di Giancarlo Nobile *
La camorra, questa endemica mala pianta dell’area napoletana, ha avuto negli ultimi vent’anni una crescita esponenziale, balzando così nelle cronache quotidiane non solo per i suoi delitti o per il suo folclore, ma anche con la sua iniziativa economico-finanziaria, con i suoi rapporti con la politica, con l’ecologia tramite l’ecomafia e via elencando. Così la camorra è entrata non solo nelle cronache delle attività criminali ma nella di tutta la società napoletana e nazionale.
Questa proliferazione invasiva dell’attività della camorra ha conseguentemente mobilitato gli studiosi: si sono sviluppati dibattiti, si sono scritti migliaia di libri, si sono susseguiti migliaia di articoli e saggi; ha mobilitato le forze dello stato così sono stati arrestati migliaia di camorristi, sono stati celebrati centinaia di processi, è stato inviato l’esercito nell’area napoletana e casertana. Ma la mala pianta camorristica risorge sempre e comunque, purulenta ed infettiva, più che mai.
Ma che cos’è quel fenomeno che chiamiamo camorra? Dov’è? Come si struttura? Quali sono e dove sono le sue radici? Probabilmente rispondendo a queste domande, senza remore ideologiche e preconcetti sociologici, potremmo cercare di costruire un percorso positivo, se non del tutto vincente, per confinare, almeno, il fenomeno malavitoso in un recinto fisiologico comune a tutte le società umane.
Per giungere a ciò dobbiamo tenere presente che un ciclo virtuoso passa ineluttabilmente per una metamorfosi della società napoletana; tenendo presente che non vi è metamorfosi senza il dolorosa lasciare consolidate certezze ed abitudini.
Quella che dobbiamo è la metamorfosi di una mentalità radicata; e questa mutazione passa per un’ intima riconversione di modelli culturali consolidati che hanno nutrito quella napoletanità che nella maggior parte dei casi cade in prassi incivili e violente.
Ed è specioso ed inconcludente il discorso di tanti che paventano, da una mutazione della società napoletana la scomparsa della peculiare identità di questa città, come se una città che ha tremila anni di storia e storia di altissimo livelli, possa modificare il suo animus eliminando quelle incrostazioni di basso livello che la degradano.
La criminalità organizzata che chiamiamo camorra non è e non può essere intesa come un corpo estraneo ma come un importante fattore di regolarizzazione sociale dell’area napoletana (e con essa buona parte dell’area casertana), infatti essa è un’ importante componente per gli equilibrio sociali di consistente parte dell’area.
La società napoletana, se la osserviamo bene, è formata da due società che si contrappongono. Ciò si evidenzia se analizziamo le statistiche su l’area in cui balza a prima vista un paradosso: la criminalità cresce sia quando aumenta l’occupazione, sia quando aumenta il reddito pro capite, sia con l’aumento dei consumi, sia se si sviluppa il consumo dei quotidiani, della televisione, dei cinema e dei teatri cioè dei consumi culturali.
Si tratta di un paradosso apparente che dipende dal fatto che si considera il territorio napoletano come se fosse abitato, fondamentalmente, da una popolazione omogenea.
Ma invece, invece, vi sono due distinte popolazioni una netta minoranza moderna che aumenta la fruizione di beni culturali, che vive in una imprenditorialità moderna e una popolazione, la maggioranza assoluta, che scivola sempre più nell’incultura nel tribalismo familistico, sono due popolazioni che vivono nello stesso quartiere la stessa strada, lo stesso palazzo ma anche due linguaggi diversi, due interpretazioni della vita, del lavoro, della società, del costume, della morale totalmente dissimile.
Questa situazione fu ben descritta da Vincenzo Cuoco nel 1821 nella sua Storia del Regno di Napoli (Ed. Procaccino) infatti affermava: ...che sbaglia chi considera come una nazione napoletana, in realtà sono due: distinte tra loro due secoli e due gradi di clima.. aggiungeva ‘ ..la prima non vede la seconda perché ha lo sguardo rivolto a Londra o Parigi (oggi diremmo Unione Europea). Questa dualità dopo secoli è sostanzialmente rimasta ed anzi con la distruzione del tessuto urbano e culturale operato in questi anni e la ghettizzazione dell’immenso ed amorfo hinterland della periferia napoletana (che comprende buona parte del territorio casertano) questa dicotomia si è rafforzata.
In definitiva nell’area napoletana abbiamo una società moderna di livello paragonabile al resto d’Italia che cresce economicamente e culturalmente (meno di quello che vorrebbe perché zavorrata) e una società arretrata arcaica, medievale in cui l’unica modernità accolta è la fruizione di modelli simbolici della società consumistica e televisiva, ed è in questa società che l’illegalità è la forma di auto-regolamentazione dei conflitti interni accettata.
In definitiva, per questa popolazione, la funzione di Stato è svolto dalle consorterie camorristiche; quello che noi definiamo Stato è il nemico invasore, estraneo, che è portatore di valori nemici amorali in conflitto con il loro modello di convivenza e dei modelli etici
Vi sono modelli etici che formano la mentalità camorristica come l’onore, l’appartenenza al gruppo, al potere maschio rispetto alla femmina che è moglie-madonna o prostituta, valori che possiamo vedere tramite le canzoni e le sceneggiate di cantanti in voga presso ‘l’altra popolazione’.
Ma anche questa lettura della struttura è superficiale in quanto nella camorra, come in tutte le società tribali, prevale un codice femminile cioè quel codice materno che è basato sul sangue. Nella camorra prevale il principio materno del clan, del legame di sangue (concreto e simbolico), della solidarietà intesa come complicità tra i membri dello stesso gruppo. Ma questo aspetto lo esaminerò più dettagliatamente in seguito.
Le due società non hanno mai dialogato o cercato una mediazione, come acqua ed olio nella stessa bottiglia, sono rimaste per secoli separate.
La società che guarda due secoli indietro ha sempre vissuto parallela ma sostanzialmente estranea all’altra che mutava da essa soltanto alcuni aspetti che considerava ‘folcloristici’.
La società che guarda all’Europa si sostanzialmente chiusa in se stessa nella propria bottega’ al massimo ha utilizzato l’altra quella dei lazzari per giochi di poteri (i Borboni e la nobiltà rurale utilizzavano la camorra per controllare il popolo, Garibaldi utilizzo come polizia i gruppi camorristici, i Fascismo inquadrò la camorra nelle sue squadracce, in tempi moderni il laburismo, con le sue scarpe e la pasta regalata, ed il doroteismo gavianeo/craxiota con o’ posto per raccolta di voti ed è quest’ultimo modello che ha prodotto quei psuedo disoccupati organizzati che avvelenano la vita sociale a Napoli). Per rimanere nell’ambito del periodo del dopoguerra si possono leggere i libri di Percy Allum Il potere a Napoli, fine di un lungo dopoguerra e Napoli punto e a capo(Ed. L’ancora del mediterraneo).
La borghesia napoletana ha utilizzato l’altra società con una prassi che possiamo chiamare illegalità/legale che va dalle video cassette e musicassette pirata a basso costo, al pane ed altre mercanzie in qualsiasi giorno ed ora, al parcheggio abusivo, alle scommesse ed al lotto clandestino sino alle costruzioni abusive etc. il tutto senza tener conto che ciò, oltre che a formare la società senza l’indispensabile mediazione di regole e leggi, nutre economicamente le attività illegali e la conseguente violenza. In definitiva possiamo dire che la sfaccettata borghesia napoletana è affetta da camorra non conclamata che può degenerare in procedure proprie della camorra.
La società tribale ha fatto irruzione nell’altra negli anni settanta e ottanta quando con la diffusione di massa della droga ha dovuto invadere campi diversi per investire gli ingenti capitali accumulati con tale commerci dall’ora la convivenza è divenuta difficile, conflittuale.
Il campo invaso, in modo particolare modo, è stato quello dell’edilizia, attività prevalente nel napoletano, da qui la commistione tra imprese legali ed illegali e la conseguente commistione con i politiche che bisognosi di voti, instaurano il patto scellerato con la camorra rilasciando le licenze ed erogando i finanziamenti come è avvenuto post-terremoto.
Negli anni ottanta si è strutturata quella camorra spietata che ha ucciso, tra i tanti, l’innocente Silvia Ruotolo. L’affermarsi il potere di questa camorra è stato ben descritto da Francesco Barbagallo nel suo saggio Napoli fine novecento - politici, camorristi, imprenditori(Ed. Einaudi).
Egli scrive: "...Rispetto ai decenni precedenti, la novità più consistente degli anni ottanti è stata l’espansione della forza della criminalità camorristica che ha acquisito una centralità, mai avuta prima, sul terreno economico finanziario, amministrazione degli enti locali, negli intrecci di rapporti e di interessi con i poteri politici ed istituzionali...".
Per rompere questo schema che a Napoli si formi una società coesa, una maggioranza di popolazione che rispecchi i valori etico-culturali ed economici condivisi dal resto dell’Europa e dunque non vi siano due società parallele dove una, che ha valori etici condivisi con il mondo civile moderno, guardo allo Stato come regolatore sociale, ed un’altra, che ha valori etici propri tribali, utilizza la camorra come regolamentazione sociale.
Per giungere a ciò occorre sradicare le radici della forma bivalente della società napoletana, sradicare le radici vuol dire mutare la mentalità di quella maggioranza della popolazione che vive due secoli indietro.
La mutazione della mentalità
Per condurre la maggioranza della popolazione dell’area napoletana a livelli europei occorre intervenire non solo in termini repressivi ed economici - possiamo dire che il problema dell’area non è la disoccupazione e la malavita ma essi sono i sintomi di un male profondo: occorre intervenire su quel male: ogni azione intesa a contrastare solo i sintomi diviene vana e la camorra risorgerà sempre.
Ecco dunque che l’affrontare la camorra diviene l’affrontare la mentalità che la sorregge e la nutre. Per far ciò occorre utilizzare in forme nuove la scuola. Affrontare seriamente nell’ambito della scuola la camorra vuol dire pedagogicamente affrontare una mutazione di mentalità.
La mentalità è una sorta di griglia attraverso cui noi leggiamo la realtà per poterla comprendere e poterci rapportare ad essa, assumendo determinato comportamenti. Questa griglia è costituita da tutte le credenze, le idee, gli atteggiamenti e le aspettative nei confronti di noi stessi, del mondo esterno, e dei propri rapporti con esso. Nei fattori determinanti la mentalità bisogna considerare anche quegli elementi di cui l’individuo non ha piena coscienza, ma che possono essere inseriti da altri di cui si ha una manifestazione diretta.
La camorra, nata come codice di difesa del popolino napoletano (1656 la peste scoppio a Napoli spazzando via la nascente borghesia napoletana il popolo abbandonato dal governo dei Viceré Spagnoli iniziò a chiudersi in se stesso ed auto-governarsi tramite i Juappi (guappi = capofamiglia) che vestivano la gamoras giacchetta come quella dei toreri) ha mutuato la sua mentalità nei codici di famiglia tipici delle società tribali - mutuandone anche il metalinguaggio (padrino - compare ecc) - e della famiglia ha strutturato una mentalità dogmatica, fatta di credenze positive incentrata sull’idea dei ruoli predeterminati e sul concetto di appartenenze e dì autorità’.
Ma essendo questi canoni essenzialmente materni il maschio camorrista tende ad esasperare l’aspetto virile. Il legame con la madre (da ciò mammasantissima) è forte non essendoci legami extrafamigliari basati sulla mediazione della legge ma solo rapporti soggettivi di parentela e affiliazione (adozione).
E’ da questo schema che si forma la trasposizione dei codici virili dell’onore della famiglia all’onore dell’organizzazione criminale; tradimento, corna, sangue, fedeltà, codici che formano la commistione tra camorra e famiglia e che nutrono la griglia della sua mentalità.
Occorre un lavoro della scuola essenzialmente che abbia una interpretazione antidogmatica e dunque laica della definizione della coscienza personale. Un tragitto che nell’educazione faccia perno sull’etica della responsabilità individuale e sulla ricerca della possibile verità quale criterio di crescita sociale e di decisioni.
Ho scritto di laicità: Ma chi è il laico? Il concetto di laicità è un concetto poliedrico. Normalmente questa figura si presenta come polemica contro il dogmatismo e le prese di posizione dogmatiche. In realtà il laicismo è questo ma non fondamentalmente questo.
In origine significava l’uomo profano rispetto all’uomo che sa tutto, all’uomo dominante, all’uomo di spicco, all’uomo che ‘ha l’autorità di dire o di ordinare’ - nella camorra il capozona, capoclan - . Quindi laico è l’uomo che ha bisogno di sentire il parere di tutti perché è incerto sulla propria visione delle cose.
In questo caso parlare di laicità equivale a costruire la formazione, tramite un percorso pedagogico, di una persona che scopre nel dialogo con gli altri il mettersi in discussione e mettere in discussione il proprio mondo. Il rompere cioè lo schema familistico amorale in modo che l’appartenenza al gruppo e a ciò che veicola, come ordine dell’esistente e dell’esistenza, può essere messo in discussione e rifiutato.
Qui nasce un nuovo concetto esso è l’etica del rifiuto. Il rifiutare un ordine è un passaggio molto importante nella coscienza di sé. Esso è la fuoriuscita dalla sindrome Eichmann, dal nome del gerarca nazista condannato a morte nel 1962 le cui tesi difensive furono analizzate da Hannah Arendt nel bellissimo libro La banaità del male (Ed. Feltrinelli) tale sindrome consiste nell’accettazione di qualsiasi ordine deresponsabilizzandosi da qualsiasi remora etico-morale in quanto questa ricade nella sfera complessiva della famiglia o clan o cosca o partito.
L’obbedienza non è più una virtù diceva, giustamente, Don Milani, ma il rifiuto deve essere accompagnato da una ricerca critica delle motivazioni profonde dello stesso. La paura di essere escluso dal gruppo è la molla che porta ad accettare qualsiasi azione richiesta.
La paura è la molla che ha portato i lazzari napoletani a chiudersi nell’ambito familistico che ha poi strutturato la camorra e la violenza, come analizzò Rosellina Balbi in Madre paura (ed. Pocket Mondatori). L’uomo camorrista vive in uno stato di paura preventiva ciò lo possiamo cogliere in espressioni gergali tipiche nel napoletano come che paura, che impressione o il famigerato pare brutto una gabbia che chiude nella rassicurante famiglia e distrugge l’interrelazione sociale.
Occorre dunque pedagogicamente un destrutturalizzazione dell’io sociale, con una critica costruttiva in cui l’ io si rende autonomo rendendo il soggetto costruttore di nuove strade esterne alla realtà della sua famiglia.
Solo quando si è formato un nuovo io forte che può dunque dialogare pariteticamente e autonomamente con gli altri io scoprendo così l’alterità si può costruire una nuova socialità ed una nuova mentalità. Se possiamo definire il tutto con uno slogan esso è ‘meno famiglia e più soggettività, meno famiglia e più società.
In tutto questo si racchiude la finalità della scuola in zona di camorra. La metamorfosi di un modo d’essere, un modo di interpretare la vita e la società.
Una legge speciale per l’educazione in zona di camorra
In un recente sondaggio al primo posto come motivazione delle imprese industriali e finanziarie dell’impossibilità di investire nel napoletano vi era la criminalità diffusa. Già questo avrebbe dovuto far muovere il governo e cercare seriamente di agire. Ma ciò non è mai avvenuto le sole azioni sono state azioni placebo come inviare miliardi per Imprese senza radice che poi falliscono o inviare l’esercito per calmare la borghesia spaventata.
Tutte l’azione dei governi succeduti negli ultimi decenni, ove ministri meridionali e napoletani sono stati in maggioranza, diviene comprensibile osservando che quasi tutti i politici della zona sono stati indicati dalla magistratura come complici o direttamente collusi con le consorterie camorristiche come è stato ben descritto nel già citato libro di Barbagallo. Ed oggi con il governo schiacciato su posizioni del Nord Italia, un governo composto da uomini fondamentalmente incolti, senza spirito democratico, dominati dalla paura preventiva come quelli della Lega (la camorra del Nord) e proni ad un padrone che elargisce pseudopotere come il signor B. la situazione diviene ancor di più drammatica.
L’Italia è un paese che ha perso, nel dopoguerra, il treno della modernità fatta di coscienza civile e sociale, di responsabilità personale ed ha imboccato a suon di stragi e tentativi di golpe la via del modernismo cioè un congelamento al tribalismo (di cui il becero Fascismo era la piena espressione) coperto da uno strato di beni consumistici come spiega Guido Crainz nel suo Il paese mancato (Donzelli Editore)
La sinistra, in questi anni, costruiva la sua analisi e le sue proposte incentrandole sui problemi economici, ma mai ha posto l’accento sulla questione scuole ed educazione come si evince dal drammatico libro di Tullio de Mauro La cultura degli italiani (editori Laterza) libro che mette a nudo l’arretratezza culturale del nostro paese.
Si è tragicamente visto che la questione non è essenzialmente economico quando ragazzi, figli di industrialotti, hanno voluto affermare l’appartenenza nei modelli etici propri di una mentalità tribale uccidendo un ragazzo con la scusa di prendersi il motorino. Ma allargando il discorso basta vedere le statistiche della fruizione dei beni di lusso e si scopre che il napoletano è saldamente primo per questi consumi, non dimentichiamo che la città con i più alto indice di depositi bancari non è nel nord Europa ma è San Giuseppe Vesuviano infine, ultimo dato, tra i tanti, che si potrebbero citare, il numero delle Finanziarie che nell’area è tra le più alte d’Europa . Dunque non vi è povertà ma un modo di essere poveri. Vi è un economia chiusa, asfittica, medievale coperta da un becero modernismo.
Ben pochi hanno evidenziato che, rovesciando un luogo comune, non è la ricchezza che produce l’equilibrio sociale ma è l’equilibrio sociale dovuto alla cultura che produce vera ricchezza.
Un governo serio e democratico dovrebbe operare per la camorra come si opera con le grandi catastrofi naturali: terremoti, alluvioni, inondazioni. Occorre una ‘legge speciale’ e finanziamenti ad hoc per le zone colpite dal grande cataclisma della mentalità camorristica. E nel contempo una azione preventiva per evitare i sommovimenti malavitosi.
Ma questo cataclisma che dura da secoli, con i suoi migliaia di morti, distruzione ambientale - la Provincia di Napoli è stata la prima ad essere dichiarata con Decreto Ministeriale ‘zona ad alto rischio ambientale . con il suo infettare il corpo dell’intera nazione - tutto questo non è stato mai affrontato con ‘leggi speciali per l’educazione’ che sradichino la radice della mala pianta.
Un’azione educativa deve condurre ad una metamorfosi di un modo d’essere, un modo di interpretare la vita e i rapporto sociali. Certamente quest’azione non può svolgerla una scuola ‘a regime normale’ anche tenendo presente che nel napoletano non vi è mai stata una vera scuola a regime normale.
Occorre un progetto educativo forte. Per far questo occorrono un criterio ed una metodologia per affrontare il problema con un atteggiamento costruttivo e responsabile e ciò può avvenire tracciando più linee, delle coordinate, in cui verrà posto il progetto che si vuol mettere in atto.
Queste coordinate sono, da un lato, le finalità morali e le finalità ideali del progetto educativo (possiamo dire che sono gli elementi a lungo, lunghissimo termine) dall’altro, bisogna partire dalle situazioni concrete e a questo punto non si può parlare di area napoletana, ma si deve parcellizzare l’intervento, nella sua visuale e scendere al quartiere, scendere ad un’estrazione particolare di un dato quartiere e ambiente.
Così potremo giungere ad cuore di quelle strutture familistico-tribali e operare e infondere quegli stimoli positivi. Tale lavoro è oggi svolto con estrema difficoltà ed abnegazione dai Maestri di Strada guidati da Marco Rossi Doria ecco la legge speciale per l’educazione dovrebbe dare strutture e strumenti finanziari a questi operatori.
Il primo Assessorato del Comune di Napoli dovrebbe essere quello della Cultura e dell’Educazione sociale e tutti gli altri dovrebbero lavorare per collimare le proprie iniziative a quello principale.
*****
Stimolare i giovani e questo vale essenzialmente per un aspetto negativamente forte dei lazzari ad una consapevolezza dell’autodisciplina e di un ordine acquisito per il riconoscimento autonomo del proprio valore.
Non è vero che il ragazzo napoletano per sua natura sia ribelle.
La disciplina costituisce un limite, ma anche una sicurezza. Un argine ad una forza le cui esuberanze danno problemi e creano nervosismo, prima che a qualunque altro, fondamentalmente a chi esercita tale esuberanza.
Anche il cosiddetto bambino-ribelle, il folcloristico scugnizzo (oggi chiamato muschillo - piccola mosca - quando fa il corriere della droga) che è diventato un tipo caratterologico del ragazzo napoletano è un ragazzo fondamentalmente abbandonato, e più che dire abbandonato a sé stesso, bisogna mettere l’accento su un ragazzo abbandonato e basta, perchè quel sé stesso non costituisce per lui nessuna protezione, non costituisce nessuna sicurezza di cui egli ha bisogno e chiede in forme per lo più implicite.
Ma in quale ambiente realizzare tutto ciò?
Un ambiente è educativo di per sé, educativo sia nel senso positivo che negativo.
Far vivere persone in ambienti ristretti,. Scarsamente illuminati, ambienti sporchi, trascurati crea diseducazioni, crea tutto il contrario di ciò che affermiamo essere importante. Dunque recupero urbano e ristrutturazione dei plessi scolastici devono andare di pari passo.
Anche la struttura urbana è educativa, come lo sono le simmetrie delle facciate delle case; a Napoli non si è fatta mai la guerra ai balconi abusivi come vi sono a Forcella, o a Piazzetta Nilo o Via Sforza o su muro dei chiostri di San Gaetano e via elencando - sto scrivendo del centro storico e antico dichiarato monumento dell’umanità dall’UNESCO - buttare giù i balconi e ripristinare le facciate è un’indicare il primato delle regole - è la legge astratta ed universale che governa gli uomini - ed educare alla simmetria visiva che si riverbera in un ordine mentale. Lo slogan in questo caso può essere: la durezza della legge e la dolcezza della cultura.
I plessi scolastici devono diventare i centri di riferimento della società, in luoghi ove non vi è niente come servizi sociali ed educativi, la scuola deve divenire l’avamposto della società civile; così avremo un utilizzo a tutto campo per attività che trascendono i programmi d’insegnamento.
Così la scuola diviene la palestra per la profonda metamorfosi della mentalità. Per far questo la scuola deve coinvolgere i nuclei familiari nell’attività pedagogica con l’educazione permanente.
Solo con una rivoluzione sociale Napoli può iniziare a produrre in modo endogeno futuro, altrimenti rischia ancor di più l’emarginazione e l’irrilevanza nella società globalizzata, e tutto questo può produrre solo ancor di più disperazione e violenza.
* www.ildialogo.org, Sabato, 04 novembre 2006
IPOTESI. Sull’origine del termine "camorra"...utile per cogliere meglio la profondità dell’indicazione di Vincenzo Cuoco, relativa alle "due" nazioni-città e alla loro "storica" relazione ... sarebbe meglio partire non più e non solo dalla ’fuorviante’ e generica origine dal gioco della "morra" o dalla "giacchetta" del "guappo", ma - più a fondo - dalle specifiche e contrastanti condizioni "abitative" di vita delle due "città" e dalla responsabiltà - altrettanto "storica" - delle "Camere", della "Politica" di tutta la Città, cfr., sul sito, LO SCEMPIO DEL "TERRITORIO" E LE "CAMERE" SGARRUPATE; così si può comprendere, meglio e più chiaramente, che "camorra" -"ca ’a morra" - indica sia il gioco, sia la casa del "gioco", sia la banda-organizzazione (il "branco" di animali - pecore o lupi - o, come in questo caso, di esseri umani, "il mucchio selvaggio" contro l’altra "città" ... che - a sua volta - opera in modo altrettanto "camorristico" contro l’"altra" parte della Città, come se la sua "città" fosse la vera, comune, e unica Città).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
MEMORIA DI FRANCESCO D’ASSISI. "VA’, RIPARA LA MIA CASA"!!!
NOCERA INFERIORE (SALERNO), 2008. L’ITALIA ALL’EPOCA DELL’INQUISIZIONE E DI DON RODRIGO, 1628.
Federico La Sala
De Magistris a Saviano: ’Sei diventato un brand’
’Più si spara, più cresce la tua impresa, sei diventato brand’
di Redazione ANSA *
A Napoli "più si spara, più cresce la tua impresa. Non posso credere che il tuo successo cresca con gli spari della camorra". Così, con un durissimo post su Facebook, il sindaco di Napoli, Luigi de Magistris, si rivolge allo scrittore Roberto Saviano per il quale a Napoli nulla sta cambiando. La polemica dopo il raid nella zona del mercato della Duchesca dove sono stati feriti tre senegalesi ed una bambina di 10 anni. "Caro Saviano, sei diventato un brand che tira se tira una certa narrazione", aggiunge de Magistris.
IL POST
Pronta la replica di Saviano: "Sindaco De Magistris, quando le mistificazioni della sua amministrazione verranno al pettine, a pugnalarla saranno i tanti lacchè, più o meno pagati, dei quali si circonda per mistificare la realtà, unico modo per evitare di affrontarla. Due sparatorie in pieno centro - scrive Saviano - e una bambina di 10 anni ferita in un luogo affollatissimo della città: ma il sindaco è infastidito dalla realtà, a lui non interessa la realtà, a lui interessa l’idea, quell’idea falsa di una città in rinascita: problema non sono le vittime innocenti del fuoco della camorra, problema è che poi Saviano ne parlerà. Il contesto nel quale nascono e crescono le organizzazioni criminali, fatto di assenza delle regole e lassismo, da quando lui è sindaco non solo non è mutato, ma ha preso una piega più grottesca: ora la camorra in città è minorenne e il disagio si è esteso alle fasce anagraficamente più deboli".
LE DICHIARAZIONI DI DE MAGISTRIS
"Caro Saviano, mi occupo di mafie, criminalità organizzata e corruzione da circa 25 anni, inizialmente come pubblico ministero in prima linea, oggi da sindaco di Napoli. Ed ho pagato prezzi alti, altissimi. Non faccio più il magistrato per aver contrastato mafie e corruzioni fino ai vertici dello Stato. Non ti ho visto al nostro fianco. Caro Saviano, ogni volta che a Napoli succede un fatto di cronaca nera, più o meno grave, arriva, come un orologio, il tuo verbo, il tuo pensiero, la tua invettiva: a Napoli nulla cambia, sempre inferno e nulla più. Sembra quasi che tu non aspetti altro che il fatto di cronaca nera per godere delle tue verità", sostiene il sindaco di Napoli, Luigi de Magistris, rivolgendosi allo scrittore.
"Se utilizzassi le tue categorie mentali dovrei pensare che tu auspichi l’invincibilità della camorra per non perdere il ruolo che ti hanno e ti sei costruito. E probabilmente non accumulare tanti denari. Ed allora, caro Saviano, mi chiedo: premesso che a Napoli i problemi sono ancora tanti, nonostante i numerosi risultati raggiunti senza soldi e contro il Sistema, come fai a non sapere, a non renderti conto di quanto sia cambiata Napoli. Ce lo dicono in tantissimi. Tutti - sostiene de Magistris - riconoscono quanto stia cambiando la Città. Napoli ricca di umanità, di vitalità, di cultura, di turisti come mai nella sua storia, di commercio, di creatività, di movimenti giovanili, di processi di liberazione quotidiani. Prima città in Italia per crescita culturale e turistica. Napoli che ha rotto il rapporto tra mafia e politica. Napoli dei beni comuni. Napoli del riscatto morale con i fatti. Napoli autonoma. Napoli che rompe il sistema di rifiuti ed ecomafie. E potrei continuare. Caro Saviano, come fai a non sapere, come fai a non conoscere tutto questo. Allora Saviano non sa i fatti, non conosce Napoli e i napoletani, allora Saviano è ignorante, nel senso che ignora i fatti, letteralmente: mancata conoscenza dei fatti".
"Non credo a questo. Sei stato da tanto tempo stimolato - aggiunge il sindaco - ad informarti, a conoscere, ad apprendere, a venire a Napoli. Saviano non puoi non sapere. Non è credibile che tu non abbia avuto contezza del cambiamento. La verità è che non vuoi raccontarlo. Voglio ancora pensare che, in fondo, non conosci Napoli, forse non l’hai mai conosciuta, mi sembra evidente che non la ami. La giudichi, la detesti tanto, ma davvero non la conosci. Ed allora, caro Saviano, vivila una volta per tutte Napoli, non avere paura. Abbi coraggio. Mescolati nei vicoli insieme alla gente, come cantava Pino Daniele".
L’invito di de Magistris, è a mischiarsi "ai tanti napoletani che ogni giorno lottano per cambiare, che soffrono, che sono minacciati, che muoiono, che sperano, che sorridono anche. Caro Saviano, cerca il contatto umano, immergiti tra la folla immensa, trova il gusto di sorridere, saggia le emozioni profonde di questa città. Saviano pensala come vuoi, le tue idee contrarie saranno sempre legittime e le racconteremo, ma per noi non sei il depositario della verità. Ma solo una voce come altre, nulla più. E credimi, preferisco di gran lunga le opinioni dei nostri concittadini che ogni giorno mi criticano anche ma vivono e amano la nostra amata Napoli. Ciao Saviano, senza rancore, ma con infinita passione ed infinito amore per la città in cui ho scelto di vivere e lottare".
*
Dopo l’unità d’italia. La camorra? Nasce come setta
In un libro densissimo Franco Benigno racconta le origini del fenomeno mafioso in Sicilia e a Napoli, partendo da testimonianze che ricalcano i narratori francesi dell’800
di Gabriele Pedullà (Il Sole-24 Ore, Domemica, 3 Gennaio 2016)
Il termine “andrangheta” deriva dal greco aner, andros (uomo) e testimonia, con la forza inoppugnabile delle etimologie, come la criminalità organizzata calabrese abbia origine negli antichi simposi dei liberi cittadini della Magna Grecia; analogamente, la parola “mafia” non è altro che la trascrizione del grido “ Ma fille” (figlia mia) con cui, di fronte alle reiterate violenze sulle ragazze del luogo, un padre chiamò i palermitani alla rivolta contro gli occupanti francesi nella celebre insurrezione dei Vespri siciliani del 1282... Pure leggende: come ben sanno gli storici. Ma siccome si tratta di temi scottanti per la nostra attualità e non di rado capita di sentire ancora raccontare in pubblico amenità del genere, persino da qualche magistrato antimafia, conviene ripeterlo una volta di più: la criminalità organizzata che oggi contende allo stato italiano il controllo di ampie porzioni della penisola non affonda tanto lontano le sue radici. E proprio per questo non è imbattibile.
Tuttavia la domanda mantiene intatto il suo fascino. Quando? E soprattutto: perché? Vogliamo, dobbiamo sapere. E ottimi studiosi si sono dedicati a questo tema in tempi recenti. Non è però direttamente da questi interrogativi che muove uno dei libri di storia più importanti degli ultimi anni: La mala setta. Alle origini di mafia e camorra (1859-1878), scritto da uno studioso sino a oggi internazionalmente apprezzato per i suoi lavori sulla politica barocca e sulle rivoluzioni di età moderna (Masaniello, il 1649 inglese e il 1789 francese).
In quattrocento densissime pagine Franco Benigno sovverte gran parte delle nostre convinzioni sulla fase aurorale della criminalità organizzata, e lo fa con una mossa interpretativa che - sinteticamente - si può definire come il rifiuto dell’eccezionalismo siciliano e napoletano. Nella prospettiva di Benigno, infatti, gli inafferrabili primordi di mafia e camorra si lasciano mettere a fuoco solo a patto di allargare lo sguardo oltre i confini del Mezzogiorno d’Italia.
Gli storici che lavorano su questi argomenti hanno notato da tempo l’improvviso moltiplicarsi delle testimonianze su camorra e mafia negli anni immediatamente successivi alla Unità: reportage dalle tinte spesso assai fosche nei quali gli autori narrano la discesa nei bassifondi della città e la scoperta, grazie alla confessione di un “pentito”, delle regole con cui si autogoverna il mondo parallelo dei delinquenti, con le sue gerarchie, i suoi giuramenti e rituali, la sua suddivisione in arti e corporazioni secondo il modello delle professioni legali. Prove della esistenza di una setta dal potere tentacolare che arriverebbe a inquadrare decine di migliaia di persone e a controllare ogni snodo della vita di Napoli e Palermo.
Anche Benigno parte da questi testi, ma opera un duplice scarto. Anzitutto ha gioco facile a mostrare come simili coloritissime testimonianze ricalchino in maniera inequivocabile i racconti dei grandi narratori francesi del primo Ottocento sul mondo del crimine, dai romanzi di Balzac, Victor Hugo ed Eugene Sue (I misteri di Parigi) alle famose memorie dell’ex galeotto e poi commissario di polizia Vidocq. La rappresentazione di un mondo popolare al confine tra accattonaggio e delinquenza offerta da queste opere ha goduto di un successo considerevolissimo in Europa, al punto di sentire ancora nel cinema degli anni Trenta, da René Clair (Il milione) a Fritz Lang (M. il mostro di Dusseldorf). Ora, nota Benigno, situazioni, atmosfere e singoli dettagli corrispondono troppo perfettamente perché non si riconosca anche nelle prime testimonianze su camorra e mafia il segno inequivocabile di un simile immaginario romanzesco.
Il passo davvero decisivo de La mala setta è però quello successivo. Benigno mostra come il rapido imporsi della nuova interpretazione del mondo del crimine napoletano all’indomani del 1860 non sia affatto casuale. Se in pochi anni la tradizionale immagine dell’indolente “lazzarone” napoletano è stata cancellata da quella del “camorrista” è perché il modello romanzesco importato dalla Francia si rivelava particolarmente funzionale alla politica repressiva della Destra storica. Le plebi di Napoli e Palermo avevano dato un contributo militare straordinario all’impresa garibaldina e i reduci della spedizione, animati da sentimenti democratici e spesso repubblicani, costituivano un tenace focolaio di opposizione alla piega moderata che il movimento risorgimentale aveva preso dopo l’annessione al regno dei Savoia. Di fronte all’obiettivo pericolo che queste masse cittadine incarnavano per la monarchia, i modelli romanzeschi francesi potevano servire a due scopi intrecciati tra loro: vale a dire a derubricare gli attivisti politici e in particolare i membri della (disciolta) Guardia nazionale di Garibaldi a semplici delinquenti comuni, e a creare il consenso per una politica di repressione urbana analoga a quella contro il brigantaggio nelle campagne, adombrando lo spauracchio di un’oscura minaccia politico-criminale. Come infatti nota Benigno (da ottimo conoscitore dei trompe-l’oeil barocchi), a seconda della lente adoperata gli stessi personaggi ci vengono incontro come eroici patrioti in camicia rossa non ancora rassegnati alla involuzione del 1861 o come pericolosi delinquenti comuni.
Benigno mostra facilmente come in questa prima fase le medesime retoriche messe in campo contro camorra e mafia siano adoperate dalla stampa governativa e dalle forze di polizia per descrivere e contrastare anche le presunte associazioni a delinquere attive nelle altre parti d’Italia dove più forte era la tradizione repubblicana, come nel caso della “Balla” di Bologna (una ipotetica associazione di malfattori accusata dei più diversi delitti). Rileggendo le prime testimonianze su mafiosi e camorristi alla luce della riflessione sull’oggetto sicuramente più incandescente della scienza sociale ottocentesca - le così dette “classi pericolose”, vale a dire quei settori miserabili del popolo presso i quali più facilmente poteva trovare ascolto la propaganda radicale - Benigno reintegra così la storia del crimine organizzato nella storia politica e sociale europea alla luce della “grande paura” scatenata in tutto il continente dall’avanzata del movimento socialista (particolarmente dopo gli eventi della Comune parigina del 1870).
Le tesi di Benigno traggono ovviamente forza dall’imponente scavo archivistico che le sorregge. I lettori si divertiranno a scoprire, per esempio, che all’origine della rappresentazione della camorra come società segreta dalla ramificazione tentacolare incontriamo niente meno che Alexandre Dumas figlio: in una prima fase sostenitore dei garibaldini, ma presto destinato a spostare su posizioni sempre più filogovernative il quotidiano da lui fondato a Napoli, «L’Indipendente» (è a lui che dobbiamo infatti, nel marzo del 1862, la prima descrizione dettagliata della setta della camorra). E la pagina in cui Benigno estrae dall’Archivio di Stato di Napoli la “pistola fumante” che lega le prime ricostruzioni leggendarie della “mala setta” all’attività di “disinformazione” della polizia di Silvio Spaventa e del ministro degli Interni Marco Minghetti è senza dubbio una delle più esplosive dell’intero libro.
Se Benigno ha ragione, solo successivamente camorra e mafia si sono date l’organizzazione verticistica per cui oggi risultano così temibili. La mala setta non ci dice come e quando ciò è avvenuto (e, sbagliando, qualche lettore potrebbe esserne deluso). Questo non vuol dire però che il libro manchi di una pars costruens, ma solo che - significativamente - questa non riguarda tanto la nascita della criminalità organizzata quanto il difficile processo di formazione dello stato nazionale contro alcuni dei suoi propugnatori.
La mala setta ci chiede insomma di fare i conti con la criminalizzazione delle “classi pericolose” (non solo meridionali) come tassello essenziale di una strategia di controllo dei ceti popolari, in una fase di instancabile attivismo garibaldino, repubblicano e anarchico. In cambio però ci dà moltissimo: perché alla fine, anche da questo punto di vista, la Napoli di Spaventa e Minghetti si rivela assai meno distante dalla Parigi del barone Haussmann di quanto non continui a ripetere un discorso pubblico troppo spesso incapace, ancora oggi, di affrancarsi del tutto dal mito della costitutiva diversità meridionale.
ll germe medievale della Camorra
Dai clan napoletani del Trecento alle famiglie criminali di oggi: la tesi di una continuità forte
di Antonio Carioti (Corriere della Sera, 03.01.2016)
A Napoli la criminalità organizzata vera e propria sorge e si afferma nell’Ottocento. Dai primi anni di quel secolo prende infatti le mosse la Storia della camorra di Francesco Barbagallo (Laterza, 2010) e di quel secolo si occupa, concentrandosi sul rapporto tra delinquenza e politica, il saggio La mala setta di Francesco Benigno, uscito di recente da Einaudi. Ma la mentalità assuefatta al potere sanguinario dei clan, sostiene lo storico Amedeo Feniello nel libro Napoli 1343 (Mondadori), ha radici più profonde, si connette a una «struttura di lungo periodo» già pervasiva e opprimente nel Medioevo.
L’autore ha visto in faccia la ferocia camorrista nel 2005, per via della barbara esecuzione di tre giovani assassinati nella notte davanti alla scuola in cui insegnava. Lo colpirono allora il silenzio dei potenziali testimoni, l’indifferenza della politica, l’impotenza delle forze dell’ordine. Poi le sue ricerche sull’età medievale lo hanno indotto a ipotizzare un nesso tra la violenza di oggi e un episodio del passato, avvenuto nell’anno di cui parla il titolo del saggio.
Di che si tratta? Nel novembre 1343, mentre su Napoli incombeva la carestia, alcuni nobili appartenenti a «seggi» (centri d’aggregazione e di gestione dei singoli quartieri) tra i più influenti della città guidarono una spedizione contro una nave genovese carica di carni e frumento. Uccisero il capitano e saccheggiarono le vettovaglie per distribuirle agli affamati, con la sostanziale connivenza delle pubbliche autorità, che anzi in seguito esercitarono un sordo ostruzionismo rispetto alle richieste di giustizia provenienti da Genova.
Può sembrare una vicenda quasi ordinaria nel terribile Trecento, un secolo funestato a più riprese da carestie e pestilenze catastrofiche. Ma Feniello la ricollega all’assetto di governo della città instaurato due secoli prima, dopo la battaglia di Rignano (1137), quando Napoli aveva cessato di essere padrona di un ducato indipendente ed era caduta sotto il dominio dei normanni.
È allora, si legge nel libro, che sorge all’ombra del Vesuvio «non un Comune, con le sue assemblee deliberative e i suoi consessi popolari, ma una struttura parcellizzata per aree di competenza controllate da clan, ossia da consorzi a base famigliare che penetrano ogni ganglio della vita cittadina». Un sistema di controllo del territorio che poi si rafforza quando, nella seconda metà del Duecento, con la sconfitta degli svevi (subentrati ai normanni) e l’avvento della dinastia angioina, Napoli viene promossa a capitale di un grande regno.
Alleanze e conflitti, spesso cruenti, tra le consorterie nobiliari, i già ricordati «seggi», segnano così nel profondo la vicenda medievale partenopea. E sedimentano riti, costumi, pregiudizi, specie l’abitudine a gestire in termini personalistici la vita pubblica. Una logica di clan che, secondo Feniello, ha costituto un terreno fertile per l’impianto della camorra, la quale tuttora ne beneficia.
Se davvero la parabola di Napoli presenti fattori di continuità tanto duraturi è ovviamente materia opinabile. Sarebbe comunque opportuno che la tesi di Feniello venisse considerata e discussa dagli addetti ai lavori: anche la storiografia ha il dovere di cercare risposte di fronte a un tessuto sociale lacerato da ferite tanto profonde. Non basta gridare alla dignità offesa quando, per esempio, la presidente della commissione Antimafia, Rosy Bindi definisce la presenza della camorra «un dato costitutivo» della vita napoletana.
Tuttavia Feniello non avanza soltanto una proposta interpretativa originale, per certi versi provocatoria, ma offre anche un dettagliato affresco, lungo tre secoli, di una delle realtà più importanti d’Europa. Si occupa di commerci e di urbanistica, indaga le ragioni delle carestie, rievoca guerre e sovrani di varie dinastie. Racconta gli scontri cruenti tra genovesi e pisani, esponenti di repubbliche marinare rivali, sulla piazza partenopea. Utilizza cronache dell’epoca, documenti ufficiali, novelle del Boccaccio. Alla fine il lettore ha imparato parecchio sul passato remoto di Napoli e ha qualche motivo in più per preoccuparsi del suo futuro.
Sarebbe però sbagliato accusare l’autore di alimentare sotto sotto la rassegnazione, attribuendo alla città una sorta di morbo inguaribile. Al contrario in queste pagine, di pari passo con il gusto della ricerca, pulsa la passione civile. Perché l’indignazione serve a poco, se non è accompagnata dalla volontà di riflettere e dallo sforzo di capire.
Roberti: corruzione mai combattuta in Italia
di Nicola Barone (Il Sole-24 Ore, 16 settembre 2015)
Mai combattuta la corruzione in Italia? «Mai». Così il procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo Franco Roberti davanti alla commissione parlamentare Antimafia. Per molte ragioni non ultima il fatto che «i corrotti sono sempre stati visti come dei furbi, gente che ci sa fare e che va negli uffici comunali con gli assegni in bocca per ottenere le licenze».
Nel ragionamento di Roberti si affaccia lo stesso discorso che vale per gli evasori fiscali. «Ma corruzione ed evasione fiscale sono il sostrato della criminalità organizzata. Come prova anche l’inchiesta su Mafia Capitale, la corruzione si è associata all’intimidazione, certo non l’ha sostituita: ma non si può in nessun caso negare che le mafie siano un elemento costitutivo delle società da cui hanno avuto origine, all’interno delle quali si sono affermate e da dove si sono propagate anche fuori d’Italia e fuori d’Europa proprio per effetto della vulnerabilità del sistema economico finanziario e delle istituzioni».
La camorra è parte integrante della società napoletana
«Alcuni anni fa, durante un’audizione davanti alla commissione Antimafia presieduta da Forgione, dissi che la camorra era un elemento costitutivo della società napoletana. Intendevo dire, e la realtà da allora non è cambiata, che la camorra è parte integrante della società napoletana e un problema economico e politico oltre che criminale». In apertura della sua audizione il procuratore nazionale mostra di condividere la sortita, assai discussa, della presidente Rosy Bindi.
«Basta con i negazionismi ipocriti, subdoli e paralizzanti - ha premesso Roberti - che contrappongono a questa evidenza una visione di Napoli come paradiso terrestre e un atteggiamento di tipo consolatorio. Esiste una Napoli virtuosa e onesta ma anche una Napoli camorrista e plebea che convive con l’altra, si alimenta delle diseguaglianze economiche, fa affari con i ricchi senza scrupoli e recluta nelle aree della povertà, dell’emarginazione e della disperazione».
A Napoli - ha proseguito il procuratore nazionale Antimafia - «la camorra domina ancora larga parte del territorio: guardare in faccia la realtà è la precondizione necessaria per articolare un’attività strutturale di contrasto che risulti davvero efficace.
Questo vale anche per la mafia e per la ’ndrangheta: «Negare che le mafie siano una componente organica della società significa negare l’evidenza ma è necessario anche prevedere tutta una serie di interventi per favorire sul piano economico e sociale il recupero di questi territori. Come intervento giudiziario di più non si può fare, anzi dobbiamo fare attenzione a non indebolirlo come, inconsapevolmente e in perfetta buona fede, si sta invece rischiando di fare in questi giorni con alcune modifiche al Codice penale».
INTERESSANTISSIMO E VERITIERO ARTICOLO E PENSIERO ; VI HO LINKATI SUL NOSTRO BLOG GRAZIE
http://sfaccimma-della-gente.blogspot.com/
blog a tolleranza zero contro la napoletanita’ secolare e le tragedie che genera
Don Pedro de Toledo
Caro "Don Pedro" ....
abbiamo molto, molto apprezzato la Sua attenzione e il "linkaggio" al Suo blog.
I nostri più vivi ringraziamneti e i nostri più cordiali saluti.
Per la Redazione
Federico La Sala
Così ho avvelenato Napoli
Le confessioni di Gaetano Vassallo, il boss che per 20 anni ha nascosto rifiuti tossici in Campania pagando politici e funzionari
di Gianluca Di Feo e Emiliano Fittipaldi *
Temo per la mia vita e per questo ho deciso di collaborare con la giustizia e dire tutto quello che mi riguarda, anche reati da me commessi. In particolare, intendo riferire sullo smaltimento illegale dei rifiuti speciali, tossici e nocivi, a partire dal 1987-88 fino all’anno 2005. Smaltimenti realizzati in cave, in terreni vergini, in discariche non autorizzate e in siti che posso materialmente indicare, avendo anche io contribuito... Comincia così il più sconvolgente racconto della devastazione di una regione: venti anni di veleni nascosti ovunque, che hanno contaminato il suolo, l’acqua e l’aria della Campania. Venti anni di denaro facile che hanno consolidato il potere dei casalesi, diventati praticamente i monopolisti di questo business sporco e redditizio. La testimonianza choc di una follia collettiva, che dalla fine degli anni Ottanta ha spinto sindaci, boss e contadini a seminare scorie tossiche nelle campagne tra Napoli e Caserta. Con il Commissariato di governo che in nome dell’emergenza ha poi legalizzato questo inferno.
Gaetano Vassallo è stato l’inventore del traffico: l’imprenditore che ha aperto la rotta dei rifiuti tossici alle aziende del Nord. E ha amministrato il grande affare per conto della famiglia Bidognetti, seguendone ascesa e declino nell’impero di Gomorra.
I primi clienti li ha raccolti in Toscana, in quelle aziende fiorentine dove la massoneria di Licio Gelli continua ad avere un peso. I controlli non sono mai stati un problema: dichiara di avere avuto a libro paga i responsabili. Anche con la politica ha curato rapporti e investimenti, prendendo la tessera di Forza Italia e puntando sul partito di Berlusconi.
La rete di protezione
Quando Vassallo si presenta ai magistrati dell’Antimafia di Napoli è il primo aprile. Mancano due settimane alle elezioni, tante cose dovevano ancora accadere. Due mesi esatti dopo, Michele Orsi, uno dei protagonisti delle sue rivelazioni è stato assassinato da un commando di killer casalesi. E 42 giorni dopo Nicola Cosentino, il più importante parlamentare da lui chiamato in causa, è diventato sottosegretario del governo Berlusconi.
Vassallo non si è preoccupato. Ha continuato a riempire decine di verbali di accuse, che vengono vagliati da un pool di pm della direzione distrettuale antimafia napoletana e da squadre specializzate delle forze dell’ordine: poliziotti, finanzieri, carabinieri e Dia. Finora i riscontri alle sue testimonianze sono stati numerosi: per gli inquirenti è altamente attendibile.
Anche perché ha conservato pacchi di documenti per dare forza alle sue parole. Che aprono un abisso sulla devastazione dei suoli campani e poi, attraverso i roghi e la commercializzazione dei prodotti agro-alimentari, sulla minaccia alla salute di tutti i cittadini. Come è stato possibile?
"Nel corso degli anni, quanto meno fino al 2002, ho proseguito nella sfruttamento della ex discarica di Giugliano, insieme ai miei fratelli, corrompendo l’architetto Bovier del Commissariato di governo e l’ingegner Avallone dell’Arpac (l’agenzia regionale dell’ambiente). Il primo è stato remunerato continuativamente perché consentiva, falsificando i certificati o i verbali di accertamento, di far apparire conforme al materiale di bonifica i rifiuti che venivano smaltiti illecitamente. Ha ricevuto in tutto somme prossime ai 70 milioni di lire. L’ingegner Avallone era praticamente ’stipendiato’ con tre milioni di lire al mese, essendo lo stesso incaricato anche di predisporre il progetto di bonifica della nostra discarica, progetto che ci consentiva la copertura formale per poter smaltire illecitamente i rifiuti".
Il gran pentito dei veleni parla anche di uomini delle forze dell’ordine ’a disposizione’ e di decine di sindaci prezzolati. Ci sono persino funzionari della provincia di Caserta che firmano licenze per siti che sono fuori dai loro territori. Una lista sterminata di tangenti, versate attraverso i canali più diversi: si parte dalle fidejussioni affidate negli anni Ottanta alla moglie di Rosario Gava, fratello del patriarca dc, fino alla partecipazione occulta dell’ultima leva politica alle società dell’immondizia.
L’età dell’oro
Vassallo sa tutto. Perché per venti anni è stato il ministro dei rifiuti di Francesco Bidognetti, l’uomo che assieme a Francesco ’Sandokan’ Schiavone domina il clan dei casalesi. All’inizio i veleni finivano in una discarica autorizzata, quella di Giugliano, legalmente gestita. Le scorie arrivavano soprattutto dalle concerie della Toscana, sui camion della ditta di Elio e Generoso Roma. C’era poi un giro campano con tutti i rifiuti speciali provenienti dalla rottamazione di veicoli: fiumi di olii nocivi.
I protagonisti sono colletti bianchi, che fanno da prestanome per i padrini latitanti, li nascondono nelle loro ville e trasmettono gli ordini dal carcere dei boss detenuti. In pratica, accusa tutte le aziende campane che hanno operato nel settore, citando minuziosamente coperture e referenti. C’è l’avvocato Cipriano Chianese. C’è Gaetano Cerci "che peraltro è in contatto con Licio Gelli e con il suo vice così come mi ha riferito dieci giorni fa".
Il racconto è agghiacciante. Sembra che la zona tra Napoli e Caserta venga colpita dalla nuova febbre dell’oro. Tutti corrono a sversare liquidi tossici, improvvisandosi riciclatori. "Verso la fine degli Ottanta ogni clan si era organizzato autonomamente per interrare i carichi in discariche abusive. Finora è stato scoperto solo uno dei gruppi, ma vi erano sistemi paralleli gestiti anche da altre famiglie".
Ci sono trafficanti fai-dai-te che buttano liquidi fetidi nei campi coltivati in pieno giorno. Contadini che offrono i loro frutteti alle autobotti della morte. E se qualcuno protesta, intervengono i camorristi con la mitraglietta in pugno.
La banalità del male
Chi, come Vassallo, possiede una discarica lecita, la sfrutta all’infinito. Il sistema è terribilmente banale: nei permessi non viene indicata l’esatta posizione dell’invaso, né il suo perimetro. Così le voragini vengono triplicate. "Tutte le discariche campane con tale espediente hanno continuato a smaltire in modo abusivo, sfruttando autorizzazioni meramente cartolari. Ovviamente, nel creare nuovi invasi mi sono disinteressato di attrezzare quegli spazi in modo da impermeabilizzare i terreni; non fu realizzato nessun sistema di controllo del percolato e nessuna vasca di raccolta, sicché mai si è provveduto a controllare quella discarica ed a sanarla". In uno di questi ’buchi’ semilegali Vassallo fa seppellire un milione di metri cubi di detriti pericolosi.
L’aspetto più assurdo è che durante le emergenze che si sono accavallate, tutte queste discariche - quelle lecite e i satelliti abusivi - vengono espropriate dal Commissariato di governo per fare spazio all’immondizia di Napoli città. All’imprenditore della camorra Vassallo, pluri-inquisito, lo Stato concede ricchi risarcimenti: quasi due milioni e mezzo di euro. E altra monnezza seppellisce così il sarcofago dei veleni, creando un danno ancora più grave.
"I rifiuti del Commissariato furono collocati in sopra-elevazione; la zone è stata poi ’sistemata’, anche se sono rimasti sotterrati rifiuti speciali (includendo anche i tossici), senza che fosse stata realizzata alcuna impermeabilizzazione. Non è mai stato fatto uno studio serio in ordine alla qualità dell’acqua della falda. E quella zona è ad alta vocazione agricola".
L’import di scorie pericolose fruttava al clan 10 lire al chilo. "In quel periodo solo da me guadagnarono due miliardi". Il calcolo è semplice: furono nascoste 200 mila tonnellate di sostanze tossiche. Questo soltanto per l’asse Vassallo-casalesi, senza contare gli altri i boss napoletani che si erano lanciati nell’affare, a partire dai Mallardo.
"Una volta colmate le discariche, i rifiuti venivano interrati ovunque. In questi casi gli imprenditori venivano sostanzialmente by-passati, ma talora ci veniva richiesto di concedere l’uso dei nostri timbri, in modo da ’coprire’ e giustificare lo smaltimento dei produttori di rifiuti, del Nord Italia... Ricordo i rifiuti dell’Acna di Cengio, che furono smaltiti nella mia discarica per 6.000 quintali. Ma carichi ben superiori dall’Acna furono gestiti dall’avvocato Chianese: trattava 70 o 80 autotreni al giorno. La fila di autotreni era tale che formava una fila di circa un chilometro e mezzo".
Un’altra misteriosa ondata di piena arriva tra la fine del 2001 e l’inizio del 2002: "Si trattava di un composto umido derivante dalla lavorazione dei rifiuti solidi urbani triturati, contenente molta plastica e vetro". Decine di camion provenienti da un impianto pubblico: a Vassallo dicono che partono da Milano e vanno fatti scomparire in fretta.
Il patto con la politica Uno dei capitoli più importanti riguarda la società mista che curava la nettezza urbana a Mondragone e in altri centri del casertano. È lì che parla dei fratelli Michele e Sergio Orsi, imprenditori con forti agganci nei palazzi del potere: il primo è stato ammazzato a giugno. I due, arrestati nel 2006, si erano difesi descrivendo le pressioni di boss e di politici.
Ma Vassallo va molto oltre: "Confesso che ho agito per conto della famiglia Bidognetti quale loro referente nel controllo della società Eco4 gestita dai fratelli Orsi. Ai fratelli Orsi era stata fissata una tangente mensile di 50 mila euro... Posso dire che la società Eco4 era controllata dall’onorevole Nicola Cosentino e anche l’onorevole Mario Landoldi (An) vi aveva svariati interessi. Presenziai personalmente alla consegna di 50 mila euro in contanti da parte di Sergio Orsi a Cosentino, incontro avvenuto a casa di quest’ultimo a Casal di Principe. Ricordo che Cosentino ebbe a ricevere la somma in una busta gialla e Sergio mi informò del suo contenuto".
Rapporti antichi, quelli con il politico che la scorsa settimana ha accompagnato Berlusconi nell’ultimo bagno di folla napoletano: "La mia conoscenza con Cosentino risale agli anni ’80, quando lo stesso era appena uscito dal Psdi e si era candidato alla provincia. Ricordo che in quella occasione fui contattato da Bernardo Cirillo, il quale mi disse che dovevamo organizzare un incontro elettorale per il Cosentino che era uno dei ’nostri’ candidati ossia un candidato del clan Bidognetti. In particolare il Cirillo specificò che era stato proprio ’lo zio’ a far arrivare questo messaggio".
Lo ’zio’, spiega, è Francesco Bidognetti: condannato all’ergastolo in appello nel processo Spartacus e, su ordine del ministro Alfano, sottoposto allo stesso regime carcerario di Totò Riina e Bernardo Provenzano. L’elezione alla provincia di Caserta è stata invece il secondo gradino della carriera di Cosentino, l’avvocato di Casal di Principe oggi leader campano della Pdl e sottosegretario all’Economia. "Faccio presente che sono tesserato ’Forza Italia’ e grazie a me sono state tesserate numerose persone presso la sezione di Cesa. Mi è capitato in due occasioni di sponsorizzare la campagna elettorale di Cosentino offrendogli cene presso il ristorante di mio fratello, cene costose con centinaia di invitati. L’ho sostenuto nel 2001 e incontrato spesso dopo l’elezione in Parlamento".
Ma quando si presenta a chiedere un intervento per rientrare nel gioco grande della spazzatura, gli assetti criminali sono cambiati. Il progetto più importante è stato spostato nel territorio di ’Sandokan’ Schiavone. Il parlamentare lo riceve a casa e può offrirgli solo una soluzione di ripiego: "Cosentino mi disse che si era adeguato alle scelte fatte ’a monte’ dai casalesi che avevano deciso di realizzare il termovalorizzatore a Santa Maria La Fossa. Egli, pertanto, aveva dovuto seguire tale linea ed avvantaggiare solo il gruppo Schiavone nella gestione dell’affare e, di conseguenza, tenere fuori il gruppo Bidognetti e quindi anche me".
Vassallo non se la prende. È abituato a cadere e rialzarsi. Negli ultimi venti anni è stato arrestato tre volte. Dal 1993 in poi, ad ogni retata seguiva un periodo di stallo. Poi nel giro di due anni un’emergenza che gli riapriva le porte delle discariche. "Fui condannato in primo grado e prosciolto in appello. Ma io ero colpevole". Una situazione paradossale: anche mentre sta confessando reati odiosi, ottiene dallo Stato un indennizzo di un milione 200 mila euro. E avverte: "Conviene che li blocchiate prima che i miei fratelli li facciano sparire...".
* L’ ESPRESSO, 11 settembre 2008.
La Gdf in redazione e nelle abitazioni dei giornalisti Di Feo e Fittipaldi
Sul settimanale le confessioni di un imprenditore che smaltiva rifiuti illecitamente
Inchiesta sui veleni a Napoli
perquisiti l’Espresso e due reporter *
ROMA - Perquisiti dalla Guardia di Finanza la redazione de L’espresso e le abitazioni dei giornalisti Gianluca Di Feo e Emiliano Fittipaldi. Le fiamme gialle si sono presentate in redazione questa mattina per controllare e sequestrare documenti e computer dei giornalisti. La perquisizione è stata ordinata dopo la pubblicazione dell’inchiesta di copertina del settimanale in edicola da oggi e anticipata largamente ieri sul sito, "Così ho avvelenato Napoli".
Nell’inchiesta sono riportate le confessioni dell’imprenditore Gaetano Vassallo, sullo smaltimento dei rifiuti tossici in Campania per conto della Camorra. Nelle sue confessioni Vassallo chiama in causa politici e funzionari: in particolare il sottosegretario all’Economia, Nicola Cosentino, oltre a una nutrita schiera di sindaci e manager degli enti locali campani.
Immediati i messaggi di solidarietà alla redazione de L’espresso e a Di Feo e Fittipaldi. A cominciare da quello della direzione di Repubblica: "Ezio Mauro e la Direzione di Repubblica sono solidali con gli amici dell’Espresso che con il loro lavoro difendono il diritto di cronaca, fondamento di una opinione pubblica libera e consapevole".
’’Siamo preoccupati - afferma Paolo Butturini, segretario di Stampa Romana - per il clima di ostilità che si va diffondendo nel Paese verso la libera informazione. I giornalisti esercitano soltanto il loro diritto-dovere di indagare e raccontare ai cittadini quel che accade in Italia. In una democrazia è necessario che l’informazione sia tutelata e possa svolgere liberamente il proprio compito. Nel caso dei colleghi de L’espresso, poi, siamo di fronte a giornalisti che, a rischio della propria incolumità, indagano sul perverso intreccio fra politica, imprenditoria e poteri criminali nell’oscura vicenda dello smaltimento dei rifiuti tossici".
La redazione de L’espresso, attraverso una nota del comitato di redazione, esprime grande preoccupazione per l’intervento della Guardia di Finanza: "Ancora una volta l’esercizio del diritto di cronaca è oggetto di atti intimidatori che respingiamo fermamente. Gravi e offensivi per il lavoro dei nostri giornalisti appaiono per di più i modi con cui le perquisizioni si stanno svolgendo (ben diciotto agenti impegnati). Non possiamo fare a meno di notare - conclude la nota del cdr - che un simile spiegamento di forze avviene in seguito ai riferimenti contenuti nell’inchiesta sul presunto ruolo nello scandalo dei rifiuti di un sottosegretario del Governo".
Sulla stessa linea il segretario della Federazione nazionale della stampa Franco Siddi che definisce "davvero inaccettabile l’irruzione della guardia di Finanza nella redazione romana de L’espresso e in casa di due colleghi". "Comprendiamo - aggiunge - che l’attività della magistratura sia in una fase delicata ma non possiamo accettare che l’attività giornalistica di inchiesta venga trattata come fosse illegale e sotto tutela. Ci pare che fin troppo chiaro il tentativo di affievolire la capacità di ricerca della verità da parte dei giornalisti. Sono ormai, infatti, troppi in questi mesi gli interventi sui colleghi e sulle redazioni".
* la Repubblica, 12 settembre 2008
Raffaele Cantone, napoletano, diventa magistrato per amore del diritto
Assegnato alla Direzione distrettuale antimafia, combatte contro la camorra casalese
Giustizia, la società con lo Stato
L’uomo della legge nella terra dei boss
Vive da anni sotto scorta. Adesso racconta in un libro la sua vita in prima linea
di ROBERTO SAVIANO *
QUALCHE volta, quando non ne posso più della mia vita blindata, sento Raffaele Cantone perché vive costantemente sotto scorta non da due anni, ma da molti di più. Cantone ha scritto un libro che racconta il suo periodo alla Dda di Napoli, intitolato Solo per giustizia. Diviene magistrato quasi per caso, dopo aver cominciato a fare pratica come avvocato penalista. Diviene magistrato per amore del diritto. Ed è proprio quel percorso che lo porta a divenire un nemico giurato dei clan. Non lo muove nessuna idea di redimere il mondo, nessuna vocazione missionaria a voler estirpare il cancro della criminalità organizzata. Lo guidano invece la conoscenza del diritto, la volontà di far bene il proprio lavoro, e anche il desiderio di capire un fenomeno vicino al quale era cresciuto. A Giugliano. Un territorio attraversato da guerre di camorra che ricorda sin da quando era ragazzo.
"C’erano periodi in cui i morti si contavano anche quotidianamente, spesso ammazzati in pieno giorno e in presenza di passanti terrorizzati. Le nostre famiglie avevano paura. Per timore che potessimo andarci di mezzo anche noi, ci raccomandavano di non andare in giro per il paese, di uscire solo quando era necessario. Quindi gran parte del tempo libero la si trascorreva a casa di qualcuno dei ragazzi della comitiva. Ma quando si spargeva la voce di un omicidio, anche noi "bravi ragazzi" spesso non resistevamo alla tentazione di andare nei paraggi per sentire chi era la vittima, a che gruppo apparteneva e soprattutto se era qualcuno che conoscevamo. Perché capita così, nella provincia: anche se si appartiene a mondi diversi, finisce che ci si conosce almeno di vista o di fama. E fu proprio un ragazzo conosciuto solo di vista una delle vittime innocenti di quella faida che sembrava eterna. Era un po’ più grande di me e i sicari lo avevano scambiato per un affiliato della parte avversa, perché gli somigliava vagamente e soprattutto perché aveva un’auto di colore molto simile. Solo dopo avergli sparato si erano accorti dell’errore e si erano fermati. Ma alcuni colpi avevano raggiunto la colonna vertebrale e paralizzandolo in tutta la parte inferiore, avevano reso il giovane invalido per il resto della vita. Ancora oggi mi capita talvolta di incontrarlo, spinto sulla sua sedia a rotelle dalla moglie che all’epoca era la sua giovanissima fidanzata".
Un uomo che si forma in una situazione del genere comprende che il diritto diviene uno strumento fondamentale per concedere dignità di vita. Una dignità basilare, quella di vivere, di lavorare, di amare. Dove la regola non soffoca l’uomo ma anzi è l’unico strumento per concedergli libertà. Poco prima era stata uccisa una ragazza di poco più di diciotto anni, figlia di un collega di suo padre. L’unica sua colpa era stata quella di essere uscita di casa nel momento sbagliato. Morì al posto di un delinquente in soggiorno obbligato che più tardi sarebbe diventato uno dei capi del clan dei Casalesi, uno dei più feroci: Francesco Bidognetti, detto "Cicciott’ ’e mezzanotte".
Quel caso non ha mai avuto soluzione giudiziaria. E lentamente il ricordo si è sbiadito. I genitori sono morti entrambi di crepacuore. Anche il penultimo omicidio dei Casalesi è avvenuto proprio a Giugliano, non lontano da dove Cantone è tornato ad abitare con la sua famiglia. Quando si sono trasferiti nella casa nuova, i vicini e i negozianti hanno organizzato una raccolta di firme per mandarli via. Qualcuno ha persino lasciato una valigia al posto dove sosta la pattuglia di vigilanza: era vuota, ma doveva simulare un ordigno.
Il libro è la storia di questa quotidianità, la quotidianità di un magistrato in terra di camorra e delle ripercussioni pesantissime che questo pone anche sulla vita dei suoi famigliari. Come quando un maresciallo che in quel periodo faceva il capo scorta vuole portarlo a vedere la partita del Napoli. Cantone, sempre attentissimo a non accettare favori, continua a rimandare sino a quando l’invito viene espresso quando c’è pure suo figlio di cinque anni che è già tifosissimo. ""Papà, mi ci porti? Andiamo a vedere la partita? Ti prego!". E allora accettai, a condizione che non piovesse". La domenica il maresciallo si presenta con una persona sconosciuta che a sua volta ha portato il figlio. "Questa sorpresa mi seccò a tal punto che fui tentato di dire che avevo cambiato idea. Ma come facevo con Enrico? Non avrebbe più smesso di piangere per la delusione".
Il giorno dopo, in Procura, chiamano Cantone chiedendogli con imbarazzo se è stato allo stadio e con chi. Perché l’amico del maresciallo è stato intercettato nell’ambito di un’inchiesta sugli affari dei Casalesi mentre assicurava uno degli indagati che a questo punto il pm sarebbe stato "avvicinabile". Non ne consegue nessun danno all’indagine, ma Cantone è furioso e sconvolto. L’unica volta che per amore di suo figlio si è sforzato di abbandonare la diffidenza che il mestiere gli ha fatto divenire seconda natura, scopre che la passione innocente di un bambino è stata strumentalizzata e abusata.
La diffidenza ha dovuto impararla presto, anni prima di entrare in antimafia. È una lezione che si iscrive nella sua carne e dentro la sua anima. "Un giorno d’inverno stavo tornando a casa nel primo pomeriggio, con l’intenzione di chiudermi nello studio e guardare con calma alcune carte. Come al solito, prima di salire, mi fermai alla cassetta delle lettere per prendere la posta. Quella volta ci trovai soltanto un foglio piegato, senza busta. E ancora adesso, quando penso al gesto automatico con cui lo aprii e vidi cosa c’era scritto, risento i brividi che mi assalirono in quel momento. Era una sorta di volantino, composto da ben due pagine. In alto c’era una mia fotografia [...] Il testo era spaventoso. Un congegno osceno orchestrato con dati reali della mia vita e con calunnie gigantesche [...] Nel volantino c’era posto per tutti i miei familiari".
Cantone corre a metterne al corrente il procuratore Agostino Cordova, capendo che l’attacco è gravissimo. Però non riesce ad immaginare la portata di quella campagna di diffamazione. Il giorno dopo il volantino arriva a tutti i colleghi, a carabinieri e polizia, a molti avvocati e politici campani, a tutte le redazioni dei giornali, al Csm, persino a Giancarlo Caselli e Saverio Borrelli. Migliaia di volantini mandati ovunque. Per distruggere un semplice sostituto procuratore che stava svolgendo un’indagine su un’immensa truffa assicurativa, seguendone le tracce per mezza Europa.
Sono pagine impressionanti perché evidenziano con estrema limpidezza come funziona la diffamazione. Non ti si attacca frontalmente, a viso aperto. Cercano di isolarti mettendo in circolazione il virus della calunnia, certi che da qualche parte l’infezione attecchisca e il contagio si propaghi. E che a quel punto il danno sarà irreparabile. ""Meglio una calunnia che un proiettile in testa" era una frase che mi fu detta come sincero incoraggiamento da più di un collega. Ma di questo, sebbene sia un’affermazione di buon senso, non ero e non sono tanto certo. Io mi sentivo come se cercassero di farmi una cosa anche peggiore che eliminarmi fisicamente. Perché si può distruggere un uomo, annientarlo, senza nemmeno torcergli un capello. E paradossalmente è molto difficile che questo accada quando si uccide veramente".
È questo uno dei punti più dolenti. La diffamazione ti lascia vivo fisicamente, ma annienta tutto quello che hai fatto. Come una sorta di bomba a neutrone che lascia intatte le cose mentre cancella ogni forma di vita. La vita morale di un uomo non può mai essere distrutta così radicalmente come dalla calunnia. Per questo anche chi è abituato a uccidere spesso la preferisce al piombo.
Quando entra alla Direzione distrettuale antimafia e gli viene assegnato il Casertano, c’è chi commenta: "Come al solito, Raffae’, t’hanno fatto?". Il che in italiano si tradurrebbe con "fregato" o forse ancora meglio con "ti hanno rifilato un pacco". "La camorra casalese veniva vista come qualcosa di molto feroce e impegnativo e al tempo stesso provinciale, di scarso prestigio".
Ma il processo Spartacus aveva segnato una svolta e il libro è un omaggio a tutti i magistrati che l’avevano istruito e a tutti quelli che, come Cantone stesso, hanno successivamente portato avanti un impegno difficilissimo: Di Pietro, Cafiero de Raho, Greco, Visconti, Curcio, Ardituro, Conzo, Del Gaudio, Falcone, Maresca, Milita, Sirignano e Roberti.
Perché in certi territori la lotta per la legalità e la giustizia è una battaglia combattuta ad armi terribilmente impari. I clan hanno danaro, armi, uomini, coperture e collusioni a non finire. Dall’altra parte i mezzi sono limitati, la mole di lavoro è talmente enorme che bisogna essere disposti a fare straordinari che per molti non sono nemmeno pagati. Tutto il successo è sulle spalle di chi continua a voler far bene il proprio lavoro: magistrati, carabinieri, poliziotti, finanzieri. Uomini che rischiano la vita per senso del dovere e magari anche per lealtà verso i superiori che hanno saputo conquistarsi la loro fiducia, una lealtà primaria da soldati in trincea, e che non vengono ricordati quasi mai. E invece il libro di Cantone gli rende omaggio e gli concede visibilità. Uomini che spesso in territori marci sono il vero argine per contrastare lo strapotere delle mafie. Cantone si sente uno di loro: non un eroe, semplicemente un magistrato che ama il suo lavoro perché ama il diritto, crede nell’accertamento della verità.
Questo per i boss è incomprensibile. Non riescono a concepire che un magistrato persegua solo la giustizia, non personalmente loro. Che non tutti gli uomini sono uguali a loro. I boss sanno che non tutti ammazzano e che non tutti resistono al carcere. Ma sono certi che tutti vogliono danaro, fama, donne e potere. E chi non lo ammette, sta dissimulando, mentendo, imbrogliando. Così la pensa Augusto La Torre, il ferocissimo quanto intelligente capo del clan di Mondragone che l’impegno di Cantone ha messo in ginocchio. È il primo a pianificare un attentato contro di lui ed è anche uno dei primi a pentirsi. Durante gli interrogatori indulge con particolare precisione sui dettagli degli omicidi che ha commesso: la prima strage di extracomunitari a Pescopagano, il gesto con cui tappa col dito lo zampillo di sangue che esce dal buco sulla fronte dell’autista di un capozona dei Casalesi, lo strangolamento con un filo della luce di un piccolo affiliato soltanto sospettato di essere un "infame", mentre il boss continua a ripetergli "non ti faccio niente, non ti faccio niente".
Eppure, ragiona Raffaele Cantone con amarezza, il clan che pareva sconfitto si riforma. Meno potente, ma il territorio riprende a sottomettersi. La camorra non è possibile sconfiggerla soltanto con indagini e processi, sequestri e arresti. Raffaele Cantone oggi non lavora più alla Dda, è diventato giudice al massimario della Cassazione. Ma ha voluto dare un altro strumento per sconfiggere le mafie. Un libro in cui si racconta come si arriva a diventare uno dei principali nemici dei clan e come è fatta la vita di chi li combatte: solo per giustizia.
(2008 by Published by arrangement with Roberto Santachiara Literary Agency)
* la Repubblica, 26 ottobre 2008.
«Le mani sulla città», ecco perché non è un film ideologico
di Antonio Frattasi *
Caro direttore [del "Corriere del Mezzogiorno", Marco Demarco],
in alcuni capitoli del suo recente e stimolante saggio, L’altra metà della storia [Spunti e riflessioni su Napoli da Lauro a Bassolino, ed. Guida], nell’analizzare le vicende relative allo sviluppo urbanistico di Napoli, lei fa più volte riferimento al famoso film di Francesco Rosi «Le mani sulla città», osservando che esso contiene un tendenzioso atto di accusa al laurismo, perché ingigantisce le responsabilità del sindaco, degli amministratori locali monarchici e del gruppo dirigente laurino, mentre esalta, nel contempo, l’azione dell’opposizione comunista e attenua le pur esistenti corresponsabilità, in operazioni speculative, dei governi democristiani dell’epoca.
Non mi convince la tesi che «Le mani sulla città» possa essere ritenuto un film comunista e contemporaneamente reticente nell’indicare i misfatti democristiani, e anche se la critica cinematografica - compresa quella di sinistra - lo giudicò espressione del «realismo socialista» proprio della cultura togliattiana, esso non lo fu affatto. «Le mani sulla città», uscito nella sale nell’autunno del 1963, fu girato quando il sistema laurino di potere era ormai al tramonto, quando gran parte dell’elettorato monarchico andava disperdendosi per dirigersi verso altri lidi; e militanti di base, segretari di sezione, consiglieri comunali e amministratori, che erano stati al fianco del Comandante per tutto un decennio, avevano già preso le distanze dal loro leader, abbandonandolo e aderendo ad altre formazioni politiche (principalmente la Democrazia cristiana, ma anche qualche partito della sinistra moderata). Per queste ragioni, il film di Rosi guardava al laurismo come a un fenomeno che andava esaurendosi, ma i cui metodi e sistemi di potere potevano invece sopravvivere ed essere utilizzati, forse con maggiore abilità e spregiudicatezza, dai nuovi gruppi dirigenti che andavano a occupare il posto di quelli usciti di scena.
Nel film di Rosi, le forze politiche in lotta, nel consiglio comunale e in città, sono tre: la destra monarchica di Maglione, magistralmente interpretato da Guido Alberti, che è il vero capo della maggioranza, sicuramente più dello scialbo sindaco (che, a dire il vero poco ricorda la figura di Lauro); all’opposizione, il centro di De Angelis (interpretato da Salvo Randone), e la sinistra del consigliere De Vita (Carlo Fermariello). La giunta comunale intende realizzare progetti urbanistici che, a quanto pare, stanno a cuore anche al governo centrale, De Vita li contrasta energicamente, ne svela i torbidi meccanismi, cerca e trova qualche alleato nell’opposizione moderata di centro. Il consigliere della destra Nottola (Rod Steiger), costruttore cinico e arrogante, vuole realizzare l’urbanizzazione di aree della città calpestando leggi e regolamenti, e, per raggiungere i suoi scopi, intende farsi nominare assessore nella giunta che nascerà dopo le elezioni. Ma il partito della destra, che teme una perdita di consensi nella competizione, gli rifiuta la candidatura, ritenendolo, dopo un gravissimo crollo avvenuto nei suoi cantieri, troppo esposto e dannoso all’immagine del partito. Nottola, forte di un grande consenso elettorale, rompe con la destra, e si candida, insieme con altri consiglieri uscenti, nelle liste del centro, e da questa parte politica ottiene l’assessorato al quale tanto ambisce per poter seguire personalmente i programmi urbanistici.
Rosi, La Capria e Forcella scrissero la sceneggiatura e il soggetto del film nei mesi che prepararono la faticosa nascita del primo governo di centrosinistra, formula politica alla quale il regista e gli sceneggiatori di «Le mani sulla città» guardavano con grande simpatia e fiducia. Erano dei riformisti convinti, perché ritenevano l’accordo tra cattolici e socialisti l’unica via percorribile per garantire insieme sviluppo economico, equilibrio sociale, progresso culturale e civile, espansione della democrazia; riponevano maggiori speranze in Moro e la Base, in La Malfa e in Nenni che in Togliatti e in Basso. Ma temevano anche che l’incontro tra democristiani e socialisti (che fu una sfida al Pci), potesse perdere la sua carica rinnovatrice per assumere il profilo di un’operazione trasformistica e sostanzialmente moderata. Si avverte, quindi, in «Le mani sulla città», questa loro preoccupazione, che appare prevalere sulla condanna del laurismo.
A tal proposito risulta illuminante il personaggio del consigliere del centro Balsamo, che, tenace avversario dei metodi di Nottola, quando apprende che lo spregiudicato costruttore sarà candidato nella sua stessa lista, minaccia di ritirare la propria candidatura; mentre il nuovo sindaco, l’astuto De Angelis, riesce, con sapienza tutta dorotea, a garantire nuovi equilibri e accordi politici con la destra, ammorbidisce le posizioni dei suoi amici di partito moralmente più intransigenti, si adopera per stemperare i contrasti, assume la regia delle operazioni speculative. Quindi, possiamo dire che il vero personaggio «diabolico» nel film di Rosi, è il nuovo sindaco, non il vecchio. E infine, anche la figura di Nottola è meno negativa di quel che può apparire: gli sceneggiatori, infatti, disegnano un profilo del costruttore dal quale emergono sicuramente la rapacità sociale e la spregiudicatezza, ma anche il dinamismo, l’intuito, l’intelligenza, la prontezza a comprendere i processi sociali. Forse, se inserito in un diverso contesto ambientale, sembrano dire Rosi e La Capria, Nottola avrebbe rispettato leggi e regolamenti, e si sarebbe comportato in maniera corretta. Ripeto, a mio modesto avviso, «Le mani sulla città» è un film di forte denuncia sociale e di impegno civile, ricorda più certo cinema americano d’inchiesta che non il realismo sovietico, non un è film, insomma, ideologico e tanto meno somiglia a un’opera cinematografica dell’epoca staliniana.
Antonio Frattasi
Circolo culturale Umberto Terracini Napoli
*Corriere del Mezzogiorno, 5 luglio 2007
Lazzari e Borghesi: il male bagna Napoli
di Marco Salvia *
Finalmente una “"novità”, sembra incredibile ma le dichiarazioni del prefetto Pansa sulle responsabilità della borghesia napoletana nel disastro cittadino, è così che ci appaiono oggi: qualcosa di nuovo, una voce fuori dal coro, non il solito dito puntato verso il basso ad indicare i criminali colpevoli di tutto.
Peccato che già nel 1900, un inchiesta sulla camorra presieduta da Giuseppe Saredo, studioso di diritto che aveva due anni prima rifiutato di dirigere il ministero di «Grazia, Giustizia e Culto» come si chiamava all’epoca, era giunta a delle conclusioni molto più dirompenti e provocatorie di quelle fatte in questi giorni . Affermava senza mezzi termini Saredo: «Siete davvero così ingenui da credere che la camorra si riduca alla sua manovalanza? La vera camorra è la borghesia napoletana».
Più di cento anni fa, Saredo, che veniva da Torino ma la cui famiglia era di origine spagnola, aveva già capito ciò che oggi si stenta ancora a comprendere, aveva già proclamato la verità in cui ancora a Napoli ci dibattiamo proprio perché a Roma e a Milano mai si è capito questo fino in fondo.
Allora, per tutti quelli che non essendo napoletani potrebbero stentare a ricostruire il quadro pur semplice che viviamo oggi, proviamo a rimandare indietro la pellicola della nostra storia, perché, Pasolini docet, «Il crollo del presente indica anche il crollo del passato».
Partiamo dal solito e oramai ossessivo momento cruciale. In una buia notte del 1798, nella Napoli dei Borboni, si dice che uno strano gruppo di nobili, travestiti da “Lazzari”, la classe sociale costituita dal popolo più disperato e canagliesco della città, si avventurasse circospetto nel buio dei ghetti cittadini. Cosa cercavano? Che volevano quei damerini nelle vie scure coperte di escrementi? Cercavano la cosa più difficile da realizzare in questa realtà da sempre spaccata in due, cercavano un contatto, una comunicazione umana e politica, che consentisse alla rivoluzione che si pensava di realizzare, il necessario supporto popolare.
Come andò a finire lo sappiamo bene, la Repubblica durò pochi mesi e finì con il massacro dei “rivoltosi” e la fine tragica di un sogno ideale.
La visione che non si realizzò allora, crea oggi le condizioni che stiamo vivendo in una catena di avvenimenti storici che precedono di molto anche il 1799.
Napoli è quindi una città spezzata in due, una città che non ha mai più potuto coniugare le realtà popolari con le realtà nobiliari, né mai dopo il 1799 ci ha di nuovo veramente provato, essendo venuti a mancare, nel tempo, intellettuali appartenenti all’alta società così idealisti, sognatori e coraggiosi.
L’affermazione completa di una nuova classe sociale, la borghesia, non ha mai di fatto modificato questo assetto,anzi, avendo la nobiltà incorporato regolarmente i nuovi ricchi e i nuovi potenti di estrazione borghese nel suo ventre, questa ha dato vita a una elite trasversale che da allora domina la città in completa autonomia, e che di volta in volta, ingloba in se i nuovi potenti delle epoche che giungono a noi sulle ali del tempo. Politici, nuovi imprenditori, ricchi commercianti.
Da sempre, i nuovi potenti giunti in città, per comandare davvero devono ingraziarsi i gruppi di potere figli degli antichi potentati nobili in decadimento, e subendo in maniera sottile e demoniaca, il fascino odoroso delle muffe dei palazzi di via dei mille e delle ville Posillipine, rapidamente si insinuano nel tessuto misto cresciuto sulla base delle antiche putrescenti famiglie nobili, inserendo così nuova linfa vitale nella loro struttura: denaro, potere.
Uno scambio ben collaudato in mille nazioni e società diverse, ma che a Napoli ha raggiunto il suo apice, realizzando così la definitiva stagnazione della società: la cancrena.
Una società in cui non vi è alcun fisiologico ricambio e dove la classe dirigente affida ai figli il compito di mantenere lo stato di diritto rapinato ai più deboli nel corso del tempo attraverso i titoli e i privilegi nobiliari. E’ per questo che Saredo parlava di “camorra” per definire la borghesia napoletana.
A Napoli non vedrete mai un figlio di sarto fare il medico, o comunque ben di rado, a Napoli il figlio di ingegnere sarà ingegnere, il medico sarà medico, l’avvocato, avvocato, e questi giovani erediteranno la posizione di privilegio insieme alle “raccomandazioni” universitarie e a tutte le relazioni clientelari del portafoglio di famiglia, ricreando così la metastasi, quando si sperava che almeno la morte avrebbe ucciso il cancro.
Vi prego, non diciamo ancora cosa c’entra con la situazione attuale, col far west in pieno centro e con la esponenziale crescita della violenza. Cosa c’entra con i famosi “picchi” di criminalità. Non diciamolo, perché sappiamo che c’entra enormemente, ed è arrivato il momento di parlarne anche al di fuori di pomposi saggi o riflessioni filosofiche che lasciano come sempre immutato lo status quo.
L’antico fallimento, il disastro in cui si concluse il progetto di voler unire Napoli in una unica città abitata da un unico popolo, si ripercuote ancor oggi come una martellata sulla nostra sfigurata città. Da allora, infatti, non si è mai più cercato di coinvolgere le classi più disagiate in un progetto politico reale che vedesse aumentare nel popolo, prima di ogni altra cosa, il grado di coscienza della loro stessa situazione e che li spronasse a responsabilizzarsi riguardo la propria istruzione e la propria condizione esistenziale di modo da poterla modificare.
Ogni progetto di istruire e far evolvere questa enorme massa di individui per incorporarli in una società civile, è stato scientemente e sottilmente boicottato proprio da quella forza senza faccia, sottile e insidiosa, che a Napoli viene definita senza alcun senso del ridicolo come: “le persone per bene”.
Sono le cosiddette “persone per bene”, i borghesi, badate, non gli onesti, non i lavoratori, non le folle, ma le poche, “persone per bene”, termine da non equivocare perchè in questa città ha un significato tutto suo (significa infatti benessere, ma soprattutto potere, autorità, diritto genetico al comando strutturato in un modo benpensante di vivere e ragionare).
Sono loro, gli eredi naturali delle poltrone dei bisnonni, che impediscono la crescita, che sbarrano la strada a qualsiasi miglioramento dal basso, che costringono indirettamente le bande di ragazzini di Secondigliano a sentirsi diversi, emarginati, carne da macello per cui non c’è posto. Giovani la cui unica risorsa economica e l’unica speranza di “futuro miglioramento” è il sistema camorristico, nel sistema. Quello che uccide, il sistema che conduce in carcere, che trasforma in assassini.
Nella società per loro non c’è posto, loro puzzano di vicolo, parlano una lingua diversa, vivono come bestie tutti insieme in pochi metri quadrati, e la loro rabbia, lo loro furia, allora distrugge ogni cosa, spinge verso l’illegalità e la violenza cieca come unica soluzione di riscatto.
Un tragico sogno, un riscatto frustrato, diviene così incubo per tutti. Ebbene ce lo meritiamo, perché conoscenza superiore dovrebbe significare anche superiore responsabilità e non soltanto privilegi.
Il popolo di oggi, il popolo dei bassi e dei vicoli, quello che fornisce struttura e mano d’opera ai clan, non è costituito d’altro che dagli eredi di quegli antichi “lazzaroni”, umanità misera che fu incapace di sottrarsi al piacere estremo di rotolarsi ancora una volta nella propria melma e che nella sua follia chiamò questo discutibile privilegio “libertà”.
Un popolo che ha comunque anche grosse responsabilità nel proprio disastro, ma che ha una sola grande giustificazione: l’ignoranza. Quale giustificazione ha la borghesia? Il suo denaro forse? I suoi privilegi? Il suo potere? La paura?
Così, il prezzo dell’atto di incoscienza dei lazzari del 1799, guidati dalla chiesa verso il buio dell’ignoranza, è stato immenso, e i loro eredi lo pagano ancora oggi, sepolti in quei bassi che nessuna città d’Europa conosce e che non sono folclore ma orrore nell’anno del Signore 2006.
La situazione di Napoli quindi non può mutare fino a che queste mura contrapposte non crolleranno.
La “mezzo sangue” alta-borghesia napoletana è la vera forza che ha interesse che il popolo resti imprigionato nella economia alternativa e mortale del “sistema”. In tal modo non cercheranno mai di mangiare in altri piatti, e se anche volessero ormai, li hanno talmente diseducati che non potrebbero nemmeno volendo. Il popolo si è così diffusamente e fortemente ancora più imbarbarito e la sua espressione più selvaggia i cosiddetti camorristi, sono divenuti poco più che bestie assetate di sangue.
Certo, può essere faticoso capire queste cose senza conoscere la città, ma una volta rese chiare alcune dinamiche, non è difficile comprendere ciò che davvero accade qui, ed è l’Italia intera che deve comprenderlo e non negarlo oltre, perchè la salvezza di Napoli passa da Roma e Milano, e da un progetto educativo che se mai verrà realizzato durerà comunque decenni prima di mostrare dei risultati, ma lo farà solo se insisteremo sulla educazione e istruzione del popolo, sul lavoro, sulla scuola, e fondamentalmente su tutto quello che potrà condurre alla unione dei due popoli che abitano qui in una sola ed unica comunità, “i napoletani”. Un solo popolo, un popolo che oggi come oggi, se pur ne parliamo, in realtà, non esiste.
* l’Unità, Pubblicato il: 21.04.07, Modificato il: 21.04.07 alle ore 12.23
Alla camorra 25 milioni di euro dello Stato*
NAPOLI - Soldi dello Stato finivano nelle casse della camorra: il tutto attraverso cooperative sociali composte da ex detenuti e convenzionate con la Provincia di Napoli. La scoperta è stata fatta dalla Procura della Repubblica di Napoli ed oggi, la direzione distrettuale antimafia ha affidato al centro operativo Dia di Napoli l’esecuzione di un decreto di sequestro preventivo di somme di denaro erogate dal ministero dell’Interno, tramite l’amministrazione provinciale, alla cooperativa ex detenuti "La Vittoria III", una delle 11 cooperative convenzionate con la Provincia di Napoli per la esecuzione di lavori socialmente utili. Secondo una stima aprossimativa pare che la camorra si sia impossessata di circa 25 milioni di euro.
*(la Repubblica, 7 dicembre 2006)
«Droga e rifiuti, ecco l’oro della camorra»
Con padre Alex Zanotelli tra i vicoli della Sanità
di Francesca Pilla *
Napoli - Napoli, quartiere Sanità, 5 chilometri quadrati e 67mila abitanti. E’ una delle zone più altamente popolate d’Europa, uno dei quartieri ghetto del centro storico dove il clan Misso-Mazzarella (le due famiglie unite per controllare i traffici nella zona dopo la «cacciata» dei Giuliano, cioè dopo che Loigino «o’ re» si è pentito) è più conosciuto del presidente della repubblica Napolitano (che la prossima settimana farà visita nel quartiere ai famigliari delle vittime della camorra) e sicuramente più temuto di Bin Laden.
Qui la disoccupazione supera il 50% della popolazione, si spaccia ovunque, ma ci sono anche tre comunità di recupero per tossicodipendenti; non c’è un asilo pubblico, ma solo una media statale e un istituto tecnico. Niente cinema, teatri, luoghi d’incontro, ma almeno resistono le tante botteghe e i bazar improvvisati. Nel quartiere un monolocale costa sui 35 mila euro, nei Decumani (l’area archeologica distante poche centinaia di metri) si arriva già a circa 100 mila, al Vomero 200 mila. «Appena duecento anni fa questo era un settore nobiliare, un tempo da via Salita principe Umberto passava il re per spostarsi dal palazzo reale di piazza Plebiscito alla dimora estiva di Capodimonte. Poi è stato costruito il ponte della Sanità e man mano si è trasformato in un ghetto. Nel dopoguerra era un’area, come diremo adesso, di eccellenza dell’artigianato made in Napoli, qui c’erano i guantai e gli scarpai. Adesso è così, ma almeno non è Scampìa, le persone hanno conservato solidarietà e socialità, questa rimane una comunità». Padre Alex Zanotelli passeggia per i vicoli con tranquillità, con la sua sciarpa color arcobaleno, la barba lunga, la voce pacata, i gesti lunghi e rilassati, fermato ogni dieci metri dalle donne della chiesa di San Vincenzo.
Abita nella Sanità da tre anni dopo averne passati 15 in Africa, e dal quartiere ha lanciato tante battaglie nel napoletano, come quella contro la privatizzazione dell’acqua che tiene a precisare: «Non è ancora finita perché dobbiamo impedire la trasformazione nel azienda di gestione in Spa come prevede la leggi Galli. Quella è una campagna che tutti dimenticano di nominare come splendida vittoria del popolo napoletano quando devono parlare male della città. Da allora sono inviso da Iervolino e da Bassolino». E nel quartiere? «C’è tanto da fare - risponde pensieroso - e bisogna cominciare dal nulla. Qui non ci sono nemmeno le scuole. Abbiamo dovuto fare una battaglia all’istituto medio Angiulli, per chiedere nuove aule. Abbiamo dovuto rimuovere la biblioteca, impacchettarla e spostarla. E’ stato un bene e un successo, ora ci sono nuovi spazi per gli alunni. Pensate, siamo arrivati a esultare per questo». Ma gli abitanti come rispondono alla vostra presenza? «Stiamo tentando di formare un rete - sospira Zanotelli - invogliare e toccare la gente partendo dai loro bisogni, altrimenti nessuno ti ascolta. C’è una disgregazione totale nell’area e non sono ottimista. E’ difficile soprattutto con i giovani. Gli unici stimoli che hanno sono i motorini e la droga. In questo quartiere ci sono più centri di abbronzatura che salumieri. La ragione è che gli ideali dei ragazzi arrivano dalla tv e subiscono una cultura massificante, consumista e materialista».
Questo è comune a molti adolescenti, ma come arrivano a trasformarsi in manodopera per la camorra? «Partiamo dall’abbandono scolastico: - racconta il prete comboniano - i ragazzi riescono a fare un bel gruzzolo ogni giorno spacciando droga. Con quei soldi comprano, quando non lo rubano, lo scooter, bei vestiti e accessori e dopo un mese pensano che studiare sia una perdita di tempo. Se poi aggiungiamo che il lavoro da queste parti non c’è, che i maschietti ambiscono a comprare grandi macchine e le femminucce a essere delle veline, ecco la risposta».
Cosa ne pensi del «caso Napoli»? «Sono anni che la città si trova a dover fronteggiare le faide dei clan, ed è da un pezzo che la camorra qui ha vinto sullo Stato, non è una scoperta. Si dovrebbe invece parlare del "caso Calabria", perché è la n’drangheta la vera sorpresa. Su tutte le decisioni importanti sono, infatti, le famiglie calabresi a dettare l’ultima parola, la camorra e Cosa nostra eseguono. Non a caso tra i calabresi i pentiti si contano sulle dita di una mano. Qui sono famiglie che litigano tra loro, come è tipico dei napoletani, e basano tutto sullo spaccio di droga. Ora non ditemi che lo "stato" non sa dove sono i pusher, è una grande commedia. Il vero problema in Campania sono i rifiuti e tra qualche anno rideremo dei morti di camorra». In che senso? «Attualmente in regione ci sono 6 milioni di tonnellate di ecoballe che non si sa come smaltire. Il piano Bertolaso prevede solo l’incenerimento, ma questa immondizia non può essere termodistrutta perché non è a norma. Lo faranno comunque immettendo tanta di quella diossina nell’ambiente da generare un disastro, quando già nel cosiddetto triangolo della morte (Acerra, Nola, Marigliano) abbiamo il più alto tasso di leucemie e tumori del Mezzogiorno. Dico solo che lì ci sono ancora nascosti i fusti tossici di Porto Marghera portati dalla camorra. Ho molta paura, lo confesso».
* il manifesto, 19.11.2006
Ingroia: «Scardinare la classe dirigente che vive di affari e favori mafiosi»
di Saverio Lodato *
Continuiamo a parlarne di mafia, in un momento in cui il suo profilo - apparentemente - è bassissimo. Dopo il procuratore Francesco Messineo, e gli aggiunti Sergio Lari e Roberto Scarpinato, interviene Antonio Ingroia, pubblico ministero nei processi di mafia più incandescenti ormai da quindici anni.
Dottor Ingroia, il vulcano Napoli e una Sicilia Svizzera...
«Non direi. Penso infatti che sarebbe ora che nella lotta al crimine organizzato, in tutte le sue forme, lo Stato facesse la prima mossa senza aspettare, come è sempre avvenuto, che siano i boss a riaprire la partita. Quello che accade a Napoli è già accaduto in Sicilia tanti anni fa: omicidi, regolamenti di conti fra i clan, taglieggiamenti, i poteri criminali che alzano il tiro. Titoli da prima pagina e finalmente ecco che qualcosa si muove».
Il governo però, questa volta, parla di interventi stabili e duraturi, non emergenziali.
«È un reale segno di discontinuità, rispetto al passato, che ci aspettiamo. Una diversa e permanente attenzione alla questione mafia non cadendo nel solito trabocchetto che se la mafia non spara vuol dire che non c’è».
E questo, mentre si manifesta a Napoli, in Sicilia ancora non si vede. È questo che vuole dire?
«Vorrei dire di più. La storia ci insegna e le risultanze investigative più recenti ci confermano, che la mafia è e si sente più forte quando non spara. Ritorna allora una domanda di fondo: bisogna convivere con la mafia degli affari che fa buona condotta, come auspicava l’ex ministro Lunardi, o la mafia va comunque affrontata senza risparmio di mezzi?»
Il procuratore Messineo non definisce la mafia un gigante inespugnabile. La fotografa per l’altezza che oggi ha. Un’altezza inferiore rispetto alla statura del passato. Concorda?
«Sì. In ogni caso, continuare a disegnare la mafia come un gigante inespugnabile equivale a rassegnarsi alla sua eternità criminale: il contrario del realismo storico propugnato sia da Falcone sia da Borsellino. I capi mafia di oggi non hanno neppure la statura e il prestigio di boss del passato come Stefano Bontate, uomo ben inserito nei salotti palermitani e non a caso definito il Principe di Villagrazia... Il vero problema è semmai scardinare il sistema di potere che della mafia si è sempre servito e che rischia di rimanere immune da ogni ventata repressiva che inevitabilmente colpisce solo chi spara. E quando non si spara, il sistema di potere mafioso si perpetua».
Dottor Ingroia, il suo collega Scarpinato parla apertamente del ritorno del Principe che, in questo caso, non è quello di Villagrazia. E si spinge quasi ad affermare che la mafia viene accesa o spenta a piacimento proprio da quel sistema di potere al quale lei allude. Non potrebbe apparire eccessivo?
«Non credo proprio. L’altalena dei consensi attorno all’azione giudiziaria antimafia non è estranea a precisi interessi diffusi nella società siciliana. I rapporti fra braccio armato della mafia e classe dirigente siciliana e nazionale sono costituiti dall’alternanza di alleanze e contrapposizioni che talvolta sfociano nella guerra. Proprio nei momenti di crisi dei rapporti fra i due mondi il consenso rispetto all’azione antimafia dei magistrati si dimostra frutto non di una disinteressata opzione a favore della legalità, bensì di smaliziati interessi di parte».
Può fare degli esempi?
«Prendiamo la stagione post stragi. Come si spiega l’unanime consenso all’azione della magistratura finalizzata alla cattura dei grandi latitanti da Riina a Provenzano? E come si spiega l’enorme divario di consenso all’azione dei magistrati a seconda che si occupi della cattura dei latitanti ovvero che si occupi dei rapporti mafia classe dirigente? C’è qualcosa che non funziona. Non c’è solo una finalità autoprotettiva da parte della classe dirigente, c’è qualcosa di più...»
Cosa?
«Da una parte l’esigenza di ridimensionare l’aggressività di Cosa Nostra nei momenti in cui affronta a viso aperto lo Stato, ma anche l’inconfessabile finalità di mantenere l’operatività di una mafia sommersa con la quale continuare a concludere affari nell’ombra».
Se è così la mafia ce la porteremo dietro ancora per parecchio...
«Il rischio c’è. Ecco perché occorre un urgente segnale di discontinuità rispetto al passato. Un aperto segno di rottura con questa classe dirigente siciliana che ha vissuto di affari e favori e che, tutt’ora, si dichiara antimafiosa. Siamo in una fase di grande confusione, anche di ruoli, e compenetrazione fra mondi diversi. Sarebbe sbagliato parlare di società civile per bene separata dal mondo mafioso. Abbiamo oggi una mafia più civile e una società più mafiosa».
Siamo all’imbarbarimento?
«Una mafia sempre più in giacca cravatta e una società che cambiandosi abito troppe volte al giorno sceglie il travestimento. Insomma, abbiamo interi pezzi di società che hanno ormai introiettato i modelli comportamentali dei mafiosi. E lo si vede in tutti i campi».
Quali?
«Temo che nessuna figura sociale ne sia risparmiata. Mi preoccupa che nei più disparati ambienti, compresi quelli istituzionali, il dossieraggio e il ricatto sembrano essere all’ordine del giorno».
Sente odore di servizi?
«Ciò che si legge sui giornali è certamente allarmante».
Si riferisce al fatto che Gian Carlo Caselli era nell’elenco dei magistrati "pericolosi" per i settori occulti del Sismi?
«Evidentemente Caselli, come procuratore di Palermo, dava fastidio. Del resto non sarebbe l’unico intervento contra personam che Caselli ha subito... Se questo è lo scenario, il vero segno di discontinuità non si dà solo arrestando i mafiosi e con uno straordinario impegno di uomini sul territorio, lo si dà soprattutto con un taglio netto con quel pezzo di classe dirigente che è il vero nucleo del sistema di potere mafioso».
Ricorda Leonardo Sciascia quando diceva che lo stato italiano se volesse fare davvero la guerra alla mafia dovrebbe decidere di suicidarsi?
«Aveva ragione. Ma è anche vero che è possibile una dolorosa operazione chirurgica, salvando le parti sane che sono la maggioranza. La questione è essere disposti a pagare un prezzo, se parliamo di politica, in termini di voti e di consenso».
Sintetizza un pacchetto di misure antimafiose che la politica potrebbe varare e non vara?
«Tirare fuori dai cassetti del ministero della giustizia - tanto per cominciare - il progetto del testo unico della legislazione antimafia varato dal primo governo Prodi e mai proposto in Parlamento».
Che c’era scritto?
«La revisione e l’aggiornamento dei più importanti strumenti per colpire i due nodi del rapporto mafia - classe dirigente siciliana: la riforma del concorso esterno sul terreno mafia-politica, e la revisione degli strumenti per colpire i patrimoni dei mafiosi sul terreno mafia-economia. Sarebbe un’ottima partenza».
* www.unita.it, Pubblicato il: 11.11.06 Modificato il: 11.11.06 alle ore 12.28
C’era una volta l’Antimafia
di Corrado Stajano *
Non è venuto in mente a nessuno, durante i tragici fatti di Napoli, che esiste, o meglio dovrebbe esistere, una Commissione parlamentare Antimafia? Non se ne è parlato. Dolosamente, bisogna dire. Dal giorno delle elezioni - 9-10 aprile - sono passati sette mesi, ma il Parlamento non ha ancora nominato la Commissione composta da 50 deputati e senatori che dovrebbe essere il cervello delle inchieste sui poteri criminali, problemi sanguinanti che affliggono da più di un secolo la società italiana. Pare di sentirli i sussurri, i patteggiamenti sui nomi, le quote e le appartenenze assorbiti dai muri dei palazzi romani.
All’interno della maggioranza ora sarebbe stato raggiunto un accordo sul presidente e la prossima settimana dovrebbe andare in porto anche la scelta dei componenti della Commissione. Finalmente. Ha ampie possibilità; possiede i poteri dell’autorità giudiziaria; si occupa della mafia e delle altre organizzazioni criminali nazionali, la camorra, la ’ndrangheta, ma è legittimata ad allargare il suo campo di indagini anche alle connessioni internazionali del fenomeno. Chissà che possa mettersi subito in moto e che riesca a trovare qualche soluzione capace di dare un lume di speranza ai cittadini di Napoli, la terza città italiana, una capitale, dove gran parte degli abitanti vorrebbe vivere una vita normalmente serena.
Si è fatta una gran confusione in queste settimane mentre il numero dei morti ammazzati ha continuato e continua a crescere. Le questioni della politica personale si sono mescolate alle questioni criminali, i vecchi rancori della politica sono impietosamente esplosi, un passato non nobile, quello dei Gava, si è sovrapposto al presente gridando vittoria e chiedendo vendetta, la classe dirigente di oggi, spesso poco attrezzata, attenta all’uso del potere, ai personalismi, alla visibilità piuttosto che ai problemi, ha rivelato la sua debolezza politica, la sua incapacità di discutere seriamente lasciando inerme la società civile. La quale non ha mostrato spirito solidale, si è invece rifugiata nelle nicchie dei suoi privilegi disinteressandosi del bene comune, spregiando il concetto di legalità se dannoso per i propri interessi privati.
Si è parlato della camorra come se fosse un fenomeno di oggi e non vecchio di secoli, un incomprensibile fungo appena nato. La bibliografia sulla camorra è assai più povera di quella sulla mafia. Il tema fu affrontato solo nel 1861 da Marc Monnier e da Pasquale Villari che scrisse allora la prima delle sue famose Lettere meridionali. La cultura positivistica trattò entomologicamente il fenomeno che fu invece trascurato dalla cultura liberale. Il Croce non ne scrisse mai, gli storici del movimento operaio non mostrarono eccessivo interesse. Dopo i primi decenni del Novecento ci fu una lunga stasi fino al terremoto del 23 novembre 1980 che fece scoprire o riscoprire la camorra, ritenuta morta e defunta, dagli inviati dei giornali di tutto il mondo arrivati in Campania e in Basilicata. Furono pubblicati allora numerosi libri - la camorra si mise in azione la stessa notte del sisma -, ma fu soprattutto la guerra tra i gruppi camorristici, la Nuova camorra organizzata di Cutolo e la Nuova famiglia ad attirare l’attenzione. Il caso Gava-Cutolo-Cirillo rappresentò un esempio della politica degradata e corrotta.
Ci fu sottovalutazione, da sempre, anche da parte della sinistra. È ben misero, per arrivare ai giorni nostri, il programma dell’Unione per le elezioni di aprile dedicato ai problemi del crimine organizzato: una ventina di righe di banalità allineate in bell’ordine come se la questione meridionale non fosse del tutto condizionata dalla soluzione della questione criminale.E così, negli ultimi feroci tempi, ci si è trovati impreparati di fronte all’offensiva della camorra. Anche la polemica di oggi è stata penosa. Non è il presidente della Regione il responsabile dell’ordine pubblico, anche se la questione dei rifiuti, essenzialmente politica, appare strettamente legata all’esplosione degli ultimi tempi e la vivibilità conta molto in una città dove tutto è difficile, dopo le illusioni del primo mandato di Bassolino sindaco.Il conflitto tra l’alleanza di Secondigliano e i «dissidenti» delle diverse fazioni che l’anno scorso ha provocato un’infinità di lutti è stato affrontato senza un’analisi seria di fenomeni differenti rispetto al passato. Manca a Napoli un’intelligence adeguata. La Dia, i Ros, la polizia di Stato, negli ultimi tempi, sono stati ridimensionati anziché rinforzati. La giustizia non è in grado di funzionare con organici ridotti all’osso, priva degli strumenti elementari.
Si è arrivati all’assurdo, durante la polemica delle settimane passate: il conflitto si è ristretto tra chi era favorevole all’invio dell’esercito in servizio di ordine pubblico e chi non lo era. (Ora non se ne parla più). I soldati erano già stati mandati a Napoli nel 1994, nel 1995, nel 1997. Ma è evidente che non possono essere loro a risolvere il problema criminale. Potranno sì liberare delle forze di polizia dalla routine, diffondere l’immagine dello Stato, contribuire a rendere meno virulenta la microcriminalità. Ma nulla di più.
Il piano anticrimine del ministro Amato servirà di certo a qualcosa. Ma bisogna tener conto della forza della camorra. In Campania agiscono un centinaio di clan, con almeno 7-8mila camorristi. Napoli e la sua area metropolitana sono il più grande mercato della droga dell’Italia meridionale. Se si pensa a quel che guadagna un camorrista si capisce qual è l’attrattiva che la camorra rappresenta per un giovane: il capo piazza che controlla le zone dello spaccio incassa 15mila euro al mese; il puscher 4mila euro; la sentinella 1500 euro; il killer 2500 euro per omicidio.
La legalità e la sua conquista rappresentano la somma garanzia per la salvezza di una città che ha subito mezzo secolo di sistematici saccheggi e di ruberie da parte dei governanti corrotti. Il problema è di battere la camorra, ma per riuscirci occorre di cambiare mentalità e cercare di risolvere i problemi sociali e civili.Due anni fa il «Premio Napoli» pubblicò - editore Pironti - un intelligente libro che era anche un’iniziativa politica, Raccontare la legalità, dove una trentina di scrittori, giornalisti, studiosi affrontavano questa questione essenziale per la città e per il suo futuro. Scoppiò una polemica, anche il sindaco Iervolino se ne dolse: il buon nome di Napoli, ahimé, era in pericolo.
Il risanamento di una città come Napoli è un’opera di lunga lena che non va interrotta. Esiste anche qualche segno positivo, in controtendenza con quanto avviene altrove. Negozianti piccoli e medi - soltanto una centinaio nel 2001, 1800 negli ultimi cinque anni - non ne possono più delle estorsioni, si fidano dello Stato e denunciano il pizzo che subiscono e che non li fa vivere.
* www.unita.it, Pubblicato il: 10.11.06 Modificato il: 10.11.06 alle ore 11.09
Per cambiare Napoli
di Elio Veltri *
Nessuno ha la percezione di vivere e lavorare in una condizione di normalità e tutto sembra essere provvisorio: la vita, le leggi, le regole, la parola, gli impegni. Questa è Napoli e anche il paese. Qualche tempo fa, in piena guerra di camorra tra i clan, ho incontrato nella prefettura di Napoli il prefetto Profili, servitore dello Stato, il quale appena messo piede nel suo ufficio mi ha detto: «Vede, a questo tavolo lavoro 16 ore al giorno». E io di rimando, provocatoriamente: «Non serve a niente. I problemi non sono di ordine pubblico, ma politici». Da quanto leggo, si parla molto di esercito, di telecamere, di aumento delle forze dell’ordine. Poco di leggi penali, civili e tributarie e del funzionamento della giustizia riferita ai tre ordinamenti, del funzionamento della pubblica amministrazione, dell’economia sommersa, della camorra potenza economica e del valore dei beni mafiosi, del numero degli affiliati e della loro composizione sociale, dei rapporti con la politica e con gli apparati pubblici.
Insomma il problema viene visto e, forse, affrontato come un problema di ordine pubblico. Che è poi il modo più semplice per placare gli animi per qualche settimana, ma anche per non risolverlo. A Londra le telecamere piazzate in tutti gli angoli scatteranno 50 milioni di foto al giorno, con una intromissione nella vita dei cittadini che non lascia scampo alla libertà personale. A Napoli non servirebbe, perché a Napoli c’è la camorra e a Londra no. Forse la diagnosi più acuta e impietosa della città, che contrasta con l’indulgenza comunarda del sindaco, del presidente della regione e di alcuni intellettuali che non vogliono sporcarsi le mani, l’ha fatta il cittadino Giovanni Aniello, il quale ha scritto a Giorgio Bocca, che sull’Espresso in edicola ne pubblica la lettera. Aniello spiega che Napoli non si ribella perché dovrebbe farlo contro se stessa e che la criminalità almeno per ora ha vinto. «E non perché ci abbia sopraffatto, ma perché noi esprimiamo questo, siamo così». E aggiunge che «nessuno ormai ha titolo per aprire bocca su nessun altro. Perché Napoli non è un’isola. Siamo tutti in parte corresponsabili dello stesso paese abbandonato». Insomma, come scrive Bocca, «Napoli siamo noi».
D’altronde, chi per anni si è battuto per il rispetto della legalità e ha cercato di spiegare che un paese totalmente illegale non ha futuro è stato deriso, malmenato, emarginato. Ma alla lunga i conti si pagano. E noi, se vogliamo stare in Europa, unica possibilità di salvezza, dobbiamo pagarli. Ma per intervenire è necessario non improvvisare, evitare la propaganda. Vorrei affrontare alcune questioni che solo marginalmente sono comparse nel dibattito di questi giorni.
Primo, le leggi. Prodi ha detto che non c’è bisogno di leggi speciali e che quanto accade a Napoli non ha niente a che vedere con l’indulto. Sulla prima affermazione sono d’accordo perché Napoli ha un bisogno disperato di normalità, a condizione che si chiarisca la distinzione tra leggi speciali e modifica delle leggi esistenti. Sulla seconda sono in disaccordo. C’è bisogno di modificare la struttura dei processi penale, civile e tributario perché tutti i processi finiscono in gloria: prescrizione dei reati, libertà dei rei e offesa alle vittime nel penale; allungamento delle vertenze contrattuali e danni catastrofici all’economia nel civile; trionfo degli evasori fiscali. Tanto per stare al tributario ricordo (e non se ne parla) che delle evasioni accertate dalla guardia di finanza, lo Stato incassa solo il 4% circa, cioè niente, e dopo una decina di anni, mentre le televisioni illudono il cittadino. Quanto all’indulto, il rapporto c’è eccome con il disastro. Innanzitutto perché il messaggio è devastante: potete delinquere tanto poi lo Stato vi tira fuori dalla galera. Per i giovani che cominciano a delinquere il messaggio costituisce una istigazione a farlo. E poi, considerata la lentezza della giustizia, per i prossimi dieci anni tutti i reati commessi prima del maggio 2006 saranno condonati. Tutti i reati connessi col reato di camorrismo. Presidente, per favore, non dirlo più!
Seconda questione: se Aniello ha ragione, è necessaria una «azione capillare di pedagogia legalitaria di massa», come scrive Galli Della Loggia. Questo è uno dei motivi che mi avevano spinto a chiedere a Prodi di nominare un ministro o un delegato alla legalità. È necessario che l’operazione sia tempestiva, credibile nella scelta delle persone, imparziale, trasversale. L’apertura delle scuole con prolungamento degli orari, il recupero dell’abbandono scolastico, l’incontro in tutte le scuole con studenti, genitori, docenti, amministratori, forze dell’ordine, associazioni di categoria e del volontariato, devono diventare parte di un progetto permanente.
Le proposte sarebbero inefficaci se comune e regione non dessero una svolta politica, amministrativa e, soprattutto, nei comportamenti. Il risanamento urbanistico, lo smaltimento dei rifiuti, la riappropriazione delle aree urbane abusivamente occupate e vendute; la sottrazione di servizi pubblici essenziali come il trasporto: il rispetto del codice della strada; l’azzeramento dei mille conflitti di interesse degli amministratori e dei dirigenti dei partiti; il taglio drastico dei costi della politica; l’assoluta trasparenza del mercato pubblico, sono altrettante necessità per recuperare risorse finanziarie e umane, efficienza e ridurre l’area dell’estraneità dei cittadini sulla quale la camorra investe per vivere.
La mafia, dice l’Eurispes, si pone come soggetto di disastro sociale ed economico: lo produce perché ne ha bisogno. Nel degrado sociale essa può presentarsi come l’unica mediatrice della soluzione dei problemi, cercando di acquisire un ruolo sostitutivo dello Stato. Infine, c’è il problema ignorato ma essenziale riguardante la potenza economica della criminalità, i rapporti con la politica e l’apparato pubblico, il sequestro e la confisca dei beni, il numero degli affiliati. Problema tabù, che rimando a un prossimo articolo.
* www.unita.it, Pubblicato il: 09.11.06 Modificato il: 09.11.06 alle ore 8.58
Come ha ben visto SAVIANO, ora la situazione ha fatto un salto di qualità ... ed è diventata "Gomorra"!!! La "camorre" napoletane, alleate con le camorre "cinesi", ha acquistato forza e, rotti i vecchi ’patti’ e i vecchi ’equilibri’, sta cercando di "sgamurrare" e "sgarrupare" tutto e, così, modificare a suo favore il "tradizionale" rapporto con la "altra" Napoli .... quella che guarda all’Europa.
La lezione di Gomorra
di Gianluca Di Feo *
Lo Stato ha fatto il primo passo: Roberto Saviano verrà protetto. Il Comitato per l’ordine e la sicurezza, guidato dal prefetto di Napoli Renato Profili, aveva aperto la procedura per la tutela armata dopo le minacce contro lo scrittore che ha sfidato i boss tre volte: con il suo libro, con i suoi articoli e con le sue parole. Ma l’eco internazionale che ha avuto l’articolo de ’L’espresso’ con la descrizione delle intimidazioni ha spinto anche il ministro Giuliano Amato a intervenire in prima persona. E più della scorta, a garantire l’incolumità fisica dell’autore di ’Gomorra’ provvederà il muro di solidarietà che è sorto intorno a lui. Si sono schierate al suo fianco le massime istituzioni campane, dal governatore Antonio Bassolino al cardinale Crescenzio Sepe. Si sono mobilitati tantissimi scrittori, che hanno aggiunto le loro parole all’appello lanciato da Sandrone Dazieri con le firme di Massimo Carlotto e Giancarlo De Cataldo. Umberto Eco in un’intervista al Tg1: "Il caso di Saviano si lega a Falcone e Borsellino. Perché in questi caso sappiamo da dove arriva la minaccia, sappiamo persino i nomi e i cognomi. Si tratta di intervenire preventivamente e pubblicamente su un fenomeno di cui si sa tutto". Ma soprattutto c’è stato un coro di sostegno a Saviano da Napoli e dagli altri centri della Campania, la sua terra: quella che lui ha raccontato nelle pagine di ’Gomorra’ come vittima di un ’sistema’ criminale che distrugge tutto: le persone, l’ambiente, l’economia.
Lo Stato ha fatto il primo passo. Ma adesso è necessario che vada avanti. Perché ’Gomorra’ è diventato una denuncia nazionale, che mette sotto gli occhi di tutti l’inarrestabile ascesa della camorra campana e delle sue ramificazioni internazionali. Una denuncia che presto verrà tradotta e pubblicata in 20 paesi, dagli Stati Uniti alla Svezia, e che ha già conquistato le pagine dei quotidiani europei. Roberto Saviano ha scritto tutto quello che ha visto: integra con la sua testimonianza gli atti di centinaia di indagini che non sono quasi mai riuscite a raggiungere condanne definitive. O che sono state vanificate dall’indulto o da evasioni beffa, come quella del boss Lauro scomparso dopo la scarcerazione per un cavillo burocratico. ’Gomorra’ ha dato voce a tutti i campani che non si arrendono allo strapotere della criminalità organizzata. Negli articoli de ’L’espresso’ la sua denuncia si è allargata all’incapacità della classe politica di dare una risposta: di liberare i cittadini dalla camorra e dall’immondizia, il nuovo oro nero delle mafie. Poi, al fianco del presidente della Camera Fausto Bertinotti, nella piazza di Casal di Principe, la città che negli Novanta aveva il record mondiale di omicidi, si è rivolto direttamente ai padrini, invitandoli ad andarsene. Ecco quale deve essere il secondo passo. Partire da Casal di Principe e dal Casertano, nuovo polmone di capitali finanziari delle cosche che marciano su Roma. E da Secondigliano, periferia disumana diventata centro di traffici mondiali.
L’Espresso, 09.11.2006
La Camorra a Napoli: zone e clan della città
Agnano: CAVALCANTI MALVENTI, D’AUSILIO
Arenella : ALFANO
Arenaccia-Vasto : CONTINI, MAZZARELLA, BOSTI
Bagnoli-Campi Flegrei: D’AUSILIO, ESPOSITO (di Bagnoli), ZINCO
Barra: ALBERTO, APREA, CUCCARO, MAZZARELLA, REALE, CELESTE-GUARINO
Camaldoli: ALFANO
Capodichino: MAZZARELLA
Capodimonte: MISSO
Cavone: LEPRE
Chiaia: PICIOCCHI
Chiaiano: LICCIARDI, STABILE
Colli Aminei: DI LAURO
Coroglio-Marechiaro: CALONE
Forcella: GIULIANO, MAZZARELLA
Foria-San Carlo all’Arena: MISSO
Fuorigrotta: BARATTO, BIANCO, CAVALCANTI MALVENTI, TRONCONE
Gianturco: CONTINI, MAZZARELLA
Loggetta: COZZA, PIETROLUONGO
Marianella: LAURO, SCISSIONISTI
Materdei: MISSO
Mercato-Carmine (Dietro le Mura):CALDARELLI,RULLO
Mergellina:FRIZZIERO,PICCIRILLO (di Mergellina), DELLO RUSSO
Miano: DI LAURO, LICCIARDI
Montesanto-Pignasecca PICCIRILLO (di Montesanto)
Nisida: D’AUSILIO
Pallonetto-Santa Lucia: ELIA, MAZZARELLA
Pianura: CONTINO, LAGO, MARFELLA, VARRIALE
Pisani: LAGO
Piscinola: LO RUSSO
Poggioreale: CONTINI, MAZZARELLA
Ponticelli: DE LUCA BOSSA, SARNO
Posillipo: CALONE, PAESANO
Quartieri Spagnoli, Montecalvario: FAIANO (DI BIASE), TERRACCIANO, PICUOZZI MARIANO, RUSSO (dei Quartieri Spagnoli), TESTE MATTE
Rione Traiano: PERRELLA, PUCCINELLI
San Giovanni a Teduccio: ALTAMURA, D’AMICO, FORMICOLA, MAZZARELLA, PAGNOZZI, REALE, RINALDI, NEMOLATO, NORCARO
San Pietro a Patierno: CONTINI
Sanità-Vicaria: MISSO, TOLOMELLI, VASTARELLA, GUIDA
Santa Chiara-Monteoliveto: PRINNO, MISSO
Scampia: DI LAURO, LICCIARDI, LO RUSSO
Secondigliano: DI LAURO, LICCIARDI, PRESTRIERI, SCISSIONISTI, BOCCHETTI
Soccavo: GRIMALDI, PUCCINELLI
Stella: MISSO
Torretta: FRIZZIERO, DELLO RUSSO
Tribunali-Spaccanapoli: GIULIANO, MAZZARELLA
Vomero: ALFANO, CIMMINO TOTARO
Zona ospedaliera: ALFANO
Gava e Pomicino, i fantasmi di Napoli
di Enrico Fierro (l’Unità, 6 novembre 2006)
Napoli, Napoli, Napoli. Parlano tutti. La camorra uccide. La città ha paura e si interroga. Lo Stato corre ai ripari. Mentre due vecchi viceré dei disastri andati tentano un’operazione impossibile. Un mostruoso lifting della loro storia di uomini che a Napoli hanno gestito il potere per un ventennio e più. In un colpo solo quei due uomini provano a far dimenticare ad una Italia smemorata cosa furono «i loro anni». «Questo qui è peggio di noi» hanno sentenziato Antonio Gava e Paolo Cirino Pomicino ai cronisti che gli hanno chiesto lumi e giudizi su Bassolino.
«Quando a Napoli c’eravamo noi», è il ritornello recitato in questi giorni con patetica nostalgia da don Antonio e da Paolo «’o ministro». I cronisti annotano, si compiacciono dell’innocente «ciciniello» (l’abnorme anello infilato sul dito di Gava gioia e dolore delle tumide labbra dei fedelissimi) e della colorita parlata di Pomicino e passano oltre. «Scurdammece ‘o passato». Anni Ottanta. Il terremoto. Anni Novanta. Il sacco di Napoli. 24 giugno 1993, la giunta comunale della città dichiara lo stato di dissesto del Comune. 12 agosto, il Capo dello Stato accoglie la richiesta del ministro dell’Interno di sciogliere il Consiglio. Il sindaco della città, Tagliamonte: «Siamo decisi ad assicurare la governabilità...». Su 80 consiglieri comunali del consiglio eletto nel ‘92, 18 sono raggiunti da ordini di cattura. Sette del Psi, 5 Dc, 2 repubblicani, 2 liberali, 1 a testa per Pds e Msi. Nel calderone della Napoli bollente di quell’anno finiscono anche 2 consiglieri provinciali (un liberale e un Dc), 13 consiglieri regionali (7 Dc, 5 Psi, 1 Pli). «Tutti questi amministratori - si legge nella relazione sulla camorra della Commissione parlamentare antimafia del 21 dicembre 1993 - sono stati coinvolti in vicende giudiziarie connesse alla loro attività di governo e spesso in concorso con elementi della camorra». Questo accadeva nei tempi d’oro dell’«eravamo meglio noi».
Era la Napoli di Gava e Pomicino, dove la camorra era fortissima. Organizzata. Politica. Violentissima: 2621 omicidi, il 21% degli assassinii di tutto il territorio nazionale, dal 1981 al 1990. I clan sono 111 nel ‘93 e gli affiliati 6700. In città 25 sono i gruppi dominanti. Nel decennio la camorra si è ingrassata col terremoto e le grandi opere pubbliche. Una torta da 60mila miliardi di vecchie lire dell’epoca. «L’attività di ricostruzione - si legge nella relazione dell’Antimafia - è caduta quasi interamente nelle mani della camorra che controllava capillarmente il territorio». Ma il passato va «scordato». E così nel 2005, venticinque anni dopo la tragedia, gli amministratori pubblici della Campania - questa volta tutti di centrosinistra - il terremoto lo ricordano tra fiumi di lacrime e litri di champagne. Si distribuiscono medaglie, onorificenze. La retorica seppellisce gli scandali del passato. «’O ministro» e don Antonio sono raggianti. Cemento, appalti, rapporti con le grandi imprese del Nord e legami con la politica: la ricetta era questa. Eppure, in un freddo pomeriggio di febbraio del 1992, Paolo Cirino Pomicino lancia la grande idea per la città. Appalti pubblici per migliaia di miliardi. «Neonapoli», la chiama e il gioco è fatto. A quel tempo «’o ministro» non conta moltissimo nella Dc napoletana: appena il 25%, poco rispetto al 60 dei suoi due rivali storici, Gava e Scotti. Come risollevarsi? Semplice, proponendo un nuovo ciclo del cemento: 7227 miliardi di lire per rifare il volto della città. Nuovi quartieri, 150mila vani, speculazioni edilizie su Bagnoli e Napoli Est. La città degli affari applaude. «Perché questa - spiega all’epoca Mirella Barracco - è una realtà dove è possibile ogni fondazione e ogni rifondazione. Qui si è costantemente all’anno zero». Pomicino è un occasionista, si fa moderno Principe, parla a quei ceti che aspirano ad un diverso sviluppo della città. Il progetto muove tanto fumo. Poi si ferma. La storia prende un’altra piega.
Aprile 1981. Sulla carne di Napoli e della Campania le ferite del terremoto sanguinano ancora. La città è sconvolta dall’irrompere sulla scena della follia brigatista. L’azione più eclatante è il sequestro di Ciro Cirillo, braccio destro di Antonio Gava. Lo tengono prigioniero per 90 giorni. Tre mesi e succede di tutto. Imprenditori napoletani vicini al partito di Gava raccolgono fondi, la Dc e i servizi segreti trattano con Raffaele Cutolo e le Br per la liberazione del notabile di Torre Del Greco. Quello che non era stato fatto per Aldo Moro viene fatto per Ciro Cirillo. Alla fine viene pagato un riscatto: 1miliardo e mezzo alle Br, quasi il doppio a Cutolo. Il resto della storia è una lunga catena di morti, almeno 12 possibili testimoni. Depistaggi. Uccisioni per fermare la verità. Antonio Ammaturo, capo della Squadra Mobile di Napoli, aveva scritto un dossier sui retroscena di quel sequestro, viene ucciso dalle Br nell’82. Il commando gode dell’appoggio di uomini della camorra. Quando sei anni dopo il giudice istruttore Carlo Alemi consegna la sua inchiesta sul sequestro Cirillo, viene attaccato in Parlamento e definito dal capo del governo «un giudice che si è posto al di fuori del circuito istituzionale». Presidente del Consiglio era Ciriaco De Mita, ministro dell’Interno Antonio Gava. Alemi fu messo sotto inchiesta dal Csm. Aprile 2001, Ciro Cirillo viene intervistato da Giuseppe D’Avanzo de «La Repubblica». «Signore mio - dice - la verità sul mio sequestro la tengo per me. Ho scritto tutto in una quarantina di pagine che ho consegnato al notaio. Dopo la mia morte si vedrà». Accadeva a Napoli, ai bei tempi di quelli che «eravamo meglio noi».
Indagine «senze censure»
La camorra cambia nome. Ora comanda «O’Sistema»
Il caso Napoli. I numeri e le caratteristiche del meccanismo della criminalità organizzata che ha fatto 3mila morti in 25 anni. *
NAPOLI - Vicini al cuore della camorra. Per scoprire che ormai quel nome è vecchio e che oggi a Napoli comanda e funziona «O’ Sistema». Quel sistema per cui i morti ammazzati in strada sono la quotidiana normalità: 3000 negli ultimi venticinque anni, uno ogni due giorni e mezzo. Una cifra che non ha eguali in nessun’altra città d’Europa. Almeno 100 «sparati» ogni anno dal dopoguerra ad oggi. Addirittura 139 nel 2004, quando è partita la faida di Secondigliano.
Succede così che due giornalisti e registi indipendenti - Matteo Scanni e Ruben H.Oliva - provino ad entrare più o meno di nascosto nel quotidiano di Napoli: in mezzo ai morti, agli spacciatori di Secondigliano o nella villa holliwoodiana di Walterino a Casal di Principe. Per documentare cos’è e cosa fa la camorra. Qual è la mappa aggiornata delle famiglie, come funziona «O’Sistema», come si regola, come si alimenta, come evolve e si aggiorna, come riesce a stravolgere e condizionare la vita di una città, di una provincia, di un intero Paese.
Nasce un documentario - nelle librerie in questi giorni ’O Sistema. Un’indagine senza censure sulla camorra, dvd+libro, Rizzoli, premio Ilaria Alpi 2006, già clonato dalla camorra e in vendita in copie pirata anche sulle bancarelle di Napoli - che «descrive la vita di un territorio in bilico fra normalità apparente e follia criminale. Che mostra l’agguato al boss che si è dissociato, il pianto dei suoi familiari, gli occhi che scrutano da dietro una finestra, il palo in sella al motorino che fa la guardia al quartiere. Racconta la faida di Secondigliano, la droga di Scampia, la prostituzione di Castelvolturno, le ville della camorra a Casal di Principe, il feudo del clan dei casalesi, boss decaduti e capiclan forti come feudatari. E cerca una spiegazione tra la gente».
Una spiegazione che non c’è. O meglio una spiegazione che c’è ed anche molto semplice: soldi e potere. Lo racconta «’O Sistema» attraverso numeri, dati, cifre, testimonianze, immagini di sangue e di morti, interviste a magistrati, politici, religiosi e giornalisti impegnati nella lotta ai clan. Il documentario ricostruisce la struttura militare ed economica delle famiglie campane e il giro di affari di due miliardi di euro, 4 mila miliardi di vecchie lire che frutta il business degli appalti, della droga, dello sfruttamento della prostituzione, del racket, degli agguati, delle estorsioni, degli esercizi in mano alla criminalità organizzata, della contraffazione dei marchi e del commercio di armi. Senza dimenticare il traffico dei rifiuti, un mercato che da solo vale 2.6 miliardi di euro all’anno.
Un «Sistema» che mina alla base i pilastri della cosiddettà società civile con i ragazzi dei quartieri popolari di Napoli che preferiscono lavorare per la camorra piuttosto che per uno stipendio onesto. Un sistema «che individua i giovani e se li coltiva, li stipendia e si prende cura di loro quando finiscono in carcere, che li immette in una organizzazione di vita alternativa, che si prende cura di loro quando finiscono in prigione». Un «Sistema» reso attraverso una galleria di volti, di immagini, suoni e rumori che entrano nella testa durante l’ora e dieci del documentario. Come il corteo funebre di un giovane camorrista con la bara portata a spalla dai compagni mentre altri in sella alle moto potenti sgassano e suonano i clacson a tutto volume. Come l’urlo della sorella del boss pentito e «sparato» in strada che corre verso il corpo senza vita del fratello. Come la storia del clan Giuliano e le origini del Sistema. Come la lunga epica del clan dei Casalesi, dalle origini di Bardellino al bunker di Sandokan, al secolo Francesco Schiavone, fino ai nuovi reggenti. Come il lungo elenco dei comuni commissariati in Campania. Come le immagini dei controlli notturni dentro le vele degradate di Scampia a Secondigliano, l’edificio simbolo della camorra e dello spaccio di droga: alle soglie del 2000 ci sono qui 20 piazze di spaccio attive, ognuna che produce un guadagno annuo di 52 milioni di euro. Come le testimonianze della faida che proprio a Scampia si è scatenata nel 2004 tra il boss del narcotraffico Paolo Di Lauro e gli scissionisti. «Dopo quella faida, a Napoli si è tornati all’anno zero: lo spaccio continua, come gli omicidi, la contraffazione dei marchi e la guerra tra clan», scrivono gli autori.
E ora? Si chiedono ancora Scanni e Oliva. Nel 2006 a Napoli si contano una cinquantina di clan attivi e oltre 3mila affiliati. La Campania ha 5,9 milioni di abitanti e conta tra le 100 e le 120 famiglie camorristiche, 10.000 affiliati ai clan e 50.000 persone che hanno «cointeressenza» con la camorra. Nonostante i colpi inferti dalle forze dell’ordine con gli arresti che alla fine degli anni ’90 hanno portato in carcere elementi di spicco dell’Alleanza di Secondigliano e gli attacchi ai gruppi Misso e Mazzarella, i due clan continuano ad essere i gruppi dominanti della città. Suddivisa in tante aree controllate da altrettante famiglie con alleanze mutevoli, che possono cambiare nell’arco di una notte. Il sostituto procuratore della Dda Giuseppe Narducci riassume in sintesi: «A Napoli comandano le stesse persone che comandavano venti anni fa...si è verificato solo un ricambio generazionale». «Le famiglie della Camorra - scrivono Scanni e Oliva - perpetuano la specie: probabile che tra dieci anni i nomi saranno ancora quelli». «La camorra è anzitutto un problema della politica» dice laconico uno dei protagonisti del documentario.
Il documentario sfuma tra le aule dell’Istituto Galileo Ferraris di Scampia: forse l’unica presenza dello Stato in un quartiere di 80mila abitanti dove non c’è una biblioteca, non ci sono centri per ragazzi e i luoghi per fare attività sportiva sono pochissimi. Una folla di bambini delle scuole elementari che scende per le strade. Fiori in mano e un grido solo: «Pace».
Iacopo Gori 07 novembre 2006
I cinesi di Napoli
di Rocco Di Blasi *
Se fossero vere le cifre di Gian Antonio Stella, Napoli e la Campania sarebbero le isole più tranquille del Mediterraneo. Che cos’ha scritto, infatti, il grande inviato del Corriere qualche giorno fa? Che Napoli è «la capitale di una regione che ha un decimo della popolazione italiana, produce solo un quindicesimo della ricchezza nazionale, ha gli stessi abitanti ma esporta meno di un settimo del Nordest, ha un ottavo di tutte le pensioni d’Italia, piazza quattro centri (Casalnuovo, Lettere, Crispano e Melito) agli ultimi quattro posti per reddito pro capite dei comuni italiani». Insomma, una tragedia dell’assistenzialismo e dell’improduttività, con quattro poveri disgraziati che s’ammazzano per contendersi un marciapiede nel mercato della droga.
Peccato che la fotografia (scattata sulla base delle statistiche ufficiali) raffiguri solo una parte e che il «tutto» racconti una storia completamente diversa.
Napoli e la Campania sono oggi, in realtà, una delle aree più giovani e dinamiche d’Europa (un terzo dei suoi 6 milioni di abitanti ha meno di trent’anni) e l’accumulazione della ricchezza (specie nel capoluogo di regione, nel suo hinterland e nella provincia di Caserta) segue ritmi «cinesi» e ricorda quanto è avvenuto a Shangai o in alcune città dell’India, che dieci anni fa sembravano condannate implacabilmente al sottosviluppo e sono emerse, invece, come capitali del nuovo millennio.
Un quarto di secolo fa, Pino Arlacchi scoprì «la mafia imprenditrice», sorprendendo tutti gli studiosi «tradizionali» del fenomeno mafioso. Non si tratta, ora, di portare alla ribalta la «camorra azienda», ma di comprendere i meccanismi di un’accumulazione capitalistica selvaggia che - chiusi i rubinetti della Cassa per il Mezzogiorno - è riuscita a trovare immensi profitti facendo fruttare il traffico della cocaina e delle altre droghe attraverso una diversificazione produttiva da far invidia alle più rinomate imprese italiane e multinazionali: dal tessile, all’abbigliamento, al settore turistico-alberghiero, in Italia e all’estero, rendendo sempre più evanescenti i confini tra legale e illegale, anzi invadendo l’intera economia legale con una «competizione» - finanziaria e/o armata - quasi impossibile da fronteggiare. E trovando più di un compromesso utile per tutti i contraenti (al Nord, al Sud, all’estero: dall’Estremo Oriente al Sud America).
È questo che ha capito Roberto Saviano, è per questo che il suo romanzo-testimonianza Gomorra è così dirompente. Il giovane autore ha raccontato semplicemente quel che ha visto scorrere sotto i suoi occhi (del resto, per gli antichi greci, i verbi «vedere» e «sapere» erano un tutt’uno). E oggi deve girare con la scorta, non perché ha «fatto i nomi» di famiglie e clan camorristici che stanno su tutti i giornali, ma perché ha attirato l’attenzione su questo percorso, sulle connessioni create da un fiume di denaro che va dal pusher di Scampia ai manager del «made in Italy» - e viceversa - riempiendo un po’ di tasche in basso e grandi forzieri finanziari in alto, dove si tirano i fili dei poveri burattini che muoiono ammazzati, a volte coinvolgendo incolpevoli passanti.
È questa la novità che ha spiazzato la politica e perfino Antonio Bassolino che sa bene cos’è la camorra.
Ma un conto è battersi (come avveniva in passato) contro Cutolo, la Nuova Famiglia e i vecchi clan. Ben altra cosa è combattere un pezzo dell’economia di una delle regioni più popolose d’Italia. E forse il pezzo più importante. Non è un caso che - tranne le recenti iniziative a Scampia - sono 10 anni che a Napoli non si fa più una manifestazione contro la camorra. Contro chi manifestare?
Ma che avrebbe fatto, di fronte alla folgorazione di Gomorra, il Bassolino che ricordo (io capocronista de l’Unità di Napoli, lui giovane segretario regionale del Pci, che neppure immaginava di diventare sindaco della metropoli)? Avrebbe chiamato Roberto Saviano e insieme avrebbero camminato (Bassolino non passeggia, lui «cammina» col passo dei bersaglieri) tra via dei Fiorentini, via Cervantes, piazza Municipio - il centro di Napoli - e lo avrebbe subissato di domande: ma sei sicuro? Ma come mai? Ma come funziona? E poi i soldi a chi vanno? Poi avrebbe ricominciato a camminare avanti e indietro, finché le risposte non gli fossero bastate.
Le «ondate mediatiche» - è vero - fanno male, come tutte le grandi semplificazioni. Ma bisogna anche capirne il segno. Gava, in un’intervista al Corriere, si è lamentato (con una bella «faccia tosta») perché gli inviati dei grandi quotidiani del Nord gli attribuirono perfino le colpe del colera. Ma questa è una mistificazione. Il colera (malattia da Terzo mondo) portò - doverosamente - Napoli sotto i riflettori nazionali e internazionali e gli inviati, arrivati per l’occasione, scoprirono Gava e il suo sistema di potere. Qualche anno dopo alcuni giornali ci riprovarono con Maurizi\o Valenzi, attribuendo al primo sindaco comunista della città partenopea, le colpe del «male oscuro», un morbo che uccideva i bambini dei bassi. Il direttore (P2) del Corriere della Sera ordinò al suo inviato di dargli ogni giorno una notizia sul «morbo» da sparare in prima pagina. Per una settimana funzionò. Poi Il Corriere e i quotidiani che gli si erano accodati dovettero arrendersi, perché Valenzi non ammazzava i bambini né era a capo di un sistema di potere «corrotto e corruttore».
Che potrebbe fare il Bassolino di oggi? Andare, forse, nelle case dei suoi elettori per fare una di quelle che una volta si chiamavano (pomposamente) «inchieste sociali». Farsi offrire il caffè da una signora (che lo accoglierebbe certamente bene) e chiederle: signora dove lavora suo marito? E i suoi figli che fanno? E lei è occupata o disoccupata? La signora, in cambio della «tazzulella», gli chiederebbe sicuramente un «posto» o almeno un favore, ma lui toccherebbe con mano la differenza tra l’economia di carta e quella reale e ne farebbe tesoro, perché non si può «espiantarla» né combatterla con l’esercito (magari sarebbe più utile la Guardia di Finanza). Occorre farci i conti.
Perciò, caro Bassolino, vatti a fare una scorpacciata di caffè. Ti renderà più nervoso, ma ti farà bene. Alla testa e al cuore, come dice la pubblicità.
* www.unita.it, Pubblicato il: 08.11.06 Modificato il: 08.11.06 alle ore 8.52
Bagnoli, dopo la Fabbrica niente
di Enrico Fierro *
Quando a Napoli c’era lei, la fabbrica. E il popolo era «classe», operaia, s’intende. E le famiglie vivevano di un salario che certo non bastava mai, ma c’era. Era pane sicuro. I figli vedevano i padri svegliarsi all’alba per andare a fare quel lavoro duro, tra i fumi e le fiamme della colata, e sognavano di poter entrare anche loro, un giorno, «dentro la fabbrica». E i padri, invece, si «facevano nu mazzo accussì» per farli studiare i figli. Anche all’università. La fabbrica vomitava ogni giorno 800mila tonnellate di ghisa e 820mila di acciaio. Un mostro. Che divorava la spiaggia, ammorbava l’aria di un fumo grigio e fetente, impestava il dolce mare flegreo. Eppure nonostante quelle acque scure e l’aria nera, gli altoforni hanno sfamato famiglie per decenni, formato generazioni di operai e tecnici, plasmato un quartiere, Bagnoli. La fabbrica, l’Italsider o Italsidèr (con la lingua che batte forte sulla "e", come usa da queste parti) per tutto il Novecento è stata l’anima civile di Napoli. La forza della sua democrazia. Una parte fondamentale della sua cultura migliore. Il muro più solido contro il dilagare di quell’anima plebea, disperata e pronta a tutto che oggi terrorizza i napoletani onesti (la stragrande maggioranza) e rischia di uccidere il futuro della città. Una barriera invalicabile contro «’o sistema», la camorra, la sua ideologia predatoria, la sua cultura che «con la fatica non si fanno i danari. Con la droga sì, e tanti».
Era il 19 giugno del 1910 quando venne acceso il primo altoforno del "mostro", ottanta anni dopo quei forni si spensero per sempre. L’acciaio non era più competitivo, la grande industria neppure. La cultura della deindustrializzazione era diventata Vangelo per economisti e politici. Napoli perdeva un pezzo importante di sé. Alla città sconvolta dalle guerre di camorra, quando i morti si contavano a centinaia, piegata dall’ignavia e dalla immoralità delle sue classi dirigenti, fu amputato un arto. Gli operai, i tecnici vennero strappati dal lavoro. Prepensionati. In mobilità. La fabbrica era morta. Nelle grandi manifestazioni civili per le strade di Napoli non si sarebbero visti mai più i caschi gialli degli operai dell’acciaio. Una storia era finita. La città perdeva il suo pilastro.
Abbiamo incontrato persone che hanno vissuto quella esperienza e ce la raccontano. Si tratta di gente comune. Gente di Napoli che nessun media in questi giorni ha chiamato a parlare di Napoli. Com’era e come è diventata. Com’era la città una volta. Ai tempi dell’Italsidér (con la lingua che batte sulla e).
PIETRO: «Quando nel 1962 venni assunto all’Italsider mio suocero mi disse che ero fortunato. Sei entrato nella ferriera e mo chi ti caccia più. Il mio primo stipendio era di 60mila lire. Io ero impiegato, gli operai guadagnavano di meno e non gli pagavano i primi tre giorni di malattia. Ho visto uomini che stavano di fronte alla colata venire a lavorare con la febbre. Poi facemmo gli scioperi e conquistammo il diritto alla malattia. Per me la fabbrica era una cattedrale, io la vedevo così. Il lavoro degli operai era infernale, i turni con il caldo e il fumo che ti bruciavano i polmoni. Ma era la vita: negli anni d’oro a Bagnoli lavoravano 10mila persone. Ventimila con l’indotto. Decine di migliaia di stipendi sicuri. Di famiglie che avevano poco ma avevano. Io non ho mai mitizzato i caschi gialli, per carità. Mi iscrissi al Pci nel ‘68 e la fabbrica è stata la mia scuola di formazione politica. Ma dico che chi lavorava all’Italsider aveva una identità forte che riusciva a trasmettere al quartiere di Bagnoli e alla città intera. Certo che anche negli anni Sessanta, Settanta, c’era la camorra, ma era un’altra cosa. Non debordava come oggi. Non era quella sorta di fiume che allaga l’intera città senza trovare un argine. Noi eravamo l’argine. Quando parlo di identità penso alle case costruite per gli operai, al fatto che le famiglie vivevano tutte insieme, penso alle sedi dei sindacati, ai partiti, al nostro circolo aziendale. Quando nel ’90 la fabbrica ha chiuso ho visto operai piangere. Ci guardavamo negli occhi e sapevamo che da quel momento non sarebbe stato più lo stesso. Ho perso il lavoro che avevo 50 anni. Mi si è stretto il cuore ma ho guardato avanti. Spero che lo faccia anche Napoli». Pietro Postiglione è stato per trent’anni impiegato all’Italsider. Vive a Napoli.
TANIA: «La grande fabbrica è entrata nella mia casa quasi trenta anni fa, portandosi dietro il nero negli occhi di mio padre per le colate di acciaio, la tranquillità del lavoro fisso e la sensazione di appartenere a qualcosa di grande e di importante. Mio padre senza la fabbrica non avrebbe imparato la disciplina, la solidarietà e il senso di appartenenza di classe. Questo lo ha potuto apprendere giorno dopo giorno seguendo i ritmi disumani di una fabbrica che produceva acciaio per costruire la nuova Italia. La dignità, il rispetto del lavoro altrui, la condivisione per affrontare meglio i problemi, mio padre li ha imparati in fabbrica e li ha trasmessi a noi. Quattro figli in un vicolo assediato da contrabbandieri, papponi e ladri. Eravamo intoccabili dal marcio e dal corrotto che ci circondava perché il rispetto superava le insidie. Noi vivevamo come protetti da un’aura particolare: papà faticava all’Italsider. Usciva alle 4,30 di mattina. Faceva le notti. A volte lavorava per 16 ore continue; e me le ricordo tutte le manifestazioni contro le "16 ore". È cominciata la cassa integrazione. E i silenzi tristi di mio padre. Non era la preoccupazione per il "posto". Nessuno si è chiesto quanto stesse perdendo in realtà della sua vita. È un uomo fortunato, mio padre, la sua semplicità non ha permesso che venisse amputato l’amore per la vita, anche senza la "sua" fabbrica». Tania Melchionna si occupa di comunicazione. Rimase colpita dalla lettura del bel libro di Ermanno Rea, «La dismissione», e decise di scrivere questa lettera pubblica a suo padre.
GUGLIELMO: «Lo vuoi vedere l’ultimo reparto della fabbrica ancora in funzione? Eccolo: il Circolo dell’Italsider. L’Italsider ha chiuso, il circolo aziendale no. Qui, nella vecchia sede di Coroglio, abbiamo ancora duemila iscritti, organizziamo di tutto, sport, teatro, gite, siamo una realtà solida. Quando c’era la fabbrica non c’era delinquenza a Bagnoli. Poca roba, un po’ di contrabbando di bionde, ma niente di più. Certo, erano altri tempi, ma quando in una famiglia il figlio vedeva il padre uscire alle 4 del mattino, rientrare la sera, rispettare orari e tempi, beh era difficile che sbagliasse strada. Oggi, ci sono intere famiglie dove il padre non ha un lavoro, la tv bombarda i ragazzi con l’ideologia del danaro facile, i "renari" a tutti i costi, e allora vince la cultura del malaffare. Ha ragione Rea: la fabbrica ha bonificato i quartieri di Napoli, poi c’è stata la dismissione, e i quartieri di Napoli hanno bonificato la fabbrica. L’Italsider ha preservato l’area flegrea dalla speculazione edilizia, la fabbrica non c’è più puntiamo sul risanamento del territorio, progettiamo nuove occasioni di sviluppo e di lavoro. Napoli ce la farà. Non mi piacciono i Gava e i Pomicino che in questi giorni parlano e danno lezioni. Io me le ricordo le facce che giravano al Comune e alla Regione nei loro anni. Oggi no, alla Iervolino e a Bassolino si possono fare miliardi di critiche, ma oggi la camorra è fuori dalle nostre istituzioni. La sindaca e ’o Presidente sono autorità morali sulle quali Napoli può contare». Guglielmo Santoro, figlio di un operaio dell’Italsider, ha lavorato in quella stessa fabbrica per 30 anni.
* www.unita.it, Pubblicato il: 12.11.06 Modificato il: 12.11.06 alle ore 7.24
NAPOLI, "PER UN FUTURO OLTRE QUESTA NOTTE”:
Eduardo DE FILIPPO, Mario MEROLA, e la REPUBBLICA (con e senza virgolette).
Una nota (su un articolo di Pietro Citati e di Giuseppe D’Avanzo)
di Federico La Sala
Nelle Voci di dentro di Eduardo De Filippo qualcuno ha "ucciso il sonno" [...] Soltanto un personaggio conosce sonni tranquilli, se non felici [...] Gli altri personaggi [...] non dormono: o dormono male, con sonni brevi, interrotti, spezzati [... ] e la mattina si svegliano colle ossa rotte e le membra sudate. Mentre dormono, i sogni li assaltano: l’immenso mondo infero guarda il nostro mondo, lo spia, lo ascolta, si insinua dentro di esso e lo aggredisce con violenza. [...] Quando non invia i sogni, il mondo infero manda in terra i morti ammazzati". Così scrive, con la sua solita grande sensibilità e intelligenza, Pietro Citati, oggi (15.11.2006), sulla Repubblica (pp. 54-55), nel commentare (UNA NAPOLI CHE SEMBRA PIETROBURGO) la commedia di Edoardo, messa in scena (a Roma, in questi giorni) da Luca De Filippo.
Nella stessa Repubblica, di oggi e a partire dalla prima pagina, c’è un articolo (qui sotto riportato) di Giuseppe D’Avanzo (“Se Merola diventa un eroe”) , sui funerali di Mario Merola, che esprime opinioni - a mio parere - ovvie e convincenti, ma che - sempre a mio parere, e a ben vedere - alquanto sfocate rispetto all’evento stesso. Mi sembra che dica solo mezze verità (per di più del passato) e finisca per non cogliere quanto di anomalo e tuttavia di possibile-nuovo c’ è stato e c’ è nel fatto che il "re della sceneggiata" abbia potuto e saputo portare il suo spettacolo nel "centro" di Napoli e abbia "invitato" a prendervi parte gli stessi Attori (al di là delle loro "debolezze") delle Istituzioni democratiche , manca proprio la sensibilità e l’intelligenza (culturale e politica) per capire la complessa realtà napoletana ... e nea-politana. Nella "rappresentazione malinconica della finis Neapoli" non tutto era morto .... alla fine - come scrive Citati nel suo articolo - la scena è stata "illuminata" dai bengala verdi del sogno".
In breve. NAPOLI SIAMO NOI .... QUESTO "OCCORRE CAPIRE", SE VOGLIAMO CAPIRE PERCHE’ MEROLA e’ DIVENTAto UN EROE. Se NON ABBIAMO ANCORA CAPITO IL FASCISMO E IL BERLUSCONISMO (abbiamo ancora in giro un partito che si chiama "Forza Italia", con tutti i suoi ben noti "alleati"), e TUTTI SIAMO ANCORA SUCCUBI DELLA CULTURA DI "MAMMASANTISSIMA", e, ancora, NON SAPPIAMO PIU’ ne’ dormire ne’ SOGNARE, E’ chiaro ... che alla fine sappiamo solo SPARARE - NEL BUIO - CONTRO noi stessi"!!! Boh e bah! (Federico La Sala)
Se Merola diventa un eroe
di Giuseppe D’Avanzo (la Repubblica, 15.11.2006)
Se c’era bisogno (e non ce n’era bisogno) di una rappresentazione malinconica della finis Neapolis, la città ha inflitto a se stessa anche un’ultima desolante scena con i funerali di Mario Merola. Decine di migliaia di persone teatralmente dolenti in piazza del Carmine, palloncini sospesi in aria con fili viola a precedere il feretro, lacrime, grida, canti, gorgheggi improvvisati, ressa, cantanti, calciatori, emigranti fasulli, impostori sperimentati, "zappatori" improbabili, il ricordo dell’ultimo chemin de fer di un tale chiamato "Saint Vincent" (e sabot sistemato sulla bara).
E alla fine, per non far mancare nulla all’indimenticabile occasione storica, fuochi d’artificio come a Piedigrotta nell’illusione collettiva e tragica che questa recita, la contemplazione soddisfatta di se stessi, possa ancora incantare qualcuno dentro e fuori la città. Come se questa rappresentazione di napoletaneria potesse produrre qualcosa di diverso dalla stanchezza, lo sconforto, la vergogna. Mario Merola, con tutta l’indecorosa ammuina, non c’entra nulla. Dicono fosse un uomo buono. Con chi ne aveva bisogno, generoso di sé e delle proprie ricchezze. Pace trovi, ora, e riposo: avrebbe meritato più rispetto e silenzio nell’ora dell’addio. La Napoli plebea e ormai culturalmente egemone si è come aggrappata alle sue spoglie per trovare ragione di se stessa, una nobiltà nella miseria dell’oggi, un’identità forte nella battaglia per il domani, la volontà di ripetere ancora in faccia a tutto il mondo e a tutti i napoletani spaventati: questa è Napoli e Napoli siamo noi.
Raffaele La Capria dice spesso che «sapere "dove si è" non è certo facile a Napoli». Da oggi, non è più legittimo pensarlo. Non è più possibile pensarlo. Sappiamo dov’è Napoli perché mai con tanta clamorosa visibilità le istituzioni cittadine, il ceto politico, gli intellettuali hanno accettato di riconoscere, inchinandosi, la maligna mutazione lazzara che distrugge Napoli, sotto gli occhi di tutti, nel silenzio impaurito di molti, nell’inerzia di troppi. Per accettare quest’atto di sottomissione, le élites cittadine hanno dovuto santificare Mario Merola, trasformarlo in un’icona culturale della città, del suo spirito morale e civico, del suo pensiero, delle sue attitudini, del suo stare nel mondo.
Si è assistito a una corsa patetica e trafelata alla retorica "monumentalizzazione" del cantante. «Merola è un grande punto di riferimento, un grande simbolo per Napoli e il Mezzogiorno» (Antonio Bassolino). «Il cantore della Napoli verace» (Clemente Mastella). «Un ambasciatore positivo della migliore tradizione popolare napoletana» (l’assessore alla cultura, Nicola Oddati, un Bassolino in erba e rampatissimo). Si è superata Rosa Russo Iervolino, la sindaca della città: «Merola era un prepotente buono. Dobbiamo recuperare la guapparia nella misura in cui è orgoglio».
Ci può essere un prepotente buono? E che cosa è un guappo? Che "cultura" era quella di Mario Merola? Quando sul finire della prima guerra mondiale fu scritta Guapparia (nello stesso periodo si celebrava a Viterbo il processo Cuocolo, il primo processo alla camorra), il guappo - sono parole di Domenico Rea - «era uno dei protagonisti principali della vita della città, uno dei più ambìti ideali femminili, il paladino plebeo, il giustiziere, circondato di omertà e di protezione, al di sopra della giustizia statale». Nelle sceneggiate, che lo hanno visto protagonista, Mario Merola «ha soltanto provato a giustificare i comportamenti delinquenziali con la necessità del sopravvivere, a fare intravedere una "morale" nell’uomo delinquente, una sua sostanziale bontà e un attaccamento alla famiglia e ai figli da difendere anche a costo di rompere e infrangere le regole sociali e dello Stato» (Isaia Sales, Le strade della violenza). Il guappo di Merola, che non si fa scrupolo di uccidere, di presentarsi al pubblico plaudente con le mani sporche di sangue, chiede comprensione se vive nell’illegalità, scava un solco tra l’illegalità e la criminalità. Sono gli stessi argomenti lamentosi e ipocriti che si raccolgono a Scampia, Melito, Secondigliano. Spacciare droga non è "criminale", dicono tante sante madri di Napoli che adorano i figli piezz’e core, è soltanto un modo per andare avanti. Illegale sì, ma ci dobbiamo arrangiare.
Può essere l’illegalità tenuta al riparo dalla criminalità? Può essere l’illegalità un valore culturale da esibire, evocare, esaltare nella Napoli violenta di oggi? Può avere un qualche senso sventolare il vessillo di una sceneggiata che racconta come sia sempre la donna, femmina pittata e traditrice, a mettere l’uomo nei pasticci, a costringerlo a ucciderla per salvare il proprio onore, il valore supremo della comunità del vicolo? Non è che Mario Merola, pace all’anima sua, non aderisse a questo armamentario sottoculturale. Nella sua biografia «Napoli solo andata... il mio lungo viaggio», spiega che «l’uomo può sbagliare, si può prendere una sbandata, ma poi deve tornare in famiglia. Diverso, quando a sbagliare è la donna. No, non lo accetto. Se sbaglia una donna è finita. Nella mia comportazione, e in quella di tutto il popolo che conosco e frequento, ‘a femmina che sbaglia ha due scelte: o se ne va o vene accisa o perlomeno sfriggiata (sfregiata)».
Indignarsi per il triste spettacolo offerto dalle élites napoletane, con le loro parole o con la loro imbarazzata indifferenza, è a buon mercato e serve a poco. Occorre capire. È necessario che soprattutto capiscano i napoletani come quel ceto politico, quelle istituzioni pubbliche cittadine siano ormai - per cinismo, per opportunismo, per viltà, per timore - "conquistate", colonizzate, incapaci di comprendere (e quindi giudicare) il passato, inabili anche soltanto a immaginarlo, un futuro oltre questa notte.
Il "Mario Merola" di D’Avanzo (se non sbaglio e se non abbiamo la memoria cortissima) è diventato un eroe .... a ROMA - in ITALIAnda!!!. Se vogliamo, e lo vogliamo, esser chiari NAPOLI ha farro resistenza e la Resistenza !!! A Napoli, Mario Merola era, è stato, ed è Mario Merola ... e ha saputo conquistarsi fiducia e stima, e aprirsi aldialogo con l’altra parte della città e della società!!! Dove è "la fiera della volgarità"?! (fls)
di Furio Colombo *
Non so se sia vero che Vannino Chiti ha offerto un dialogo alla Lega, la Lega Nord, quella di Bossi e del tricolore nel cesso, quella di Calderoli e delle forbici da giardiniere per immigrati, quella di Borghezio, che ha dato fuoco a dei poveretti che dormivano sotto i ponti a Torino, quella di Gentilini, sindaco e prosindaco della ricca ma disonorata Treviso, dove va parlando di vagoni piombati e di trattamento da cacciagione per i lavoratori che a lui non sembrano veneti. Non so se sia vero che ha detto, come riporta La Padania del 16 novembre in prima pagina, «spero che diventi come il partito catalano. Utile al Paese e anche al centrosinistra».
So, per testimonianza oculare, che quello stesso 16 novembre, al Senato, i due leghisti Castelli e Calderoli si sono impegnati a staffetta per mostrare quanto si possa essere volgari nei confronti del Premio Nobel Senatore a vita Rita Levi Montalcini e dei due ex Presidenti della Repubblica Ciampi e Cossiga. Sia chiaro che i due non erano isolati in un’aula in cui destra e sinistra condividevano costernazione per un simile comportamento, molto al di là di ogni possibile polemica o scontro parlamentare, una vera piazzata.
Lo spettacolo era questo. Buona parte della intera ex Casa delle Libertà era in piedi a urlare insulti ai Senatori a vita (il grido più mite era «vergogna, vergogna»), salvo alcuni di cui vedevi bene disagio e imbarazzo e la voglia di essere altrove.
Vorrei spiegare la ragione del senso di disorientamento che si prova in un Senato che diventa improvvisamente violento, mentre sono disponibili tutte le possibilità espressive, incluso, ovviamente, il più netto dissenso.
Nonostante l’ordine del giorno recasse l’approvazione urgente di una legge (che infatti non si è potuta approvare), il presidente Marini ha dato la parola a ciascun gruppo (misteriosamente, due per i leghisti).
Nonostante il livello imbarazzante del comportamento, non c’è stato, anche per l’esperienza ormai maturata nel centrosinistra, alcun tentativo di cadere nella trappola della controdimostrazione.
Nonostante la clamorosa divaricazione fra le opinioni dei Senatori comizianti e quanto è scritto nella Costituzione e nel regolamento del Senato, le disperate corde vocali dei nostri oppositori continuavano a urlarci che i Senatori a vita non hanno diritto di voto, come se fossero privi dei diritti civili.
Nonostante l’intervento netto di Anna Finocchiaro, capogruppo dell’Ulivo, avesse fatto notare che i nostri oppositori erano stati battuti anche senza contare gli onorati e graditissimi voti dei Senatori a vita, la manifestazione di alta inciviltà è continuata a lungo mentre dalle tribune il pubblico (di solito scuole e visitatori stranieri) si affaccciava incredulo o temeva il colpo di Stato.
Ci sono in questa storia alcuni dettagli particolarmente sgradevoli. Uno è che, più ancora di quanto non si noti in televisione, l’aula del Senato è piuttosto piccola. I Senatori a vita siedono davanti, in un banco nell’emiciclo. In questo modo, come in un film espressionista, le facce stravolte di coloro che gridano e conducono l’insensata rivolta ti appaiono di fronte e a pochi metri, aggiungendo alla scena sgradevole uno spunto di particolare imbarazzo.
Scene del genere erano tipiche ai tempi del "Teatro dell’assurdo" da Genet a Pinter, dal Living Theatre all’Open Theatre. Raramente (diciamo pure: mai) avvengono in quella Camera Alta che esiste in molte democrazie e che si chiama Senato. Che sia per questo - ovvero, conoscendo se stessi - che gli uomini di Berlusconi si erano dati da fare per ridurre il Senato a un accampamento di leghisti?
Ma c’è un fatto in più e vale la pena di ricordarlo. Il Senatore di An Ramponi aveva chiesto fin dall’inizio della seduta di parlare a proposito di allarmanti notizie sul riarmo del Libano. Quando ha parlato, si è capito che si trattava di una comunicazione importante. Ma ha parlato alla fine della mattina. Il rischio del Libano e la notizia di nuovi passaggi di armi ha dovuto aspettare che, da Storace in là, quella parte del Senato esponesse, con strati di urla sovrapposte, il concetto che i Senatori a vita non devono sapere, pensare. Possono, eventualmente, parlare nelle ricorrenze.
Purtroppo le televisioni dipendono, per le riprese, dalle telecamere di tipo bancario del Senato. Altrimenti sarebbe stato interessante suggerire un montaggio in cui le immagini della manifestazione urlata che si è autonegata ogni buon senso, si alternano con i volti di Rita Levi Montalcini, di Carlo Azeglio Ciampi, di Francesco Cossiga.
Erano tre espressioni diverse. Cossiga appariva ironico e aveva infatti di riserva un breve discorso per ciò che pensava dello "happening". Ciampi era incredulo. Rita Levi Montalcini sorrideva, non tanto agli urlatori stremati quanto a qualche suo pensiero un po’ più meritevole di attenzione.
Ma resta la frase attribuita a Chiti. A chi avrà pensato parlando di "partito catalano" e dunque di persone che erano già attive negli ultimi anni del franchismo, uniti dall’impegno di creare insieme democrazia e autonomia?
Quelli di noi che li hanno conosciuti ai tempi in cui il Gruppo 63 si riuniva a Barcellona, ricordano ammirazione e invidia. Cosa c’è di catalano nel gridare «vergogna» a Rita Levi Montalcini?
S’intende che capisco l’ansia di Chiti. È - come accade nei brutti momenti - la speranza di un miracolo. Questo miracolo in Senato, finora, non è accaduto.
* l’Unità, 17.11.2006
Napoli, Merola, giacobini e sanfedisti
di Peppe De Cristofaro (Liberazione, 18.11.2006)
Ha ragione Giuseppe D’Avanzo, sulle colonne di Repubblica di qualche giorno fa, a denunciare la subcultura plebea e reazionaria che ha fatto da sfondo alle esequie di Mario Merola. E ha ragione, se possibile ancora di più, a stigmatizzare le dichiarazioni di quelle istituzioni locali, certamente oggi in difficoltà, che ne hanno salutato la scomparsa in maniera retorica e finanche patetica. Quella stessa classe politica capace, fino a qualche anno fa, di opporre agli aspetti più deteriori della napoletanità, una inedita ed importante ricerca, innovativa ed avanzata (e, forse, talvolta, persino eccessiva), che per esempio ha reso Napoli una capitale dell’arte contemporanea, sembra adesso subire il ritorno di quella egemonia culturale che la città sembrava essersi messa alle spalle: la solita rappresentazione fatta di luoghi comuni e stereotipi, della sceneggiata e della guapparia, che rappresentano, certamente, l’immagine meno significativa e più deteriore della tradizione. Eppure, vorrei dire a D’Avanzo che bisognerebbe cercare di mettere a tema come si possa sconfiggere questa subcultura reazionaria, evitando però la tentazione della critica elitaria, dell’isolamento, della separatezza tra classe dirigente ed intellettuale e popolo, che resta, a Napoli, il nodo più rilevante e complesso, almeno dal 1799 ad oggi. E’ mai possibile che Napoli debba essere ancora divisa tra un sanfedismo volgare, amico dell’oscurantismo e della reazione, e un giacobinismo progressista e portatore di idee, ma incapace di costruire una vera connessione sentimentale col popolo?
L’impressione è che questa frattura non sia ancora sanata, forse anche per come si è determinato, dall’unità d’Italia e poi per tutto il Novecento, lo sviluppo economico e sociale della città. La stessa presenza di un proletariato industriale propriamente detto, a Napoli, ma in realtà nell’intero Mezzogiorno, ha avuto un carattere di breve termine, e concentrato in alcune aree determinate, che non a caso facevano parlare di “cattedrali nel deserto” e non di “modello di sviluppo”. La borghesia poi, la stessa che in altre parti d’Europa ha contribuito a formare l’idea stessa dello Stato moderno, ha fatto tutto fuorché esercitare un ruolo dirigente e trainante, abbandonata com’era (e com’è) nella ricerca del piccolo privilegio, e, talvolta, nel ladrocinio. Sanare questa frattura dovrebbe essere il primo obiettivo. E dovrebbe esserlo ancor di più oggi, alla luce dei mutamenti in atto. Quel gigantesco passaggio di ciclo che abbiamo chiamato globalizzazione, ha reso il Mezzogiorno, e Napoli in esso, un laboratorio avanzato di una perversa modernità, un luogo di sperimentazione di politiche aggressive e destrutturanti, che hanno reso ancora più fertile il terreno per la semina delle camorre e della criminalità.
Torna urgente il tema della costruzione dei rapporti sociali di massa e la necessità di immaginare, di fronte a problemi strutturali, interventi che sfuggano alla tentazione di dare risposte episodiche, di provvedimenti tampone incapaci, peraltro, di fronteggiare l’emergenza. Le risposte presentate finora per il sud, dopo i cinque anni di abbandono delle politiche del precedente governo, sono una prima inversione di tendenza, ancora largamente insufficienti. Non appaiono ancora come una idea complessiva per rilanciare un modello di sviluppo per quei territori in cui i fatturati delle bande criminali rappresentano un terzo del prodotto interno lordo. Forse questa è la risposta alla domanda iniziale. La frattura si sana ricostruendo quel tessuto democratico lacerato da troppi anni di politiche incapaci di far diventare il sud una questione nazionale. Si sana cercando di prosciugare quel mare sporco in cui la camorra nuota e cresce.
Ma la frattura si sana anche sporcandosi le mani. Come provò a fare Elenora Fonseca, la più illuminata del gruppo dirigente giacobino, in quel, nemmeno troppo lontano, 1799. Eleonora non condivise, nei primi mesi della Repubblica partenopea, la presenza delle truppe francesi a Napoli, comprese che la democrazia non si esporta sulla punta delle baionette, cercò, in tutti i modi, di costruire quella stessa connessione col popolo di cui avrebbe parlato, oltre cento anni dopo, Antonio Gramsci. Comprese che anche le idee più progressiste e rivoluzionarie servono a poco se non sono accompagnate da un processo di partecipazione collettiva. Se sono imposte e non determinate dal basso. Certo, anche lei finì impiccata a piazza Mercato, la stessa che ha salutato Merola tra fuochi d’artificio e lacrime napoletane, da quello stesso popolo a cui aveva dedicato l’esistenza, ma certamente la sua lezione è ancora una tra le più interessanti chiavi di lettura per comprendere Napoli e l’intero Mezzogiorno. Allora, se tutto questo è vero, le critiche giuste di D’Avanzo andrebbero rivolte, oltre che alla plebe dei lazzari, dei vicoli e della violenza, anche e soprattutto a quella stessa borghesia incapace di svolgere il ruolo che avrebbe dovuto avere.
Visita di 4 giorni del capo dello Stato nel capoluogo campano. "Ho l’impressione che si stia trovando la via per alleggerire la situazione delle Fs"
Napolitano: "Mai perso la fiducia in Napoli. La crisi delle Fs? In via di soluzione"
NAPOLI - "La mia fiducia nel destino di Napoli non è mai venuta meno", annuncia il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano sul treno ad alta velocità che lo ha portato a Napoli. Il capo dello Stato, che sarà per 4 giorni nella sua città, chiede di "fare leva" sulle risorse di cui la città dispone e sulle esperienze significative di governo locale.
Certo, la fiducia "non è mai stata separata dalla consapevolezza dei punti critici che permangono". E allora "è essenziale sapere fare leva sulle risorse importanti che esistono e sulle esperienze significative che si sono fatte nel governo della città e della Regione per trarne la forza di volontà e l’impegno operativo indispensabili al fine di risolvere i nodi che ancora ostacolano la vita civile e la crescita economica e sociale nella città".
Un bagno di accolto il capo dello Stato e Napolitano ha salutato la folla che si era radunata ad attenderlo. I rappresentanti della sigla "Napoli è viva" gli hanno consegnato la maglia a lui dedicata con su scritto "Mi chiamo Giorgio e sono nato a Napoli". Il capo dello Stato, poi, si è avvicinato alle transenne disposte dal servizio d’ordine e non ha deluso le aspettative di chi gli gridava "Napoli è viva, Napoli è con te".
Napolitano, che era accompagnato dal presidente delle Fs Innocenzo Cipolletta, ha commentato la difficile crisi che stanno attraversando le Ferrovie: "Ho l’impressione che si stia obiettivamente trovando la via per alleggerire la situazione, altrimenti insostenibile".
E a proposito dei presunti dissapori nel recente passato con il presidente campano Antonio Bassolino (dopo la dichiarazione del capo dello Stato su "i giorni peggiori che Napoli ricordi"), Napolitano ha replicato secco ai giornalisti: "Lo avete inventato tutto voi".
Da registrare la protesta dei fotografi che hanno abbandonato Castel Capuano, prima tappa del viaggio presidenziale, lamentandosi di essere stati piazzati in un posto da dove era praticamente impossibile vedere e fotografare Napolitano.
T-shirt per l’arrivo di Napolitano: "La città è viva"
"Mi chiamo Giorgio e sono nato a Napoli", questa la scritta sulle maglie dei rappresentanti dell’associazione "Napoli è viva" che raccoglie sei associazioni di volontariato. Dopo la manifestazione di piazza Carità dove hanno distribuito delle t-shirt con su scritto "Napoli è viva ed io la difendo", i volontari di alcune associazioni napoletane si sono presentati alla stazione di Piazza Garibaldi per salutare il presidente Napolitano al suo arrivo e consegnargli la maglia a lui dedicata
Visita di 4 giorni del capo dello Stato nel capoluogo campano. "Ho l’impressione che si stia trovando la via per alleggerire la situazione delle Fs"
Napolitano: "Mai perso la fiducia in Napoli. Ho dato la scossa, il governo si è mosso"
NAPOLI - "La mia fiducia nel destino di Napoli non è mai venuta meno", annuncia il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano sul treno ad alta velocità che, stamattina, lo ha portato a Napoli. Il capo dello Stato, che sarà per 4 giorni nella sua città, fa riferimento all’emergenza criminalità e dice: "Ho dato una scossa e il governo ha preso impegni".
"Non sto facendo l’elogio del governo - continua il Capo dello Stato rivolgendosi ad una platea di studenti e di insegnanti delle scuole di Bagnoli - ma registro la promessa rappresentata dall’impegno del ministro degli Interni a venire qui ogni mese".
Il presidente, però, pur non nascondendo "i punti critici che permangono" se la prende con chi vuole dare un’immagine negativa a senso unico della città: "Giornali e tv ne parlano poco e spesso danno una rappresentazione ingiusta e tendenziosa. Questa cosa ci ferisce. Reagiamo".
Davvero tanta la gente che ha accolto il capo dello Stato nella sua città natale e Napolitano ha salutato la folla che si era radunata ad attenderlo. I rappresentanti della sigla "Napoli è viva" gli hanno consegnato la maglia a lui dedicata con su scritto "Mi chiamo Giorgio e sono nato a Napoli". Il capo dello Stato, poi, si è avvicinato alle transenne disposte dal servizio d’ordine e non ha deluso le aspettative di chi gli gridava "Napoli è viva, Napoli è con te".
Ferrovie. Napolitano, che era accompagnato dal presidente delle Fs Innocenzo Cipolletta, ha poi commentato la difficile crisi che stanno attraversando le Ferrovie: "Ho l’impressione che si stia obiettivamente trovando la via per alleggerire la situazione, altrimenti insostenibile".
Dissaporti con Bassolino. E a proposito dei presunti dissapori nel recente passato con il presidente campano Antonio Bassolino (dopo la dichiarazione del capo dello Stato su "i giorni peggiori che Napoli ricordi"), Napolitano ha replicato secco ai giornalisti: "Lo avete inventato tutto voi".
La protesta dei fotografi. Da registrare la protesta dei fotografi che hanno abbandonato Castel Capuano, prima tappa del viaggio presidenziale, lamentandosi di essere stati piazzati in un posto da dove era praticamente impossibile vedere e fotografare Napolitano.
NAPOLITANO: POLITICA OPERI PER EVITARE CHE RAGAZZI SI PERDANO
"La politica deve fare la sua parte per evitare che voi ragazzi siate costretti ad andare via o a perdersi". Il monito viene dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che dialoga via internet, inaugurando il primo centro multimediale in una parrocchia di Napoli, con i ragazzi riuniti nella postazione del rione Salicelle ad Afragola. Napolitano, collegato con loro dalla parrocchia del popolare quartiere Sanita’ risponde alla domanda di Gaetano che gli ha raccontato come insieme ad altri li’ al rione Salicelle abbia deciso di rimanere "e di costruire qualcosa. E’ della politica il compito di darci una mano?", lo interroga. "Non dobbiamo mai perdere la speranza di recuperare anche chi ha preso una strada malsana e pericolosa", aggiunge Napolitano, facendo riferimento poi alle "bande spietate che imperversano sul nostro territorio". "Guai se si assumessero modelli e modi di comportamento della criminalita’ organizzata", sottolinea. "La politica ha le sue responsabilita’ - ribadisce - ma questi sono segni effettivi di impegno della politica", dice alludendo al progetto inaugurato. "Altri devono venire dalle istituzioni locali, regione, comune e provincia, e dalle realta’ associative dei cittadini che devono dare risposte". "Senza nulla togliere alle responsabilita’ della politica, il futuro e’ nelle vostre mani - conclude il Capo dello Stato rivolgendosi ai giovani - nelle vostre e nelle nostre mani. Non siamo due cose diverse; siamo insieme, giovani, Stato e Chiesa, nella stessa battaglia. E sono sicuro che questa battaglia anche in quartieri cosi’ difficili la vinceremo".
Napoli, 19:01. la Repubblica, 27.11.2006
NAPOLITANO: «Lascio Napoli con più speranza»
Il presidente della Repubblica conclude la sua visita nel capoluogo campano: «Fiducia ma anche impegno mio e delle istituzioni» per il futuro *
NAPOLI. Dopo quattro giorni in visita ufficiale nel capoluogo partenopeo il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano è sempre più convinto che la città ce la farà a superare la crisi che sta attraversando da molteplici punti di vista. Parlando con i giornalisti all’uscita dall’auditorium del complesso universitario di Monte Sant’Angelo dove ha assistito all’inaugurazione dell’anno accademico, Napolitano ha spiegato di poter «trarre motivi rafforzati di speranza e di fiducia e naturalmente anche di impegno, impegno per quel che riguarda me e per quel che riguarda il complesso delle istituzioni» sulla rinascita di Napoli.
«Desidero ringraziare tutti i napoletani che mi hanno accolto così affettuosamente in questi giorni - ha spiegato Napolitano -. Da questa accoglienza e dalle esperienze con le quali ho potuto entrare in contatto nelle molteplici iniziative a cui ho partecipato traggo motivi rafforzati di speranza e di fiducia e naturalmente anche di impegno». Se, dunque, molti sono gli aspetti critici di Napoli, il capo dello Stato dopo quattro giorni intensi di visita ufficiale e decine di incontri rilancia la sua fiducia, che è una fiducia ragionata e non un generico ottimismo, sul futuro della città. Ma, al tempo stesso, richiama anche l’urgenza di un impegno suo personale e di tutte le istituzioni.
TENSIONE ALL’UNIVERSITA’: SCONTRI STUDENTI-POLIZIA
Qualche tensione all’università di Montesantangelo, a Napoli, dove stamattina si sono recati il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano e il ministro per la Ricerca Scientifica, Fabio Mussi, per partecipare all’inaugurazione dell’anno accademico.
Una settantina di studenti, aderenti al «collettivo di interfacoltà», ai quali si è unito successivamente un gruppetto di «Disobbedienti», hanno cercato di penetrare nell’aula dove si stava tenendo la cerimonia ma sono stati respinti dalla polizia. Gli agenti, senza manganelli e senza casco, hanno respinto l’assalto ma, in quattro sono finiti in ospedale con contusioni leggere.
* La Stampa, 28.11.2006
NAPOLITANO: ’LASCIO NAPOLI CON PIU’ SPERANZA E FIDUCIA’ *
NAPOLI - Giorgio Napolitano ha concluso la visita a Napoli alla Università Federico II assistendo alla cerimonia di inaugurazione dell’ Anno Accademico. Congedandosi ha fatto con i giornalisti un bilancio di questi quattro giorni dicendo che riparte con "motivi rafforzarti di speranza e di fiducia" nelle possibilità della città. Ha anche confermato l’ impegno suo e di tutte le istituzioni per risolvere i gravi problemi del capoluogo partenopeo. "Ringrazio tutti i napoletani - ha detto il presidente della Repubblica - che mi hanno accolto così affettuosamente in questi giorni. Da questa esperienza e dalle iniziative con le quali sono entrato in contatto traggo motivi rafforzati di speranza e di fiducia e naturalmente anche di impegno per quanto riguarda me stesso ed anche il complesso delle istituzioni".
Anche la signora Clio ha manifestato entusiasmo dichiarandosi "emozionata" da queste giornate e non ha escluso di trascorrere il prossimo Capodanno a Napoli. Il bilancio del soggiorno partenopeo per la moglie del presidente della Repubblica Clio Napolitano è così positivo da lasciare aperta la possibilità di un Capodanno a Napoli. La coppia presidenziale lascia la Facoltà di Economia e commercio di Napoli e Clio commenta: "Questi quattro giorni sono stati molto emozionanti". A chi domanda a come ha trovato la Napoli bistrattata dai media, la signora risponde: "Quella che ho visto io ha soltanto molti aspetti positivi. Capisco però che per chi ci vive ci siano anche altri elementi". In conclusione, quindi, il Capodanno 2007 vedrà la coppia presidenziale di nuovo a Napoli? "Forse", risponde con un sorriso.
IERVOLINO, C’E’ CITTA’ CHE RISORGE CON FORZA
Adesso tocca a loro, alle amministrazioni locali, "realizzare di corsa" quanto reso possibile dall’esecutivo centrale e dalla presenza del Capo dello Stato a Napoli. Il sindaco Rosa Russo Iervolino è più che soddisfatta dei quattro giorni che Giorgio Napolitano ha trascorso nel capoluogo partenopeo. "Adesso dobbiamo andare di corsa, per cercare di realizzare le possibilità che ci sono state date", risponde a margine dell’inaugurazione dell’anno accademico 2006-2007 dell’ateneo Federico II. E mette tutto assieme: le parole di Riccardo Muti e il pallone d’oro a Fabio Cannavaro, le risorse per le scuole aperte e l’arresto del boss Mazzarella. I fondi ottenuti dal ministro Fioroni: "quando mai abbiamo avuto un po’ di risorse per aprire le scuole nel pomeriggio?" Il pallone d’oro che ha premiato Fabio Cannavaro, che potrebbe portarlo il 23 dicembre ai bambini di Forcella: dimostrazione che "un ragazzo di Napoli ce la può fare, e una volta che ce la fa, torna nella sua città". L’arresto del boss Mazzarella: "e nei prossimi giorni qualche altra cosa dalle forze dell’ordine". Il tutto nella cornice fornita dalla panoramica sulla Napoli positiva e competitiva che ha ricevuto in questi giorni Giorgio Napolitano. "C’é una Napoli che risorge con forza: se la gente é in buona fede dovrà registrarlo - ha detto lasciando la Facoltà di Economia della Federico II, dove oggi il capo dello Stato ha inaugurato l’anno accademico - mi riferisco a quelli che costruiscono certe trasmissioni televisive".
"Quattro giorni di esperienze positive", sintetizza. E poi elenca: il Cnr, e i ricercatori, il tavolo della legalità.Il Presidente ha visto già consolidate e quelle che stanno per consolidarsi, tutte realtà di speranza. E poi: l’omaggio che Riccardo Muti ha reso, ieri al teatro San Carlo, alla sua città: "Muti che ha ricordato di essere nato a Napoli, in via Cavallerizza a Chiaia al civico 14, e di incavolarsi quando si parla male della sua citta". Oggi, aggiunge il sindaco, ci sarà una riunione con il sovrintendente del teatro "per vedere se le scarse finanze del San Carlo ci permettono di averlo ancora una volta".
* ANSA » 2006-11-28 11:53
Salve! Sto cercando notizie o materiale di supporto riguardo ai nuovi clan camorristici (o moderni clan), relativamente ai rituali di affiliazione! Un grazie in anticipo a chi mi saprà dare qualche notizie o qualche riga per integrare la mia tesi!
James
La camorra dai Borbone a oggi
Il libro dello storico Francesco Barbagallo *
Dedicato al suo allievo Roberto Saviano (il quale «voleva combattere la camorra, e l’ha fatto») il compatto volume in cui Francesco Barbagallo, professore di storia contemporanea presso l’Università Federico II di Napoli, ha trasfuso la sintesi di decenni di studi dedicati alla criminalità organizzata campana (Storia della camorra, Laterza, pp. 312, € 18) non può - per struttura e per contenuti - essere confuso con uno dei tanti contributi sociologici o giornalistici, più o meno approssimativi, pubblicati sull’argomento. Si tratta, invece, di un’opera completa, condotta secondo i metodi della ricerca storica, che attraverso un linguaggio scorrevole (e grazie anche ad un ampio apparato bibliografico e cartografico) delinea anzitutto la storia del fenomeno camorristico, e poi ne descrive la realtà odierna, fino agli eventi degli ultimi mesi.
Scorrono così sotto gli occhi del lettore - alla luce dei rivolgimenti che, nell’ 800, condussero alla caduta del regno borbonico ed all’unità nazionale - circa due secoli di storia di Napoli e delle regioni circostanti, osservati dal particolare punto di vista dello sviluppo di una struttura criminale, alimentata all’origine dalle masse popolari delle città e delle campagne: al punto da formare una sorta di «aristocrazia della plebe», dedita all’estorsione nelle sue diverse forme ed al controllo dei mercati e dei traffici illeciti. Dall’arrivo dei «piemontesi» alle prime inchieste contro la corruzione politico-amministrativa nell’area napoletana, dall’offensiva dei «reali carabinieri» all’inizio del ’900 alle alterne vicende durante il fascismo, fino all’avvento della Repubblica, la storia della camorra si è costantemente orientata nel senso di sfruttare l’assenza o le connivenze degli apparati statali, allo scopo di realizzare il controllo delle più lucrose attività produttive e lo sfruttamento dei deboli, non tutelati dalle pubbliche autorità.
Negli ultimi cinquant’anni, poi, la camorra comincia ad evolversi anche verso modelli più consoni alle moderne espressioni della criminalità organizzata, pur mantenendo quella struttura organizzativa di tipo orizzontale, sulla base di clan familiari, che la distingue, per esempio, dalla forte struttura verticistica tipica di «Cosa nostra». Senza rinunciare alla tradizionale vocazione verso le pratiche estorsive, le famiglie camorristiche si «rinnovano», entrando nel grande giro affaristico - a livello globale - del contrabbando e del traffico di stupefacenti, ma avendo sempre cura di mantenere buoni rapporti con certi esponenti del potere politico locale e nazionale, in modo da riuscire a godere, all’occorrenza, di coperture e di favori.
Il resto è storia recente, sulla quale l’autore si sofferma con lucidità di analisi, sforzandosi di collegare il presente al passato. Emergono così, sullo sfondo delle faide ricorrenti tra famiglie rivali - a partire dal malaffare e dalle ruberie conseguenti alla ricostruzione dopo il terremoto del 1980 - episodi ed immagini ben noti alle cronache, con i quali si intrecciano gli sforzi operati dagli organi della magistratura e della polizia (grazie anche ai contributi di alcuni «pentiti») per contrastare l’espandersi della piaga camorristica verso settori all’apparenza leciti: dalle imprese edili alle attività commerciali al traffico dei rifiuti. Le ultime pagine sono dedicate alla conclusione, dopo 17 anni, del grande «processo Spartacus», con le gravi condanne ormai definitive inflitte a numerosi esponenti del «clan del casalesi». Di qui anche una prospettiva di speranza per il futuro, pur nella consapevolezza che la repressione penale da sola non può bastare per sconfiggere la camorra, e soprattutto la mentalità che la sostiene.
Vittorio Grevi
* Corriere della sera, 03 dicembre 2010