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi», firmati, come si sa, da Benito Mussolini e dal cardinale segretario di Stato Pietro Gasparri l’11 febbraio 1929, regnante Achille Ratti, Papa Pio XI. Sanavano la «questione romana» apertasi con la presa di Roma. Con accordi e norme complicate tra cui due particolarmente odiose per un Paese che - dopo un decennio di guerre e la doppia occupazione nazista e alleata - si era scrollato di dosso la dittatura anche attraverso la Resistenza e stava lavorando non solo al ritorno delle civili libertà ma a una democrazia nuova, repubblicana come aveva decretato il voto del 2 giugno 1946.
Si trattava dell’asserto che quella cattolica era la religione «di Stato» e, per la sua pervasività, dell’attribuzione degli effetti civili al matrimonio religioso. Con il paradosso che chi riteneva il matrimonio un sacramento poteva, per le norme del diritto canonico, ottenerne la nullità, riconosciuta poi dallo Stato e chi invece aveva del matrimonio una concezione puramente civile era destinato a essere legato a vita, indissolubilmente, non per diretta conseguenza dei Patti, ma per la coincidenza nella visione della famiglia tra Chiesa e fascismo. Nel quadro per di più di un diritto di famiglia in cui era sancita una netta subordinazione della donna.
Nella sua ricostruzione del formarsi del dettame costituzionale e poi dei suoi effetti nella vita democratica italiana ( Art.7. Costituzione italiana ), Daniele Menozzi non nega le conseguenze negative del permanere di quelle norme specie nel quindicennio successivo alla emanazione della Carta Costituzionale. Ci offre però una chiave di lettura della formazione e del senso della norma più articolata, che affonda le sue radici nella complessità del problema cattolico nella storia dell’Italia unita e soprattutto a quel punto della vicenda del nostro Paese.
La Chiesa, lo dimostreranno le successive elezioni del 18 aprile 1948, aveva ancora un forte ascendente sulla popolazione ed era una Chiesa che, seppure - si vedrà di lì a poco - intimamente percorsa da interne pulsioni verso il nuovo, era ancora fortemente contraria al mondo moderno e alle sue forme politiche. In particolare a quelle di matrice socialista e comunista. Ora, si trattava, in sostanza - spiega Menozzi con precisione e acribia filologica - di attirare, per così dire, la Chiesa verso la accettazione piena di quella democrazia che si andava delineando nel lavoro della Costituente, cedendo in via formale alle sue richieste anche se nell’immediato contraddittorie con quella visione.
Protagonista di questa operazione complicata e sottile fu in primis Giuseppe Dossetti che univa alla sua profonda fede cristiana una visione non ierocratica della Chiesa, la competenza giuridica del canonista di vaglia, cristalline convinzioni democratiche, saldi legami con le altre culture politiche formatisi nella Resistenza. Dossetti trovò una sponda in Palmiro Togliatti, a lungo, e tutt’oggi, accusato di avere, in qualche modo permesso un inquinamento della Costituzione con il riconoscimento nel suo testo dei famigerati Patti Lateranensi.
L’atteggiamento del leader del Pci derivava dal convincimento che nella Repubblica dovessero riconoscersi per davvero tutti gli italiani e pure, dice Menozzi, da considerazioni più immediatamente politiche. Mentre stava costruendo il «partito nuovo» guardava alla possibilità di una adesione al Pci di cattolici. Così temuta dalla Chiesa pacelliana che nel 1949 il Papa scomunicherà i comunisti.
Io aggiungerei due aspetti. Togliatti era ben consapevole di quanto Milovan Gilas nelle sue Conversazioni con Stalin ricorda avergli detto il dittatore sovietico: «Questa guerra (...) è diversa da tutte quelle del passato; chiunque occupa un territorio gli impone anche il suo sistema sociale». E infine la lotta per l’egemonia all’interno della sinistra. In quel campo i socialisti, allora sotto la sigla Psiup, erano ancora, seppure non di molto, maggioritari rispetto al Pci.
Per ben intendere la vicenda al quadro manca un tassello. Decisivo. Si tratta della seconda parte del secondo comma dell’articolo 7 che recita: «Le modificazioni dei Patti (Lateranensi), accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale». In tal modo si eliminava una delle più forti obiezioni all’inserimento dei Patti in Costituzione. Per tale via infatti non venivano «costituzionalizzati» ché la loro modifica poteva avvenire per legge ordinaria. L’artefice di questo accorgimento essenziale fu Roberto Lucifero, liberale e monarchico.
Così l’articolo, nota Menozzi, «appariva formulato con il concorso di tre diverse famiglie politiche: la democristiana, la comunista e la liberale».
La «non costituzionalizzazione» dei Patti - in un modo profondamente cambiato all’interno e soprattutto all’esterno della Chiesa - sarà uno degli elementi che permetterà all’Italia l’adozione formale, prima sul terreno parlamentare e quindi - con i referendum del 1974 e del 1981 - attraverso la conferma popolare di decisive riforme come il divorzio e l’interruzione volontaria di gravidanza. E del nuovo diritto di famiglia.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
MITO E STORIA, POLITICA E TEOLOGIA: "LUCIFERO!" E LA STELLA DEL DESTINO. Storiografia in crisi d’identità ...
LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"!
I. BENITO MUSSOLINI E MARGHERITA SARFATTI - II. ARNALDO MUSSOLINI E MADDALENA SANTORO.
LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico. Una nota (del 2006)
KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI").
Federico La Sala
La politica non è per gli ignoranti
Per Carlo Azeglio Ciampi studiare Filologia classica o guidare la Banca d’Italia “è la stessa cosa”. Serve disciplina intellettuale, rispetto dei documenti e ricerca della verità. Valori e metodi di cui oggi i leader sono purtroppo privi
di Salvatore Settis (Il Fatto, 17.09.2017)
Normalista dal 1937 al 1941, Ciampi si laureò a Pisa in Filologia classica. Suoi maestri furono il grande filologo Giorgio Pasquali e la papirologa Medea Norsa; fra i suoi compagni di corso c’era Scevola Mariotti, altro grande filologo che sarebbe stato suo amico di una vita.
Della Norsa, Ciampi ricordava le sofferenze dovute alle leggi razziali, ma anche la generosità di Gentile, che nel 1939 pubblicò con lo stemma della Normale (di cui era allora direttore) un volume della Norsa che un editore fiorentino aveva bloccato in ultime bozze per ragioni di “razza”.
La tesi di Ciampi era dedicata a Favorino, un retore di lingua greca del II secolo d.C., amico di Plutarco e attivo anche alla corte dell’imperatore Adriano, con cui ebbe però un contrasto finendo poi in esilio. Favorino commentò allora : “È davvero stupido criticare qualcuno che ha al suo servizio trenta legioni”. Il testo a cui è dedicata la tesi di Ciampi è una sorta di auto-consolazione filosofica “sull’esilio”, dove tra l’altro viene affermata un’idea di “patria” non come luogo di nascita, ma d’elezione: per Favorino, nato ad Arles, la vera patria era Roma, con la sua vita culturale multilingue e incomparabile.
Dopo la formazione filologica e malgrado la passione per l’insegnamento, la guerra impresse alla vita di Ciampi tutt’altro corso. Ma l’imprinting filologico della Normale non fu mai dimenticato, e lo mostra un episodio del 6 dicembre 2000, quando, da Presidente, Ciampi venne in Normale in visita ufficiale.
Egli volle allora incontrare i normalisti, e per un’ora si intrattenne a colloquio con essi con grande cordialità, tanto che qualche allievo della Scuola si prese qualche confidenza forse eccessiva, a cui Ciampi reagiva divertito. Un normalista chiese al Presidente : “Ma come mai Lei, che ha studiato filologia classica, è poi passato alla Banca d’Italia?”. Ciampi, fattosi serio senza perdere il tono affabile di quella conversazione, rispose: “È la stessa cosa. Studiando filologia classica in Normale ho imparato una disciplina intellettuale, il rispetto dei documenti e la ricerca della verità: principî che mi hanno accompagnato alla Banca d’Italia, a Palazzo Chigi, al Quirinale”.
Ma che cosa intendeva Ciampi con quelle parole, che non erano una gratuita battuta, ma una professione di fede? Io credo che con quel suo “È la stessa cosa” Ciampi intendesse due valori diversi ma convergenti: la pienezza dell’impegno civile e la centralità della competenza specifica. Virtù, quando ci sono, ugualmente importanti per un filologo classico, per un Governatore della Banca d’Italia e per un Presidente del Consiglio o della Repubblica. La Normale, Ciampi lo ripeteva spesso, è scuola di vita anche perché il suo carattere competitivo impone ritmi di lavoro inconsueti, innescando abitudini fondate sull’intensità e la densità del lavoro, sulla serietà dell’impegno personale, su un’applicazione profonda ed esclusiva ai problemi che di volta in volta si studiano. Dal lavoro solitario del normalista in biblioteca al senso di responsabilità del cittadino che si mette al servizio della comunità, Ciampi vedeva una continuità necessaria, una comune esigenza morale.
Non meno importante era stata, nel contesto degli anni Trenta, l’orgogliosa rivendicazione che la filologia debba avere piena cittadinanza non solo come mera tecnica di costituzione dei testi, ma come strumento di interpretazione storica. Quando Pasquali aveva scritto sulla Nuova Antologia del 1931 un articolo sulla Paleografia quale scienza dello spirito, stava reagendo alla concezione crociana della filologia come “utile e servizievole”, ma “senza splendori”, poiché “la filologia non è la critica e non è la storia”, discipline che esigono, scrive Croce, “robustezza di coordinato pensiero”.
Riassumendo anni dopo i termini di quella polemica, un altro grande maestro della Normale, Augusto Campana, definiva la paleografia, e con essa la filologia, come discipline “non semplicemente classificatorie, descrittive, meccaniche”, ma “miranti alla visione e ricostruzione di uno sviluppo storico, specchio e fattore della cultura in organica connessione con ogni altra componente di essa”: una forma di conoscenza piena e non ancillare.
La filologia come strumento e strategia per accostarsi non solo ai testi, ma ai problemi; non solo alla storia, ma alla realtà amministrativa e politica; non solo al passato, ma al presente. Questa concezione di Ciampi dava continuità alla sua vita di studio e di lavoro; era un’etica della competenza della quale sentiamo oggi più che mai il bisogno. L’idea che anche per chi fa politica e ha responsabilità di governo sia necessaria la minuta conoscenza dei fatti, la precisione delle informazioni, l’accuratezza nel comunicare ai cittadini quel che si sta facendo o quel che occorrerebbe fare: virtù che troppo spesso appaiono tramontate (speriamo non per sempre).
Ci è toccato invece assistere, in questi anni, al trionfo dell’incompetenza, alla sagra delle chiacchiere. Non farò alcun nome ma citerò un solo episodio, per il suo valore esemplare: qualcuno, che ricopriva un’altissima carica di governo, pur essendo laureato in giurisprudenza scambiò impunemente un ordine del giorno in Costituente (l’odg Perassi, 4 settembre 1946) per una norma transitoria (inesistente) della Costituzione, e come tale la citò ripetutamente in pubbliche argomentazioni politiche, e a proposito di una proposta di riforma costituzionale.
Altri esempi, credo, non occorrono: tutti siamo bersagli e vittime di un imperversante storytelling, secondo cui la verità dei fatti è irrilevante, e quel che importa non è se un’affermazione sia vera o falsa, ma quale beneficio apporta a chi la fa. Perciò ci tocca subire litanie di statistiche inventate o truccate senza alcuno scrupolo, e sentirle cambiare, o meglio improvvisare, da un giorno all’altro a seconda di scadenze elettorali o altre contingenze, e senza alcun rispetto per la verità; ci tocca vedere al tempo stesso la mortificazione di chi è competente, ma costretto a emigrare per mancanza di lavoro, e il trionfo arrogante di chi, pur senza sufficienti competenze specifiche, occupa posizioni di rilievo nelle pubbliche amministrazioni.
Ci tocca, e davvero vien da chiedersi quousque tandem?, vedere sulla scena politica schieramenti basati sulle appartenenze e sulle convenienze, e non sull’analisi dei problemi e sulla competenza professionale; e in nome di meri giochi di potere abbiamo visto e vediamo sbriciolarsi i dati di fatto, sparire all’orizzonte la precisione e l’attendibilità delle analisi, svanire nel nulla il pubblico interesse.
Il fermo richiamo di Ciampi alla filologia (cioè alla competenza) nell’esercizio della politica è qualcosa di cui l’Italia non ha mai avuto tanto bisogno come oggi. Se vogliamo ricordarlo senza cadere in tentazioni agiografiche, è a questa sua lezione morale che dobbiamo con altrettanta fermezza richiamarci, ripetendo senza sosta che la politica ha davvero bisogno di competenza, ha bisogno di filologia. Ne ha bisogno, oggi, più che mai.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
FILOSOFIA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO
MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI?! POCO CORAGGIOSI A SERVIRSI DELLA PROPRIA INTELLIGENZA E A PENSARE BENE "DIO", "IO" E "L’ITALIA", CHI PIU’ CHI MENO, TUTTI VIVONO DENTRO LA PIU’ GRANDE BOLLA SPECULATIVA DELLA STORIA FILOSOFICA E POLITICA ITALIANA, NEL REGNO DI "FORZA ITALIA"!!! Un’inchiesta e una mappa
Federico La Sala
CROCE “CRISTIANO” , VICO “ATEO”, E L’UOMO DELLA PROVVIDENZA... *
di Giorgio Pecorini (il manifesto, 25 agosto 2012)
La pagina conclusiva dei «Coni d’ombra» in cui Marco D’Eramo (il manifesto del 18 agosto) ha perpetrato quel «crimine di lesa crocianità» di cui molto si è doluto Massimo Raffaeli (21 agosto), inviata a farsi. Non m’avventuro certo in astrattezze filosofiche o esegesi storiche: conto soltanto sulle capacità osservatorie del mio mestiere di cronista. Incoraggiato e aiutato questa volta dalle osservazioni di Norberto Bobbio sul «giustificazionismo intrinseco» ricordate dallo stesso D’Eramo nella sua replica (sempre il 21). E torno, recidivo, al famoso Perché non possiamo non dirci cristiani pubblicato da Benedetto Croce su La Critica del 20 novembre 1942 e due anni dopo ristampato in fascicolo, sempre nel pieno delle seconda guerra mondiale.
In quel suo saggio il filosofo si dichiara impegnato a scrivere con libero spirito laico «né per gradire né per sgradire agli uomini delle chiese». Rivendica come «legittimo e necessario» l’uso di quel nome anche da parte di chi non appartiene ad alcuna chiesa. Vuole «unicamente affermare, con l’appello alla storia, che noi non possiamo non riconoscerci e non dirci cristiani e che questa denominazione è semplice osservanza della verità. (...) Il cristianesimo è stato la più grande rivoluzione che l’umanità abbia mai compiuta, così comprensiva e profonda, così feconda di conseguenze, così inaspettata e irresistibile nel suo attuarsi, che non meraviglia che sia apparso e ancora possa apparire un miracolo, una rivelazione dall’alto, un diretto intervento di Dio nelle cose umane, che da lui hanno ricevuto legge e indirizzo affatto nuovo».
Il trionfo del genocidio
Ma se davvero non possiamo non dirci cristiani, allora non possiamo neppure non tenerci corresponsabili di una serie di errori e crimini del cristianesimo. Misurandoli col proprio metro razionale laico, il filosofo liberale assolve la «chiesa cristiana cattolica per la corrutela che dentro di sé lasciò penetrare e spesso in modo assai grave allargare», dato che «ogni istituto reca in sé il pericolo della corrutela». E anzi la elogia per aver animato «alla difesa contro l’Islam, minaccioso alla civiltà europea». Le riconosce infine il merito, «continuando nell’opera sua», di aver riportato «i trionfi migliori nelle terre di recente scoperte del Nuovo mondo». Il fatto che quel «trionfo» sia consistito in un genocidio cristianissimo distruttore assieme alla vita della cultura e della dignità di un intero popolo è soltanto uno fra i tanti accidenti del generale processo storico con le sue crisi, e amen. Se poi gli abitatori originarii di quel Nuovo mondo non hanno gioito di quel «trionfo», non se ne sono almeno contentati se non addirittura rallegrati fra una tappa e l’altra di un genocidio cristianissimo che la loro cultura non s’è limitato a minacciarla: l’ha distrutta, assieme alla loro storia e alla loro stessa identità, dipende dalla loro mancante sensibilità eurocentrica e occidentalocentrica, che li autorizza, unici, a non dirsi cristiani. Il «famigerato giustificazionismo intrinseco» all’analisi crociana denunciato da Bobbio, appunto.
Perché non possiamo non dirci cristiani è uno smilzo opuscoletto di appena una ventina di pagine ma dense di analisi e di riferimenti a meditazioni e conclusioni precedenti dell’autore. Tanto dense che molti credenti anziché leggerle si contentano del titolo, per sbatterlo in faccia ai miscredenti: se persino un grande filosofo e critico liberale e ateo come Croce dice così.
Avessero la pazienza di leggerlo, ci andrebbero più cauti nel prenderlo e cercar di imporlo come assoluzione laica dei dogmatismi religiosi. Riconosciuta la «nuova qualità spirituale» di quella rivoluzione, cioè l’aver agito «nel centro dell’anima, nella coscienza morale» dell’uomo, Croce sùbito la ridimensiona: «non fu un miracolo che irruppe nel corso della storia e vi si inserì come forza trascendente e straniera (...) fu un processo storico, che sta nel generale processo storico come la più solenne delle sue crisi».
Il saggio di Croce è del 1942, conviene ripeterlo: nel pieno della seconda guerra mondiale. Mezzo secolo giusto dopo, 1992, chiusa anche la guerra fredda, nel cinquecentenario della presunta scoperta dell’America da parte dell’Europa e dell’inizio del genocidio delle popolazioni americane indigene da parte degli europei in nome della civiltà e del Vangelo, il Nobel per la pace viene assegnato a una donna guatemalteca di 33 anni, discendente dei rari scampati ai massacri: Rigoberta Menchù.
La scelta della giuria del premio sembra ad alcuni un contentino fra il paternalistico e il demagogico al risentimento degli amerindi e dei loro pochi sostenitori bianchi per l’enfasi e la retorica con cui l’Occidente andava celebrando l’impresa di Cristoforo Colombo. Alcuni altri si indignano: per gente di mondo smaliziata, ricca di esperienza e di efficienza pragmatica, è una scelta che suona resa e bestemmia: «Per compiacere la pseudocultura dell’ultimo anticolonialismo abbiamo messo la sordina a una delle più straordinarie vicende della storia europea. È assurdo che il papa, a Santo Domingo, si sia scusato pubblicamente come un qualsiasi uomo politico giapponese; ed è ridicolo che i discorsi commemorativi abbiano fatto ipocrite concessioni agli umori dominanti del terzomondismo pacifista. Ma che i giurati di Oslo abbiano scelto il cinquecentesimo anniversario di una grande epopea occidentale per dare l’insufficienza a Cristoforo Colombo ci pare francamente risibile». Firmato: Sergio Romano, ex ambasciatore della Repubblica italiana presso alcune fra le maggiori capitali del mondo, da molti anni oracolo dei migliori radio e telegiornali italiani pubblici e privati, abituale commentatore politico oggi del Corriere prima della Stampa. (La frase qui citata era sul quotidiano torinese del 17 dicembre ’92, in un articolo intitolato: «Se il Nobel boccia Colombo»).
Lo spirito dei tempi
Per compiacere l’eterno pragmatismo della chiesa postcostantiniana, l’Europa e l’Occidente dovrebbero insomma rivendicare gli sbudellamenti fatti in nome di Dio dalle crociate all’Iraq, i roghi delle streghe e degli eretici, le benedizioni ai regni e agli eserciti, le indulgenze, le scomuniche eccetera: tutto quanto a quelle radici è intrecciato.
Il papa assimilato con disgusto a «un qualsiasi uomo politico giapponese» era il polacco Wojtyla. Per schivare un eguale rischio, il suo successore tedesco, Ratzinger, ci chiede di non giudicare il passato col metro dell’oggi: bisogna tener conto dei diversi contesti, delle percezioni e sensibilità mutate. E come si faccia a farlo ce lo ha mostrato in concreto lui, con la visita e i discorsi ai campi di sterminio nazisti in Polonia.
S’arriva così sullo scivoloso terreno del «segno dei tempi» e alla vecchia storia delle condanne seguite dalle riabilitazioni. Vicende emblematiche di quelle tecniche riappropriatorie, di quelle smanie di normalizzazione che, accompagnate da sapienti manipolazioni censorie e da cauti sondaggi santificatorii, presiedono sempre all’interno di ogni chiesa, religiosa, culturale o politica, a ogni operazione riabilitatoria. Tecniche e smanie vecchie (si pensi soltanto a Galileo) ma che con aggiustamenti minimi continuano a funzionare. Con l’obiettivo di far credere che ad aver bisogno di perdono e riabilitazione sia il perseguitato, non il persecutore. Al quale va sempre riconosciuto lo stato di necessità o almeno l’attenuante del «segno dei tempi».
Segno talmente vago ed elastico da dover tener conto persino del «livello medio della cultura dominante da non contraddire, non urtare, non rovinare», pensa Ferdinando Camon, scrittore cattolico. Che pazientemente ci spiega: «la condanna di Galileo fu pronunciata dalla chiesa come intermediaria del senso comune». (editoriale sul supplemento Tuttolibri de La Stampa, 16 novembre 1995).
Ecco dove si finisce, a furia di non potersi non dichiarare cristiani. Al laico don Benedetto va bene così, convinto com’è che il «reale è razionale», sempre e comunque. Ma ecco anche perché un altro filosofo e matematico ateo, Piergiorgio Odifreddi, ha preso e rovesciato proprio la strausata sentenza di Croce per farne il titolo di un proprio libro contro tutte le radici dei possibili fondamentalismi religiosi: Perché non possiamo essere cristiani. E per scrupolo di maggior chiarezza ci ha aggiunto tra parentesi: (e meno che mai cattolici).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
TEORIA E STORIA DELLA STORIOGRAFIA. IL PROBLEMA GIAMBATTISTA VICO E IL PROBLEMA DELLA COSTITUZIONE
CROCE “CRISTIANO” , VICO “ATEO”, E L’UOMO DELLA PROVVIDENZA.
RENZO DE FELICE E LA STORIA DEL FASCISMO: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"!
CRISTIANESIMO E COSTITUZIONE (DELLA CHIESA E DELL’ITALIA). PERDERE LA COSCIENZA DELLA LINGUA ("LOGOS") COSTITUZIONALE ED EVANGELICA GENERA MOSTRI ATEI E DEVOTI ...
I "DUE CRISTIANESIMI" E LA PROPRIA FACOLTA’ DI GIUDIZIO. "Perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?".
FILOSOFIA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO
MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI?! POCO CORAGGIOSI A SERVIRSI DELLA PROPRIA INTELLIGENZA E A PENSARE BENE "DIO", "IO" E "L’ITALIA", CHI PIU’ CHI MENO, TUTTI VIVONO DENTRO LA PIU’ GRANDE BOLLA SPECULATIVA DELLA STORIA FILOSOFICA E POLITICA ITALIANA, NEL REGNO DI "FORZA ITALIA"!!!
Tra Croce e Marx. Quale terza via?
di Michele Martelli *
Molti gli articoli su giornali e settimanali in occasione dell’anniversario dell’assassinio per mano fascista di Carlo Rosselli e suo fratello Nello a Parigi nel 1937. E in tanti (Eugenio Scalfari in primis) hanno (ri)scoperto l’imperituro valore del liberalsocialismo, o liberalismo sociale, o sinistra liberale che dir si voglia, e, si può aggiungere, destra socialista, o socialdemocrazia, o liberaldemocrazia.
Che proprio la stessa cosa non sono, mi pare, dato che il significato è diverso, a seconda che si metta l’accento sul sostantivo (liberalismo, socialismo e democrazia, mi pare, non sono sinonimi) o sull’aggettivo (liberale non è uguale a sociale o a democratico). O che se ne ricostruisca le specifiche origini storiche, l’evoluzione e il valore ideologico.
«Un pasticcio», sentenziava Benedetto Croce, da respingere, perché sintomo di confusione di idee e di intellettualismo astratto. Giudizio che, sicuramente troppo severo e ingeneroso, si riferiva in particolare al liberalsocialismo italiano, una variegata corrente di pensiero filosofico-politico antifascista nata negli anni Trenta, e confluita poi nel Partito d’Azione (1942-1947). Gli esponenti di tale corrente furono infatti tra gli attori principali della lotta partigiana e della costruzione dell’Italia repubblicana: la loro teoria, quindi, non era slegata dalla prassi. Da una prassi coerentemente antifascista.
D’altronde, mentre Croce godeva, certo meritatamente, dell’aureola di «guida morale dell’antifascismo», Carlo Rosselli, autore del famoso opuscolo Socialismo liberale (1929), era però tra gli organizzatori della resistenza antifranchista in Spagna e da Radio Barcellona diffondeva la parola d’ordine: «Oggi in Spagna, domani in Italia!». Anche per questo fu barbaramente trucidato dai sicari fascisti.
All’antifascismo partigiano apparterranno poi, come si sa, i più noti intellettuali e filosofi liberalsocialisti italiani, tra cui Piero Calamandrei, Guido Calogero, Norberto Bobbio, Guido de Ruggero, Aldo Capitini, a cui diversi altri se ne potrebbero aggiungere. Né va dimenticato che Ferruccio Parri, membro azionista del CLN, sarà il primo Presidente del Consiglio (21 giugno-10 dicembre 1945) dell’Italia liberata. E che la Costituzione italiana del 1948 non sarebbe stata quella che è, una delle migliori al mondo, senza l’apporto decisivo degli esponenti del liberalsocialismo e dell’azionismo.
Questa temperie culturale, politica e filosofica viene scandagliata a fondo dal recente libro di Francesco Postorino, Croce e l’ansia di un’altra città, Milano, Mimesis, 2017. Il titolo può servire da bussola al lettore nella complessa problematica del volume, in cui il giovane e valente autore, dopo aver esposto, nella Prima parte, la sintesi del pensiero filosofico-politico di Croce, delle sue aporie e contraddizioni interne, ricostruisce con passione e intelligenza critica, nella Seconda e Terza parte, la fitta trama di relazioni di incontro-scontro tra Croce e gli intellettuali di cui sopra.
Comune era il riferimento ideale al valore insopprimibile del liberalismo. Ma notevoli le differenze. Per Croce il liberalismo era un concetto metapolitico, che, pur incarnandosi nella storia, era, in un certo senso, sovrastorico, e nulla aveva a che fare con la prassi partitica e la contingenza degli eventi: in fondo, un altro nome della sua «religione della libertà», della libertà assoluta dello Spirito e delle sue forme (arte, filosofia, economica e morale). Ipostatizzando una presunta «storia ideale eterna dello Spirito», Croce tuttavia finiva di fatto, senza volerlo, col rovesciare contraddittoriamente la Libertà in Necessità.
Due le conseguenze logiche. O tutto ciò che è accaduto e accade è opera dello Spirito, e allora nulla poteva e può accadere di diverso da ciò che è accaduto e accade; in tal caso il determinismo, seppur spirituale, regnerebbe sovrano, non la «Dea-Libertà». Oppure non tutto è opera dello Spirito, ma solo l’eterno e l’ideale, da distinguere dal contingente e dal particolare. Ma poiché il contingente e il particolare esistono, seppur in forma debole, resta da sapere: 1) da dove essi derivano, se non derivano dallo Spirito?; 2) poiché lo Spirito, fino a prova contraria, non parla né opera in prima persona, chi è il suo portavoce o sacerdote, a chi umanamente è da attribuire quel sacro potere di distinzione tra eterno e contingente? Non resterebbe che la strana ipotesi che quel sacerdote, dio sa con quale diritto, sia Croce medesimo: non a caso Antonio Gramsci nei Quaderni del carcere lo chiama «una specie di papa laico» della cultura italiana e mondiale. E la parola del papa, come ogni credente sa, è infallibile.
Si spiegherebbe così perché, per esempio, il conservatore Croce abbia prima appoggiato l’ascesa del fascismo in chiave filoliberale e anticomunista, votando da senatore la fiducia al governo Mussolini anche dopo il delitto Matteotti, e poi l’abbia definito banalmente una «parentesi» nella storia d’Italia. E il nazismo? Un’altra parentesi? Di questo passo, la storia reale non sarebbe, in gran parte, che un succedersi ininterrotto di parentesi. Una storia parentetica.
Una sorta, diciamo così, di vacanza permanente dello Spirito. Con quali orribili conseguenze per milioni di poveri mortali, forse poco importa. Del resto, non sarà un risibile ducetto col moschetto e un anonimo imbianchino con la svastica ad arrestare l’inarrestabile marcia dello Spirito. E l’Urss? Il regno satanico dell’Orrore. Ma la fede nello Spirito non vacilla: cristianamente, portae inferi non praevalebunt! Il fatto è che, nonostante i continui e sofferti ripensamenti, Croce non mise mai in discussione i presupposti speculativi del suo pensiero.
All’assolutismo e al conservatorismo del «papa laico» gli intellettuali liberalsocialisti italiani, crociani o non crociani, eretici e dissidenti, si opporranno, in modi diversi, con idee filosofiche, giuridiche e politiche diverse, in un dibattito ricco e sfaccettato, come Postorino documenta nei vari capitoli dedicati al confronto tra la filosofia di Croce e le teorie di Calamandrei (umanesimo giuridico e principio di equità), Calogero (dialogica dell’«io», del «tu», e del «lui» che è un «tu»), de Ruggero (dialettica neoilluministica di ragione e storia), Bobbio (teoria procedurale della liberaldemocrazia) e Capitini (nonviolenza e omnicrazia).
Tutti accomunati dalla ricerca di una «terza via», caratterizzata, come Postorino a più riprese ribadisce, dalla tensione tra fatti e valori, essere (Sein) e dover essere (Sollen). Per sfuggire alle dure critiche mosse dal realismo conservatore crociano agli ideali liberalsocialisti (sulla scia delle critiche, ben più efficaci, di Hegel a Kant), occorrerebbe però una filosofia universalistica dei valori e del Sollen. Ma il problema è: «Si può fare?», per usare una frase oggi consueta. Ossia, come evitare di cadere in un nuovo assolutismo e dogmatismo? Oppure, per dirlo in positivo, come costruire, se «Dio è morto», un relativismo critico e al tempo stesso non nichilistico, ma propositivo e progettuale?
Un’ultima annotazione. Oggi ancor più di ieri, dato il trionfo globale del neoliberismo, il vertiginoso aumento delle disuguaglianze sociali e il fallimento delle «terze vie» più o meno clintoniane e blairiane (da noi tradotto, o non è molto, nel «terzismo» dalemian-bersaniano, rovesciatosi poi, per eterogenesi dei fini, nei disastrosi programmi neoliberisti e anticostituzionali del renzismo), a me sembra che «l’ansia di un’altra città» non possa prescindere dal misurarsi con Marx, con la sua teoria del Capitale e della lotta di classe (da assumere non come dogma, ma come strumento di ricerca, fallibile e rivedibile).
Croce l’aveva fatto nel lontano 1900, ma per sancire illusoriamente «la morte» definitiva «del marxismo teorico» (oggi, dopo più di un secolo, più vivo che mai nelle analisi di sociologi politici ed economisti di fama mondiale»). «Né con Marx né contro Marx», aveva dichiarato Bobbio: ma basta essere neutrali? Tutti gli altri liberali di cui sopra avevano sposato il socialismo senza Marx.
Probabilmente non sapevano dell’inaudita «svolta» filomarxista del loro capostipite, Carlo Rosselli, resosi conto, a quanto pare, nell’ultimo periodo della sua vita, che un «socialismo liberale» senza o contro Marx, a fronte della brutalità del capitalismo reale (rappresentato attualmente dal neoliberismo selvaggio di matrice angloamericana e dall’Ordoliberalismus austeritario di matrice germanica), rischia purtroppo di essere inane, monco o utopico.
Che errore aver dimenticato Benedetto Croce!
di Luciano Lanna (Il Dubbio, 07.01.2017)
Si è appena concluso il 150enario della nascita di Benedetto Croce, e bisogna dire che anche in questa occasione davvero pochi si sono interrogati sulle ragioni dell’oblio che ha avvolto in Italia l’opera e il profilo del grande filosofo, storico e intellettuale.
Tra chi lo ha fatto, si segnala l’impegno di Corrado Ocone, filosofo e saggista di ultima generazione che nella circostanza dell’anniversario ha mandato in stampa ben due lavori sul tema specifico: Attualità di Benedetto Croce ( Castelvecchi, pp. 57, euro 11,50) e Il liberalismo del Novecento ( Rubbettino, pp. 267, euro18,00), di cui gran parte è proprio dedicata alla riflessione crociana. Due lavori esplicitamente “polemici”, nel senso che intendono contestare e criticare le tesi storiografiche e teoriche vigenti che oggettivamente sono la causa del silenzio e della marginalizzazione della fortuna teorica, e non solo, di Croce. In particolare, Ocone confuta sia il pregiudizio sulla presunta “inautenticità” del liberalismo crociano sia quello sull’irrilevanza dell’ultima fase dell’attività intellettuale del pensatore napoletano. Due pregiudizi, viene sottolineato, che stanno sostanzialmente all’origine del “paradosso Croce”, quello per cui il pensatore che - con Giovanni Gentile - aveva innovato la filosofia italiana ai primi del Novecento, che aveva introdotto i filoni culturali europei d’avanguardia nel nostro dibattito teorico, che aveva fatto conoscere da noi Marx e Sorel, che era stato il promotore del Manifesto degli intellettuali antifascisti
in pieno regime, che era stato senatore e ministro della Pubblica Istruzione con Giolitti, che dopo la caduta del fascismo fu due volte ministro, che divenne presidente del Partito liberale, che fu uno dei cosiddetti Padri costituenti e che rifiutò sia di diventare il primo presidente della Repubblica italiana che di venire nominato senatore a vita, venne - strana eterogenesi dei fini. sia da subito inspiegabilmente escluso dal circuito egemonico- culturale della Prima Repubblica. «Nel secondo dopoguerra Croce è stato considerato, dalla cultura dominante in Italia, per lo più un pensatore “retrivo” e “provinciale”. Ma era - sottolinea Ocone - un’evidente distorsione dei fatti, dettata sostanzialmente da motivi politici: dal predominio, nel nostro Paese, di un blocco di potere culturale, per una parte marxista ( seppure spesso di diversa tipologia) e per una parte di ispirazione azionista...».
Proprio mentre l’ultimo Croce si collocava in una eccezionale sintonia con il meglio della cultura libe- rale e antitotalitaria internazionale - da Orwell a Koestler, da Camus alla Arendt, da von Hayek e Popper, da Talmon a Huxley - in Italia gli ultimi suoi anni di attività intellettuale, quelli che vanno dal 1942 al 1952, vengono considerati solo la produzione di «un vecchio e stanco pensatore, non più capace di mettersi in sintonia con il suo tempo, tutto volto a un passato che non ci sarà più». Spiega Ocone: «Il nuovo blocco di potere culturale, in parte sollecitato dagli interventi e dalla politica di Palmiro Togliatti, quello che allora si sedimentò e che avrebbe governato per tanti anni editoria, informazione, accademia», fu all’origine della censura nei confronti di Croce. Gli stessi allievi del filosofo napoletano passarono tout court nelle file dell’azionismo quando non del partito comunista. E Croce finì come un isolato, precisa ancora Ocone, «non perché fermo ai vecchi tempi, ma perché rispetto ai presunti innovatori era più moderno e vedeva più lontano». Non a caso, gli ultimi scritti crociani si rivelano, ancora oggi, di un’attualità straordinaria, individuando tutti la minaccia del totalitarismo proprio mentre l’anziano intellettuale mette in guardia dagli inganni del liberalsocialismo e dell’azionismo. Così, nel 1947, Croce pubblica il saggio L’Anticristo che è in noi, in cui, tra l’altro identifica nel ragionare per astrazioni intellettuali, per ideologia, uno dei tratti distintivi del totalitarismo. In un saggio del 1943 - Una parola desueta: l’amor di patria - sottolinea la radice liberale del patriottismo opponendola alle patologie del nazionalismo e della statolatria. E nel 1949, sul settimanale “Il Mondo”, pubblica La città del Dio ateo, un saggio tutto incentrato sull’interpretazione del romanzo antitotalitario 1984 di George Orwell, sottolineando che lo Stato totalitario andasse «studiato in sé, fuori di ogni equivoco di fini umanitari sia di politica internazionale».
A questo pregiudizio - quello di un Croce fuori del suo tempo, e quindi da mettere teoricamente da parte rispetto agli sviluppi dell’attualità politica post- bellica - Ocone aggiunge l’altro, quello che lo escluderebbe dal circuito dei veri pensatori liberali. È infatti ancora opinione diffusa tra gli studiosi che quello di Benedetto Croce sia stato non solo un liberalismo atipico e inautentico ma che esso sia maturato molto tardi, dopo i tormenti della Grande Guerra, quasi a sconfessione di un pensiero precedente e anzi fortemente ispirato agli autori del realismo politico, da Machiavelli a Marx, da Sorel a Treischke. A parte che altri grandi pensatori liberali novecenteschi, su tutti Raymond Aron e Isaiah Berlin, sono partiti dallo stesso background teorico, resta il fatto che è proprio su una considerazione non illuministica e astratta del reale che nasce il più profondo e proficuo liberalismo del Novecento. Due sono, infatti, secondo Ocone, le coordinate di una vera posizione teorica autenticamente liberale: la critica al razionalismo astratto, all’intellettualismo ideologico, all’illuminismo omologante, al positivismo; la messa in scacco di ogni “filosofia della storia”, di ogni pretesa di conoscere le leggi della dialettica storica e di poterne prevedere il decorso e gli sviluppi. E da questo punto di vista - leggiamo in Il liberalismo del Novecento - cinque, e solo cinque, sono i veri teorici novecenteschi del liberalismo. Non Bertrand Russell, non John Rawls, non Norberto Bobbio ma, invece, Karl R. Popper, Michael Oakeshott, Friedrich A. von Hayek, Isaiah Berlin e, primo tra tutti, proprio Benedetto Croce. «Primo - sottolinea Ocone - per motivi cronologici, ma anche sostanziali, cioè relativi alle sue idee».
Machiavelli e Vico sono, oltretutto, le matrici del liberalismo di Croce. La libertà, secondo il filosofo, infatti non nasce da una precettistica astratta ma si lega alla Storia e al realismo politico, a una visione complessa e non riducibile dell’essere umano, al rifiuto di qualsiasi schematizzazione ideologica a una direzione. Sulla scorta di Machiavelli, nessun ordine ideologico racchiude la realtà, il conflitto è ineliminabile dalla vita, esso è il senso dei “distinti”, del pluralismo crociano. La vita non ama essere imbrigliata, vive e prospera nel conflitto, nell’antagonismo, nella diversità.
Si spiega, da questo punto di vista, anche la connessione tra liberalismo e patriottismo, seguendo la lezione risorgimentale, che significava - secondo Croce - «opporre il principio di individualità alle tendenze universalizzanti, omogeneizzanti, cosmopolitiche, razionali in senso astratto che avevano dominato nel Settecento in Europa. Cosa è infatti la Nazione se non un’individualità storica, un gruppo di individui che ha elementi in comune forgiatisi attraverso il tempo in un modo specifico e determinato diverso da quello di altri gruppi?». Già il suo sistema filosofico la “filosofia dello spirito” elaborata nel primo decennio del Nocevento, era soprattutto un’affermazione del principio di individualità: nell’arte come nella lingua, nella logica come in economia o nella politica: «Non è perciò un caso che Croce abbia aspramente criticato l’Illuminismo di cui vedeva un’appendice nel positivismo, affermando le ragioni della creatività contro quelle della regola, della libertà contro ogni determinismo, della Vita contro la Ragione» . Ecco perché, ad avviso di Ocone, riprendere il filo interrotto del pensiero crociano può significare, oggi, la ripresa di una tradizione italiana di pensiero interrottasi con il predominio della cultura ideologica degli ultimi decenni: «Significa - allora, e in sintesi - affermare un concetto di razionalità che non coincide con quello del razionalismo, con i vecchi e nuovi positivismi, ma nemmeno con il prospettivismo, l’irenismo e l’indifferentismo etico del cosiddetto postmoderno; significa credere sì nel valore della verità, ma di una verità che è sempre contestuale, storica, concreta, provvisoria, imperfetta; significa credere nei principi di un liberalismo fondato sull’autonomia morale dei singoli e sulla libera competizione fra le idee e i diversi modi di vedere e sentire le cose».
UN CONTRIBUTO DI APPROFONDIMENTO ALLA NOTA DI ARMANDO POLITO
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A RICORDARE quanto siano importanti i "CRUCIVERBA" (rileggere la discussione avvenuta in merito, in coda all’art. : http://www.fondazioneterradotranto.it/2016/10/04/serpente-presente/) e a rendere - ripeto - omaggio "al wikipediano ante litteram e al wikipediano post litteram" (cfr.: "immediata simpatia" - sono amici per la pelle:!!!), convinto che il richiamo all’USSARO non è affatto una COINCIDENZA, faccio "presente", notare, che "il timore delle rappresaglie" contro chi osava denunciare gli IPOCRITI e addirittura descriverne l’ANATOMIA era nell’ARIA DEL TEMPO!!!
TENIAMO PRESENTE che l’opera è pubblicata - nel 1699 - NON nel Regno di NAPOLI (negli anni 1688-1692, c’è il processo contro gli "ateisti" e GIAMBATTISTA VICO, per evitare guai grossi, accetta di trasferirsi in LUCANIA, a Vatolla, ai margini della "grande selva": http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5634 ), ma a VENEZIA (a due passi dall’Austria e dalla Boemia di HUS, oltre che dall’Ungheria e dagli altri Paesi dell’Europa con la presenza degli USSARI).
LA PUBBLICAZIONE DEL 1709, A GENOVA, CON IL NOME VERO E L’ANAGRAMMA ribadisce certissima-mente "la fedeltà al suo coraggioso pensiero", ma dice anche quanto sia stata grande LA PAURA di incarnare davvero la figura di HUS, "CANDIDO MALASORTE USSARO"!!! E come si sia salvato grazie alla pazienza e alla sapienza di GIOBBE. E abbia potuto, FINALMENTE, dire NOME, COGNOME, e tutta la verità - GALATTICA-MENTE!!! Il tempo degli Ussari era finito!
GALATTICA-MENTE: DALLA "MALASORTE", NE è venuto fuori, BIANCO, LATTEO, CANDIDO, "POLITO", E LO HA GRIDATO AL MONDO - ANZI ALLA INTERA "GALASSIA"!!!
SONO ALESSANDRO TOMMASO ARCUDI, NATO A S. PIETRO IN GALATINA (non in GELATINA)!!! Tenetene conto per l’eternità: "CRUCI-VERBA!!!!
Federico La Sala
di Federico Vercellone (La Stampa, 09.06.2016)
Ricorrono i centocinquant’anni dalla nascita di Croce, e ci troviamo dinanzi a un anniversario quanto mai scomodo. Croce costituisce un grande rimosso della cultura italiana.
Non a caso il libro di Paolo D’Angelo, massimo specialista di Croce oggi in Italia, comparso da Quodlibet, s’intitola Il problema Croce. Abbiamo a che fare con il nume che ha dominato la cultura italiana per decenni, che fatica ora a profilarsi nella nostra memoria culturale come quel grande olimpico classico che fu invece in vita.
Trascorso il tempo dell’epica lotta tra crociani e anti-crociani, lasciati dietro di noi i venti di una polemica che segnò in profondità e per decenni la cultura filosofica ed estetica, ora si fa fatica a fare i conti in modo maturo con l’opera di Croce.
E’ significativo per esempio che si siano dedicate almeno tre importanti biografie a Gentile, mentre a Croce nessuna. Il suo sistema appare obsoleto e arretrato il suo atteggiamento culturale anche in forza del polemico atteggiamento nei confronti di discipline come la sociologia e la psicoanalisi.
Alla base della ricezione attuale di Croce resta poi in fondo l’ Estetica del 1902, un’opera che sembra profilarsi come impari rispetto a quelle precedenti e coeve provenienti dalla grande tradizione continentale. Si dimentica a questo proposito, e non è poco, che l’estetica in Italia prima di Croce era ben poca cosa mentre la sua opera ebbe un immediato respiro internazionale. E’ ben vero: nell’Estetica Croce liquida, con un quasi oltraggioso colpo di spugna, tutti le grandi categorie che avevano pervaso la tradizione.
A fronte del dominio assoluto della bellezza da lui sostenuta, venivano messi da parte il comico, il sublime, il patetico, il tragico, l’umoristico, e poi la partizione delle arti e i loro principi specifici. E il critico, privato dei ferri del mestiere, sembrava di colpo indotto ad affidarsi alla sola intuizione per esercitare il proprio mestiere. Nondimeno, guardando all’arte contemporanea, Croce sembra avere anche attualmente qualche buona ragione da mettere in campo. Sono davvero utili oggi quelle distinzioni sovratemporali che mancano infine la realtà concreta e variegata dell’opera d’arte?
Onore dunque al grande umanista retrò che ebbe comunque lampi geniali che ci consentono di avvicinare il presente dell’arte. E poi all’antifascista che seppe dialogare con i vertici della cultura europea in tempi quanto mai difficili, e resistere, da grande e onesto aristocratico, al conformismo della società italiana dell’epoca che permane purtroppo come una nostra inquietante eredità.
Testimone delle tragedie europee del Novecento, il filosofo non si arrese mai all’angoscia
Croce: la libertà è lotta perenne
Nel 1966 la ricorrenza del centenario crociano innescò discussioni aspre sulla sua opera
La riflessione. Per lui il dramma non è la morte: sarebbe peggio restare chiusi nel carcere della vita
di Giuseppe Galasso (Corriere della Sera, 12.02.2016)
Le ricorrenze sono ingannevoli. Fanno credere che si celebrino o si ricordino sempre le stesse cose come immobilizzazioni della memoria, incrostazioni del passato. Ma non è così. Il lavoro ineludibile e inesorabile del tempo si esercita anche sul passato. Uno stesso passato vive quale apparve ai suoi tempi, poi quale appare al presente, e ancora vivrà quale apparirà nel futuro.
Nel caso di Benedetto Croce, i centocinquant’anni dalla sua nascita, il 25 febbraio 1866, ricorrono in modo evidentemente diverso che il centenario nel 1966. Allora nel ricordarlo risuonarono, anche più forti che lui vivo, le polemiche, le contrapposizioni, le riprovazioni che ne avevano accompagnato la lunga, centrale presenza nella vita civile e culturale italiana nella prima metà del Novecento, fino alla morte il 20 novembre 1952. Croce era stato, infatti, esaltato per sessant’anni come grande maestro e profondo rinnovatore della cultura e della vita morale italiana, oppure, all’inverso, dannato nella memoria come filosofo senza effettivo nerbo di pensiero, responsabile di un isolamento provinciale della cultura italiana e (addirittura!) di uno scarso sviluppo delle scienze in Italia, fiero conservatore fino a un equivoco rapporto col fascismo, sempre avverso alle più giovani e nuove correnti della vita nazionale. Oggi, per i centocinquant’anni dalla nascita, non si può dire altrettanto.
Le cose dette nel 1966 con un fortissimo animus polemico sono ripetute oggi, per così dire, a freddo, come frasi fatte di conformistici luoghi comuni. E allo stesso modo le cose dette allora col tono fervente di una perorazione non solo filosofica o teoretica sono dette oggi col tono di una distesa certezza non solo di ordine storico.
Che vuol dire? Croce è uscito dal panorama dell’attualità militante e urgente? Si è eclissata anche la proiezione della sua ombra postuma? Non è così. Non si tratta di sepoltura o epilogo, bensì, come per ogni altro grande nome, del passare dalla tumultuosa contingenza del tempo alla perennità dei classici, alla perenne attualità delle voci che di volta in volta percepiscono ed esprimono qualcosa di sempreverde e imperituro circa l’essenza e l’esperienza della storia, ossia del mondo e dell’uomo.
L’eredità del suo pensiero è, su questo piano, molteplice: irriducibile specificità della poesia, e suo valore anche conoscitivo; vari aspetti realistici della politica e del diritto; universale storicità del pensiero e della vita; modello etico-politico di un vivere civile che vada oltre la logica ferrea del mors tua, vita mea e si proponga livelli superiori di libertà e di dignità umana; concezione pragmatica della conoscenza e del lavoro scientifico con le loro mirabili scoperte e invenzioni; fecondità della distinzione fra momenti ed espressioni diverse dell’attività umana; eterna problematicità della vita e del mondo, che nulla, tuttavia, ha di misterioso o di paralizzante.
Sono punti di indiscutibile rilievo da più punti di vista. Non ci si fa, comunque, un’idea di lui adeguata a ciò che egli fu nella storia del suo tempo senza pensare alla progressiva drammatizzazione della vita che ne connotò il sentire e il pensiero. Giunse a scrivere che la civiltà è un fiore che nasce sulla nuda roccia e si radica in essa, ma che un evento improvviso può sradicare e disfare. Oppure che non è la morte, evento naturale, il dramma dell’uomo, e che vero dramma sarebbe, invece, il restare indefinitamente chiusi nel carcere della vita. Oppure che il motore della vita e della storia è in una spinta vitale, in una terribile forza egoistica senza ingombri di morale o di altro. E ciò a non parlare di tante e tante sue mirabili pagine di letteratura e di storia.
L’ humanitas della grande tradizione europea, in cui era interamente immerso, fu lo spirito reggente della ispirazione filosofica e morale di Benedetto Croce. In questo spirito fu un grande testimone della crisi europea del suo tempo. Non fu mai, però, un filosofo della crisi, del mistero, dell’angoscia, dello smarrimento esistenziale. Ricordava che le autentiche e profonde angosce della sua giovinezza lo avevano portato a convivere con l’angoscia, a renderla domestica e nota, e perciò a domarne la tirannia.
Non intendeva come sistema il suo pensiero, ma come una perenne sistemazione da offrire ad altri quale strumento di lavoro. Credeva nella positività della storia e della vita, e riteneva che la libertà ne fosse la vera cifra, sia quando trionfava, sia quando la si negava e opprimeva, senza poter, peraltro, impedire che rinascesse, perché la sua perennità storica non è quella di un pigro, ininterrotto vegetare, ma una drammatica, perenne lotta col suo opposto.
Era sempre, insomma, il filosofo che nel 1909 aveva scritto che «la verità è sempre cinta di mistero, ossia è un’ascensione ad altezze sempre crescenti, che non hanno giammai il loro culmine, come non l’ha la vita», la quale è essa «il vero mistero, non perché impenetrabile dal pensiero, ma perché il pensiero la penetra, con potenza pari alla sua, all’infinito». Una profonda lezione che spiega il suo persistere, ormai poco discutibile, come grande classico del mondo moderno, al di là del caduco e del contingente che nelle sue pagine, come in quelle di ogni altro grande, si ritrova.
Estetica ed economia in Croce
di PAOLO D’ANGELO*
Che cosa mai potranno avere in comune Estetica ed Economia? La scienza che studia «il lato più bello della storia del mondo» (Hegel dixit) e la dismal science? Quella che si occupa della più disinteressata tra le attività umane e quella che ha che fare con i bisogni? Quella che si confronta con la dura necessità e quella che si dedica al superfluo? Nulla o ben poco, vien da pensare. Esse sembrano legate piuttosto, come è stato detto, da «un’ostilità strutturale e reciproca», che le costituisce «l’una come negazione dell’altra», la prima consacrata all’inutile, la seconda al suo opposto[i].
Benedetto Croce non la pensava così. Egli ha infatti apparentato queste due scienze in un saggio un tempo famoso, oggi ben poco conosciuto, mettendone in luce le analogie e scoprendo in esse un «fondo» comune. Lo scritto crociano fu composto nel 1931; apparve in volume, per la prima volta, negli Ultimi saggi del 1935, e successivamente è stato ristampato anche in appendice alla edizione laterziana del Breviario di estetica in collana economica, e si intitola Le due scienze mondane. L’Estetica e l’Economica[ii].
Ma cosa unisce secondo Croce due discipline a tutta prima tanto distanti? In primo luogo si tratta, agli occhi di Croce, di due scienze eminentemente moderne. L’antichità e il Medioevo non le conobbero, o ne conobbero solo accenni, incunaboli, precorrimenti. Come scienze vere e proprie, esse sorsero unicamente nel Settecento, che non è solo il secolo che vide il battesimo e il rigoglio dell’estetica, a partire da Baumgarten (seppure Croce, in proposito, avrebbe citato [dovuto citare, fls] piuttosto Vico), ma anche quello in cui l’economia politica assurse a dignità scientifica, e apparve il primo capolavoro sistematico di teoria economica, la Ricchezza delle nazioni di Adam Smith.
Prima di allora, naturalmente, non è che vita economica, politica e artistica non vi fosse, e neppure che mancasse qualsiasi riflessione sui fenomeni che la caratterizzano. Croce sapeva bene che l’antichità aveva dato importanti trattati di poetica, e qualche accenno di teoria economica e politica; egli era ben consapevole, inoltre, che l’estetica non sorge nel Settecento ex abrupto, ma si costruisce sull’ampia messe di trattati sulla poesia e le arti figurative composti a partire dal Cinquecento, così come l’economia e soprattutto la politica (vedremo che le due attività sono in Croce ricomprese sotto la categoria più generale dell’economico) avevano cominciato a guadagnare attenzione autonoma più o meno nello stesso periodo. Resta il fatto che la costituzione delle due discipline, e soprattutto il riconoscimento filosofico della loro autonoma dignità, è per Croce un acquisto imperituro del secolo dei Lumi.
A unire estetica ed economia è dunque, in prima istanza, un dato negativo, un’assenza: l’assenza di una scienza economica e di una scienza estetica nel mondo antico e in quello medioevale, epoche, scrive Croce nel saggio Inizio, periodi e caratteri della storia dell’estetica, caratterizzate «dal disinteresse verso quelle forme dello spirito che più fortemente si attenevano al mondo, al sensibile, al passionale: ossia, nella sfera pratica, verso la teoria delle vita politica ed economica, e, nella sfera teoretica, appunto verso la teoria della conoscenza sensibile o estetica»[iii].
Certo, Croce sapeva bene che nihil sequitur ex mere negativis, che da due determinazioni negative non può seguire nessuna affermazione, e infatti il saggio del 1931 non conclude affatto circa un carattere comune all’estetica e all’economia a partire dalla loro sostanziale assenza prima del Settecento. Piuttosto - correttamente da un punto di vista logico - vede la modernità delle due scienze come conseguenza di un carattere positivo condiviso da entrambe.
Questo carattere è quello sottolineato e annunciato fin dal titolo: estetica ed economia sono due scienze mondane. E «mondano», vale qui nel senso in cui si parlava un tempo di «sapienza mondana» in opposizione al sapere teologico: significa antitrascendente, antiascetico, profano. Estetica ed economia sono due scienze che mirano, in modo diverso ma in certo senso complementare, alla legittimazione del senso, della sensibilità, del desiderio e, al limite, del piacere.
Lasciamo che sia Croce a spiegare che cosa intende quando afferma che sono entrambe scienze del senso: «Che cosa, in ultima analisi, fanno queste due scienze? Per dirla in breve, esse intendono a giustificare teoricamente, ossia a definire e sistemare dandogli dignità di forma positiva e creativa dello spirito, quel che si chiama il “senso”, e che, oggetto di diffidenza o addirittura di negazione e di esorcismi nel Medioevo, l’età moderna, nella sua opera effettuale, veniva rivendicando. E poiché il “senso” aveva due congiunti ma distinti significati, e designava, da una parte, quel che nel conoscere non è logico e raziocinativo ma sensibile e intuitivo, e, dall’altra, quel che nella pratica non è per sé morale e dettato dal dovere ma semplicemente voluto perché amato, desiderato, utile o piacevole, la giustificazione dottrinale metteva capo, da una parte, alla logica dei sensi o logica poetica, scienza del puro conoscere intuitivo o estetica, e, dall’altra, alla edonistica, alla logica dell’utile, all’Economica nella sua più larga comprensione: che era né più né meno che la teoretica e filosofica “redenzione della carne” come si suol chiamarla, cioè della vita in quanto vita, dell’amore terreno in tutte le sue guise»[iv].
Almeno per quanto riguarda l’estetica, la determinazione di «scienza del senso» appare largamente giustificata, anche solo dal nome della disciplina, che nasce appunto come scientia cognitionis sensitivae. È vero però che questa accezione dell’estetica, oggi tornata ampiamente in auge, può in qualche modo sorprendere in Croce, che di solito viene interpretato come una fautore di un’estetica identificata con la filosofia dell’arte. Qui Croce sembra invece aderire appieno ad un’idea baumgarteniana di estetica come scienza della sensibilità, un’idea che, pur presente nella prima formulazione dell’estetica crociana (quella delle Tesi di estetica del 1900 e poi della grande Estetica del 1902), si era andata poi attenuando negli sviluppi successivi, più marcatamente idealistici, della sua filosofia.
Non per nulla, infatti, nella seconda parte dello scritto del 1931, intitolata Spirto e natura (mentre la prima parte, ricordiamolo, si intitola Spirito e senso) Croce svolge alcune osservazioni che, pur andando nella stessa direzione delle affermazioni appena riportate, si presentano più in linea con la prospettiva filosofica del Croce maturo. Le due scienze mondane, l’estetica e l’economica, precisa qui Croce, aiutano la filosofia nel suo complesso a superare il dualismo corrente tra realtà materiale o naturale e realtà spirituale. Lo fanno in quanto mostrano che ciò che chiamiamo «natura» è anch’essa un’attività spirituale: è la vita passionale, la vita degli impulsi e degli stimoli, che viene elaborata da un lato nella forma espressiva, artistica, dall’altro offre la base su ci viene a esercitarsi la vita morale. «Le due scienze filosofiche, che abbiamo dette precipuamente moderne e che si riferiscono l’una alla praxis nella sua vita dinamica e passionale, e l’altra alle figurazioni della fantasia, apprestano i dati necessari alla soluzione del problema, svelandoci l’oggetto per nient’altro che quella vita passionale, quegli stimoli, quegli impulsi, quel piacere e dolore, quella varia e molteplice commozione, che è ciò che si fa materia della intuizione e della fantasia e, attraverso di essa, della riflessione e del pensiero. La verità, in conseguenza di questa concezione, non sarà, dunque, da definire, come nella scolastica, adaequatio rei et intellectus, giacché la res come res non esiste, ma piuttosto (prendendo, beninteso, in modo metaforico il concetto dell’adeguazione), adaequatio praxeos et intellectus»[v].
Si tratta di un brano ricco di tensioni: per un verso è ancora la concezione famosa, anzi famigerata, della «natura» come costruzione pratico-economica, operata schematizzando l’infinita diversità del reale attraverso i concetti empirici o pseudo-concetti; per un altro, siamo già prossimi a qualcosa che avrà molto peso nell’ultimo Croce, ossia la concezione del «vitale» come fondo da cui si origina tutta la vita spirituale. Ci torneremo alla fine di questo saggio. [...]
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L’importanza di fare i conti con Croce
di Umberto Curi (Corriere della Sera, 06.11.2015)
Con il titolo Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel, nel 1907, compariva presso la casa editrice Laterza un’opera destinata a costituirsi come punto di riferimento obbligato. Autore era Benedetto Croce. La formula impiegata dal pensatore idealista - «ciò che è vivo e ciò che è morto» - era destinata ad essere imitata o parafrasata più volte, perché configurava un «metodo» di analisi estremamente incisivo.
Nella lettura critica di qualunque filosofo (e dunque non solo di Hegel), non si trattava di limitarsi a ricostruirne l’articolazione concettuale. Ciò di cui si sottolineava l’esigenza era la formulazione di un giudizio, teso a cogliere quanto vi fosse ancora di attuale e intramontabile, e quanto vi fosse, invece, di irrimediabilmente caduco. Un vaglio severo ed esigente, quindi, lontano da ogni atteggiamento diplomatico e da ogni servilismo accademico.
Si potrebbe impiegare la stessa fortunata formula per compendiare in estrema sintesi il «taglio» della monumentale opera di Giuseppe Galasso, La memoria, la vita, i valori. Itinerari crociani (a cura di Emma Giammattei, Istituto italiano per gli studi storici, Il Mulino, pp. 551, e 60). A Croce, nel corso degli ultimi cinquant’anni, Galasso aveva già dedicato un gran numero di saggi. Ma nel testo ora pubblicato, pur essendo programmaticamente escluso ogni intento di delineazione complessiva e unitaria della filosofia crociana, Galasso sembra essere attratto dalla prospettiva di individuare, una volta per tutte, «ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Croce», procedendo dunque anche oltre gli importanti risultati raggiunti mediante i lavori precedenti.
Attraverso le tre parole indicate nel titolo, vengono raccolti e ordinati contributi originariamente comparsi in sedi e anni diversi, ricondotti dall’intelligente lavoro della curatrice ad alcuni assi tematici fondamentali, dalla storiografia alla politica, dall’etica all’estetica. Ne risulta un quadro generale mosso e variegato, dal quale balza fuori una figura irriducibile agli schemi tuttora prevalenti.
A Croce è infatti accaduto qualcosa di simile - fatte le debite differenze - alla sorte toccata a un autore da lui assai valorizzato, Karl Marx. Dopo aver dominato in maniera incontrastata la cultura italiana (e non solo filosofica) per oltre mezzo secolo, ed essere stato il «maestro», sia pure in forma indiretta, di legioni di intellettuali, come il pensatore di Treviri, travolto dal crollo del comunismo, così Croce nel secondo Dopoguerra è stato frettolosamente archiviato, liquidando la dialettica dei distinti, originale riformulazione della dialettica hegeliana, con l’etichetta sarcastica della «filosofia delle quattro parolette».
Nella grande maggioranza dei casi, questo passaggio non ha corrisposto a un capovolgimento dell’impostazione critica, ma semplicemente a una sua riconferma: dalla dogmatica soggezione all’autorità di un protagonista inattaccabile, si è transitati a una liquidazione sommaria, non meno aprioristica del consenso precedentemente espresso. Mentre ciò che ancora è utile e per certi aspetti necessario fare è instaurare un atteggiamento opposto, quale è quello che ci pare di cogliere nell’opera di Galasso: ritornare sulle pagine crociane restando al di fuori di ogni prospettiva apologetica, come di ogni attitudine unilateralmente demolitrice.
Cercando, insomma, con obbiettività e rigore, di individuare davvero quel non poco e non marginale che è ancora «vivo», senza avere ritegno a denunciare insieme ciò che appare irrimediabilmente «morto». Dobbiamo essere grati a Galasso per averci offerto una guida preziosa per inoltrarci in un’esplorazione che si preannuncia potenzialmente ricca di importanti scoperte.
La rivincita di Croce il critico guerriero
Si riaccende il dibattito sui suoi studi letterari
di Paolo Mauri (la Repubblica, 30.10.2015)
Dopo aver dominato la cultura italiana e non solo per oltre mezzo secolo Benedetto Croce è uscito di scena in modo abbastanza drastico: secondo Natalino Sapegno, per esempio, non aveva capito fino in fondo la portata della lezione di Marx da lui liquidato troppo presto; secondo i seguaci delle nuove teorie critiche legate prima all’analisi stilistica e poi allo strutturalismo era rimasto ostinatamente aggrappato ad una concezione del linguaggio che non stava in piedi, insomma il suo pensiero sulla linguistica, scriveva Tullio De Mauro nel 1965 era «una bomba piena di esplosiva follia». Adesso però l’interesse si riaccende. Come dimostra la ripubblicazione, da parte di Adelphi, del suo Poeti e scrittori d’Italia, a cominciare dal primo volume.
Un’ampia antologia di scritti sulla nostra letteratura dalle origini al primo Novecento. Giuseppe Galasso, nel rigoroso e dettagliato saggio introduttivo a questo primo capitolo, accenna addirittura all’irrisione di cui Croce fu vittima da parte dei suoi detrattori. Ma ancora Benvenuto Terracini, che possiamo considerare un alfiere della critica stilistica ai suoi esordi in Italia, rende omaggio alla posizione altissima che Croce ha occupato nei confronti della nostra cultura e sottolinea l’incontro tra Croce, Vossler e Spitzer, cioè proprio nell’ambito che avrebbe promosso l’analisi stilistica dei testi. Fermarsi su ciò che Croce non fece, non volle fare o capire è in questa sede poco remunerativo: conviene dunque chiedersi invece che cosa il lettore di oggi può trovare nelle pagine di Croce dedicate ai secoli d’oro della nostra letteratura.
Intanto registriamo un dato di non piccolo conto: Croce è un combattente e continuamente deve battersi con chi ha un’idea della poesia che lui proprio non condivide. Per esempio Croce non ama i dantisti: secondo lui tutte le costruzioni erudite a partire dalla Commedia servono solo a umiliare la grande poesia di Dante, che tuttavia non pertiene a tutta l’opera, ma solo a quei momenti eccelsi in cui c’è vera poesia. Croce scrisse per il sesto centenario della morte di Dante, dunque nel 1921, un libro di cui l’antologia conserva alcune parti: libro che fu a sua volta accusato di distruggere l’unità del poema. Ma, alla fine, sappiamo dire una volta per tutte che cos’è la poesia? È una domanda infinita alla quale si possono dare (e sono state date nel tempo) molte risposte, ma in genere queste risposte riguardano il modo in cui si fa una poesia. Una volta Luzi, in una intervista, disse che i poeti danno voce al nostro malessere.
Croce si occupò per tutta la vita della questione e ne scrisse moltissimo, mettendo però sempre in campo quello che una volta Contini chiamò un sistema binario, l’opposizione tra poesia e non poesia. L’ago della bilancia alla fine era affidato alla sensibilità del critico.
E Croce, per esempio, nega che vi sia stata poesia in Italia dal 1375 al 1475 e non ha riguardi verso il barocco (cosa che irritò Praz) e le sue esagerazioni, come verso personaggi-poeti di gran fama e gloria come Marino o come Metastasio. E se si occupa di Ariosto deve fatalmente mettere da parte i lavori eruditissimi di Pio Rajna sulle fonti del poema e demolire l’idea di trasformare la critica letteraria in una scienza del concreto, dove il concreto è soprattutto erudizione. In sostanza la sua era una battaglia contro il positivismo di fine secolo ben saldo in cattedra e nelle riviste come il Giornale storico della letteratura italiana che usciva a Torino. Se proprio doveva costruirsi un albero genealogico, Croce non esitava a ricorrere a Vico e al più vicino De Sanctis.
Roman Jakobson andava intanto teorizzando, all’altezza degli anni Trenta, che si può fare poesia con qualsiasi materiale il che ci dice che i formalisti russi stavano portando la critica letteraria su un pianeta sconosciuto e certo molto distante da quello crociano, dove poesia si opponeva a non poesia e poesia si distingueva da letteratura. Boccaccio è per Croce un poeta e sbagliano coloro che si affannano a parlare di novelle a proposito del Decamerone , così come sbaglia chi dice che Boccaccio rispecchia la società del suo tempo perché la vera poesia è un assoluto e non ha bisogno di rispecchiare niente.
Nel 1929 Jurij Tynianov aveva scritto, invece, che i confini tra letteratura e vita sono fluidi e forse è così anche per quel che riguarda l’opera di Boccaccio, ma con Tynianov ci spostiamo di nuovo in ambito formalista e dunque in una prospettiva completamente diversa da quella crociana.
Ho sempre pensato che la critica letteraria rivolga, per così dire, domande sempre diverse alle opere che prende in esame e per questo cambia anche radicalmente, anzi: sente la necessità inderogabile di cambiare. Per questo ogni esperienza critica conosce una inevitabile crisi e così è stato anche per lo strutturalismo e altre forme recenti di analisi, come Cesare Segre ha puntualmente registrato nei suoi libri. Riattraversare l’opera di Croce ha senso se si accetta quell’esperienza in base a quello che ancora può darci e non è davvero poco. Negli anni Cinquanta, per esempio, Giacomo Debenedetti partiva dal saggio di Croce su Pascoli (che è del 1906) per illustrare il poeta ai suoi allievi di Messina.
Con Croce il dialogo non è chiuso. Umberto Eco nel riprendere i temi dell’ Estetica di Croce negli anni Novanta ne mette in luce le contraddizioni (il saggio si può ora leggere nel volume Kant e l’ornitorinco 1997) ma alla fine conclude che Croce fa giustizia delle contraddizioni perché è uno scrittore travolgente: «Il ritmo, il dosaggio di sarcasmo e riconciliata riflessione, la perfezione tornita del periodo, rendono persuasiva qualunque cosa egli pensi o dica». Non ho niente da aggiungere.
Croce-Gentile, la pace postuma
Grazie a un accordo tra gli eredi sono state raccolte in un unico volume le lettere che i due filosofi si scambiarono prima della rottura (anche politica)
di Giuseppe Salvaggiulo (La Stampa, 07.12.2014)
La prima, una cartolina postale, partì da Torre del Greco il 27 giugno 1896: «Stimatissimo Signore...». Il trentenne Benedetto Croce, che già godeva di considerazione negli ambienti dell’erudizione storica, ringraziava il ventunenne Giovanni Gentile «pel dono cortese del suo studio sulle commedie del Lasca» (la tesi di licenza dopo il secondo anno di Lettere alla Normale di Pisa) e se ne congratulava «pel modo veramente egregio nel quale è condotto», sottolineando «la sua erudizione sobria e calzante» e «le conclusioni esattissime» senza «traccia d’inesperienza». La risposta fu spedita nove giorni dopo da Campobello di Mazzara, dove Gentile trascorreva le vacanze: «Chiarissimo signore...». Lo studente devoto si compiaceva del «giudizio benigno» e, «scusandomi se sono subito un po’ indiscreto», esprimeva il desiderio di «leggere la sua memoria Intorno alla storia della cultura, che mi pare non sia in vendita». Croce risponderà di non poter esaudire la richiesta «perché non ne ho più neanche una copia».
Passando al «Carissimo amico...», ne seguiranno altre duemila, di lettere tra i due principali filosofi italiani del secolo scorso. Per ventotto anni, fino all’ultima del maestro napoletano, datata 24 ottobre 1924: «Certo, noi da molti anni ci troviamo in un dissidio mentale, che per altro non era tale da riflettersi nelle nostre relazioni personali. Ma ora se n’è aggiunto un altro di natura pratica e politica, e anzi il primo si è convertito nel secondo, e questo è più aspro». Evocando l’opposto giudizio sul fascismo, con animo fermo ma non iroso Croce concludeva: «Non c’è che fare. Bisogna che la logica delle situazioni si svolga attraverso gl’individui e malgrado gl’individui. (...) Io ho fiducia nel tempo, e molte volte ho udito dirmi poi: tu avevi ragione; e spero perciò che molte asprezze si spianeranno da sé. Siamo in tempi che, in fatto di cangiamenti, ci hanno abituati a miracoli. Credo di averti risposto con ogni franchezza, e tu forse troverai giuste le cose che ti dico. (...) Abbimi sempre con molto affetto, tuo Benedetto».
Gentile comprese «la logica delle situazioni» e non rispose. Seguirono i rispettivi manifesti pro e contro il regime, a conferire drammaticità pubblica alla lacerazione privata. Invano il comune amico Adolfo Omodeo si adoperò per ricucire lo strappo, divenuto irreversibile nel 1928 quando Croce, nella Storia d’Italia dal 1871 al 1915, condannò come «mal consigliere pratico» il pensiero di Gentile, il quale reagì con una dura recensione sul Giornale critico della filosofia italiana, da lui fondato nel 1920. Da amici a irriducibili antagonisti («un’ostile diade», la definisce Gennaro Sasso, presidente della Fondazione Gentile), rappresentanti di due Italie che si combatterono fino al cruento epilogo degli Anni 40, e anche oltre.
A novant’anni dall’ultima lettera e a settanta dall’uccisione di Gentile per mano dei partigiani, Nino Aragno pubblica per la prima volta il carteggio nella sua interezza. A parte alcune lettere e cartoline di contenuto personale, il materiale non è inedito; ma leggerlo in un unicum dialogico è appassionante. In ogni caso, il valore dell’opera travalica quello editoriale, poiché chiude un secolare scisma: familiare, ideologico, antropologico, nazionale.
I discendenti dei due filosofi erano giunti a un accordo di pubblicazione separata nel 1970: scambiandosi i microfilm, Sansoni editò le lettere di Gentile e Mondadori quelle di Croce. Ma i due distinti epistolari era tanto ricchi quanto monchi, perciò alcuni anni fa Natalino Irti, giurista e presidente dell’Istituto italiano per gli Studi storici fondato da Croce nel 1946, prese l’iniziativa di promuovere un nuovo accordo di pubblicazione congiunta «con funzione pacificante». Al primo colloquio con Alda Croce seguirono quelli con Piero Craveri e Sebastiano Gentile, che si sono fatti carico di «suscitare la concorde volontà delle famiglie», sancita due anni fa nella firma del nuovo accordo. Al ricamo diplomatico è seguito il lavoro delle curatrici Cinzia Cassani e Cecilia Castellani per intrecciare correttamente la corrispondenza: in alcune missive la data mancava, era stata cancellata o coperta dal timbro postale.
Il risultato, spiega Irti, è «un altissimo capitolo di pensiero, di dialogo filosofico, di onestà interiore». L’edizione asciutta - in linea con il profilo dell’editore langarolo, il cui mecenatismo è pari solo all’understatement - consente alle due voci di svettare come querce secolari senza il fastidio del sottobosco pedagogico.
La concezione materialistica della storia e la monografia su Pulcinella. La «fierissima emicrania» di Gentile e la «molestissima febbriciattola» di Croce. Le intimità domestiche, gli abbandoni di amicizia e talvolta, più in Croce che in Gentile, le preoccupazioni personali. Pubblico e privato, senza che la confidenza diventi mai corrività stilistica. Fino al vulnus filosofico sulla nascita dell’attualismo. Scrive Gennaro Sasso: «Soltanto la politica, non sembri paradossale, avrebbe potuto rimediare. Ma, invece che unirli, contribuì a dividerli in modo netto e definitivo».
È la legge che ci rende civili
Nella concezione vichiana il legislatore deve riflettere il retroterra culturale di un popolo, difendere gli interessi comunitari e l’utilità sociale
di Gennaro Sangiuliano (Il Sole Domenica, 14.09.14)
Per Giambattista Vico, la legge, o meglio l’ordinamento giuridico, che presiede uno Stato e un popolo, è il metro capace di misurare l’avanzamento della civiltà umana. Lo dimostra chiaramente nella sua opera fondamentale La Scienza Nuova laddove ripercorre gli snodi di alcune legislazioni fondamentali dell’antichità attraverso le quali è possibile operare una hermeneutica historiae. La Legge Publilia, ad esempio, «un punto massimo d’istoria romana» segnò il passaggio dalla repubblica aristocratica a quella popolare.
Laureato in legge, profondo conoscitore dei giuristi francesi e olandesi, con una breve esperienza nell’avvocatura, Vico, indaga a fondo sul rapporto fra legge e cultura, perché la legislazione non è altro che l’organizzazione normativa di una comunità e ne riflette il sentire comune, il retroterra culturale. Tema decisivo, non privo di implicazioni delicate se si pensa ai pericoli di una cultura egemone che vuole imporre i suoi postulati attraverso la legge.
Argomento rimasto intatto nel suo valore del quale si occupano i Saggi scelti - Giambattista Vico a Vatolla (Edizioni Palazzo Vargas, pagg. 144, € 10,00) curati e introdotti da Gianpiero Paolo Cirillo che affronta il rapporto fra politica, governo e amministrazione nella formazione dello Stato moderno. Il tema del delicato rapporto fra cultura e diritto, e quindi delle relazioni fra diritto e filosofia, trova in Vico una soluzione che influenzerà a lungo tutto il pensiero a lui successivo.
L’originalità è nell’aver affermato la storicità del diritto, nell’inquadrare il fatto come accadimento storico che diventa fatto normativo. Gli istituti giuridici devono corrispondere agli interessi comunitari che li hanno espressi e mantenere l’utilità sociale.
Il giurista nella concezione di Vico deve elaborare una dimensione assiologica tenendo presente il trascendentale storico di una comunità, individuare «l’intelligenza dei valori» di un popolo, impostazione poi rimarcata da Giovanni Gentile nei suoi studi vichiani. «Quando il giurista si accosta al tema della cultura, lo fa con una sorta di complesso di inferiorità, che forse gli deriva dalla consapevolezza che, anche nell’ipotesi in cui egli crei una teoria giuridica del tutto nuova e appagante, non ci si trovi di fronte ad un atto creativo in senso proprio», avverte Cirillo, che chiarisce come il «rapporto tra il giurista e l’uomo di cultura è un rapporto servente». Ma il giurista può essere esso stesso persona colta capace di ricercare quel «senso comune delle Nazioni», la «primitiva sapienza dei popoli», elementi che Vico ritiene punto di partenza dell’attività del legislatore e di quella interpretativa. Nell’opera De uno universi juris principio et fine uno ricorda, quindi, come la conoscenza della storia sia fondamentale per la produzione della legge.
Del resto, la Scienza Nuova è "nuova" perché apre al riconoscimento della storia delle idee, dei costumi e degli usi dei popoli puntando ad armonizzare senso e ragione. Il sorgere della legge, disegnato dal diritto dei filosofi, è il rinvenimento di questo ordine che ha tratti metafisici capaci di coniugarsi con la verità del fatto.
L’attualità di Vico è anche nella determinazione del delicato rapporto fra ordinamenti nazionali e organismi sovranazionali diventati, in alcuni casi invadenti. «Il problema da affrontare oggi - scrive Cirillo - è quello di individuare degli strumenti con cui i governi e le burocrazie interne possano fronteggiare lo strapotere che le comunità internazionali esercitano attraverso la tecnicizzazione delle norme».
In una lettera scritta nel 1787 da Napoli Wolfgang Goethe definì Giambattista Vico l’Altvater della sapienza, intuendo il debito che la cultura germanica avrebbe contratto con la filosofia vichiana.
Prima ancora che un grande filosofo, l’autore della Scienza Nuova fu un giurista a tutto tondo, un teorico del diritto che rifiuta una legge universale ed astratta in nome di una legge profondamente ancorata alla cultura di un popolo.
NON SAPPIAMO ANCORA CHE COSA SIGNIFICA "CRISTO SI E’ FERMATO AD EBOLI"!
Togliatti e il suo Papa
di Bruno Gravagnuolo (l’Unità, 13 marzo 2014)
Si approssimano vari anniversari. quello della svolta di Salerno e quello della morte di Togliatti. Ma anche quello della scomparsa di Giovanni XXIII. Tutti a far data dal 1964. E c’è da giurare che almeno su Togliatti demonismo e sciatteria revisionista si eserciteranno a dovere, nel negare originalità al segretario del Partito Nuovo, per sancirne la dipendenza da Mosca e il ruolo nefasto, nell’aver radicato il Pci nella storia d’Italia, come un male.
Adesso però esce un libro prezioso che contiene due gioielli da conservare e che ribaltano certe campagne strumentali. Il primo è il discorso pronunciato da Togliatti il 20 marzo 1963, sul Destino dell’uomo , alla vigilia di importanti elezioni ma inattesamente antropologico . Il secondo è senza dubbio straordinario e ben più famoso. È l’Enciclica giovannea Pacem in terris , uscita l’11 aprile di quello stesso anno, un documento destinato a capovolgere il senso della fede nel mondo e il ruolo stesso della cattolicità: il diamante del Concilio Vaticano II, avversato da conservatori e atei devoti e che oggi conosce rinnovato splendore nella riattualizzazione del magistero di Francesco.
La cornice è appunto il volume di cui vogliamo parlarvi, Palmiro Togliatti e Papa Giovanni , a cura di Francesco Mores e Riccardo Terzi (Ediesse, pp. 149, euro 12). Che raccoglie gli atti di un seminario organizzato a Bergamo il 5 aprile 2013 da Riccardo Terzi ed Eugenia Valtulina, grazie alla Cgil di Bergamo, dello Spi nazionale, della Fondazione Giovanni XXIII e della Fondazione Di Vittorio. Tra i relatori c’erano Savino Pezzotta, Giuseppe Vacca, Alfredo Reichlin, e non manca un bel testo intervista di Mons. Loris Francesco Capovilla.
Altro contributo decisivo è quello di Francesco Mores della Fondazione Giovanni XXIII e della Normale di Pisa. Che ricostruisce contesto, rimandi e storia parallela del testo togliattiano e dell’Enciclica, davvero straordinariamente consonanti. Al punto da fare pensare che Togliatti fosse addirittura informato in anticipo dei contenuti dell’Enciclica, magari attraverso i «ganci» di Franco Rodano e di Don Giuseppe De Luca, figura chiave e mediana tra vaticano e Pci, a partire dalla questione dell’art. 7 in Costituzione. Scritti rivoluzionari e consonanti. Ma in che senso?
Cominciamo da Giovanni XXIII e isoliamo tre punti: genere umano, distinzione errante/ errore e valore dei movimenti di emancipazione. La rivoluzione «kantiana» di Papa Giovanni sta in questo: la predominanza del destino del genere umano sul contrasto di fede e ideologico. Sta in questo il divino e la sua trascendenza per il Papa: nella sua immanenza fraternitaria nella storia. E ben per questo la Chiesa deve accogliere i valori emancipativi di masse e popoli in cammino, di là dell’errore e degli errori teologici. Perché c’è un «senso» trasformativo nella storia e va colto nell’incontro, nel dialogo e nell’amore, che poi sono il banco di prova della verità teologica cristiana.
Un capovolgimento immenso, che fece a pezzi dogmatismo e scomuniche - archiviando il pontificato di Pio XII - e che rese la Chiesa attore planetario, al tempo della crisi dei missili a Cuba, della decolonizzazione, dei non allineati, della sfida kennediana, e della coestistenza pacifica kruscioviana. Ma nel suo «piccolo» l’inatteso discorso di Togliatti - rivolto guarda caso ai cattolici e alla Bergamo giovannea alla vigilia dell’Enciclica - non è meno dirompente. Vi si afferma innanzitutto il primato della pace sulla lotta di classe e su quella di campo, nell’era della corsa nucleare. L’unità del genere umano, come bene supremo da preservare e orizzonte di ogni emancipazione (dunque terreno e fine). E poi il primato della persona e della sua dignità, come punto di partenza e meta ideale della liberazione propugnata dal movimento operaio.
Non sono povere cose, se si considera quel tempo, perché Togliatti mette in campo la libertà di tutti e di ciascuno e al contempo rivaluta e preserva la crucialità del fatto religioso: come costante che è illusorio pensare di poter svellere con il progresso e la riforma delle basi sociali. Addirittura, oltrepassando Gramsci, la religione diviene un dato antropologico inscindibile dalla condizione umana e persino vettore di rivoluzione. Certo Togliatti difendeva l’Urss e si illudeva sulla sua riformabilità, restava un figlio autonomo e originale di quella geopolitica novecentesca. Ma sul religioso era oltre Gramsci e Marx, e tracciava uno spartiacque: dalla persona e dalla libertà non si torna indietro. E fu così che in qualche modo un grande Papa e un grande comunista posarono una pietra miliare: fecero dialogare grandi masse tra loro e riscrissero con audacia la loro stessa fede
Quelle parole convergenti contro il rischio atomico
di Alessandro Santagata (il manifesto, 18 Giugno 2014)
Pronunciato a Bergamo il 20 marzo 1963 e pubblicato su Rinascita con un titolo ambizioso quanto gli obiettivi che si proponeva, Il destino dell’uomo è uno dei discorsi più importanti di Palmiro Togliatti. Non si trattava solamente di comizio da campagna elettorale (si sarebbe votato di lì a un mese), ma di una conferenza programmatica densa di riferimenti culturali. L’espressione di una concezione alta della politica, della quale ci restituiscono una fotografia gli atti del seminario tenuto presso la biblioteca Giuseppe Di Vittorio (Togliatti e Papa Giovanni, a cura di Francesco Mores e Riccardo Terzi, Ediesse).
La sezione storiografica fornisce alcuni elementi di contesto necessari per inquadrare il discorso del leader comunista, a cui seguirà l’11 aprile la promulgazione dell’enciclica Pacem in terris. A lungo i due testi sono stati letti in dialogo tra loro, immaginando che Togliatti fosse a conoscenza dell’imminente pubblicazione del documento papale (probabilmente in virtù del suo contatto con don Giuseppe De Luca, grande figura intellettuale di quegli anni). Mores mette in discussione questa ipotesi facendo appello alla cronologia (De Luca era morto l’anno precedente) e alla sostanziale assenza di prove a sostegno del presunto passaggio di notizie. Eppure, non c’è dubbio che tra le due figure fosse in corso un effettivo rapporto sinergico, «indiretto e proprio per questo molto più stretto e profondo».
Siamo nell’Italia del centro-sinistra, con il Pci impegnato a influenzare il processo riformistico, ma soprattutto siamo nell’età del Concilio, delle decolonizzazione e di quella distensione tra i due blocchi che aveva trovato in Giovanni XXIII un protagonista di primo piano, come in occasione della crisi missilistica cubana dell’ottobre 1962. Non a caso dunque la scelta di Bergamo, la città di Roncalli, dalla quale mandare al mondo cattolico un invito alla collaborazione contro il rischio dello sterminio atomico. La politica italiana, con la Dc da incalzare da sinistra, rimaneva il punto centrale della tattica comunista, ma la strategia guardava più lontano: a un incontro da raggiungere «non nell’immediato», «non sulla base di un compromesso tra le due ideologie», ma in una prospettiva di lungo corso verso un nuovo umanesimo condiviso.
Giuseppe Vacca ricorda che il dialogo tra cattolici e comunisti aveva alla spalle una lunga storia: la Costituente, l’apertura del «partito nuovo» ai cattolici, l’intesa nel movimento dei Partigiani della pace. Con uno scarto rispetto all’elaborazione di Gramsci, Togliatti era disposto non solamente a riconoscere la legittimità storica del fatto religioso, ma perfino la sua utilità ai fini della lotta politica (X Congresso, dicembre 1962). Dall’altra parte, Giovanni XXIII revisionava il tradizionale anticomunismo cattolico, un processo che avrebbe portato al riconoscimento della dignità dell’ateismo nella costituzione conciliare Gaudium et spes.
Nella Pacem in terris il papa aveva riconosciuto la celebre distinzione tra l’«errore» (il comunismo) e l’«errante», con il quale ricercare dei punti di convergenza. In particolare, si era rivolto «agli uomini di buona volontà» per scongiurare l’esito catastrofico di una nuova guerra, di cui denunciava l’irrazionalità. Certo, come ricorda Mores, l’appello di Togliatti alla ragione (contro la guerra) non può essere completamente sovrapposto alla «retta ragione» a cui si riferiva il papa, quella del magistero in grado di dividere ciò che è giusto da ciò che non lo è. E tuttavia, è proprio una nuova razionalità l’obiettivo che i due andavano perseguendo (non una revisione dell’illuminismo come invece sostiene Vacca).
Nella riflessione del leader comunista alla classe si affiancava un altro soggetto del divenire storico: il genere umano. In quella del papa, la Chiesa usciva dall’assedio dalla secolarizzazione per impegnarsi nel cambiamento insieme alle altre forze culturali e sociali. Ecco allora che dalla lettura in parallelo del discorso Bergamo e della Pace in terris emerge la ricchezza di quella straordinaria stagione politico-culturale.
I suoi limiti sarebbero emersi con l’inizio della «diaspora politica» dei credenti negli anni ’70. Nel discorso di Bergamo, in cui Togliatti aveva colto nella fine dell’«Età di Costantino» il vero punto di svolta del Vaticano II, mancava la percezione che lo sganciamento della fede dall’identità politica avrebbe condotto alla crisi del cattolicesimo politico italiano: un lento disfacimento tutt’altro che auspicato dalla dirigenza comunista.
Più in generale, la ricerca di nuovo umanesimo si scontrava con una società attraversata da un profondo processo di secolarizzazione che restringeva gli spazi per un profilo ideologico tradizionalmente marxista o religioso. Stava prendendo forma la globalizzazione consumista: la riflessione sul destino dell’uomo nell’età nucleare non è stata solamente il terreno di incontro tre due culture, ma anche un primo tentativo di risposta.
Che ne sarebbe della Chiesa se fallisse Francesco
di Vito Mancuso (la Repubblica, 14.03.2014)
E se papa Francesco fallisse? Non ci sono dubbi che dietro le aperture riformiste del cardinal Kasper e di altri cardinali ci sia proprio il Papa, ma che cosa avverrebbe se le riforme auspicate non andassero in porto e le attese di una nuova primavera si rivelassero solo illusioni?
Nella relazione al Concistoro straordinario sulla famiglia Kasper ha affermato che «dobbiamo essere onesti e ammettere che tra la dottrina della Chiesa sul matrimonio e sulla famiglia e le convinzioni vissute di molti cristiani si è creato un abisso». Quanto affermato per la famiglia vale a mio avviso per molti altri ambiti della dottrina cattolica, anzi io penso che valga per il concetto stesso di dottrina, intesa come sistema di verità stabilite che il credente è tenuto a professare e su cui vigila la Congregazione per la Dottrina della Fede, che prima del 1965 si chiamava Sacra Congregazione del Sant’Uffizio e prima del 1908 si chiamava Sacra Congregazione della Romana e Universale Inquisizione.
Elencare i molti elementi che rendono l’insegnamento della Chiesa “lontano dalla realtà e dalla vita” non è difficile.
Oltre alla dottrina sul matrimonio vi sono la regolazione delle nascite con il clamoroso fallimento pratico e teorico dell’Humanae Vitae di Paolo VI, l’identità sessuale e l’omosessualità al cui riguardo occorre cessare di parlare di malattia come ancora spesso si fa, il ginepraio della bioetica da cui non si esce continuando a ripetere solo dei no soprattutto sulla fecondazione assistita, il destino degli embrioni congelati, la diagnosi degli embrioni prima dell’impianto, il principio di autodeterminazione a livello di testamento biologico.
Vi sono poi i problemi ecclesiologici che già nel 1987 Hans Küng definiva “noiose vecchie questioni”, cioè la scarsità delle vocazioni sacerdotali e religiose, il celibato del clero, i criteri di nomina dei vescovi, la collegialità come metodo di governo, la questione laicale, la questione femminile, la riforma della curia romana, il rispetto dei diritti umani all’interno della Chiesa (di cui “la tratta delle novizie” denunciata dal Papa è solo un aspetto), la libertà di ricerca in ambito teologico.
Qui non accenno neppure ai molti problemi teologici, sia in sede di teologia fondamentale sia in sede di teologia sistematica, che mostrano tutta la fragilità della tanto celebrata dottrina, se non per dire il problema vero e proprio concerne l’identità del messaggio cristiano, al cui riguardo ci si deve chiedere: qual è oggi la buona notizia di ciò che viene detto vangelo? Penso che questo sia il nodo decisivo e che per scioglierlo occorre alzare la mente e ragionare per secoli. Se si impara a farlo, si vedrà più lontano, si capirà “che cosa lo Spirito dice alle chiese” e ci sarà meno paura e meno pessimismo.
Occorre saper vedere infatti non solo quello che muore, ma anche quello che nasce, perché a qualcosa che muore si lega sempre qualcosa che nasce. Che cosa muore? Sant’Agostino diceva che egli non avrebbe potuto credere al vangelo se non l’avesse spinto l’autorità della chiesa cattolica (Contra ep. Man. 5,6: “Ego vero evangelio non crederem, nisi me catholicae ecclesiae commoveret auctoritas”), fondando così il modello della fede che fa del cristiano un ecclesiastico, cioè un membro di una struttura di cui deve accettare la dottrina.
Oggi questo modello sta morendo, l’epoca della fede dogmatico-ecclesiastica che implica l’accettazione di una dottrina e di un’autorità è ormai alla fine perché il metodo sperimentale della scienza è entrato anche nella vita spirituale dove ora il soggetto vuole sperimentare in prima persona, e con ciò la fede di seconda mano mediata dall’autorità ecclesiastica è superata.
Al suo posto sta nascendo un cristianesimo non-dogmatico che dall’esteriorità dottrinale passa all’interiorità esistenziale, che all’autorità istituzionale preferisce l’autenticità personale. Il passaggio da Benedetto XVI a Francesco è una manifestazione di questo movimento epocale, così come lo sono i risultati del sondaggio mondiale commissionato dal Vaticano che mostrano una grande distanza tra la dottrina ufficiale e la fede realmente vissuta.
Ne viene che se il cristianesimo vuole tornare a essere percepito come una buona notizia che risana e rallegra l’esistenza, e insieme come verità di quel processo che chiamiamo generalmente mondo, si deve sottoporre a riforma. La dottrina sulla famiglia è solo il primo inevitabile passo. Se non lo fa, l’esito è segnato dalle parole di un giovane riportate nelle Conversazioni notturne a Gerusalemme di Carlo Maria Martini: “Non so che farmene della fede. Non ho nulla in contrario, ma cosa dovrebbe darmi la Chiesa?”. È il pensiero della gran parte dei giovani europei.
Qualcuno teme che questa riforma possa inquinare l’identità cristiana. Ma per il cristianesimo la rilevanza è parte costituiva dell’identità, non qualcosa che viene dopo. Un’identità irrilevante non può essere un’identità cristiana, tanto meno cattolica cioè universale. “Voi siete il sale della terra” (Mt 5,13), “voi siete la luce del mondo” (Mt 5,14): l’identità cristiana è da subito relazionale, è essere-per, prende senso solo nella relazione, così come il sale ha senso solo in relazione ai cibi o il lievito alla farina (Mt 13,33: “Il regno dei cieli è simile al lievito, che una donna prese e mescolò in tre misure di farina, finché non fu tutta lievitata”). Ne consegue che se viene meno la relazione, viene meno l’identità. Il cristianesimo vive della logica della relazione con l’alterità e tale logica lo spinge inevitabilmente verso la riforma, obbedirle non è una concessione al relativismo, è semplicemente un dovere verso il Vangelo.
Ma se papa Francesco non ce la farà? Se non riuscirà a sanare lo Ior, a rendere il governo della Chiesa cattolica più conforme al volere del Vaticano II, a incidere sul rapporto con la politica italiana facendo cessare per sempre la compravendita di favori tra cardinali e ministri troppo sensibili agli interessi della Chiesa, a mettere ordine tra i vescovi e i superiori degli ordini religiosi richiamando tutti a uno stile di vita sobrio e conforme ai valori evangelici, a dare il giusto spazio alle donne a livello di condivisione del potere aprendo al diaconato e al cardinalato femminili, a riformare la morale sessuale, a impostare su basi nuove il reclutamento e la formazione del clero, a dare finalmente più libertà alla ricerca teologica? Se papa Francesco fallisse in tutto ciò?
Ha scritto qualche giorno fa un non credente come Eugenio Scalfari che grazie a Francesco “Roma è ridiventata la capitale del mondo... Roma, la città di papa Francesco, è il centro del mondo”. Scalfari parlava ovviamente della leadership spirituale, di cui l’occidente ha un immenso bisogno per continuare a credere nei grandi ideali dell’umanità, tradizionalmente definiti come bene, giustizia, uguaglianza, solidarietà, fratellanza.
In un mondo dove tutto è potere e calcolo, la figura genuina di questo papa ci fa comprendere che non tutto in noi è potere e calcolo, che c’è ancora spazio per la gratuità, l’amore sincero, la volontà di bene per il bene. Il suo fallimento sarebbe la fine della luce che si è accesa nell’esistenza di tutti gli esseri umani non ancora rassegnati al cinismo e alla crudeltà della lotta per l’esistenza, e con Roma che tornerebbe a essere periferia del mondo sarebbe la fine per gli ideali della spiritualità in occidente. Se lo ricordino i cardinali, i monsignori e i teologi che stanno facendo di tutto per bloccare e far fallire l’azione riformatrice di papa Francesco.