«Conoscere la Chiesa per comunicarla»
Tettamanzi: la necessità di parlare del bene. Direttori a confronto
DI ANNALISA GUGLIELMINO (Avvenire, 24.010.2010).
Tre direttori di tre grandi quotidiani nazionali e un cardinale. Una sociologa esperta di cultura della comunicazione. E mezzo mondo del giornalismo milanese pigiato nel salone del Circolo della Stampa di corso Venezia. Così Milano ha celebrato il suo San Francesco di Sales, patrono degli operatori dell’informazione: tutti davanti alla domanda: «Come comunicare la Chiesa?». E quanto la Chiesa è «spettacolarizzata», «strumentalizzata » e perfino «banalizzata»? Dalla capitale italiana dell’editoria, e dalla metropoli che tutti i giorni ha motivi per finire in prima pagina o “fare notizia”, l’arcivescovo Dionigi Tettamanzi ha considerato come «all’origine di tante immagini distorte che della Chiesa appaiono sugli strumenti di comunicazione c’è la mancata conoscenza di cosa essa sia».
Al tradizionale dibattito organizzato dalla Curia in collaborazione con l’Ucsi (Unione cattolica della stampa italiana) della Lombardia hanno partecipato i direttori di Corriere della sera, Repubblica e Avvenire. Dopo il saluto dei presidenti dell’Associazione lombarda e dell’Ordine dei giornalisti, Giovanni Negri e Letizia Gonzales, è toccato ai direttori dei giornali sviluppare un’(auto)analisi del rapporto tra media e Chiesa.
«La Chiesa è spesso chiamata a svolgere una supplenza d’identità, a volte di tipo civile, e di custodia dei valori - per il direttore del “Corriere”, Ferruccio De Bortoli -. A volte si è mossa come un partito, dopo aver rinunciato all’idea di un partito unico cattolico. Ma il suo ruolo e la sua attenzione nei confronti delle minoranze, la Chiesa come è nel quotidiano, non è mai sottolineato abbastanza ».
Puntando il dito contro «il deserto culturale che la Chiesa ha davanti in Italia» il direttore di Repubblica, Ezio Mauro, la vede come «una minoranza» che «sa di essere parte, ma insieme pretende di essere gruppo di pressione».
Una «vulgata » per il direttore di Avvenire, quella di una Chiesa «che parli solo alla politica». Per i cattolici, ha sottolineato Marco Tarquinio, «c’è qualcosa che nessuna maggioranza può negare: il rispetto della vita e della persona». Dove c’è un dolore «lì c’è un cristiano». E la Chiesa continua il suo compito sul territorio, «al di là di tanti titoli sui giornali, spesso troppo allegri».
Ai giornalisti Tettamanzi ha indicato «la necessità» di parlare del «bene », di rispettare «la dignità umana », di cercare con la Chiesa - ha aggiunto sulla scorta della relazione della sociologa della Cattolica Chiara Giaccardi - di un «patto comunicativo». D’altronde la Chiesa, ha concluso il cardinale, è quella che il Concilio (ieri citato più volte da tutti gli interlocutori) ha descritto «nello stesso tempo umana e divina, visibile ma dotata di realtà invisibili, fervente nell’azione e dedita alla contemplazione, presente nel mondo e, tuttavia, pellegrina».
IL LIBRO
E per i giornalisti arriva il dizionario salva-errori
Che differenza c’è fra un “canonico” e un “curato”? Chi è il «diacono permanente»? E cos’è una “lectio divina”? Spesso o giornalisti, accostandosi a notizie di ambito ecclesiale, si trovano a dovere usare termini di cui non conoscono bene il significato. A volte perfino confondendoli o usando come sinonimi parole che sinonimi non sono, come “eminenza” o “monsignore”.
Per fugare un po’ di incertezze l’Ufficio per le comunicazioni sociali della diocesi ha presentato «Mitra al cardinale. Piccolo dizionario ecclesialese-italiano» curato da Federica Vernò e pubblicato dal Centro Ambrosiano (64pag. 6 euro).
Un libretto «senza pretese scientifiche», si specifica, in aiuto dei cronisti alle prese con le cose religiose e in particolare con la Chiesa ambrosiana (compaiono infatti la “Veneranda fabbrica del Duomo”, la “Traditio Symboli”, la “Nivola” e il “Cadr”, Centro ambrosiano di documentazioni per le religioni).
E naturalmente la “mitra” (o “mitria”) il copricapo a due punte usato dai cardinali, dai vescovi o dagli abati, che nessuno - strizza l’occhio il volume - vorrebbe mai ritrovar chiamata su qualche giornale al maschile, il mitra. (A.G.)
* Avvenire, 24.01.2010.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
"Deus caritas est". Sul Vaticano, in Piazza san Pietro, il "Logo" del Grande Mercante!!!
La missione di Tettamanzi nella diocesi dei misteri
di Claudio del Frate (Corriere della Sera, 25 luglio 2012)
A 78 anni compiuti il cardinale Dionigi Tettamanzi è stato «richiamato in servizio» dalla Chiesa: l’ex arcivescovo di Milano dovrà riportare pace e serenità nella piccola diocesi di Vigevano, scossa negli ultimi due anni da una serie di misteri, ultimo dei quali l’improvviso congedo del capo della comunità, il vescovo Vincenzo Di Mauro, 61 anni. Il monsignore ufficialmente è stato collocato a riposo per motivi di salute, ma la versione non convince nessuno.
«Monsignor Di Mauro non ha mai nascosto di avere problemi di diabete - racconta don Emilio Pastormerlo, portavoce della Curia di Vigevano e stretto collaboratore del vescovo - ma noi per primi siamo stati sorpresi dal suo repentino abbandono; nella sua missione in città non aveva mai risparmiato energie, tutt’altro».
Il predecessore monsignor Claudio Baggini, del resto, a lungo aveva convissuto con problemi di salute, al punto da dover girare con la bombola d’ossigeno al seguito. Cosa può aver determinato dunque la brusca interruzione del mandato di Di Mauro? Il prelato era approdato nel dicembre del 2010 nella piccola diocesi lombarda (118 mila fedeli) con credenziali d’eccezione: ex stretto collaboratore di Carlo Maria Martini, ottime referenze nella cerchia di papa Benedetto XVI, un master in gestione aziendale conseguito all’università di Salerno, prefetto per gli affari economici della Santa Sede. Insomma, un vescovo manager con un cursus honorum che pare esagerato per la piccola Vigevano.
Ma quando monsignor Di Mauro arriva nella città del romanzo di Mastronardi, il clero locale vive un periodo a dir poco di apprensione. A metà del 2011 viene scoperto un ammanco nelle casse della Curia di poco inferiore al milione di euro; nessuno sporge denuncia, ma pochi giorni dopo viene rimosso dal suo incarico l’economo don Elio Caspani. Passano pochi giorni e don Caspani viene trovato morto nella sua casa, precipitato dalle scale. L’episodio è archiviato come incidente domestico, ma i «Vigevano leaks» si mettono in moto: arrivano telefonate nelle redazioni dei giornali locali che alludono a una lettera lasciata da don Elio con dettagli riguardanti l’ammanco, ma la missiva non viene mai trovata.
Nel frattempo al vescovo Baggini - il cui addio era da tempo annunciato - subentra Di Mauro e per la pacifica chiesa vigevanese è uno tsunami. Il nuovo pastore sprona tutti i parroci a dare l’anima nella loro missione, sostituisce gli uomini della Curia in enti e associazioni, prende le redini dell’ex collegio Negroni, un’istituzione prestigiosa ma da anni in uso a privati e la trasforma nel più grande e attivo oratorio della città. Spira un vento di novità anche nel linguaggio: il monsignore apre un profilo facebook personale (quanti suoi colleghi ce l’hanno?), inventa gli «happy hour» in Curia dedicati ai giovani, nelle omelie in Duomo usa spesso metafore calcistiche (è supertifoso del Milan). Insomma, il personaggio è travolgente al punto che diversi parroci restano un po’ perplessi di fronte ai modi del loro superiore.
Finché venerdì scorso, con un provvedimento che cita un articolo poco usato dal codice canonico, il Vaticano comunica che monsignor Di Mauro non è più il vescovo di Vigevano. Lui scrive una breve lettera in cui dice di gettare la spugna per motivi di salute, non celebra nemmeno una messa di congedo. «Ma giovedì aveva partecipato a un dibattito pubblico sulla mafia organizzato dalla Cgil» riferiscono testimoni.
La comunità è disorientata e incredula, finché ieri dalla Santa Sede arriva la novità: la reggenza della diocesi viene affidata al cardinale Dionigi Tettamanzi. Non un personaggio qualsiasi, nel mondo ecclesiale. E la missione, dunque, deve essere di quelle delicate.
Via Padova, la città in cui speriamo
editoriale (www.chiesadimilano.it, 16 febbraio 2010)
Quanto accaduto nei giorni scorsi in via Padova è un episodio grave e bisognoso di approfondimento. L’aggressione e la morte di un giovane, il conflitto etnico tra bande rivali, le reazioni violente che ne sono seguite, denunciano una situazione da leggere nella sua complessità con lucidità di giudizio e senza fermarsi al cono d’ombra dei fatti delittuosi. L’uccisione si colloca in uno scenario di diffuso disagio sociale che, complice l’indifferenza di chi avrebbe potuto intervenire prima ma non lo ha fatto, perdura da tempo ed è destinato a rimanere tale fintantoché non si deciderà insieme di voltare pagina e ristabilire le condizioni per una normale e costruttiva convivenza civile.
La prima parola è la ferma condanna della violenza. Non accettiamo di assistere inermi a questa spirale di aggressività: morire in questo modo è, oltre che drammatico, assurdo. Nemmeno vogliamo addomesticare il cuore e i sensi all’abitudine per la violenza posta quotidianamente sotto i nostri occhi; continuiamo a operare per l’edificazione di una città aperta e umana, capace di coniugare sicurezza e integrazione.
Abbiamo ascoltato in questi giorni interventi istituzionali limpidi, capaci di richiamare con severità ed equilibrio ai valori che fondano la convivenza, ma anche al consueto e triste gioco politico di parte, nel quale i problemi reali vengono puntualmente sacrificati sull’altare della ricerca del consenso elettorale. I media con alcuni servizi hanno cercato di entrare con discrezione ed intelligenza nella situazione concreta del quartiere e dei suoi abitanti, mentre con altri hanno offerto spettacolarizzazioni non rispettose della verità dei fatti e delle persone. Sembra per questo necessario mantenere quella pacata ragionevolezza che, consapevole della gravità dell’accaduto, non desiste dal ricercare la giusta misura delle cose e non si lascia prendere dall’emotività, dai giudizi affrettati e dall’illusione che esistano soluzioni drastiche e immediate per risolvere i conflitti.
Dieci anni fa proprio in via Padova l’uccisione di un gioielliere e di un tabaccaio coronavano nel sangue una tristissima stagione di violenza e degrado per il quartiere e per l’intera città. Allora criminali e vittime erano italiani: in qualche modo i nuovi arrivati si sono sostituiti ai delinquenti locali. A ben vedere il problema principale non riguarda, quindi, solo la criminalità organizzata, ieri, o l’immigrazione non governata, oggi, ma anche il degrado del tessuto civile del quartiere.
Quando un territorio, un lembo di città non è governato con lungimiranza, ma abbandonato alle logiche infernali dell’incuria, della lacerazione, della prepotenza diventa facilmente terreno di coltura per le patologie più gravi del disagio sociale.
Per quanto riguarda le sfide dell’immigrazione, da tempo la Chiesa Ambrosiana cerca di promuovere un’articolata riflessione e indicare alcune linee costruttive. Risuonano oggi come molto opportune le parole pronunciate dall’Arcivescovo nel Discorso di S. Ambrogio del 2008: «Occorre, con una visione complessiva del fenomeno, guardare agli immigrati non solo come individui, più o meno bisognosi, o come categorie oggetto di giudizi negativi inappellabili, ma innanzitutto come persone, e dunque portatori di diritti e doveri: diritti che esigono il nostro rispetto e doveri verso la nuova comunità da loro scelta che devono essere responsabilmente da essi assunti. La coniugazione dei diritti e dei doveri farà sì che essi non restino ai margini, non si chiudano nei ghetti, ma - positivamente - portino il loro contributo al futuro della città secondo le loro forze e con l’originalità della propria identità».
Da parte dei milanesi occorre riconoscere in questi anni un preoccupante calo della tensione morale e civile e la conseguente fatica a trasmettere la solidità di un ethos pubblico condiviso e normativo. Non è forse ancora più necessario oggi tornare a conoscere, rispettare, apprezzare le regole, i valori, il senso delle istituzioni e delle tradizioni civili? Su quale base comune costruire altrimenti una convivenza coi nuovi arrivati?
Se cresce ormai positivamente la consapevolezza che la via da percorrere è quella dell’integrazione, resta ancora equivoco il senso da attribuire a questa espressione. Per alcuni coincide sostanzialmente con l’“adeguamento integrale” di altri ai nostri modi: di parlare, di vivere, di agire, di consumare... In buona sostanza con l’omologazione. In realtà un’autentica integrazione suppone anzitutto conoscenza, dialogo, ascolto a partire dalla riscoperta delle proprie radici, così che le diverse componenti dell’unico corpo sociale possano contribuire, ciascuna con la propria originalità, al bene comune e al volto di una città migliore.
L’albero buono si riconosce dai frutti buoni, ma di fronte a frutti cattivi occorre scendere in profondità e risanare le radici: ripartire dalla famiglia. Essa, come sottolinea Benedetto XVI, «è un fondamento indispensabile per la società e per i popoli, e anche un bene insostituibile per i figli. È nel focolare domestico che s’impara a vivere veramente, a valorizzare la vita e la salute, la libertà e la pace, la giustizia e la verità, il lavoro, la concordia e il rispetto» (Discorso al VI Incontro Mondiale delle Famiglie di Città del Messico). A tutte le famiglie, italiane o immigrate, occorre assicurare quanto è necessario a una vita dignitosa, per sé e i propri cari, e così assolvere al proprio compito sociale: casa, scuola, lavoro, assistenza per bambini, anziani, disabili e malati. Non sarebbe tempo di prendere in seria considerazione l’urgenza dei ricongiungimenti familiari?
In particolare le prime vittime di una politica paralizzata dalla ricerca del consenso e poco audace nel progettare, realizzare, governare la “metropoli” del presente e del futuro sono le giovani generazioni. C’è forse vera differenza fra il disagio violento, tribale e rancoroso delle gang etniche e quello più narcisistico, autodistruttivo e spietato dei giovani “bene”? La sfida educativa nei confronti dei giovani, ancora più acuta nel contesto della seconda generazione di immigrati, è davvero centrale per le famiglie e per le altre agenzie educative. Giustamente la riflessione dei sacerdoti del decanato di Turro, in cui è situata via Padova, sottolinea la preziosità dei luoghi di educazione giovanile come le scuole, gli oratori e le comunità cristiane. Realtà già presenti, ma bisognose di ulteriore sostegno. Perché non promuovere per davvero un “esercito” di educatori piuttosto che di militari?
Partiamo dal riconoscimento e dal sostegno dei molti segni di speranza e delle diverse realtà vive del quartiere: i cittadini che scelgono positivamente di abitarvi, le comunità cristiane con le loro attività, le forze politiche, sociali e culturali che mantengono un legame col territorio, i commercianti, le scuole, le associazioni di volontariato.
Segno di speranza è anche la Messa celebrata per il Decanato domenica 7 febbraio dal Cardinale Tettamanzi insieme a più di 1500 persone. Chi vi ha partecipato ha potuto sperimentare un momento di autentico entusiasmo popolare, il ritrovato orgoglio di abitare il quartiere, la bellezza della fede e dei legami di fraternità che essa genera.
Insomma, non un gesto isolato, ma la rivelazione di quel volto autentico della città per cui vale la pena lottare, amare e vivere, al quale si richiamava quel giorno l’Arcivescovo concludendo la sua omelia: «Di fronte a una società che ne è povera, la comunità cristiana si presenti invece come il luogo nel quale la speranza continuamente sorge e viene offerta, a tutti e a ciascuno, attraverso la testimonianza di un amore misericordioso».