"The Vico road goes round and round to meet where terms begin. Still anappealed to by the cycles and onappaled by the recourses, we fill all serene, never you fret, as regards our dutyful cask... before there was a man in Ireland there was a lord in Lucan"*
"La strada di Vico gira e rigira per congiungersi là dove i termini hanno inizio. Tuttora inappellati dai cicli e indisturbati dai ricorsi, sentiamo tutti sereni, mai preoccupati al nostro doveroso compito... Prima che vi fosse un uomo in Irlanda c’era un lord in Lucania" (Vico ha abitato per circa nove anni decisivi per la sua vita a Vatolla, poco distante da Paestum Agropoli, Elea e Palinuro) *
*FONTE: AA.VV., INTRODUZIONE A FINNEGANS WAKE, trad. di Francesco Saba Sardi, Sugar Editore, Milano 1964 (su Vatolla, precisazione mia, fls). La citazione è ripresa dal saggio di Samuel Beckett, "Da Dante a Bruno, da Vico a Joyce" (pp.9-26).
PER APPROFONDIMENTI E L’AVVIO A UNA (RI)COMPRENSIONE DELL’OPERA DI VICO, PROSEGUIRE LA LETTURA DI->: L’ITALIA AL BIVIO: VICO E LA STORIA DEI LEMURI (LEMURUM FABULA), OGGI. Un invito alla (ri)lettura della "Scienza Nuova"
Federico La Sala (24.02.2013)
GAETANO FILANGIERI: DEMOCRAZIA "REALE": CHE COSA SIGNIFICA? CHE COSA E’? Alcuni chiarimenti, con approfondimenti
VICO, PENSATORE EUROPEO. Teoria e pratica della "Scienza Nuova". Note per una rilettura
FLS
LETTERATURA COMUNICAZIONE STORIOGRAFIA E CREATIVITÀ:
ANTHONY TROLLOPE E IL "GENERAL POST-OFFICE" BRITANNICO.
SCRITTORI VITTORIANI.
Anthony Trollope, l’Irlanda nel salotto di Londra
Anthony Trollope visse quasi vent’anni nell’Isola di Smeraldo, che sentiva familiare, e si adoperò per l’unificazione politica con l’Inghilterra. Phineas Finn è il giovane e ambizioso eroe cattolico, protagonista dei suoi romanzi «irlandesi»: Sellerio ha appena tradotto «Il ritorno di Phineas Finn», del 1874
di Viola Papetti (il manifesto - Alias domenica, 5 febbraio 2023).
La tela narrativa di Anthony Trollope è tessuta con filato forte, anche quando il personaggio si trovi in momenti imbarazzanti o drammatici, sotto lo sguardo ironico dell’autore. Scrisse Henry James: «Il suo inestimabile merito fu conferire gran valore alle solite cose (the usual) ... Sentiva tutto il giorno e immediatamente le cose come le vedeva; le vedeva in modo semplice, diretto, sobrio, con la loro tristezza, la loro allegria, il loro incanto, la loro comunicabilità, il loro significato ovvio e riconoscibile». Aggiungerei ai meriti innati una vita attiva (1815-1882) che gli permise di testimoniare certi profondi mutamenti del secolo vittoriano. E anche la singolare professione di dirigente delle Poste inglesi e irlandesi, in un tempo in cui nel Regno Unito la corrispondenza poteva arrivare due volte al giorno. Scrivere e leggere lettere era compito e privilegio delle classi abbienti che scrivevano furiosamente - anche entro la cornice di romanzi ‘realisti’ (Dickens, Thackeray, Collins...). Un fiume di storie scorreva tra le attente dita del dirigente postale: la vita muta trascritta in modo semplice e rapido nel quadratino della lettera. Affetti, ricordi, promesse, notizie di amici e parenti, di nascite e morti.
Scrisse nell’autobiografia: «(l’autore) desidera che i lettori siano intimi delle creature della sua mente ... devono sapere se sono fredde o appassionate, sincere o false, e in che misura ... ho vissuto coi miei personaggi e da questo deriva il successo che riesco a ottenere». Abitò a lungo in Irlanda, quasi vent’anni, la percorse tutta, si innamorò della gente, della cultura presente e passata, e sperò di poter offrire un contributo per risolvere la difficile situazione politica. Era il mediatore ideale, essendo inglese, educato nelle scuole migliori e dalla madre scrittrice, ma di famiglia povera. «È un destino per me di essere in tanta familiarità con l’Irlanda che quando incontro un irlandese all’estero lo sento a me più vicino che un inglese». Trollope fu una figura chiave nel tentativo di unificare le due nazioni nel momento più drammatico della loro storia, secondo la tesi di John McCourt, nato a Dublino, docente di letteratura inglese e rettore dell’università di Macerata (Writing the Frontier: Anthony Trollope, Oxford University Press, 2015).
Nel 1845 la Fenian Brotherhood fu fondata negli Stati Uniti da immigrati irlandesi, ed ebbe inizio quel movimento insurrezionale che avrebbe lottato per una libera Irlanda fuori dal Regno Unito. Il nome del mitico eroe Finn (scritto in varie grafie, anche con il «Ph» inglese che perversamente sostituiva l’originario «F») garantiva l’antico diritto alla libertà dell’isola di smeraldo. Il terrorismo feniano minacciava Londra con una serie di attentati contro le carceri in cui erano detenuti i militanti irlandesi, e nel 1867 morirono più di cento persone nell’esplosione della prigione di Clerkenwell. Due anni dopo uscì il primo romanzo «irlandese» di Trollope, Phineas Finn, the Irish Member, un titolo che era già un messaggio, pubblicato da Sellerio nel 2018, a cui segue ora - sempre nella collana «La memoria» - Il ritorno di Phineas Finn (Phineas Redux, 1874), entrambi tradotti da Rossella Cazzullo, voce italiana di Trollope che firma anche una «Notizia» finale (pp. 913,€ 20,00). Fu per scelta di Elvira Sellerio che lo scrittore aveva trovato la sua dimora italiana nella casa editrice che finora ha pubblicato ben 14 dei suoi 74 romanzi.
Phineas Finn, «il nostro eroe» che torna anche in racconti minori, è un giovane, ambizioso irlandese, cattolico, sebbene la sua famiglia sia protestante, figlio di un medico di campagna, che tuttavia ha studiato al Trinity di Dublino, l’università protestante. In politica è liberale, e vorrebbe entrare in Parlamento. «Era alto sei piedi, e molto bello, con brillanti occhi blu, e capelli castani ondulati, e una setosa barba chiara. La signora Low aveva detto al marito più di una volta che era di gran lunga troppo bello per combinare qualcosa di buono». La signora aveva visto giusto, e il primo volume si chiude col suo fallimento politico, ma non di seduttore. Il ritorno sulla grande scena metropolitana avverrà con più fermo proposito e affinata esperienza. Non è un eroe senza macchia e senza paura, e tornato a Londra per riprendere il tentativo fallito nel recente passato, riflette sulla difficoltà di tentare di nuovo la scalata del successo politico e mondano con pochi soldi in tasca. Che una volta finiti «si sarebbe trovato indigente, con il mondo davanti a lui come un’ostrica chiusa da aprirsi di nuovo, e lui sapeva - nessuno meglio di lui - che quell’ostrica diventa sempre più difficile da aprirsi quando l’uomo che deve aprirla diventa più vecchio. Si tratta di un’ostrica che si richiuderà con un colpo secco, dopo che vi avete ben infilato il coltello dentro, se solo per un attimo ne ritirate la punta. Lui aveva già avuto un duro scontro con l’ostrica, e aveva raggiunto la perla nella conchiglia. Tuttavia, l’ostrica che aveva avuto, non era l’ostrica che voleva...» (Il ritorno, p. 21).
Il narratore onnisciente, anche lui desideroso di successo, non aveva previsto per Phineas Finn la terribile Clerkenwell, ma lo splendore della Londra vittoriana, il palcoscenico mondano, la caccia alla volpe, le strategie della politica, la variopinta corte di signore e signorine che soccorrono Phineas, meravigliosamente acconciate dal sardonico autore. «Le donne vengono spesso paragonate ad animali o si parla di loro come se animali fossero - osserva Rossella Cazzullo nella sua “Notizia” che tenta di riallacciare quel passato al nostro presente -; sono cavalle da far trottare fuori da un edificio, vespe fastidiose e gatte che soffiano; il che ci dice molto sul modo di percepirle che appartiene a un tempo non così lontano». Unica costante tra ieri e oggi è l’uomo politico, Phineas con il suo mondo che è facile prevedere continuerà fuori dal romanzo, nella storia vera, sempre uguale a sé stesso. «Un bevitore o un giocatore - conclude Trollope - possono venir allontanati dalle loro abitudini, ma non un politico».
Intanto a Dublino, dove i vescovi cattolici appoggiavano gli insorti, si era deciso di aprire un’università cattolica, affidata ai gesuiti, e Gerald Manley Hopkins fu coinvolto come professore di letterature classiche. Da quell’«esilio», secondo la sua espressione, scrisse nel 1887 all’amico Robert Bridges: «È sempre stato il difetto della massa degli inglesi di non sapere niente e infischiarsene dell’Irlanda, lasciando che le cose andassero come volevano, che, in tal caso, è stato persecuzione, avidità, oppressione. E ora, non appena questa gente si sveglia e si risente dei torti che l’Inghilterra ha commesso, fa come quella dama in Mark Twain che ‘scoppia in lagrime, e manda un parasole di seta rossa e una scatola di forcine sul teatro di guerra’».
Nota:
ANTHONY TROLLOPE E IL "GENERAL POST-OFFICE".
PER "REDIMERE TROLLOPE" E RESTITUIRGLI LA GLORIA DEGLI ALLORI, FORSE, E’ NECESSARIO PASSARE DAL "POST"...
... ALLA SUA VITA E AL SUO LAVORO, AL SERVIZIO POSTALE E ALLA STORIA DELLA POSTA:
Francesco Tasso e la nascita delle poste d’Europa nel Rinascimento
di Tarcisio Bottani (Museo dei Tasso e della Storia postale
La Roma di Joyce
Il viaggio da Trieste alla Capitale di James Joyce non ha proprio la fascinazione del Grand Tour intellettuale. Queste giornate le racconta il bel saggio di Enrico Terrinoni - "Su tutti i vivi e i morti. Joyce a Roma" (Feltrinelli)
di Roberto Carvelli *
Tre truffe ad Ancona - “lurido buco: sembra un cavolo marcio" - e una notte passata all’addiaccio con la compagna Nora e Georgie, il figlio di tredici mesi. Il viaggio da Trieste a Roma di James Joyce non ha proprio la fascinazione del Grand Tour intellettuale. Piuttosto una puntata di "Le iene" sul malaffare di cambiavalute, vetturini e impiegati ferroviari, a inizio secolo.
Ancora un po’ d’Umbria ed ecco Joyce proseguire il suo esilio volontario dall’Irlanda nella capitale del Regno, è il 31 luglio del 1906. Seguono 7 mesi e 7 giorni di vita romana, dall’afa estiva alla neve, che possiamo ricostruire attraverso le lettere al fratello Stanislaus (Stannie) rimasto a Trieste all’insegna di un accudimento economico e psicologico a distanza del grande scrittore che ha allora all’attivo una raccolta di poesie accompagnata da tante disillusioni editoriali ma sta raccogliendo i racconti "Dubliners" e si appresta a scrivere il libro che lo eternerà, l’Ulisse.
Queste giornate le racconta il bel saggio di Enrico Terrinoni - "Su tutti i vivi e i morti. Joyce a Roma", uscito per Feltrinelli, rivelando quanto la permanenza apparentemente minore, anche in termini di tempo, abbia influito sulla sua opera maggiore.
Mentre è nota, infatti, la relazione tra lo scrittore irlandese dell’Odissea novecentesca e Trieste, in cui trascorse salvo questo periodo ed episodici ritorni in patria dal 1905 al 1920, meno si è scandagliata l’influenza capitolina sul suo lavoro successivo. A partire dal dramma "Exiles" dove la Capitale è scenario certo ma in tutta la sua opera.
Si sa che Joyce andò a Roma per lavorare in banca, ma non sulla base di competenze economico-finanziarie quanto della stretta relazione con le lingue che gli consentirono di lavorare per i primi mesi a stilare e tradurre lettere commerciali.
Enrico Terrinoni, che è titolare della cattedra di Letteratura inglese presso l’Università per stranieri di Perugia e insegna Traduzione all’Università Iulm di Milano, si è misurato con James Joyce traducendo e curando le sue opere più complesse come "Ulisse" appunto, e il libro definitivo dell’oscurità, il "Finnegans Wake", oltre alle "Lettere e saggi".
Qui il corpo a corpo con la vita dell’irlandese si fa ricerca di nessi biografici e corrispondenze numeriche fino quasi alla paranoia e ai ricettacoli teosofici della memoria del mondo: si tratta solo di tirarli fuori e a Terrinoni dobbiamo questa minuziosa opera di scavo e svelamento.
L’autore del capolavoro del flusso di coscienza, l’Ulysses - di cui il 2 febbraio sono ricorsi i 100 anni dalla pubblicazione -, arriva a Roma sull’onda di un’idiosincrasia ormai consolidata per la corrotta "C.C.R. (Chiesa Cattolica Romana)" - la stessa che lo aveva fatto fuggire dalla grande influenza che essa produceva a Dublino. Ma a Roma c’è anche la traccia di quello che per altro verso lo affascina: Giordano Bruno, intanto, ma pure Gioacchino da Fiore. Religiosità laterali che danno fiducia alla sua visione del mondo non "allineata" e tormentata dal senso del peccato ma affascinata della mistica.
Nel libro si succedono le case romane di J.J.: Via Frattina 52 - dove anni fa fu apposta la targa del suo passaggio -, via di Monte Brianzo 51 (vicino alla prigione dell’amato filosofo Bruno, quasi un suo transfert personale, una connessione di destino), tra le due delle pensioni per riparare allo sfratto inatteso e subito come un torto.
Ma "Roma fu per Joyce - come racconta Terrinoni - una città di fantasmi, di spettri del passato che tornavano a infestare un presente incerto e minacciavano ogni idea di futuro, a dispetto di tutte le grandi intenzioni e aspettative di quando partì da Trieste".
Lo terrorizza in particolare il Tevere che si unisce a due sue paure consolidate: cani e fulmini. Ma è tutta l’atmosfera romana a suscitare il nesso traumatico tanto da suscitargli il racconto "I morti" e da riattizzare le fiamme dell’eterno conflitto materia e spirito, corpo e anima. Il 25 settembre 1906 guarda i Fori da una panca di pietra e scrive "Roma mi fa pensare a un uomo che si mantiene esibendo ai turisti il cadavere di sua nonna" e riconosce di essere stato troppo duro con la sua Dublino. Al fratello, che sempre lo incoraggerà a rimanere nella città, confessa la coincidenza tra un appetito smodato e gli incubi notturni e sembra quasi che le due cose avessero una correlazione come a dire di un Urbe bulimica. Nei sogni veri è James stesso l’assassino e, in quelli ad occhi aperti, riemergono il sospetto tradimento della moglie e lo spettro della gelosia che lo corrode a distanza oltre all’ossessione per la morte e il parricidio.
Eppure, furono persino allegri i giorni a Roma di Joyce ubriaco a ballare, ad esempio a fine permanenza, con due postini tra gli alti alberi e i busti del Pincio. Nota è l’amicizia con il Signor Pace, di giorno impiegato al Ministero delle Finanze e di sera gestore della trattoria a Monte Brianzo dove l’irlandese si ristora. L’ultima sera romana - a rischio di non avere i soldi per il ritorno a Trieste - andò anche peggio e J.J. finì per essere derubato uscendo da un bar ubriaco.
Il 15 agosto Joyce sale in cima a uno dei pochi omnibus a cavallo rimasti e va da Termini al Verano poi finisce anche qui tutto in vino. A novembre dalla sua scrivania d’ufficio sente esplodere una bomba con gran fragore di cocci al caffè Aragno "sull’angolo del nostro palazzo", poi una a San Pietro salta poco prima di una sua visita. Un giornale dell’epoca l’aveva anticipato in una lettera a firma "Il Bombardiere". Nella Roma di insurrezioni anarchiche e anticlericali, Joyce si appassiona al partito socialista italiano e alle sue tesi scoprendo una vocazione politica. Come scrive Terrinoni "dopo Roma, “scrivere politicamente” sarebbe stato per Joyce un punto fermo". Ed è curioso che l’unica foto romana di Joyce - come racconta Carlo Bigazzi curatore di una mostra e un catalogo di anni fa - sia un raduno di anarchici sotto la statua di Giordano Bruno in cui, a un ingrandimento professionale, si potrebbe rivelare il suo cappotto bianco. Non male per il maestro dell’epifania no?
Ma, alla fine, dalla Roma casa (Rome/Home è solo uno dei tanti giochi di parole joyciani rintracciati da Terrinoni) e cimitero che impantana e trasforma tanto da suggerirgli l’idea dell’Ulisse, sembra dirci Joyce, si deve e si può solo scappare.
* Fonte: HUFFPOST, 26 Aprile 2022
“Ulisse di James Joyce. Guida alla lettura” di John McCourt*
Prof. John McCourt, Lei è autore del libro Ulisse di James Joyce. Guida alla lettura edito da Carocci: quale importanza riveste, nella storia della letteratura del XX secolo, l’opera di James Joyce?
È di un’importanza fondamentale per vari motivi. È il primo significativo romanzo irlandese ambientato proprio nella futura capitale. Esce nel 1922, l’anno in cui Dublino diventa la capitale dello Stato Libero d’Irlanda (the Free State o Eire).
L’Ulisse rende la città una capitale culturale da mettere vicino a quella politica e offre una visione della società ben più aperta di quella della realtà attuale a Dublino o di quella che sarebbe venuta nella Dublino ultra-cattolica e nazionalista nei decenni dopo l’indipendenza.
Contemporaneamente offre un ritratto di Dublino nel 1904 senza paragone, con una fedeltà estrema ai dettagli storici. Allo stesso tempo, si tratta di un romanzo europeo; la Dublino di Joyce diventa la città moderna emblematica, costruita su più strati, distratta nella sua quotidianità ma allo stesso tempo un labirinto in cui l’individuo si perde.
L’Ulisse rappresenta il culmine ma anche il superamento del romanzo realista - utilizzando tutti gli strumenti del genere per poi superarlo e sviluppare una forma ibrida degna dei tempi cambiati dopo la fine del secolo del progresso.
Quali difficoltà pone la sua lettura?
Non per niente, Joyce stesso disse a Max Eastman: “Ciò che chiedo al mio lettore è di dedicarsi per tutta la vita a leggere le mie opere”. L’autore stesso definì l’Ulisse come un “maledettissimo romanzaccione”.
Certo non va letto nel modo convenzionale. C’è sempre il rischio di perdersi nelle infinite allusioni, nelle parole complesse, negli eventi - per lo più insignificanti - narrati. C’è poca trama ma c’è il mondo intero concentrato in meno di 24 ore a Dublino.
Innanzitutto, il romanzo (o meglio, l’epopea per utilizzare il termine che Joyce preferì) inizia due volte (una prima volta con Dedalus e poi, col quarto episodio, con Leopold e Molly Bloom).
Finisce pure due volte: nel penultimo episodio - “Itaca” sembra di arrivare alla conclusione quando Leopold Bloom, dopo la sua lunga e intensa giornata, va a letto e si addormenta vicino a Molly “With? Sinbad the Sailor and Tinbad the Tailor and Jinbad the Jailer ...” (“Con? Sinbad il Marinaio e Tinbad il Tailleuraio e Cinbad il Carcerario ...”) e invece no.
Molly, e il romanzo con lei, si risveglia e offre la sua trionfante conclusione, il famoso monologo con il più elaborato uso del flusso di coscienza mai visto.
Le difficoltà stanno dovunque ma soprattutto nel fatto che ogni episodio ha uno stile proprio e il lettore rischia di trovarsi in uno stato di disorientamento (che dovrebbe assomigliare al senso di smarrimento dell’uomo moderno che conosciamo anche nelle opere di tutti gli altri modernisti).
In quale contesto storico e culturale si inserisce il romanzo?
Si inserisce in vari contesti ma vive anche sopra ogni contesto storico come ogni grande classico. Detto ciò, al nuovo lettore serve una conoscenza della storia irlandese (ed inglese) e della religione cattolica (ed ebraica) e almeno una sintesi dell’Odissea di Omero. Aver letto alcuni importanti romanzi europei del diciottesimo secolo non guasta, neppure aver letto Shakespeare e soprattutto Amleto.
Il lettore italiano (e non solo) farebbe bene a ricordarsi che l’Ulisse di Joyce venne costruito a Trieste, una città che divenne per l’autore una seconda, piccola Irlanda. Trieste, ai suoi tempi, era una città plurilinguistica e un “ponte” tra diverse culture, una città di tensioni, contraddizioni, una città multi-religiosa, ma anche, ad esempio, un centro avanzato per la psicoanalisi.
Joyce trovò a Trieste parecchi elementi - l’ebraismo di Bloom e Molly, l’italianità presente nel testo (nel linguaggio, nelle citazioni dantesche, nelle opere liriche citate), il senso di essere al centro dell’Europa in una fase di forti cambiamenti - che furono centrali per la costruzione del suo testo. Per il lettore italiano che si avvicina oggi ad Ulysses, questo accumulo di materiale può rappresentare un vantaggio e una possibile chiave d’accesso.
Quale chiave d’accesso al romanzo offre la sua guida?
La guida parte dall’idea che ognuno deve trovare la propria chiave d’accesso. Entrare nell’opera di Joyce è come visitare una grande città per la prima volta. Può vedere tante cose ma non potrà mai vedere tutto. Di conseguenza bisogna trovare una mappa per attraversare la città nel modo migliore senza perdersi troppe volte e senza perdere le cose più belle che ci sono da vedere. Il punto è che non è necessario (né possibile) cogliere o comprendere tutto.
Ogni lettore può e deve sfruttare le proprie conoscenze - linguistiche, musicali, religiose, culturali, storiche, e le proprie esperienze personali per trovare la chiave d’accesso personale. Una volta trovatosi un po’ più “a casa” nell’opera, il lettore si rende conto che non finirà mai di leggerla. Come il viaggiatore si rende conto di non poter mai apprezzare tutte le sfumature di una grande metropoli.
In che modo il racconto si richiama ai testi omerici?
In una lettera a sua zia, Mrs. Josephine Murray, Joyce tentò di indirizzarla nella lettura. Scrisse: “Se vuoi leggere Ulysses è meglio che prima ti procuri o prendi in prestito da una biblioteca una traduzione in prosa dell’Odissea di Omero”. Altrove, Joyce ha motivato come segue la sua scelta dell’Odissea come trama base, come modello, come struttura portante del suo Ulysses dicendo che ‘I tratti più belli e più umani sono contenuti nell’Odissea.’
Il consiglio di leggere l’Odissea è ancor oggi validissimo perché il romanzo di Joyce la prende come struttura di base (per poi stravolgerla).
La prima parte contiene tre episodi che corrispondono agli episodi omerici che riguardano Telemaco, Nestore e Proteo.
La seconda parte vede l’ingresso in scena di Leopold Bloom ed è composta da dodici episodi che corrispondono a quelli omerici di Calipso, Lotofagi, Ade, Eolo, Lestrigoni, Scilla e Cariddi, Rocce Erranti, Sirene, Ciclopi, Nausicaa, I buoi del sole, e Circe.
La terza parte è quella del Nostos (il ritorno a casa) ed è in linea con la prima parte, essendo una seconda triade (Eumeo, Itaca, Penelope).
Così come c’è corrispondenza fra i capitoli del libro, c’è anche tra i personaggi: Stephen Dedalus corrisponde alla figura di Telemaco, il figlio di Ulisse; Leopold Bloom, viene associato con Ulisse stesso, e Molly ci riporta alla figura di Penelope. Il lettore viene colpito particolarmente dalla figura di Leopold, che girovaga per la città di Dublino, proprio come il leggendario Ulisse vagava per il Mediterraneo.
Anche se dietro all’ombra di Bloom c’è l’eroe greco antico, lui è un eroe moderno, insicuro, gentile e generoso (anche troppo). È un ottimo esempio dell’homme moyen sensuel (il tipico uomo medio) ma anche della figura baudelairiana del flâneur - l’uomo artistico che cammina nella città cercando di dare senso alla propria vita.
Come vengono caratterizzati i personaggi?
Se pensa di trovare convenzionali descrizioni dei personaggi, il lettore rimarrà deluso. Veniamo a conoscere ogni personaggio pian piano tramite le sue azioni, tramite i dialoghi, ma ancora di più tramite le cose pensate ma non dette. Già nella prima parte del romanzo, viene messa fortemente in discussione la tradizionale figura del narratore onnisciente, ovvero l’affidabile mediatore tra i personaggi e il lettore, figura che fino ad allora era stata considerata necessaria per la comprensione del testo. Sempre di più nell’Ulisse il lettore si trova a contatto diretto con i principali personaggi e può seguire i loro pensieri appena formulati, fuggevoli, spesso caotici, che affiorano e scompaiono nel continuo fluire delle loro coscienze.
Quali caratteristiche presentano lo stile e la tecnica di scrittura del romanzo?
Dopo uno stile iniziale che è abbastanza abbordabile, nella seconda parte del libro, da “Rocce Erranti” in poi, le cose sono ancora più complicate: il romanzo cambia radicalmente, il cast dei personaggi cresce, e - stilisticamente - il lettore si trova ad affrontare una serie continua di bruschi cambiamenti. Ogni episodio è totalmente diverso dagli altri. La narrazione stessa diventa protagonista e a volte sembra che lavori contro gli stessi personaggi e contro l’ordinaria necessità di portare avanti una trama.
Spiega Joyce a proposito della seconda parte del libro e in particolare “Ciclope” e “Circe”: “mi è impossibile scrivere questi episodi rapidamente. Gli elementi necessari si fondono soltanto dopo una prolungata coesistenza. Riconosco che è un libro estremamente stancante ma è l’unico libro che sono in grado di scrivere attualmente. [...] Ciascun episodio successivo, trattando di un qualche campo della cultura artistica (retorica o musica o dialettica), si lascia dietro una terra bruciata.”
Joyce non intendeva raccontare una storia usando solo le tecniche comuni e consolidate. Al contrario voleva palesare i limiti di quelle tecniche, i limiti della letteratura convenzionale per ritrarre la vita attuale e il pensiero moderno. Per farlo ha dovuto inventare nuovi metodi, nuovi stili e nuove tecniche che stiamo ancor oggi imparando a leggere e capire.
John McCourt è l’autore di James Joyce. Gli anni di Bloom (Mondadori) che ha vinto il Premio Comisso nel 2005. È cofondatore della Trieste Joyce School dell’Università di Trieste, Presidente-eletto dell’International James Joyce Foundation e ordinario di Letteratura inglese all’Università di Macerata.
* Fonte: Letture.org
I due traduttori raccontano l’impresa impossibile di entrare in un labirinto di sogni, vocaboli, immagini
di Fabio Pedone, Enrico Terrinoni (La Stampa, 23/01/2017)
Quando abbiamo iniziato il lavoro su Finnegans Wake ci siamo trovati di fronte un unicorno dei boschi narrativi, il più imprendibile e affascinante degli organismi verbali, composto con l’idioma caleidoscopico di un Sognatore misterioso nella cui mente va in scena, «riraccontata», la storia umana. Ricco di allusioni e significati disposti con pazienza da Joyce in ogni piega del testo.
Tradurre l’intraducibile, proprio perché «non si può fare», è sempre possibile, cioè ri-pensabile, secondo una rete di rifrazioni e associazioni attente; e conduce, in un rilancio infinito, a una «abnihilisation» di quell’etimo/atomo che per Joyce diventa «etym». Ecco allora una paradossale nascita di atomi dal nulla (ab nihilo) che è pure un annichilimento dell’etimo, della statica origine di ogni parola, verso una ricreazione del caos primordiale, ovvero una plurale, nuova possibilità di cosmo: senza frontiere, distinzioni o identità fisse.
Di fronte a parole-prisma che brulicano sulla pagina quasi fossero materia vivente, altalenando tra le lingue, ogni lettore diventa rabdomante, scettico e aperto alle sorprese, e lui stesso vive in un permanente «stato di traduzione», tessendo in modo accurato o visionario il proprio «libro-sogno».
Se la forza dell’enigma è di essere sempre inesauribile, Finnegans Wake ci immerge nell’oscurità dell’esistere dicendoci che siamo noi a dover portare un bagliore di luce nella sua selva intricata, sciogliendo la lingua; per riscrivere storie e miti della famiglia umana mettendo in viaggio le solite vecchie parole che ci portiamo addosso da sempre, fino a farne qualcosa di «mai sentito».
Luigi Schenoni, il nostro predecessore nel tentativo di rendere in italiano il Wake, chiamava la propria opera una ri/creazione. Questo perché, spiegava, «il nipote di James, figlio di Giorgio Joyce, ha espressamente proibito di chiamare traduzione qualsiasi rifacimento in altra lingua di Finnegans Wake». Il che ricorda un’occasione simile, quando lo stesso erede concesse i diritti di traduzione dell’Ulisse a un team di traduttori, ma li ammonì: «non ne cambiate una sola parola».
Ora, la traduzione - di qualunque testo - impone di cambiarle tutte, le parole; e Joyce lo sapeva bene, quando nel 1930 parlò a Hoffmeister dell’impossibilità di tradurre il suo libro, perché non era scritto in una lingua precisa, e aveva un protagonista, il fiume, che ovviamente parlava il linguaggio di un fiume. Tuttavia, poi, incoraggiandone una traduzione in ceco, disse che era possibile mutare il testo in poesia, «poeticizzarlo con la più grande libertà poetica di cui si è capaci», lasciando così al potenziale traduttore «ogni possibile libertà nella trasformazione delle parole», e aggiungendo: «Devo restare come sono, semplicemente spiegato nella vostra lingua».
Altro che l’impossibilità di tradurre poesia. Qui abbiamo il testo più intraducibile che può esser tradotto soltanto in poesia. E poesia è da intendersi nel suo senso greco, come «fare, creare». Creare le parole, e dedicarvisi, dice Joyce, con il più gran «transfusiasmo» possibile.
Questo fece quando assieme a Nino Frank tradusse parti del suo testo in uno scoppiettante straitaliano, al punto che persino frasi semplici divennero in traduzione arditissime: «What was it he did» diventò «Che cozzo ha fotto», mentre in Schenoni è semplicemente «Che cosa ha fatto». Ma poi, dove Joyce scrive «the roughty old rappe», e Schenoni imitando traduce «la vecchia rozza repceanaglia», il sommo irlandese si straduce e s’inventa: «Forcadea, che carogna!»
Impossibile è sì quel che non si può fare, ma anche quel che non s’è ancora fatto. Missione ancora più importante rispetto a un libro come Finnegans Wake, che per dirla con Beckett «non riguarda qualcosa: è quel qualcosa». Tradurre il Wake non è solo reinventare una lingua, ma andare alle radici, storiche e mitiche, dell’atto linguistico. Joyce ci insegna che ogni parola è inventata. E se è stato capace di riscrivere la Creazione in senso atomistico (Adam and Eve divengono Atoms and ifs, meri «atomi e se»), o se ha saputo inserire nel termine biography («biografia») i semi della paura producendo beogrefright, in cui abbiamo beo che in irlandese è «vita», ogre, «orco» in inglese; e fright che sempre in inglese è «paura», questo è perché i fantasmi del passato possono spaventare, soprattutto se non provengono dal nostro, di passato.
La creatività, o meglio il creazionismo linguistico del Wake, proviene dal crollo di Babele e dal turbinoso ricomporsi delle sue rovine. Nel libro di Joyce Babel diviene babble («cicaleccio»), una nuova lingua ribelle e luciferina, l’idioma ridanciano di Belzebù (belzey babble). Uno slanguage fatto di espressioni giocate in più sensi e di sfrenati e serissimi giochi di parole.
La pagina di Finnegans Wake è il luogo delle metamorfosi, ed è inutile muovervisi per esclusione come nella logica diurna, rigida e disgiuntiva, perché qui errori, sviste ed espressioni dubbie, intrasentite nel dormiveglia, ci gettano in un labirinto, lo stesso che è nell’orecchio di uomini e animali. Un labirinto a forma di punto interrogativo, dove ascoltare e ri-dire sarà anche ridere. Tutto è movimento, le parole fanno capriole e sono in festa, ma sappiamo che dietro di loro si nasconde un potere immane: così ciascuno, traducendosi attraverso il Wake , potrà essere quel che è Shakespeare nel Wake: Shapesphere, un plasmatore di mondi, come il Linguaggio stesso, che trasforma la realtà.
JAMES JOYCE
VIAGGIO AL TERMINE del ’900
di Stefano Bartezzaghi ( "Il Venerdì di Repubblica", 13.01.2017)
Con l’Ulisse aveva sconvolto il romanzo, ma con Finnegans Wake andò oltre, inventando un poema dalla lingua babelica dove i miti si confondono con le canzoni da pub. L’ammiratore Umberto Eco lo definì «terrificante».
Tradurlo sembrava impossibile. Però due italiani ci sono riusciti. Qui spiegano come hanno affrontato un capolavoro venerato dalle avanguardie ma che oggi qualsiasi editore butterebbe nel cestino.
«Riverrun», «Meandertale», «Chaosmos» sono tre fra le parole-chiave (molte, e tutte assenti da ogni vocabolario) del romanzo di cui l’autore stesso pensava: «Forse è una follia. Si potrà giudicare solo fra un secolo». Oggi è ancora troppo presto, di anni ne sono passati meno di ottanta, e l’opera estrema di James Joyce può continuare a sembrare un libro immaginario, una congettura di Jorge Luis Borges.
Invece il Finnegans Wake non solo esiste davvero, ma viene persino tradotto in italiano. Di Joyce è opera estrema non solo perché ultima (è uscito nel 1939, diciassette anni dopo l’Ulysses, e due anni prima della morte dell’autore).
Lo spiegò Umberto Eco, nel 1962: «Pareva che Ulysses avesse sconvolto oltre ogni limite la tecnica del romanzo: Finnegans Wake supera questo limite oltre i confini del pensabile. Pareva che in Ulysses il linguaggio avesse dato prova di tutte le sue possibilità: Finnegans Wake porta il linguaggio oltre ogni confine di duttilità e di comunicabilità. Pareva che Ulysses rappresentasse il più ardito tentativo di dare una fisionomia al caos: Finnegans Wake costituisce il più terrificante documento di instabilità formale e ambiguità semantica di cui si sia mai avuta notizia».
Più di recente lo scrittore Martin Amis ha significativamente intitolato «La guerra contro i cliché» una prefazione all’ Ulysses, e vi ha così riassunto le quattro tappe fondamentali della produzione joyciana: «Gli accessibilissimi racconti di Gente di Dublino, il più o meno comprensibile Ritratto dell’artista dagiovane, poi l’ Ulisse, prima che Joyce si prepari per quell’immolazione di ostilità, di sterminio del lettore che è Finnegans Wake, dove ogni parola è un pun multilingue».
È il gioco di parole, quindi, la «terrificante» (Eco) arma con cui si compie lo «sterminio del lettore» (Amis).
Nel pun le parole possono incastrarsi l’una nell’altra, aprendo nuove dimensioni di significato: i gemelli «siamesi» sono «soamheis» (so-am-he-is, così come io sono, egli è); «Chaosmos» è il caos che non si oppone ma si interpone al cosmo; «riverrun» (prima e ultima parola del romanzo, scritta in minuscolo perché la fine si salda con l’inizio) è un’unione di «fiume» e «scorrimento» (ma può essere molte altre cose); «Meandertale» è una sorta di sciarada fra il «meandro» e il «racconto» (tale) che finisce per produrre un’entità vicina a «Neanderthal», quindi all’uomo primordiale e ai suoi istinti primari. Giochi, ma quanto divertenti? Il titolo Finnegans Wake è ricavato dalla canzonaccia irlandese da osteria La veglia di Finnegan, il cui ritornello dice: «Vedi che avevo ragione? / Alla veglia di Finnegan ci si diverte da matti!». Per Joyce agglomerare parole o, al contrario, disaggregarle in atomi entropici di significato era anche un divertimento personale: non a caso gli capitava di chiamarlo «joycity», gioiosità joyciana.
Al proprio «meandertale», oscuro labirinto e puzzle narrativo, Joyce augurava lettori poliglotti e idealmente insonni. Dei traduttori non ha parlato (per quanto lui stesso abbia partecipato alla traduzione italiana di una sezione), ma il testo li postula onniscienti e invulnerabili.
Dopo qualche saggio di traduzione italiana assai parziale da parte di scrittori intrepidi come Gianni Celati e Rodolfo Wilcock (oltre allo stesso Joyce), a decidere di affrontare non l’Ottomila di uno o due capitoli ma l’intero Himalaya del libro completo è stato un traduttore bolognese, Luigi Schenoni (1933-2008): nell’incredulità generale pubblicò il primo volume nel 1982, da Mondadori, e arrivò poi a tradurre i due terzi dell’opera.
Il suo testimone è stato raccolto da Enrico Terrinoni e Fabio Pedone di cui ora esce la traduzione del penultimo tratto di Finnegans Wake (Libro Terzo, capitoli 1 e 2; Mondadori, pp. 420, euro 24), corredato da diversi apparati, oltre che dall’imprescindibile testo origi- nale a fronte.
Come dicono i nuovi traduttori, la difficoltà è che il romanzo «si traduce da solo», poiché è scritto in una lingua babelica, in cui l’inglese si confronta con apporti di ogni altra lingua conosciuta o raggiunta da Joyce (ivi compreso non solo l’italiano ma anche il dialetto triestino: chissà quanti non-italiani leggendo «riceypeasy» penseranno ai «risi e bisi» qui evocati consapevolmente da Joyce).
La storia di questo libro inimmaginabile era cominciata nel 1922, un anno dopo l’uscita di Ulysses. Fu allora che Joyce prese ad alludere a un nuovo progetto: per iscritto vi si riferiva con il disegno di un quadratino ; quando ne parlava, lo chiamava Work in progress, il lavoro in corso. Nel 1928 mise in palio mille franchi, per chi avesse indovinato il titolo definitivo (il premio fu aggiudicato dieci anni dopo, un anno prima dell’uscita del romanzo).
La canzone Finnegan’s Wake parla della veglia funebre per un ubriacone, durante la quale gli amici bevono e litigano, fanno cadere un goccio di whisky sul cadavere, che si ridesta («wake» come nome significa «veglia» ma come verbo sta per «svegliarsi»).
Joyce trasformò «Finnegan’s» in «Finnegans», e la veglia di Finnegan diventò «la veglia dei Finnegan» o «i Finnegans si svegliano». Né si può trascurare la circostanza per cui Finn è un gigante della mitologia irlandese, nel mito di fondazione della città di Dublino, e sempre per assonanza e pun «Finnegan» può diventare «Finn again»: ancora Finn, in riscossa dello spirito irlandese. Come se non bastasse, c’è il latino, dove «negans» è participio presente di negare e quindi «Fin negans wake» è una veglia, o un risveglio, che nega la fine.
Il fatto è che Joyce era rimasto impressionato, letterariamente se non filosoficamente, dalla Scienza Nuova di Giovan Battista Vico, con la dottrina dei corsi e ricorsi e la sequenza delle ere degli Dèi, degli Eroi e degli Uomini.
Volle narrare un ciclo vitale ricorsivo incarnandolo però nella forma stessa del suo romanzo; non una quadratura del cerchio, ma una circolazione del quadrato, diceva: il quadrato sta per il susseguirsi di nascita, crescita, morte, rinascita.
A capirlo prima di tutti fu il giovane Samuel Beckett, che di Joyce era stato anche collaboratore stretto, e quando del Work in Progress non si conoscevano che pochi tratti ne parlò così: «Qui la forma è il contenuto, il contenuto è la forma. Si protesterà che questa roba non è scritta in inglese. Non è affatto scritta. Non è fatta per esser letta, o almeno non solo per essere letta. Bisogna guardarla e ascoltarla. La scrittura di Joyce non è su qualcosa: è quel qualcosa».
Nel contenuto e nelle forme espressive della narrazione fra l’ Ulysses e Finnegans Wake avviene il passaggio dal giorno alla notte. Là c’era una giornata nella vita di un everyman, Leopold Bloom; qui è il sogno di un altro uomo, l’oste H. C. Earwicker.
Nelle forme di un’allegoria letteraria l’Ulisse-Bloom aveva il suo Telemaco-Dedalus e la sua Penelope-Molly, e incontrava sirene, ninfe e tempeste; invece nel sogno di Earwicker le figure dei diversi livelli (narrativo, storico, geografico, mitologico) non scorrono più parallele al testo ma si fondono fra loro secondo le condensazioni tipiche del lavoro onirico.
Le iniziali di Earwicker, H. C. E., stanno anche per Here Comes Everybody (Qui arriva ognuno) e per molte altre soluzioni dell’acronimo; la moglie Anna Livia Plurabelle nel nome incarna il fiume dublinese Liffey; corrispondenze numerologiche trasfigurano i dodici clienti dell’osteria di H. C. E. negli apostoli o nelle ore dell’orologio... In un mondo di trasmutazioni della materia e delle identità (i sogni, del resto, sono fatti così), la lingua medesima diventa un dispositivo di condensazione, in cui radici, etimi, somiglianze, accezioni alternative convivono nella stessa parola.
Se l’ Ulysses rompeva la sintassi dell’inglese e la ristrutturava, il Finnegans Wake non è più scritto in inglese, ma è un vortice, una tromba d’aria poliglotta che devasta un territorio inglese.
Umberto Eco si è potuto divertire a immaginare il consulente che scrive alla casa editrice: «Per piacere, dite alla redazione di stare più attenta quando manda i libri in lettura. Io sono un lettore d’inglese e mi avete mandato un libro scritto in qualche diavolo di altra lingua. Restituisco il volume in pacco a parte».
Lo scrittore Michel Butor ha detto: «Se noi vogliamo leggere una pagina di Finnegans Wake dobbiamo prendere molte parole in modo diverso da quello in cui sono scritte, abbandonare una parte delle loro lettere e dei loro significati possibili».
Ogni lettore fa scelte proprie e costruisce un proprio ritratto tramite il testo: «Finnegans Wake è così per ciascuno uno strumento di conoscenza intima». Here Comes Everybody, appunto. Forse è significativo che tra i primi joyciani a occuparsi a fondo di Finnegans Wake si siano annoverati Marshall McLuhan e Umberto Eco.
L’Everybody dublinese, dall’alto del suo estremo gioco letterario, affascina gli studiosi di mass-media. Nella sua osteria allora convergono la storia, l’ostilità, l’ospitalità, l’isteria di tutti. Se fra vent’anni decideremo che si trattò di follia, già oggi sappiamo che lì c’era del mitico.
Stefano Bartezzaghi
CINQUE ORE AL GIORNO PER TRE ANNI, SE TRADURRE è UN’IMPRESA
FU JOYCE A PROPORRE ALL’AMICO NINO FRANK DI TRADURRE IN ITALIANO L ’ ULTIMO CAPITOLO DEL FINNEGANS WAKE: «PRIMA CHE SIA TROPPO TARDI », SPIEGÒ . « FINCHÉ CI SONO ANCORA I0 A CAPIRE COSA HO SCRITTO».
FRANK PROTESTAVA : L’ITALIANO NON È UNA LINGUA ADATTA Al GIOCHI DI PAROLE E QUEL CAPITOLO È INTRADUCIBILE . « NON ESISTE NULLA CHE NON POSSA ESSERE TRADOTTO», RIBATTEVA JOYCE . COSÌ I DUE PRESERO A INCONTRARSI DUE VOLTE A SETTIMANA PER TRE MESI. E, COME RACCONTA RICHARD ELLMANN , BIOGRAFO DELLO SCRITTORE, ERA LUI A SPIEGARE L’AMBIGUITÀ DELLE PROPRIE INVENZIONI , SOTTOLINEANDONE LA MUSICALITÀ . MENTRE IL SIGNIFICATO DEL TESTO GLI ERA PIUTTOSTO INDIFFERENTE.
NONOSTANTE QUESTO ESORDIO D’AUTORE - E BENCHÉ JOYCE ABBIA VISSUTO IN ITALIA PIÙ DI DIECI ANNI, PARLANDO LA NOSTRA LINGUA CON MOGLIE E FIGLI - NON ESISTE ANCORA UNA VERSIONE ITALIANA COMPLETA DEL ROMANZO, CHE PURE È STATO PUBBLICATO IN FRANCESE, TEDESCO , OLANDESE, PORTOGHESE , TURCO E PERFINO IN CINESE, GIAPPONE- SE E COREANO. MA LA LACUNA STA PER ESSERE COLMATA: ENRICO TERRINONI E FABIO PEDONE , CHE ORA ESCONO CON LA PENULTIMA TRANCHE DELL’OPERA ( PROSEGUENDO IL LAVORO DI CHI TRADUSSE I PRIMI DUE TERZI ), Si SONO IMPEGNATI ANCHE AD ARRIVARE ALLA FINE. ENTRO IL 4 MAGGIO 2019 , OTTANTESIMO ANNIVERSARIO DELLA PUBBLICAZIONE DEL ROMANZO , IL FINNEGANS WAKE SARÀ TUTTO IN ITALIANO. «CI SONO VOLUTI QUASI TRE ANNI, CINQUE ORE AL GIORNO , PER TRADURRE 70 PAGINE CHE, Si FOSSE TRATTATO DI UN TESTO QUALUNQUE , AVREBBERO RICHIESTO SETTE GIORNI DI LAVORO », SPIEGA TERRINONI, ORDINARIO DI LETTERATURA INGLESE ALL’UNIVERSITÀ PER STRANIERI DI PERUGIA.
«DOPO AVER AFFRONTATO SEPARATAMENTE OGNI BRANO ED ESSERCI POI REVISIONATI A VICENDA, ABBIAMO INIZIATO UN LUNGO PING-PONG DI IDEE, PROPOSTE, COMPROMESSI: LA VERSIONE FINALE HA CONTINUATO A CAMBIARE FINO ALL’ULTIMO . PERCHÉ TRADURRE VUOL DIRE PROVARE E FALLIRE, DICEVA BECKETT , RIPROVARE E FALLIRE SEMPRE MEGLIO . ED È IMPOSSIBILE METTERE LA PAROLA FINE A UN TESTO CHE IN OGNI PAROLA CONDENSA PIÙ SIGNIFICATI , IRRADIA ALLUSIONI SORPRENDENTI , REINVENTA LA LINGUA. UN TESTO CHE OFFRE UNA SCONFINATA LIBERTÀ INTERPRETATIVA.
PER MESI ABBIAMO TENUTO UNA RUBRICA SUL SETTIMANALE PAGINA 99, CHIEDENDO Al LETTORI DI PROPORRE LA LORO VERSIONE ITALIANA DI ALCUNE FRASI : SONO EMERSE SOLUZIONI INASPETTATE E SPESSO MOLTO VALIDE . NON SOLO , TRADUZIONI IN LINGUE DIFFERENTI ASSUMONO SIGNIFICATI DIVERSI TRA LORO : OGNI CULTURA COGLIE CIÒ CHE LE È AFFINE. ANCHE PERCHÉ JOYCE SCRIVE IL FINNEGANS WAKE IN UN IMPASTO DI ALMENO UNA CINQUANTINA DI LINGUE. E IL FATTO DI UTILIZZARE UN INGLESE COLONIZZATO DA TANTI ALTRI IDIOMI È LA SUA GENIALE VENDETTA CONTRO LA LINGUA IMPOSTA ALL’IRLANDA DAI COLONIZZATORI BRITANNICI».
UN IBRIDISMO CULTURALE CHE È ALLA BASE DI TANTI DOPPI SENSI, COME SPIEGA FABIO PEDONE , CRITICO LETTERARIO . SEE CAPEL AND THEN FLY, SCRIVE JOYCE . E SICCOME CAPEL STREET È UNA VIA DI DUBLINO, LA TRADUZIONE PIÙ OVVIA -V ISTO L’ABBANDONO DELL ’ IRLANDA DA PARTE DELLO SCRITTORE - SAREBBE " VEDI CAPEL E POI SCAPPA". MA LA FRASE RICHIAMA ANCHE L’ESPRESSIO- NE "VEDI NAPOLI E POI MUORI", CHE SOLO UN ITALIANO PUÒ COGLIERE . L’ABBIAMO QUINDI TRADOTTA " VEDI DÀBOLI E POI FUORI": SINTESI TRA DUBLINO E NAPOLI , TRA FUGGI E MUORI .
ESULE A TRIESTE, JOYCE ASSORBÌ IL PARLOTTIO DI QUELLA SOCIETÀ POLIGLOTTA CON L ’ INCERTEZZA ACUSTICA DI CHI È CONFUSO TRA LE VARIE LINGUE E LE ASCOLTA - E FRAINTENDE - COME FOSSE IN UN DORMIVEGLIA . PERCEZIONI APPROSSIMATIVE, AMBIGUE , DI CUI Si COGLIE SOPRATTUTTO LA SONORITÀ . LA PIÙ DIFFICILE DA RENDERE IN TRADUZIONE: IL LIBRO È SCRITTO COME UNA PARTITURA MUSICALE . E ANDREBBE LETTO A VOCE ALTA». « DUE RIGHE AL GIORNO», AGGIUNGE TERRINONI, «PER TUTTA LA VITA».
(ANTONELLA BARINA)
"Il Venerdì di Repubblica", 13.01.2017
«Il paradosso dell’inglese che resta la lingua ufficiale nei palazzi a Bruxelles»
di Dino Messina (Corriere della Sera, 26.06.2016)
«La “Brexit” - dice il professor Giovanni Iamartino, presidente degli anglisti italiani - ha prodotto un paradosso: l’inglese continuerà a essere la lingua più importante dell’Europa, così come lo è nel resto del mondo, mentre la Gran Bretagna è fuori».
Sarà così anche nei palazzi delle istituzioni a Bruxelles e a Strasburgo?
«Le regole dell’Ue prevedono che i documenti ufficiali vengano tradotti in tutte le lingue dell’Unione, mentre le discussioni si svolgano in inglese, tedesco o francese. È difficile che la situazione cambierà e che l’inglese venga bandito come lingua, perché, mi scusi il bisticcio, l’inglese non è più degli inglesi».
Che cosa pensano i suoi colleghi, italiani e inglesi, della Brexit?
«Sono tutti scioccati e si strappano le vesti. Una collega mi ha scritto sconsolata: d’ora in poi per consultare un libro alla British library ci chiederanno il visto? Ma al di là dei professori, pensi a tutti gli studenti dell’Erasmus che non potranno più andare in Inghilterra. Una vera rivoluzione nel nostro costume».
Ne risentirà anche la ricerca?
«Sicuramente. Cesseranno i finanziamenti europei verso i dipartimenti delle grandi università britanniche. I colleghi di Oxford, Cambridge e di altre prestigiose istituzioni erano bravissimi a chiederli e a ottenerli».
Forse è per questo che tra i giovani e i laureati ha vinto il voto favorevole al Remain...
«Sì, ma non è bastato. Si è affermato lo spirito interpretato da una famosa battuta di fine Ottocento: nebbia nella Manica, il continente isolato. I risultati del referendum sono la prova che gli inglesi si ritengono superiori al resto del mondo».
Irlandesi del Nord e scozzesi non sono d’accordo...
«Nell’Irlanda del Nord protestante potrebbe ripetersi quel che è già avvenuto nella cattolica Scozia: un referendum per staccarsi dalla madre patria e restare in Europa... E anche in Scozia, nonostante nel recente referendum i separatisti siano stati sconfitti ci potrebbero essere ripercussioni».
Quale personaggio letterario oggi sarebbe contento per l’affermazione della Brexit?
«C’è un personaggio inventato agli inizi del Settecento dal giornalismo inglese che si chiama John Bull: la perfetta incarnazione dello scetticismo, del sano buon senso, del patriottismo, del malcelato disprezzo inglese nei confronti dello straniero. Un po’ saggio, un po’ ottuso».
E quale sarebbe invece oggi addolorato?
James Boswell nella sua biografia del critico Samuel Johnson, fa dire al suo protagonista che il perfetto gentiluomo inglese, per dirsi tale, deve aver viaggiato nei Paesi del Mediterraneo, culla della civiltà occidentale. Se invece vogliamo restare nella fiction, al di là dei personaggi di Shakespeare, penserei a David Copperfield di Charles Dickens, un orfano che prima di ottenere il suo riscatto viaggia in lungo e in largo per l’Europa».
Enigmatica veglia notturna
di Renzo S. Crivelli (Il Sole-24 Ore, 03 aprile 2011)
Il 13 novembre 1938, a Parigi, James Joyce, il più grande sperimentatore modernista, completò il suo ultimo libro, quel Finnegans Wake che, secondo una sua previsione destinata ad avverarsi, avrebbe dato lavoro a un esercito di critici per almeno cent’anni. Il libro "maledetto", come lo aveva definito in una lettera all’allievo zurighese Paul Ruggiero, gli era costato quindici anni di sudore e di apprensione, testimoniati dal titolo provvisorio che gli aveva dato per tutto quel tempo: Work in Progress.
Tanta fatica era ben giustificata, per un’impresa immane come il suo Finnegans, che fu accolto con stupore e sconcerto, dividendo da subito la critica tra coloro che lo consideravano un capolavoro, una summa dell’umanità in una prospettiva vichiana, e coloro che, a partire dal fratello Stanislaus, ci vedevano un fallimento totale della comunicazione, un vicolo cieco in cui lo scrittore dublinese aveva fatto precipitare la tradizione del romanzo borghese, confinando la parola al puro suono senza significato.
Con Finnegans Wake, Joyce ha dato corpo non solo a un trattato di metafisica, ma «a un trattato di logica formale che ci porge gli strumenti per definire, in un mondo che attende la nostra definizione, le infinite forme possibili dell’universo». In Finnegans assistiamo all’esplorazione d’un sogno notturno: tutto si compie nell’arco d’una notte, in cui la dimensione onirica si riaggancia alle prefigurazioni freudiane e junghiane del protagonista, il taverniere cinquantenne Humphrey Chimpden Earwicker.
Ma, come dice il titolo, argomento del libro è anche la veglia "per" il muratore Tim Finnegan, morto sbronzo cadendo da una scala, al centro d’una popolare ballata irlandese; veglia che, secondo la tradizione locale, comporta ampie libagioni e fiumi di whisky. Durante la nottata allegra la vedova, memore del "vizietto alcolico" del marito, deposita al suo capezzale un gallone di whisky che, in seguito a una rissa tra gli invitati, si rovescia sulla salma provocandone la "resurrezione".
Dunque, a partire proprio dal titolo, Joyce ci presenta le varie anime di Finnegans Wake: la raffigurazione d’un sogno, che coinvolge la "storia ideale eterna" vichiana nella circolarità della vita, della morte e della rinascita dell’uomo. E, anche, quella d’un risveglio/ritorno, da cui viene il nome Finnegan, composto da Finn e again («di nuovo Finn, ecco Finn che ricompare»), che si riallaccia al mito irlandese di Finn MacCoole, fondatore del partito irredentista feniano (Fianna) e collocato nel mito ossianico: MacCoole è il padre di Ossian. Iin più Joyce sottintende anche che il taverniere Humphrey Chimpden Earwicker va identificato con l’uomo qualunque (H. C. E. sta per «Here Comes Everybody») e ciò per sottolineare che ci troviamo di fronte a un’epitome della storia umana.
Al di là della trama, Finnegans rappresenta un colossale esperimento linguistico. Di Joyce si è più volte detto che privilegia lo «stile che diviene il tema», e l’esperimento di Finnegans si fonda massicciamente sulle trasformazioni linguistiche. Una polisemia che rafforza nello scrittore irlandese la volontà di estremizzare le istanze interdisciplinari care alle avanguardie, da Picasso a Schönberg. Fino a creare uno straordinario gioco di innesti semantici - ovverosia un immenso mosaico di neologismi - secondo la tecnica del portemanteau: con un asse iberno-inglese (meglio di anglo-irlandese) su cui si innestano almeno trenta lingue diverse compreso il dialetto triestino.
Secondo Beckett si trattava di un’opera non scritta in inglese («Non è scritta per niente. Bisogna guardarla, ascoltarla; non è un componimento su qualcosa, è quel qualcosa»). E questo perché Finnegans Wake è permeato dalla dimensione fonica della parola, che non è più una parola in una lingua bensì in «ogni possibile lingua».
Ma un libro del genere è traducibile? Se contiene tante diverse lingue, in che lingua può essere tradotto? Se è puro suono, che senso ha tradurlo? Si può tradurre o descrivere un testo musicale? Ecco un immediato grappolo di domande che scaturisce dalla versione italiana fatta da Luigi Schenoni votato sino alla morte - avvenuta nel 2008 - a questa sovrumana impresa che, iniziata nel 1974, ha fruttato nel 1982 parte del primo libro (I-IV cap.), seguita nel 2001 dai capitoli V-VIII e nel 2004 dai primi due capitoli del secondo libro. Ora escono postumi e conclusivi, sempre per Mondadori, il capitolo III e IV del secondo libro, e di nuovo si ripropone il problema della possibilità di tradurre questo monumento linguistico, incentrato su un idioma quasi del tutto inventato.
Nonostante che in Italia ci abbiano provato, anche se solo in parte, traduttori come Mario Diacono, Gianni Celati e Rodolfo Wilcock, è indubbio che Schenoni, a differenza dei suoi predecessori, ci fornisca un prezioso esemplare di "ri-creazione" (non di traduzione) di Finnegans Wake. Ben consapevole della dimensione "incontenibile" della polisemia joyciana, ha infatti scelto la via d’un originale doppio registro interpretativo, che è parte integrante di questa corposa edizione mondadoriana.
In primo luogo, da «poeta originale» come amava definirsi, Schenoni tenta di compiere con l’italiano la stessa operazione che Joyce fece con l’iberno-inglese, mettendo alla base del portemanteau la nostra lingua (assai più duttile di come immaginiamo); in secondo luogo, per mantenere quanto più possibile un’adeguata referenzialità con l’originale, sceglie di "compensare" questo stravolgimento con l’aggiunta d’un glossario vastissimo (quasi più lungo del testo). In questo modo ci fornisce tutte le possibili interpretazioni "linguistiche" atte ad affiancare la parte più inventiva: quella in cui traduce (questo sì) la struttura musicale del libro dandogli lo stesso suono, ma in italiano. Così facendo ci consegna un testo scritto in "schenonese" (non più in "finneganese").
Ed ecco la domanda finale: tutto ciò regge il principio della comunicazione, che sta alla base della traduzione? Difficile dirlo. Il risultato è solo "diverso". Per fare un esempio, certo azzardato, e rimandando alla fondamentale dimensione fonica del testo, se Joyce ha scritto un brano wagneriano Schenoni ci ha dato un brano verdiano. È sempre musica, però. Purissima musica.