La Lega tenta di usare il Papa per legittimare il suo attacco
di Massimo Franco (Corriere della Sera, 8 dicembre 2009)
La novità nell’attacco al cardinale Dionigi Tettamanzi, è che stavolta la Lega giustifica le accuse all’arcivescovo di Milano tentando di farsi scudo con il Papa. Per anni, il partito di Umberto Bossi aveva contrapposto la «Chiesa di Roma» a quella padana; e sottolineato la sfasatura fra «il centralismo vaticano» ed un popolo cattolico in sintonia con il Carroccio. Adesso, la polemica è contro il maggior esponente della gerarchia ecclesiastica lombarda. E il ministro leghista Roberto Calderoli si difende dalle reazioni suscitate dalle sue parole insultanti, evocando Benedetto XVI. «Solo il Papa non sbaglia », dice. «Per fortuna nella Chiesa non esiste un pensiero unico».
La rozzezza dell’offensiva è vistosa, quando il quotidiano del partito, La Padania, definisce il presule un «laico sempre più lontano dai fedeli». Il messaggio, però, aspira ad essere più sottile. La Lega non si limita ad appellarsi ai sentimenti della base cattolica: lascia capire che sarebbero simili alle idee del pontefice. Il tentativo è quello, un po’ azzardato, di mostrare «fuori linea» Tettamanzi.
La negazione del «pensiero unico» serve ad evocare una filiera interna alle gerarchie vaticane, in disaccordo con l’arcivescovo di Milano. In più, il partito di Umberto Bossi sceglie un bersaglio che imbarazza il Pdl, suo alleato e insieme concorrente alle prossime Regionali, in programma nella primavera del 2010.
E infatti il governatore della Lombardia, Roberto Formigoni, si smarca dalle critiche a Tettamanzi. Afferma di non condividerle, sebbene aggiunga che quelle del centrosinistra ai «cattolici del Pdl» gli appaiono strumentali. Che non si tratti di un’uscita estemporanea ma di un nuovo capitolo della «strategia cattolica» del Carroccio è evidente.
Per il modo in cui avviene, fa sospettare che sia una delle conseguenze non volute degli incontri del settembre scorso fra i vertici leghisti ed il presidente della Cei, Angelo Bagnasco, e il segretario di Stato, Tarcisio Bertone. La Padania sta martellando da settimane sull’identità cristiana del partito. Difende i temi cari alla Santa Sede a livello parlamentare, come il testamento biologico. Si schiera con la Svizzera che ha votato contro i minareti, ricevendo una replica dura da parte di Osservatore Romano e Avvenire, quotidiano della Cei, attenti a non avallare una battaglia che sconfina nella xenofobìa.
L’attacco a Tettamanzi ufficializza l’offensiva contro un «clericale di sinistra», nelle parole del viceministro Roberto Castelli: un punto di resistenza culturale all’agenda di Bossi. Vuole dimostrare che l’elettorato è con la Lega, e non con un vescovo paragonato senza mezzi termini ad un «imam islamico». Rivendica il diritto a criticare una Chiesa accusata di «parlare di politica », esulando dai propri compiti tradizionali.
Il coro a difesa di Tettamanzi è possente fino all’eccesso: dal presidente della Camera, Gianfranco Fini, a quello dell’Antimafia, Giuseppe Pisanu, e del Pd, Rosy Bindi, a Pier Ferdinando Casini dell’Udc, ad esponenti del Pdl. Ci sono anche Idv e Pdci. Ma questo non cambierà l’atteggiamento di Bossi. Insistendo sulla «difesa dell’identità», la Lega parla all’elettorato, senza preoccuparsi delle reazioni.
In fondo, dal 1994 a oggi il Carroccio si è affermato non grazie ma nonostante l’atteggiamento dei vescovi e del Vaticano. Ha preso voti in proprio. E ultimamente ha cercato di accreditarsi sfruttando le incomprensioni con la Cei seguite alla svolta laica di Fini; e le difficoltà fra Silvio Berlusconi ed i vescovi dopo l’aggressione della stampa berlusconiana al direttore di Avvenire, Dino Boffo.
La marcia di avvicinamento è avvenuta in modo strumentale, senza rinunciare alle sue battaglie simboliche: a cominciare dall’ostilità verso immigrati ed islamismo. Si tratta di due temi sui quali la convergenza con il mondo cattolico si rivelerà molto difficile.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
«Solo gli ingiusti non vogliono essere giudicati»
di Roberto Monteforte (l’Unità, 18 aprile 2011)
«Perché ci sono ingiusti che non vogliono farsi giudicare?». È la domanda risuonata ieri, Domenica delle Palme, all’interno del Duomo di Milano. È l’arcivescovo della città, il cardinale Dionigi Tettamanzi che non si fa scrupolo di chiamare le cose con il loro nome. Chiede il coraggio della verità nei giorni che precedono e preparano alla Pasqua. Che le cose siano chiamate con il loro vero nome. Che non si sfuggano le responsabilità. Che non si cerchi «in modo subdolo, superbo e violento» di manipolare la verità.
Non fa nomi e neanche allusioni indirette, ma non serve. Le sue parole sono parse un richiamo a chi, come il premier Silvio Berlusconi, si ritiene al di sopra di ogni legge e di ogni codice morale e fa di tutto proprio per sfuggire al giudizio dei magistrati. Il porporato, che a breve lascerà la guida della diocesi più grande d’Europa, con mitezza ma determinazione mette a nudo egoismi e ipocrisia.
Partendo dal Vangelo di Giovanni che presenta Gesù come re «umile e mite, e insieme come il re che dona tutto se stesso per amore e che, proprio così, annuncia la pace» invita tutti a chiedersi come quel messaggio vada situato «nella nostra situazione storica». Indica tre drammatiche emergenze: giustizia, guerra e immigrazione.
Ma le sue parole hanno di certo incontrato la sensibilità dei tanti milanesi che turbati dalla perdurante guerra aperta del premier ai magistrati, non hanno scordato i giudici che proprio a Milano hanno pagato con la vita la loro coerenza e integrità morale al servizio della giustizia.
Sono domande semplici e dirette quelle poste da Tettamanzi. «Perché ci sono uomini che fanno la guerra, ma non vogliono si definiscano come “guerra” le loro decisioni, le scelte e le azioni violente? Perché molti agiscono con ingiustizia, ma non vogliono che la giustizia giudichi le loro azioni? E ancora: perché tanti vivono arricchendosi sulle spalle dei paesi poveri, ma poi si rifiutano di accogliere coloro che fuggono dalla miseria e vengono da noi chiedendo di condividere un benessere costruito proprio sulla loro povertà?».
È con questa realtà, che rende «paradossali» i giorni che viviamo, che invita a fare i conti. Sollecita un coraggioso esame di coscienza su cosa «nel vissuto quotidiano» ispira «i nostri pensieri, i sentimenti, i gesti»: una domanda «di dominio superbo, subdolo, violento», oppure è «l’attenzione, disponibilità e servizio agli altri e al loro bene? ». Occorre avere coraggio per ammetterlo e cambiare. «La vera potenza sta nell’umiltà, nel dono di sè, nello spirito di servizio» osserva.
Chissà se il premier Berlusconi, impegnatissimo a riproporre i valori cristiani nelle scuole pubbliche, è pronto ad ascoltare le parole del suo vescovo. O il «crociato» Bossi.
Piazza Fontana quarant’anni dopo
di Eros Monti,
vicario episcopale per la Vita Sociale della Diocesi di Milano
(www.chiesadimilano.it, 11 dicembre 2009)
In Piazza Fontana si condensa la memoria di un passato che di continuo richiede di essere riletto, compreso, interpretato. In una parola, riascoltato. Interrompendo magari le frenetiche giornate milanesi con una visita e uno spazio di silenzio - quello che il traffico incessante concede - soffermandosi davanti a lapide e corone, scorrendo la lista in doppia fila di nomi incisi nel marmo, ripercorrendo tratti incancellabili di questi quattro decenni di vita milanese.
In effetti, Piazza Fontana rimane sede di una memoria difficile da cancellare, come tutte le pagine dolenti del passato di una intera città. Ha rappresentato una lacerazione, una ferita profonda per tutti. Tempo fa, ho avuto l’occasione di ascoltare il racconto di quelle ore terribili dalla viva voce di un testimone, una persona giunta sul posto poco dopo la drammatica esplosione. Mi ha ricondotto ad uno scenario dominato da sangue, urla, pianti che si sovrapponevano alle sirene dei mezzi di soccorso. E poi, diradatosi il fumo, quella grande buca, quel cratere lasciato dalla bomba.
Una ferita aperta, un vuoto profondo creato dalla logica della violenza e del terrore, che ha ingoiato vite umane, ha colpito intere famiglie, ha percosso l’intera città, ha scavato un solco nel suo tessuto sociale. Quel solco tante volte approfondito dalla cosiddetta “strategia della tensione” che proprio da Piazza Fontana ha tratto le sue origini, inaugurando i cosiddetti “anni di piombo”, che più volte, troppe volte, hanno insanguinato le strade e le piazze di questa nostra città.
Milano, però, non è rimasta inerte. Ha raccolto la sfida, si è ripresa, ha saputo reagire alla logica del terrorismo, della violenza sfrenata di pochi che pretendeva di imporsi a tutti nell’arco di tempo del bagliore di un’esplosione o di una scarica di proiettili. Milano ha risposto, ha reagito; ha saputo riprendersi. Nel tempo, nei fatti. Con la solida determinazione di una cittadinanza che in tutte le sue componenti non si è mai inginocchiata né arresa, riproponendo di continuo il suo volto di laboriosità, di coesione sociale, per quanto ferita e minacciata. Manifestando anche apertamente il proprio comune sentire: indimenticabile rimane la partecipazione alle esequie di Walter Tobagi. La città ha risposto con la compostezza di un tessuto sociale che in molti modi, per lo più non appariscenti, a partire dalla quotidianità del suo vissuto, delle sue relazioni, del suo mondo associativo, dell’agire responsabile di molti, ha ripetuto e confermato il suo “no” alla logica distruttiva del terrorismo.
A quarant’anni di distanza, la sfida dev’essere di nuovo raccolta. E’ questa la ragione per cui facciamo memoria di una delle stragi più drammatiche - e tuttora impunite della storia del nostro Paese. Non soltanto per volgere lo sguardo al passato, ma per guardare con occhi rinnovati attorno a noi, per scorgere nel nostro tempo quei segni che annunciano risposte vere alle “strategie della tensione” di ieri e di oggi. Quei segni che dicono di legami, personali e sociali, solidi perché capaci di esprimere solidarietà, apertura, accoglienza. Verso tutti. Quei segni che indicano vera volontà di dialogo, di gratuità, disinteresse. Nonostante la creazione di sempre nuove barricate prosegua di gran carriera e individualismo e ricerca del proprio tornaconto personale non cessino di stringere tra loro alleanze inedite. Quei segni, soprattutto, che ci parlano di futuro, ci aiutano a spingere lo sguardo oltre. Oltre l’immediato, l’effimero, il provvisorio. Che ci indirizzano nella direzione di una rinnovata progettualità. Come ci ha recentemente richiamato l’Arcivescovo, in occasione dell’ultimo Discorso alla Città, “si esige un cambiamento radicale, lungimirante e teso al bene comune globale. Si esige una progettazione di ampio respiro, capace di andare oltre le risposte immediate ed effimere, capace di dare un volto nuovo alla nostra Città. Una progettazione che riguardi tutti i grandi capitoli della vita sociale”.
Perché se la carica distruttrice del terrorismo di quarant’anni fa può dirsi sconfitta, occorre vigilare su altre forme, certo più sottili, ma non meno pervicaci, di violenza. Da quella verbale, intimidatoria, al dilagare dell’indifferenza che opprime ed esclude, del giudizio privo di qualsiasi senso della misura, dell’utilizzo strumentale del pensiero e dell’agire altrui per far sì che si prendano distanze nette gli uni dagli altri, non si tenda invece alla reciproca comprensione, alla collaborazione, all’edificazione di una città a misura di uomo - di ogni persona umana - e della sua dignità irrinunciabile.
Occorre allora guardare avanti; in profondità. E con determinazione, come ancora ci suggerisce l’Arcivescovo, indicandoci la traccia di un fecondo, comune cammino: “In questa prospettiva va promossa con decisione una “nuova solidarietà” che assuma la forma di una vera e propria “alleanza” intesa come incontro, dialogo, scambio d’informazioni, condivisione di interventi, collaborazione corresponsabile tra le istituzioni pubbliche e le forze vive della società civile, ovviamente nel rispetto delle diverse competenze e nel segno di una reciproca fiducia: si pensi, in particolare, all’urgenza di una simile alleanza nei fondamentali ambiti della scuola, del lavoro, della salute, della lotta alle varie forme di povertà e di emarginazione sociale”.
È ciò di cui abbiamo bisogno: educarci - tutti, ciascuno secondo la propria competenza, capacità - a guardare al futuro, a quanto ci è possibile costruire in questa direzione, fin dal prossimo passo.
Tutti; e insieme. Senza indugiare nell’aspettativa di soluzioni facili o di prospettive semplificatrici, o nell’attesa che per prima cosa altri comincino ad assumersi le rispettive responsabilità. La risposta al terrorismo e alla violenza di ieri e di oggi esige coralità, costanza, partecipazione.
Sapremo raccogliere la sfida? Siamo consapevoli che la risposta non può che giungere da un agire pienamente rinnovato. Che affidiamo, con le parole del Cardinale, all’unico Signore della storia: “È dunque a Cristo che dobbiamo guardare, come singole persone, come città di Milano, a lui che è il “buon samaritano” e che vuole continuare a essere presente e operante nella storia dell’umanità ferita e bisognosa di “cura” tramite la nostra mediazione”.
«A Milano nuove forme di strategia della tensione»
di Paolo Foschini (Corriere della Sera, 12 dicembre 2009)
«A quarant’anni di distanza da Piazza Fontana la sfida deve essere di nuovo raccolta», perché «volgere lo sguardo al passato» è necessario ma non basta: occorrono «risposte vere alle ’strategie della tensione’ non solo di ieri ma anche di oggi». La Curia di Milano sceglie il giorno esatto dell’anniversario della prima strage di Stato italiana per rilanciare un monito più preoccupato che mai.
«Se la carica distruttrice del terrorismo di quarant’anni fa può dirsi sconfitta - si legge infatti in un editoriale pubblicato ieri sera sul sito della Diocesi ambrosiana - occorre vigilare su altre forme certo più sottili ma non meno pervicaci di violenza: da quella verbale e intimidatoria sino al dilagare dell’indifferenza che opprime ed esclude, del giudizio privo di qualsiasi senso della misura, dell’utilizzo strumentale del pensiero e dell’agire altrui per far sì che non si tenda invece alla reciproca comprensione, alla collaborazione, all’edificazione di una città a misura di uomo e della sua dignità irrinunciabile».
L’articolo cade a una settimana precisa «dal discorso alla città» pronunciato dal cardinale Dionigi Tettamanzi (foto sopra) alla vigilia di Sant’Ambrogio e che aveva innescato - stante il suo contenuto all’insegna dell’«apertura», della necessità di «maggiore attenzione al sociale» e di un forte rilancio della «questione morale» anche in politica - non solo una reazione a dir poco gelida dell’amministrazione Moratti ma soprattutto quella almeno verbalmente violentissima della Lega.
L’editoriale della Curia - firmato dal vicario episcopale Eros Monti - non richiama espressamente quelle reazioni ma il discorso del cardinale lo riprende più volte. E formulando un parallelismo tra due epoche pur distanti quasi mezzo secolo parla tuttavia di «segni» molto simili. Occorre che «Milano - così si legge - come seppe reagire allora alla logica del terrorismo con la compostezza del suo tessuto sociale», sappia «guardare anche il nostro tempo con occhi rinnovati» per «cogliere la vera volontà di dialogo, di gratuità, disinteresse» che pure esistono: e questo «nonostante la creazione di sempre nuove barricate prosegua di gran carriera» mentre «individualismo e ricerca del proprio tornaconto personale non cessino di stringere tra loro alleanze inedite».
Campagna leghista per condizionare il dopo-Tettamanzi
di Alberto Melloni (Corriere della Sera, 9 dicembre 2009)
Il nodo dei rapporti fra la Lega e la Chiesa di Roma sta venendo al pettine: non riguarda la politica o l’immigrazione, ma la sacra potestas . Da tempo in alcune aree del paese la Lega Nord non si presenta solo come un partito e forza di governo: ambisce ad essere la voce di un intero territorio, sente di rappresentarne gli umori e in ultima analisi la cultura di fondo. Si colloca cioè esattamente dove il cattolicesimo italiano s’è posizionato da tempo: prima come maggioranza, poi come minoranza. E dunque chiede di governare la Chiesa.
Qualche equivoco deve aver dato ai dirigenti la sensazione di aver ottenuto successi. I cattolici chiamano spesso l’amore allo straniero, che è un precetto, «volontariato»: quasi che fosse un optional o un pallino per preti «di frontiera ». In quel coacervo di problemi su cui i vescovi hanno messo l’etichetta ciellina della «emergenza educativa» ci sono interessi corposi, di cui in molte amministrazioni la Lega sa di essere il regolatore. Ma in questi giorni a Sant’Ambrogio 2009 è stato fatto un salto di qualità, che riguarda il governo ecclesiastico.
L’arcivescovo di Milano è infatti da tempo il bersaglio di una campagna di propaganda basata sulla paura. A settantacinque anni compiuti, il cardinale Tettamanzi è anche un vescovo dimissionario, ai sensi del canone 411 del Codice di diritto canonico. Nel recente passato il Papa ha procrastinato le dimissioni di qualche porporato (Wojtyla, ad esempio, tenne il cardinale Siri sulla sede di Genova fino a 81 anni); in altre circostanze, invece sono state utilizzate brevi proroghe (cinque mesi per il cardinale Martini a Milano, due anni per il cardinale Ruini vicario di Roma) per quella che si chiama la «provisione ». La successione dunque dovrebbe essere pienamente nelle mani del Pontefice, che, si diceva, avrebbe scelto il nuovo arcivescovo di Milano a fine inverno o dopo le elezioni regionali.
Ed è su questa «campagna elettorale» che la Lega è intervenuta, con una irriverenza utile solo per distinguere le reazioni vere da quelle rituali o minimali. Il calcolo, però, è stato fatto male, malissimo. Le offese al cardinale Tettamanzi, infatti, non lo imbarazzeranno: è un cristiano e sa che i guai per lui verranno «quando tutti diranno bene» di lui, non ora. Ma quelle ingiurie rimbalzeranno direttamente a Roma, sul tavolo di Benedetto XVI: finiranno nel fascicolo dove ci sono i nomi dei candidati alla successione del cardinale e dove forse c’erano già gli appunti di quel colloquio Bossi-Bertone che, col senno di poi, sembra essere stato almeno un regalo immeritato.
Cosa farà adesso il Papa? Farà finta di non aver sentito nulla e provvederà alla diocesi di Milano nei tempi che già s’era dato, anche a rischio di vedere sventolare le bandiere verdi il giorno del commiato dell’arcivescovo uscente? Nominerà un arcivescovo «padano» per non crearsi noie? Farà ricorso al tipico age contra e darà filo da torcere alle mode di una Lombardia che voleva essere la Baviera del sud? Terrà conto delle esigenze del braccio politico-economico di Cl che deve metter qualcosa sul piatto leghista per garantire una quieta rielezione a Roberto Formigoni? Troverà nelle infinite risorse della Chiesa una figura di cui nessuno parla, che non s’è preparato la carriera ricamando furbizie, tale luminescenza spirituale da spiazzare tutto e tutti? Userà dell’arte del governo e lascerà Tettamanzi a Milano non per sempre, ma per un altro sant’Ambrogio...?
Lo vedremo fra poco: quel che certo è che se in Vaticano era sfuggita la convinzione della Lega di aver diritto a governare il territorio civile ma anche quello ecclesiastico, adesso lo sanno tutti, ma proprio tutti. E se «la Lega non perdona», Roma invece sì, perdona: ma spesso non sottovaluta.
CITTADINI SOVRANI. NÉ DI PIÙ NÉ DI MENO
di Paolo Farinella, prete
Manifestazione del 5 dicembre 2009, ore 16,00 Largo Lanfranco (Davanti alla Prefettura) Genova *
Sono qui come cittadino sovrano orgoglioso di esserlo e senza paura di difendere questa mia dignità che non mi deriva dal potere, ma ce l’ho per nascita ed è un diritto inalienabile riconosciuto dalla Costituzione alla quale deve essere sottomesso ogni potere e ogni parlamento. Anche a costo della morte, anche a costo di andare sulle montagne non rinuncerò mai a questa libertà e a questa sovranità che è colorata dal rosso del sangue dei martiri della Resistenza a cui si aggiunge il sangue dei magistrati e degli avvocati e dei cittadini che per difendere la legalità sono stati ammazzati come cani.
La loro memoria grida davanti alla nostra coscienza. O stiamo dalla loro parte o stiamo dall’altra. Non c’è via di scampo. Una nuova tirannia oggi sovrasta l’Italia e noi non possiamo permetterlo. A coloro che scrivono lettere anonime con minacce anche di morte, dico apertamente: non ho paura di voi che vi nascondete sempre dietro l’anonimato, dietro la vostra vergogna. Io ci sono e ci sarò sempre e nessuno riuscirà a farmi tacere in difesa della giustizia, del diritto, della libertà e della libertà di coscienza. Nessuno. Fino a tre giorni dopo la morte, io parlerò.
Parlo anche come prete perché lo sono e sono orgoglioso di esserlo e nessuno né vescovi né papi riusciranno a non farmelo essere. Poiché qualcuno mi accusa di essere eretico, voglio tranquillizzare i cattolici presenti: le cose che dico sono dottrina tradizionale della Chiesa. Se gli altri, compresi i vescovi, se le dimenticano, gli eretici sono loro, non io.
Nel vangelo di Lc si dice che alcuni farisei simpatizzanti misero in guardia Gesù da Erode che voleva farlo uccidere («Erode ti cerca») e Gesù rispose: «Andate a dire a quella volpe che io scaccio gli spiriti maligni» (13,31-32). Con la complicità e il sostegno della mafia uno spirito maligno si è impossessato del nostro Paese e noi come laici in nome della Costituzione e come credenti in nome del Vangelo abbiamo il dovere e il diritto di scacciarlo: «La difesa del bene comune esige che si ponga l’ingiusto aggressore in stato di non nuocere» (CCC 2265).
Diciamo a Bertone, che va a braccetto come un fidanzatino con Berlusconi ad inaugurare mostre, che Paolo VI nella Populorum progressio del 26 marzo del 1967 al n. 31 prevede come lecita «l’insurrezione rivoluzionaria nel caso di una tirannia evidente e prolungata che attenti gravemente ai diritti fondamentali di una persona e nuoccia in modo pericoloso al bene comune del paese» (cf anche Giovanni Paolo II, L’Istruzione Libertatis conscientia (Libertà cristiana e liberazione, 22.3.1986).
Non ci troviamo forse di fronte alle prove generali di una tirannia? Lo Stato democratico e le Istituzioni repubblicane sono state invase dai barbari e da mafiosi, che di ogni principio morale e democratico hanno fatto e stanno facendo scempio immondo. Il barbaro per eccellenza, lo spirito immondo, la volpe di oggi, che fa i gargarismi con l’acqua benedetta, mentre fa accordi con la mafia, si chiama Silvio Berlusconi anzi Berluskonijad perché è un misto tra il comunista Putin del kgb e il reazionario iraniano Ahmadinejad. E’ lui l’ultimo sovietico rimasto in Italia. Infatti la Russia del dittatore Putin e i paesi arabi più retrivi dove non esiste democrazia, sono i posti più prediletti da lui Addirittura dorme anche nel letto di Putin. Rifiutato dalle cancellerie democratiche del mondo, avete un presidente del consiglio che si rifugia in Bielorussia, dove ha osannato il dittatore Lukashenko che il mondo civile non ha mai riconosciuto. Tra dittatori si capiscono. Oggi è partito per Panama, mentre sarebbe ora che partisse per san Vittore. Dico vostro presidente del consiglio perché io l’ho ripudiato pubblicamente il 6 luglio 2009.
Per lui parole come democrazia, verità, eguaglianza, diritti, serietà, legalità, ecc. sono bestemmie perché l’uomo è abituato fin dalla nascita a vivere di falsità, a nutrirsi di illegalità, ad architettare soprusi, a complottare con la mafia, a mettere in atto ogni sorta di prevaricazione con un unico e solo scopo: l’interesse privato e l’ingordigia del suo super ego. Ora siamo all’attacco finale: lo chiamano «processo breve», ma è un solo l’abolizione del processo per annullare la giustizia perché c’è un’emergenza: bisogna impedire i processi che lo vedono imputato per reati gravissimi commessi prima di entrare in politica. Per capire di che si tratta e per divulgare in modo semplice, leggete la pagina che oggi sul Secolo pubblicano il Comitato per lo Stato di Diritto e Giustizia e Libertà hanno pubblicato, a pagamento, una pagina bella oggi sul Secolo XIX, dove potete vedere le conseguenze.
Io credo però che l’obiettivo non sia però il processo breve, ma il totale affossamento della giustizia: in questi giorni ne abbiamo le prove: Cosentino è indagato per Mafia e la maggioranza nega l’arresto; Dell’Utri è stato condannato in primo grado, Schifani (il nome stesso è un programma) frequentava e difendeva mafiosi e ora i pentiti parlano di Berluskonijad e del parto scellerato che sta alla base della fondazione del partito-azienda. I rapporti con la mafia sono naturali e quanto pare i mafiosi gli ha fatto da padrini nella sua nascita come imprenditore-truffatore. Sono motivi sufficienti perché il governo voglia dichiarare illegale ogni indagine per delitti di mafia, pagando così il pedaggio che egli e la sua famiglia e i suoi compari devono a «cosa loro» perché quella cosa non è e non sarà ma i «cosa nostra».
Tutti sanno che questa frenesia di interrompere il processo è condannata dal diritto e anche dalla morale tradizionale della Chiesa che esigono una giusta proporzione tra le parti in giudizio e la ricerca della verità morale. Noi sappiamo che la Corte Suprema lo bollerà ancora una volta, ma a lorsignori basta guadagnare tempo per andare in prescrizione. Lo sanno e proprio perché sono esperti in depistaggio, lo hanno usato per fare venire la diarrea al PD che c’è cascato. Ora aspettiamo i dossier arrivati dalla Bielorussia.
Bersani è la bella addormentata nel bosco che aspetta il bacio del principe che non arriva nemmeno travestito da rospo. Enrico Letta, il nipote del cardinal Mazzarino-Gianni Letta, Gentiluomo di Sua Santità, ha detto che è un diritto di B. difendersi «dal processo». Dovrebbe dimettersi non perché ha detto questo, ma perché è ignorante in fatto di giurisprudenza. Bocciato senza appello, all’ergastolo anche oltre la morte. Da quando ha cominciato a frequentare cattivi cattolici il PD è diventato come la maionese: si monta e si sgonfia in un baleno. Ora hanno la fregola delle riforme e di sedersi al tavolo del dialogo. Con questa gente non si può dialogare. Devono andare a casa, anzi in galera. Mafia e P2 sono al governo e stanno preparando le condizioni per impadronirsi definitivamente del Paese e delle nostre coscienze.
Le nostre coscienze non le avranno mai, perché noi saremo pronti ad andare anche sulle montagne a resistere perché non accettiamo e non accetteremo di essere governati da mafiosi, corrotti, frequentatori di minorenni e utilizzatori finali di prostitute e dall’avvocato Ghedini che paghiamo noi, mentre difende il ladro che ci ha rubato non solo una parte considerevole di denaro sottratto a noi (è fresca la notizia che la finanziaria taglia 103 milioni sui libri di scuola), ma ci deruba anche l’onore all’estero, la dignità sociale e la nostra sovranità di cittadini in casa.
Non possiamo rassegnarci. Non possiamo rassegnarci al luogo comune che la «politica è cosa sporca». E’ una trappola! Non è la Politica ad essere sporca, ma alcuni uomini e donne sporchi che la insozzano e coloro che li hanno votati sono correi e dovrebbero prendere un ergastolo per uno. Per noi Politica è il modo più nobile e diretto di servire il nostro popolo, senza servirsi di esso.
Vogliamo che Berlusconi e chiunque delinque, sia processato secondo lo statuto della nostra Costituzione. Vogliamo conoscere la verità sulla corruzione dei giudizi e dei testimoni. Vogliamo conoscere la verità sulle stragi della mafia. Vogliamo conoscere quanto la mafia sia dentro gli affari di Berlusconi. Vogliamo sapere con inequivocabile certezza se il presidente del consiglio sia un capobastone, un ricattato o una vittima.
Pretendiamo una magistratura libera, indipendente, senza condizionamenti di sorta. Vogliamo vivere in un Paese democratico, in un Paese civile, in un Paese dignitoso. Vogliamo riappropriarci del nostro orgoglio di cittadini sovrani e non permettiamo ad una manica di mafiosi di sottomerci come schiavi. Costi quel che costi, anche a costo della vita. Ai cattolici presenti io, Paolo prete cattolico tradizionalista dico: è parte della nostra missione nel mondo compiere e rendere attuale il programma politico del Magnificat della Madonna che celebreremo il giorno 8 dicembre: non ha senso andare in chiesa l’8 dicembre, se poi vanifichiamo le parole di Maria di Nàzaret, donna rivoluzionaria:
«51 Ha spiegato la potenza del suo braccio,
ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore;
52 ha rovesciato i potenti dai troni,
ha innalzato gli umili;
53 ha ricolmato di beni gli affamati,
ha rimandato i ricchi a mani vuote.
54 Ha soccorso Israele, suo servo,
ricordandosi della sua misericordia,
55 come aveva detto ai nostri padri,
per Abramo e la sua discendenza, per sempre» (Lc 1,51-55).
Queste parole hanno una traduzione laica, rivolta a tutti, credenti e non credenti che abitano, anzi che sognano un Paese autenticamente laico, dove la separazione tra Religione e Stato debba essere rigorosissima. Ecco a voi come parola d’ordine di questa sera, le parole di Pier Paolo Pasolini a 37 anni dalla morte: «E noi abbiamo una vera missione, in questa spaventosa miseria italiana, una missione non di potenza o di ricchezza, ma di educazione, di civiltà» (P. P. Pasolini). Nulla di più, nulla di meno.
Genova, dal palazzo della Prefettura, sabato 5 dicembre 2009, ore 16,00-18,00
*Il Dialogo, Mercoledì 09 Dicembre,2009 Ore: 16:13