RIVOLUZIONE SCIENTIFICA E RIVOLUZIONE COPERNICANA IN FILOSOFIA ....

L’ERRORE DI CARTESIO: VICO A FIANCO DI GALILEI E NEWTON. Note per una (ri)lettura del "De antiquissima" - di Federico La Sala

IL PROBLEMA MENTE-CORPO. Altro che campo di battaglia! La metafisica appare a Vico solo una boscaglia piena di “pruni” e “spini”: ignorando le cause del pensiero, ossia il modo in cui il pensiero si fa, i più sottili metafisici del nostro tempo (...) si feriscono e si pungono a vicenda (...)
giovedì 11 aprile 2013.
 


QUI PROSEGUE IL DISCORSO GIA’ AVVIATO IN

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“THE VICO ROAD” (James Joyce). Il “De antiquissima italorum sapientia” (vale a dire: “L’antichissima sapienza degli italici da ritrovarsi dalle origini della lingua latina”), come si sa, doveva essere un’opera in tre libri, dedicati rispettivamente alla metafisica, alla fisica, e alla morale: ma Vico scrisse solo il “Libro Primo ossia Metafisico” (1710). Ora, se non ci si lascia ipnotizzare dal titolo, come per lo più è avvenuto e avviene ancora, e si legge l’opera con attenzione, qui, il discorso - al di là dell’occasione e dell’idea da cui il progetto ha preso il via - è un chiaro e forte intervento nel dibattito sul ”metodo geometrico” e il “metodo sperimentale” in fisica, e un grande contributo all’elaborazione di un orizzonte metafisico all’altezza della fisica di Galilei e Newton (non di Cartesio!).

UNA METAFISICA COMMISURATA ALLA DEBOLEZZA UMANA. Se si considera che il primo capitolo è intitolato: “il vero e il fatto”, è più che evidente come e quanto il discorso di Vico riprenda e sviluppi il nucleo del suo tema, già anticipato nella prolusione “De nostri temporis studiorum ratione” (1708)! Qui, egli - con grande lucidità e con una buona dose di ironia - così scrive: “Sostengono i dotti che questa fisica, insegnata col metodo geometrico, è la stessa natura, che scorgi ovunque ti volga a contemplare l’universo; ritengono perciò che siano da ringraziare gli autori che ci liberarono dal grande fastidio di studiare ancora la natura e ci lasciarono questi edifici così ampi e ben costruiti. Qualora necessariamente la natura si comportasse come essi l’hanno concepita, bisognerebbe ringraziarli; ma ove la sua costituzione fosse diversa e fosse falso anche una sola delle norme fissate da codesti studiosi circa il moto (per non dire che non soltanto una se n’è scoperta falsa) stiano attenti a non trattare con sicurezza la natura, sicché, mentre attendono a curare i tetti, trascurino con pericolo le fondamenta di quelle case (...) Perciò codeste cose - continua Vico - che in fisica si presentano per vere in forza del metodo geometrico, non sono che verosimili, e dalla geometria ricevono il metodo, non la dimostrazione: dimostriamo le cose geometriche, perché le facciamo; se potessimo dimostrare le cose fisiche, noi le faremmo. Nel solo Dio ottimo massimo sono vere le forme delle cose, perché su quelle è modellata la natura. Lavoriamo dunque alla fisica come filosofi, per ben educare l’animo nostro, superando in ciò gli antichi, che coltivavano questi studi per contendere empiamente in beatitudine con gli dei, mentre noi lo facciamo per abbassare il nostro orgoglio” (p. 802).

Nel “De antiquissima italorum sapientia”, infatti, ripete "che non si deve introdurre nella fisica il metodo geometrico, ma la diretta dimostrazione sperimentale", che solo "in questo modo la fisica può progredire", e che solo questo "procedimento seguono con diligenza gli inglesi, i quali vietano che nelle pubbliche scuole si insegni la fisica col metodo geometrico"(p. 124), e alla fine, nella “conclusione” sul “carattere” del lavoro svolto, all’Amico a cui ha dedicato l’opera, Vico così sintetizza: “Eccoti, o sapientissimo Paolo Doria, una metafisica commisurata alla debolezza del pensiero umano. Essa non concede all’uomo la possibilità di conoscere tutte le verità, né gli nega la facoltà di poterli conoscere; ma gli consente solo di apprenderne alcune. Metafisica adeguata - egli continua - alla concezione cristiana, la quale distingue il vero divino dall’umano e non prepone la scienza umana alla divina, ma pone la scienza divina come regola della umana. Regola che serve - precisa Vico - alla fisica sperimentale che ora è studiata con grande utilità del genere umano, poiché in funzione di essa riconosciamo per vero in natura solamente ciò che è possibile riprodurre con adeguati esperimenti” (p.130).

IL VERO E IL FATTO: UNA NORMA PER IL SAPERE. Da grande ‘archeologo’ - con uno ‘scavo’ acuto e profondo - Vico ha trovato la chiave per ripensare in modo radicalmente nuovo e unitario tutte le scienze, da quelle umane a quelle fisico-matematiche, e proporre un vasto programma di rinnovamento antropologico e teologico, politico e culturale: “il vero si identifica col fatto”; “il primo vero è in Dio, perché Dio è il primo facitore; codesto primo vero è infinito, in quanto facitore di tutte le cose; è compiutissimo, poiché rappresenta a Dio, in quanto li contiene, gli elementi estrinseci ed intrinseci delle cose. Sapere (scire) significa comporre gli elementi delle cose: quindi alla mente umana è proprio il pensiero (cogitatio), alla divina l’intelligenza (intelligentia)”.

"SOLO DIO E’ SAPIENTE". Sul filo di Socrate, al di là di Platone, egli ha trovato il principio che darà senso e orienterà tutta la ricerca della sua vita: “Date le suddette proposizioni degli antichi sapienti dell’Italia intorno al vero, e data la distinzione che la nostra religione pone tra il generato e il fatto, abbiamo questo principio: poiché soltanto in Dio il vero è completo, dobbiamo dichiarare assolutamente vero ciò che Dio ci ha rivelato; e non cercare il genere e il modo per cui è vero, perché ci è assolutamente impossibile comprenderlo. Muovendo di lì ci è possibile risalire all’origine delle scienze umane, e avere alla fine una norma per riconoscere quelle vere” (p.64).

CONOSCI TE STESSO. Quanto questa scoperta sia importante e decisiva per il cammino di Vico - a partire da se stesso, dal suo presente storico! - egli lo chiarisce immediatamente: “Per conciliare più agevolmente queste considerazioni con la nostra religione, si deve sapere che per gli antichi filosofi dell’Italia il vero e il fatto si convertivano, poiché pensavano che il mondo fosse eterno; inoltre i filosofi gentili venerarono un Dio che sempre avrebbe operato all’esterno cosa che la nostra teologia nega. Perciò nella nostra religione, per la quale professiamo che il mondo fu creato nel tempo dal nulla, occorre qui una distinzione: il vero creato si converte col fatto (factum) il vero increato col generato (genitum)”.

E, poco oltre, così continua: “Le Sacre Scritture, con eleganza veramente divina, chiamarono “Verbo”(Verbum) la sapienza di Dio, che contiene in sé le idee di tutte le cose e quindi gli elementi di tutte le idee. Nel Verbo infatti si identificano il vero e la comprensione di tutti gli elementi che compongono la totalità dell’universo; se volesse potrebbe costituire infiniti mondi; e giacché nella sua divina onnipotenza conosce tutto ciò, esiste un Verbo reale esattissimo, che essendo sin dall’eternità conosciuto dal Padre, dall’eternità è altresì generato da lui” (pp. 62-64).

ILLUMINISMO CRITICO E CRISTIANO. Senza queste premesse e queste coordinate, Vico non è più Vico! Il suo programma è qui tracciato con grande chiarezza e, a ben guardare, si muove su una linea teologica ed epistemologica analoga a quella di Galilei e, con più determinazione, prossima a quella di Locke e di Newton (e poi di Kant), tutta tesa a determinare criticamente i poteri dell’uomo (che pretende di essere “come Dio”).

SCIENZA E SAGGEZZA. E’ abbastanza evidente che ciò a cui Vico pensa è qualcosa di molto vicino all’idea di “instauratio magna” di Francesco Bacone, a una riforma generale del sapere e a una nuova enciclopedia delle scienze. Ben ancorato al suo principio e al suo criterio, e alla concezione dell’uomo come “un animale partecipe della ragione, non padrone completa di essa”, Vico lo chiarisce con forza: “La scienza umana è nata dunque da un difetto della nostra mente, ossia dalla sua estrema limitatezza, per cui è fuori da tutte le cose, non contiene le cose che aspira a conoscere, e, poiché non le contiene, non traduce in effetto le cose vere che si sforza di raggiungere. Ma - egli continua - scienze certissime sono quelle che espiano il vizio d’origine, e per mezzo delle operazioni diventano simili alla scienza divina, in quanto vero e fatto si convertono” (p. 68).

PER BEN EDUCARE L’ANIMO NOSTRO. Per Vico, inoltre, il suo principio - “soltanto in Dio il vero è completo” - non fornisce solo regole per la guida del pensiero - “il criterio e la regola del vero consiste nell’averlo fatto” - ma anche regole per la guida della propria coscienza sulla via della buona volontà e della grazia evangelica: come dirà, a chiusura della “Scienza nuova” del 1730 e del 1744, “questa Scienza porta indivisibilmente seco lo studio della pietà (...) se non siesi pio, non si può daddovero esser saggio” (p.702).

“Per dirla in una parola, il vero - scrive Vico - si converte col buono quando ciò che è conosciuto come vero ricava il suo essere anche dalla mente che lo conosce. In questo caso la scienza umana è imitatrice della divina, per la quale Dio nel conoscere il vero lo genera all’interno dell’eternità, e nel tempo lo fa all’esterno. E il criterio della verità, riguardo a Dio, consiste nell’avere egli comunicato la bontà ai suoi pensieri (“Dio vide che le cose erano buone”), comparativamente, consiste nel nostro fare le cose che conosciamo come vere” (pp. 68-70).

Contro ogni illusione cartesiana e ‘superomistica’, Vico è massimamente lucido: “l’idea chiara e distinta della nostra mente, nonché di tutti gli altri veri, non può essere criterio nemmeno della mente: poiché la mente, quando si conosce, non si fa; e poiché non si fa, non conosce il genere o modo del suo conoscersi” (p. 68); e, poco oltre, accusa “di empia curiosità quelli che si sforzano di dimostrare a priori Dio ottimo massimo” e spiega che “ciò è tanto quanto fare se stessi Dio di Dio, ossia negare il Dio che cercano” (p. 82).

CARTESIO, IL GRANDE PENSATORE DELLA METAFISICA. Nel terzo paragrafo del primo capitolo del “De antiquissima sapientia”, intitolato “Il primo vero meditato da Renato Descartes”, Vico sgombra la sua strada da ogni equivoco e, con spirito ironico fortissimo (degno del miglior Galilei, contro “chi vuol por termine alli umani ingegni”), mette in luce quanto pericolosa sia per la ricerca e per la scienza la strada dei dommatici e degli scettici, gli uni che pretendono di conoscere tutto e gli altri che negano la stessa possibilità di conoscere.

I dogmatici del nostro tempo - scrive Vico - “dubitano di tutte le verità, esclusa la metafisica (...) dichiarano infatti che soltanto la metafisica ci dà un vero esente da dubbio” e ritengono “che la metafisica assegni a ciascuna delle altre scienze il suo proprio campo. Così il grande pensatore della metafisica - prosegue Vico - prescrive a chiunque voglia essere iniziato ai sacri misteri di questa di purificarsi non soltanto delle persuasioni (i cosiddetti pregiudizi) concepite sin dall’infanzia tramite il fallace insegnamento dei sensi, ma anche da tutte le verità apprese dalle altre scienze. E poiché non abbiamo il potere di dimenticare, bisogna secondo lui disporsi ad ascoltare i metafisici, con mente ridotta se non proprio a tavola rasa, per lo meno a guisa di libro arrotolato, che si dispieghi poi ad una luce migliore” (p. 70).

L’ERRORE DI CARTESIO. La critica di Vico alla metafisica cartesiana è radicale: la sua filosofia non porta fuori dallo scetticismo, è solo una finta soluzione e per di più porta l’uomo nelle braccia di un genio (maligno o benigno che sia, è lo stesso)! La metafisica di Renato Descartes - scrive Vico -“ci dischiude il “primo vero”. Ma qual è? “Che cosa esso sia, ce lo spiega - scrive Vico - quel sommo filosofo. L’uomo, egli dice, può dubitare se senta, se viva, se sia esteso, e infine, in senso assoluto, se sia; a sostegno della sua argomentazione escogita un certo genio ingannatore e maligno, in ciò imitando quello stoico che, negli Academica di Cicerone per provare la stessa cosa, ricorre ad un artificio, un sogno mandato miracolosamente dagli dei. Ma è assolutamente impossibile che uno non sia conscio di pensare, e che tale coscienza non concluda con certezza che egli è. Pertanto Renato svela che il primo vero è questo: “Penso: dunque sono” (Cogito: ergo sum)”.

Ma Vico non si ferma qui e, inesorabile, continua: “Veramente anche il Sosia di Plauto, condotto a dubitare della propria esistenza da Mercurio che ha assunto le sue sembianze (come Descartes è indotto in dubbio dal genio ingannatore, e lo stoico dal sogno miracoloso), a forza di meditarci su giunge ad acquietarsi in questo primo vero: (...) Sed quom cogito, equidem certo sum ac semper fui” (pp.70-72).

Un ‘ridicolo’ approdo. Messi a confronto, il dogmatico e lo scettico mostrano che la loro apparente differenza riposa sullo stesso fondamento: il cogito! Il dubbio metodico come il dubbio scettico non porta da nessuna parte - l’uno e l’altro, per quanti passi possano fare, non escono mai dal loro ‘mondo’: la certezza del pensare è coscienza, non scienza.

Per Vico, la coscienza è condizione necessaria, ma non sufficiente per conoscere. Conoscere il vero è la stessa cosa che farlo: “avere scienza significa possedere il genere, o forma, del farsi della cosa; invece l’avere coscienza si riferisce a quelle cose di cui non possiamo dimostrare il genere o forma” (p. 72).

L’uomo è, sì, Dio, ma - solo e solo “cum grano salis”: egli è e resta un animale partecipe della ragione, non padrone completa di essa. La conclusione è che il dogmatico e lo scettico condividono la stessa ignoranza: “non conoscono la genesi del pensiero” e non capiscono cosa significhi che “per la nostra religione l’animo umano è un qualcosa di puro da ogni corporeità” (p.72).

IL PROBLEMA MENTE-CORPO. Altro che campo di battaglia! La metafisica appare a Vico solo una boscaglia piena di “pruni” e “spini”: ignorando le cause del pensiero, ossia il modo in cui il pensiero si fa, i più sottili metafisici del nostro tempo - scrive Vico - si feriscono e si pungono a vicenda, quando “vanno in cerca del modo in cui si compie l’azione reciproca della mente sul corpo, e del corpo sulla mente (mentre solo i corpi possono vicendevolmente toccarsi”.

Stretti da siffatte difficoltà - continua Vico - “ricorrono, come ad un espediente artificiale, a un’occulta legge divina, per la quale i nervi eccitano la mente quando sono urtati da oggetti esterni, e la mente fa tendere i nervi, quando desidera compiere un’azione. Immaginano dunque che la mente umana sia ferma nella ghiandola pineale come un ragno al centro della sua tela; e quando, da una qualsiasi, un filo della tela viene mosso, il ragno lo sente; mentre quando, senza che la tela si sia mossa, il ragno sente l’arrivo del temporale, fa tremare tutti i fili della sua tela”.

Muovendosi in tale ignoranza, lo scettico si conferma “sempre più nella convinzione di non avere scienza del pensare” e il dogmatico insiste che “lo scettico acquista scienza dell’essere dalla coscienza del pensare”; ma lo scettico nega che “dalla coscienza del pensare si acquisti scienza dell’essere; egli sostiene infatti che la scienza è la conoscenza delle cause da cui nasce la cosa”.

Dal ‘dialogo’ con lo scettico e il dommatico o, che è lo stesso, con l’empirismo e il razionalismo, Vico - forte del suo principio che identifica il criterio del vero con l’effettuazione di esso, chiarisce la sua posizione e così scrive: “Ora, io che penso sono mente e corpo, e se il pensiero fosse la causa del mio essere, il pensiero sarebbe causa del corpo; ma ci sono corpi che non pensano. Anzi, io penso proprio perché sono composto di corpo e mente: la causa del pensiero sono corpo e mente uniti. Infatti, se fossi soltanto corpo, non penserei, e se fossi solo mente, intenderei. Di fatto, il pensiero non è la causa, ma un indizio del mio essere mente:” e l’indizio “non è causa” (pp.72-74).

VOI SIETE DEI: “SAPERE AUDE!” Già nel 1699, nella prima delle orazioni inaugurali (“L’argomento, preso globalmente ruota intorno a questo asse e cardine: la conoscenza di se stesso è per ognuno di grandissimo stimolo a completare in breve tempo l’intero complesso delle conoscenze”), in dichiarazioni apparentemente platoniche e neoplatoniche (“Dio è l’artefice della natura; l’animo è, se è lecito dirlo, il Dio delle arti”), Vico mostra con chiarezza come sia importante e cosa significhi coniugare correttamente - in un’ottica cristiana (non dogmatica, non platonico-cattolica o idealistica!) - lo “straordinario carattere dell’animo” con la “somiglianza con Dio Ottimo Massimo” (p.710). L’esito è una ricomprensione critica del passato e, al contempo, il lancio di un programma (come insisterà anche e ancora nell’orazione del 1732, “De mente heroica”) degno del “plus ultra” baconiano e del “sapere aude!” kantiano.

In un passaggio fondamentale, “per restringere in breve” tutto il suo discorso, ecco quanto dice: “tutti gli dei che l’antichità pose in cielo per aver apportato un qualche beneficio alla società umana, siete voi stessi. O mirabile conoscenza di se stesso, quanto in alto ci conduci ed elevi! Per tutti voi, o ascoltatori, il proprio animo è come un Dio per ciascuno: una facoltà divina è quella che vede, divina è quella che ode, quella che produce le immagini delle cose, che percepisce, che giudica, che conclude, che ricorda. Vedere, sentire, inventare, paragonare, inferire, ricordare sono attività divine. La sagacia, l’acume, la solerzia, la capacità, l’ingegno, la velocità sono doti mirabili, grandi e divine” (p.716).

E, alla fine, così chiude: “Tutto abbonda di esempi di stimoli a studiare le scienze; le cose tutte sono piene di esortazioni e voi avete un gran numero di dottissimi maestri, vi è concesso un luogo onorevolissimo per apprendere e siete nati per apprendere compiutamente, in breve e con facilità, ogni dottrina. Che cosa rimane dunque da aggiungere? La vostra buona volontà” (p. 718).

VICO MUORE NEL 1744. Di lì a poco, Gaetano Filangieri nella sua opera La Scienza della Legislazione (1781-88) scrive: "Nella democrazia comanda il popolo, e ciaschedun cittadino rappresenta una parte della sovranità: nella concione [assemblea di tutto il popolo], egli vede una parte della corona, poggiata ugualmente sul suo capo che sopra quello del cittadino più distinto.
-  L’oscurità del suo nome, la povertà delle sue fortune non possono distruggere in lui la coscienza della sua dignità. Se lo squallore delle domestiche mura gli annuncia la sua debolezza, egli non ha che a fare un passo fuori della soglia della sua casa, per trovare la sua reggia, per vedere il suo trono, per ricordarsi della sua sovranità"(Libro III, cap. XXXVI).

Federico La Sala


SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:

VICO, PENSATORE EUROPEO. Teoria e pratica della "Scienza Nuova". Note per una rilettura (pdf, scaricabile).

L’ITALIA AL BIVIO: VICO E LA STORIA DEI LEMURI (LEMURUM FABULA), OGGI. Un invito alla (ri)lettura della "Scienza Nuova".

FLS


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