Al bivio
di Antonio Gnoli («La Repubblica», 15-01-2011)
Essere a un bivio. Quante volte nella vita ci è accaduto di chiederci che fare. Si tratta di scegliere: dove andare, che decisione accollarsi. Il bivio riveste il carattere dell’ eccezione. Una scelta può cambiarci la vita. Ma non è solo riconducibile a un gesto individuale: gli operai di Mirafiori, il Pd, l’ Europa, il Pianeta, diciamo a volte, sono a un bivio. Il mondo dell’ antichità mise un personaggio della mitologia, Ercole, davanti a un bivio: dovette scegliere tra la virtù e il vizio.
Quel tema passò dalla narrazione del sofista Prodico a una densa e ricca testimonianza pittorica, come dimostra Erwin Panofsky nello straordinario Ercole al bivio (curato ottimamente da Monica Ferrandi, ed. Quodlibet). Nel passaggio dal mondo antico al nostro, il bivio cambia in parte la sua natura. Diciamo si complica.
Ercole sapeva scegliere (e fare) la cosa giusta. Per noi la scelta implica il rischio di sbagliare. Richiede non solo calcolo e azzardo ma anche un diverso modo di intendere la libertà come spiega Sheena Iyengar in The Art of Choosing (ed. Hachette Book). Il Novecento si è spesso interrogato sulla decisione. Attraversoi suoi personaggi, Kafka mostra l’ impossibilità di decidere. Carl Schmitt ne fa la leva della sua concezione politica.
E noi? L’ Italia, maestra dell’ arabesco, ha quasi sempre preferito l’arte del rimando, come dire: è sempre meglio che la decisione la prenda qualcun’altro. _____________________________________________________________
L’arte concettuale è nata nel ’500
di Anna Li Vigni («Il Sole 24 Ore. Domenica», 31-01-2011)
Riuscire a interpretare correttamente l’opera d’arte non è un problema solo dei fruitori della conceptual art. Tante opere del Rinascimento sfidano da sempre le capacità ermeneutiche dei fruitori, chiudendo il loro significato in aristocratiche allegorie mitologiche. «Una riuscita esegesi del contenuto va a beneficio non solo della comprensione storica dell’opera, ma anche della sua esperienza estetica».
Così scrive Erwin Panofsky ad Amburgo, nel 1929, a pochi anni dal l’espatrio negli Usa per via delle leggi razziali, nell’appassionata prefazione al suo Ercole al bivio, ponderoso volume dedicato al rapporto tra immagine e testo nel rinascimento europeo, ultima opera dell’autore di Idea e di La prospettiva come forma simbolica, finalmente tradotta in italiano e commentata da Monica Ferrando.
Il padre dell’iconologia, parlando di "esperienza estetica", pone le basi del discorso estetico contemporaneo. È preso a esempio l’emblematico caso della fabula di Ercole che, come racconta Prodico citato da Senofonte, trovandosi di fronte a due donne che lo invitavano a scegliere tra una vita virtuosa irta di difficoltà e un’altra più facile dedita al piacere, optò eroicamente per quella aspra e virtuosa.
L’episodio mitico ha ispirato tele di autori tedeschi e italiani, tra cui Raffaello e Tiziano, perché in esso è contenuta una questione filosofica fondamentale per la pittura quanto per la filosofia. Quella della scelta morale.
Nel corso della storia, la forma artistica è stata essenzialmente veicolo di contenuti: religiosi, storici, mitologici. I pittori del rinascimento alla mitologia greco-romana, interpretata allegoricamente, affidavano lo stesso ruolo filosofico a essa affidato dalla letteratura.
L’exemplum di Ercole, esposto sulla tela, serviva da memorandum e da esercizio filosofico sulla difficoltà della scelta morale nella vita dell’uomo, soprattutto se, come accade nelle incisioni di Dürer, a essere rappresentato è un drammatico «conflitto di forze viventi, una vera e propria psicomachia». L’arte di oggi è stata per lo più sganciata dal ruolo di veicolo di contenuti. Si auspica che, com’è per l’arte "testimoniale", senza moralismi, essa non si sganci mai dal discorso morale.
SCHEDA EDITORIALE *
Erwin Panofsky
Ercole al bivio
e altri materiali iconografici dell’Antichità tornati in vita nell’età moderna
A cura di Monica Ferrando
Con 119 illustrazioni fuori testo
L’Ercole al bivio, libro «leggendario» di Erwin Panofsky, l’ultimo composto in lingua tedesca, nel 1930, prima dell’esilio americano, detiene entro l’opera complessiva del suo autore una posizione di soglia.
Non solo, infatti, Panofsky, con uno straordinario tour de force esegetico, scopre in un’enigmatica tela di Tiziano il simbolo tardo antico del tempo, ma ricollega questo simbolo all’immagine di Ercole al bivio fra vizio e virtù e, insieme, fra due stili di vita e due epoche storiche. Se, da una parte, la divaricazione tra sfera estetica e sfera morale - che il mondo classico aveva contemplato e la teologia medievale alimentato a fini apologetici - ambisce, con l’umanesimo, a ricomporsi felicemente nell’arte, dall’altra vediamo delinearsi un’altra divaricazione, non meno paradossale, quella tra medioevo germanico e modernità italiana.
Frutto maturo delle prime analisi teoriche dell’opera d’arte, l’Ercole è figura dello stesso Panofsky, al bivio tra le forme simboliche di Cassirer e l’empirismo «metafisico» di Edgar Wind. Da questa singolare posizione, esso da un lato rinuncia a ogni teoria esplicita per farsi pura immagine, dall’altro si guarda bene dal recidere il legame che unisce immagine e parola. Forma mediale per eccellenza, sulla scorta di Warburg qui è l’immagine artistica come tale a presentarsi, a colui che sa interrogarla, quale incessante nucleo generativo delle categorie atte a conoscerla.
Sono queste complesse e irriducibili polarità che il libro documenta con una sorta di profetica partecipazione. Rese antitetiche, e quindi risolte e smembrate, dalla fattualità storica, esse si conservano integre e feconde nella grande arte, sola in grado, secondo Panofsky, di costituire quel tertium fra passato e futuro, etica ed estetica, metafisica e storia, in cui si tempera la barbarie di ogni secca alternativa.
In copertina: Gerolamo di Giovanni di Benvenuto (Siena 1470-1524), desco da nozze con Ercole al bivio (1500 ca.), tempera su tavola, diam. cm. 57, cat. d. 87, Galleria Giorgio Franchetti alla Ca’ d’Oro, Venezia.
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FONTE: QUODLIBET
Sul tema, nel sito e in rete, si cfr.:
IL PROBLEMA GIAMBATTISTA VICO. CROCE IN INGHILTERRA E SHAFTESBURY IN ITALIA. La punta di un iceberg.
VICO CON NEWTON: "NON INVENTO IPOTESI"! E CON SHAFTESBURY, CON LA "TAVOLA DELLE COSE CIVILI"!
VICO, PENSATORE EUROPEO. Teoria e pratica della "Scienza Nuova". Note per una rilettura
Federico La Sala
Dai suoi santuari, punti di sosta, si è ricostruito il tracciato della via di Ercole
IL DIO DEGLI ITALIANI di Franco Capone (ha collaborato Giacinto Mezzarobba)
2.500 anni fa l’eroe, figlio di un dio e venuto in terra a sacrificarsi per gli altri, era definito il Salvatore. E sulla via Heracleia, a lui dedicata, nessuno poteva subire minacce o ingiustizie. (Fonte: "Focus")
Narciso, Pigmalione e Prometeo tra le maglie del tecnocapitalismo
Saggi. «La grande alienazione» di Lelio Demichelis, pubblicato da Jaca Book
di Benedetto Vecchi (il manifesto, 04.12.2018)
Tre figure simbolo dell’animale sociale umano. Narciso, Pigmalione, Prometeo sono i nomi di uno spericolato, ma attentamente sorvegliato, slalom che viene rappresentato nel nuovo libro di Lelio Demichelis La grande alienazione (Jaca Book, pp. 281, euro 25).
SONO DECENNI che l’autore si misura con la grande trasformazione della «rivoluzione del silicio», muovendo da una robusta tradizione sociologica (Max Weber) e da una variegata costellazione filosofica (Martin Heidegger, la scuola di Francoforte, la tecnoscienza di Jacques Ellul). Per Demichelis, la tecnica è il «mezzo» per piegare la natura ai bisogni umani, ma nel corso del tempo ha acquisito un potere che sovradetermina le relazioni sociali. È diventata la leva per cambiare rapporti - anche di potere - nelle formazioni sociali.
Nel lungo, travagliato tramonto dell’Occidente, si è consumato anche questo ribaltamento di ruolo per le scienza e la tecnologia: da dispositivo teorico per comprendere la realtà a manifestazione di un potere performativo di quella stessa realtà. Un cambiamento non da poco. Se fosse solo così.
ALLORA, NARCISO, Pigmalione e Prometeo. Edonismo di massa, dissoluzione corrosiva del legame sociale in nome di un sé sempre eccedente rispetto lo stare in società. Ma anche contraddittoria attitudine pedagogica scandita da una evidente propensione manipolativa (non c’è nessun maestro ignorante all’orizzonte, ma solo accorti e sofisticati manipolatori). Pigmalione, infatti, mette in forma, secondo codici socialmente dominanti, soggettività che alla fine devono essere «allineate e coperte» allo status quo. Infine, Prometeo, cioè la spinta compulsiva a piegare la natura alle necessità terrene, sfidando gli dei, i depositari delle verità ultime e prime sulla vita, la società, gli umani.
LELIO DEMICHELIS è consapevole che deve vedersela con altre tradizioni teoriche e politiche. Il marxismo, ovviamente, e la sua critica all’economia politica, ma anche con quanto la network culture ha depositato in questi densi quarant’anni, dove il nesso tra assoggettamento volontario e potere costituito parla spesso il lessico di una libertà radicale dell’espressione, come testimonia la quotidiana esperienza comunicativa con i social network: le informazioni, il chiacchiericcio, i post, i like, le immagini condivise sono materie prime da elaborare e impacchettare per essere vendute e fare profitti (i Big data), facendo leva su un deposito specialistico dell’intelligenza artificiale.
L’AUTORE PRENDE posizione. Sa che la forma dominante della produzione della ricchezza - la fabbrica taylorista, che funziona weberianamente anche come gabbia di acciaio - ha lasciato il posto a un pulviscolo di nodi produttivi (la fabbrica sciame) costringendo management, sistemi istituzionali e lavoro vivo a una radicale ridefinizione delle proprie soggettività politiche. Demichelis, a ragione, è propenso a sostenere che lo hanno fatto meglio imprese e governi più che il lavoro vivo, dati i rapporti di potere esistenti e vigenti.
Che tutto si racchiuda dentro una Grande alienazione non c’è dunque da stupirsi. All’orizzonte, però, si profilano un bel po’ di problemi. Cosa intende Demichelis per alienazione? Sicuramente la separazione tra umani e mezzi di produzione evidenziata da Karl Marx che riduceva gli umani a cose. Ma in questo libro alienazione è molto altro. Ha infatti a che fare con la psicoanalisi, con l’incubo ossessivo del riconoscimento di sé, con il diffuso e nichilista disagio psichico.
LA CRITICA del tecnocapitalismo, sostiene Demichelis, passa attraverso l’articolazione e l’arricchimento di questo concetto, che mette a nudo il fatto che la colonizzazione della vita privata e pubblica è ormai un fenomeno irreversibile, facendo cadere miseramente nella polvere l’alto corno della coppia assoggettamento e libertà. Libertà non è all’orizzonte, se non come aspirazione finale, come esito di fenomeni di lunga durata che prevedono un gradualismo e un riformismo della soluzioni proposte per calmierare gli effetti violenti del tecnocapitalismo. In altri termini, la forma dominante di produzione della ricchezza non prevede più la presenza di un soggetto della liberazione, bensì una moltitudine - una specie di marmellata - di singolarità che come monadi passano dall’edonismo di massa alla ricerca di un pigmalione fino a diventare soldatini nella mobilitazione prometeica per innovare la produzione della ricchezza. La sensazione è quella di voler svuotare l’oceano con secchiello.
QUESTA LA PROVOCAZIONE dell’autore che nel corso della sua lunga traiettoria teorica ha accumulato studi e ricerche tese a dare consistenza alla costruzione di una teoria critica del presente, come testimoniano i recenti Sociologia della tecnica e del capitalismo (Franco Angeli), la Religione tecno-capitalista (Mimesis), Bio-tecnica (Liguori). Di questo puzzle in costruzione la grande alienazione costituisce punto di passaggio, di snodo. Insomma, il viaggio dell’autore continua.