Foto: Stemma della città di San Giovanni in Fiore.
DIO E’ AMORE ("Charitas") O MAMMONA ("Caritas")?! L’AMORE NON E’ LO ZIMBELLO DEL TEMPO...
"È nostro altissimo dovere tenere sempre presenti e diligentemente imitare i luminosi esempi della ammirabile carità ...": "Mirae caritatis. De sanctissima eucharistia", della "Ammirabile Carità. La santa eucarestia", così è intitolata e così è tradotta la "Lettera enciclica" di Leone XIII,del 28 maggio del 1902:
Se si tiene presente che nel 1183, con grande chiarezza e consapevolezza, Gioacchino da Fiore nel suo "Liber de Concordia Novi ac Veteris Testamenti" così scriveva:
si può ben pensare che le preoccupazioni di una tradizione e di una trasmissione corretta del messaggio evangelico e, con esso, del "luminoso esempio" dello stesso Gioacchino da Fiore, non siano state affatto al primo posto del magistero della Chiesa cattolico-romana, né ieri né oggi.
Di Gioacchino se si è conservato memoria del suo lavoro come del suo messaggio, lo si deve sicuramente alla sua "posterità spirituale" - è da dire con H. De Lubac, ma contro lo stesso De Lubac, che ha finito per portare acqua al mulino del sonnambulismo ateo-devoto dell’intera cultura ’cattolica’.
Federico La Sala (05.04.2018)
GRECIA - Una sede della "Caritas greca". |
Henri de Lubac, Corpus mysticum - L’Eucharistie et l’Église au Moyen Âge.
Henri de Lubac, Corpus Mysticum: The Eucharist and the Church in the Middle Ages.
Henri de Lubac,Corpus Mysticum. L’Eucarestia e la Chiesa nel Medioevo: "Sezione V Scrittura ed Eucarestia Volume 15/Opera omnia. La presente Opera è pubblicata in coedizione con l’Istituto di Storia della Teologia della Facoltà di Teologia di Lugano" (Henri de Lubac - Opera Omnia)
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NOTA DELL’AUTORE
E SUA PRESENTAZIONE DEL PIANO DELL’OPERA: "Sezione quinta
Scrittura ed Eucaristia
15. CORPUS MYSTICUM*
16. STORIA E SPIRITO*
17. ESEGESI MEDIEVALE I*".
De Lubac Henri / Opera omnia. Vol. 16: Storia e spirito. La comprensione della scrittura secondo Origene. Scrittura ed eucarestia
Henri de Lubac, Esegesi medievale. Scrittura ed Eucarestia. I quattro sensi della scrittura:
Henri de Lubac,
La posterità spirituale di Gioacchino da Fiore. Volume 1 - Dagli Spirituali a Schelling. Sez.VIII Monografie:
Federico La Sala
Teologia.
Gioacchino da Fiore, dottore di concordia
La concordia, spiegava, non è un’invenzione ma la scoperta del ritmo impresso dalla Trinità alla storia: per questo c’è corrispondenza tra età biblica ed età della Chiesa
di Gian Luca Potestà (Avvenire, giovedì 19 settembre 2024)
Nella scia di Paolo, Gioacchino da Fiore riconosce nella condizione aperta dalla Resurrezione la pienezza dei tempi, intesa non come un evento puntiforme, ma come un lungo percorso storico avviato da Cristo e destinato a compiersi in virtù dello Spirito Santo. Il messaggio divino si fa più nitido e comprensibile via via che ci si avvicina alla fine. La fase dei profeti si è conclusa. Per capire il presente e gli imminenti tempi ultimi occorre quindi diffidare di oracoli e vaticini di incerta provenienza e ritornare alle Scritture, innanzitutto all’Apocalisse, l’unica profezia biblica riguardante l’intera storia della salvezza.
Celebrato come profeta già in vita e dopo morte (Dante: «il calavrese abate di spirito profetico dotato»), Gioacchino rifiuta di dirsi tale. Ai profeti, dice, si sono sostituiti i dottori, al tempo dei miracoli il tempo della scienza, cioè dell’interpretazione. Può capitare ancora che si usi il verbo “profetare”. In tal caso profetare significa però disporre del dono di comprendere spiritualmente le Scritture. Quando spiega a papa Lucio III un oscuro vaticinio recuperato dalla cassa di un cardinale defunto, o polemizza con Goffredo di Auxerre, abate cistercense come lui, spiegandogli con le parole di Geremia che per la Chiesa romana è meglio piegarsi all’Impero, piuttosto che sfidarlo militarmente; quando preannuncia l’esito della crociata a Riccardo Cuor di Leone e al suo seguito in attesa dell’imbarco a Messina, o avverte Enrico VI all’assedio di Napoli che un temporaneo ritiro risulterà alla lunga più vantaggioso per lui, in tutte queste situazioni chi lo ascolta lo considera un profeta. Gioacchino si presta all’equivoco, rivendicando però il proprio ruolo autentico di interprete delle Scritture: chi sa leggere spiritualmente la Bibbia comprende la storia del mondo e i pericoli incombenti.
Il suo nome è legato alla concordia, il procedimento interpretativo che dà il titolo all’opera più fortunata, la Concordia del Nuovo e dell’Antico Testamento. Per Gioacchino la concordia non è un’invenzione, ma la scoperta del ritmo impresso dalla Trinità alla storia, per cui un certo soggetto o un certo conflitto dell’Antico Testamento trovano puntuale corrispondenza in un soggetto o in un conflitto del tempo della Chiesa.
La novità non sta tanto nell’idea della correlazione (fin dai primi secoli elementi dell’Antico Testamento sono considerati dai cristiani prefigurazioni rispetto al Nuovo), ma nella sistematicità con cui il progetto è perseguito. Un’impresa totale: per ogni racconto biblico deve darsi un corrispettivo simmetricamente convincente. Figure e vicende delle generazioni dell’Antico Testamento trovano, grazie a semplici calcoli aritmetici, puntuali riscontri nelle generazioni successive alla venuta di Cristo. La storia cessa così di apparire un groviglio insensato di catastrofi.
In linea di principio il programma è semplice. La complessità nasce dal fatto che la storia si (di)spiega come proiezione della Trinità. Ciascuna delle tre persone divine vi imprime un proprio segno speciale in tre grandi fasi, distinte e successive: i tre stati del Padre, del Figlio e dello Spirito santo, ciascuno dei quali caratterizzato da un proprio ordine, rispettivamente dei coniugati, dei chierici e dei monaci.
L’impianto ternario - teologico, ecclesiologico e sociologico - non poteva essere ignorato nella modellizzazione della concordia: strada facendo, Gioacchino sostituisce il modello binario semplice (Antico Testamento / Nuovo Testamento; primo popolo / secondo popolo) con due modelli, che sviluppa parallelamente, miranti entrambi a disporre le serie di corrispondenze secondo un ritmo ternario. Connessioni e accostamenti magnetizzano il lettore. Solo chi si addentra fino in fondo nei dettagli della costruzione si rende conto di incongruenze e forzature. Gioacchino stesso le segnala qua e là, come piccole crepe che non compromettono la solidità del suo edificio.
Dopo aver fissato la concordia, Gioacchino passa alla comprensione spirituale (intelligentia spiritalis), che include dodici possibili piani di lettura delle Scritture. Innanzi tutto, cinque comprensioni “generali”: storica, morale, tropologica (riguardante propriamente l’espressività dei discorsi divini), contemplativa e anagogica (rivolta alla vita celeste e alla natura divina e come tale non pienamente raggiungibile nella vita terrena). Poiché nella storia della salvezza si manifesta la Trinità, le storie narrate nelle Scritture vanno propriamente comprese nella luce delle relazioni trinitarie.
Un passo biblico può perciò essere letto anche secondo sette specie di comprensione “tipica”: in rapporto al Padre; al Figlio; allo Spirito; alla relazione Padre-Figlio; alla relazione Padre-Spirito; alla relazione Figlio-Spirito; e infine alle tre persone considerate nella loro unità. Questo in teoria. In pratica Gioacchino fornisce un semplice assaggio della possibile applicazione delle comprensioni tipiche. La sola esegesi del racconto della Creazione secondo Genesi 1, condotta nella prospettiva di quattro di esse, occupa già un centinaio di pagine della Concordia! Il progetto grandioso di un’interpretazione del testo integralmente trinitaria è quindi abbandonato. Resta l’intuizione che il dinamismo della vita divina, in quanto innerva la storia, deve risultare leggibile in ogni passo biblico.
Scritture e storia si trovano racchiuse entro un sistema interpretativo coerente. La storia presenta peraltro situazioni e rovesciamenti che l’interprete deve tenere nel giusto conto. La scelta divina, potenzialmente eversiva di tutte le gerarchie, è a sostegno degli umili e dei deboli. Dio elesse Giacobbe a spese di Esaù non in previsione di qualche futuro merito o demerito dell’uno o dell’altro, e neppure per una decisione arbitraria e imperscrutabile, ma proprio perché Giacobbe era il secondo. Così, la Chiesa dei tempi finali si troverà posta come nella festa dei santi Innocenti, il giorno dell’anno in cui eccezionalmente un vescovo si caricava sulle spalle un bambino.
Grazie a Gioacchino l’annuncio apocalittico del Regno millenario rivive come attesa di una condizione terrena futura e imminente, incuneata tra le ultime tribolazioni e il giudizio universale. «Il gran sabato che ci piacque chiamare terzo stato» è la settima età, lo stato dello Spirito prefigurato nel settimo giorno della Creazione. Agostino aveva affermato che i mille anni dell’incatenamento di Satana (Apocalisse 20) coincidono con il tempo della Chiesa. Gioacchino condivide solo in parte la censura agostiniana nei confronti del millennio finale. Rinuncia volentieri all’idea dei mille anni tondi, ma tiene ferma la fiducia in una fase finale pienamente storica di pace e di libertà. E così apre nuove vie alla storia intellettuale e alla teologia politica dell’Occidente.
“Gioacchino da Fiore e la Bibbia”: è il tema del X congresso internazionale di studi gioachimiti, organizzato dal Centro intitolato al grande pensatore medievale e monaco, che si svolgerà da oggi al 21 settembre nella chiesa abbaziale florense di San Giovanni in Fiore (Cosenza). Cinque le sessioni previste. E oggi alle 15.30 a introdurre il tema principale del congresso sarà proprio Gian Luca Potestà direttore del Comitato scientifico del Centro Studi Gioachimiti Scritture e storia, e docente all’Università Cattolica di Milano. Qui presentiamo una sintesi del suo intervento, che nello specifico affronterà il tema «Gioacchino da Fiore e l’esegesi del suo tempo».
L’evento intende affrontare una questione nodale per la conoscenza di uno tra i più originali pensatori dell’Occidente. Ad aprire i lavori sarà con i suoi saluti il presidente del Centro Studi Gioacchimiti, Giuseppe Riccardo Succurro. Il programma e l’organizzazione scientifica si devono al domenicano e docente di storia del cristianesimo alla Cattolica di Milano Marco Rainini e al medievista Dominique Poirel e professore, tra l’atro, all’Istituto cattolico di Parigi. I relatori del congresso, - tra loro Andrea Scalia, Cédric Giraud, Julie Barrau, Emmanuel Bain, Lorenzo Cozzi, Ayelet Even-Ezra e Montse Leyra Curiá - provengono dalle università di Gerusalemme, Oxford, Cambridge, Montreal, Michigan, Parigi, Madrid, Ginevra, Strasburgo, Marsiglia, Cosenza, Bologna, Bergamo, Milano, Modena, Roma. La tre giorni cercherà di affrontare in prospettiva storica, filologica, teologica ed esegetica le questioni fondamentali relative a Gioacchino interprete del grande codice biblico, da cui tutta la sua visione trae ispirazione e vigore. Non è un caso che, il 27 giugno scorso, papa Francesco, nel messaggio per la Giornata mondiale del Creato, abbia citato Gioacchino da Fiore affermando che «seppe indicare l’ideale di un nuovo spirito»
DUE PAROLE E DISPARI DALL’ALTOPIANO DELLA SILA
Una nota di commento al testo di Emiliano Antonino Morrone:
UN OMAGGIO A GIOACCCHINO DA FIORE:
IL CIELO VISTO TRA I GIGANTI DELLA SILA.
GEOLOGIA, MEMORIA, STORIA, ARCHEOLOGIA E FILOLOGIA:
"L’AMORE NON E’ LO ZIMBELLO DEL TEMPO" (SHAKESPEARE).
QUALE COMUNITA’, QUALE SOCIETA’, QUALE EUROPA, QUALE ITALIA, QUALE CALABRIA?! *
L’EDITORIALE
Quando il diavolo ci mette lo zampino
di Paola Militano (Corriere della Calabria, 02/03/2024)
Perché la ‘ndrangheta dovrebbe avvelenare il mite parroco di San Nicola di Pannaconi, popolato da mille anime appena o minacciare quello giovanissimo nella vicina Cessaniti? E perché a distanza di qualche giorno, nonostante, il clamore suscitato dagli episodi criminali (deprecabili e da condannare senza riserve), alzare il tiro e senza indugi, puntare dritto al vescovo della diocesi, quasi a voler svelare il vero obiettivo del clima intimidatorio?
Come nei gialli di Agatha Christie: «Un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza, ma tre indizi fanno una prova». La risposta è da ricercare, evidentemente, all’interno della Diocesi di Mileto-Nicotera-Tropea, messa a dura prova dalla rinuncia al governo pastorale, (dopo 14anni) di mons. Luigi Renzo, il vescovo che “cancella” la Fondazione di Natuzza Evolo, finita nel gennaio 2023, al centro dell’operazione Olimpo. E tra i motivi dell’abbandono e del trasferimento dell’arcivescovo di Catanzaro Squillace, Vincenzo Bertolone.
Da qui (non mi pare poco) la nomina e l’ingresso del vescovo palmese Attilio Nostro con il compito di ricordare che «la Chiesa, pur agitata e scossa per le vicende della storia, non crolla, perché è fondata sulla pietra, da cui Pietro deriva il suo nome» e di ricondurre alla fede, una comunità scossa dagli avvicendamenti. E c’è chi è pronto a giurare, che sono proprio i trasferimenti di tutti i parroci «mai visti da nord a sud della provincia», messi in atto dall’alto prelato, il male all’origine di tutti i mali.
E forse non è un caso se Papa Francesco, recentemente a Roma, nella Sala del Concistoro dove incontra la Conferenza Episcopale Calabra, avverte:
E rivolgendosi ai Vescovi chiede:
In attesa che la giustizia faccia il suo corso, smilitarizziamo i cuori.
*
QUALE COMUNITA’, QUALE SOCIETA’, QUALE EUROPA, QUALE ITALIA, QUALE CALABRIA?! "[...] non è un caso se Papa Francesco, recentemente a Roma, nella Sala del Concistoro dove incontra la Conferenza Episcopale Calabra ... rivolgendosi ai Vescovi chiede: «Che cosa desiderate per il #futuro della vostra #terra, quale Chiesa sognate? E quale #figura di prete immaginate per il vostro #popolo?». (Paola Militano - Corriere della Calabria, 02.03.2024 ).
LA FILOSOFIA E LA "RISPOSTA" SU "CHE COSA E’ L’ ILLUMINISMO?", OGGI: IL "CORAGGIO DI ASSAGGIARE" ("Sàpere aude!")" DI KANT E L’ANALISI SU "L’UOMO E’ CIO’ CHE MANGIA" ("Der Mensch ist, was er ißt") DI FRIEDRICH GEDIKE, nella «Berlinische Monatsschrift» del 1784.
UN "INVITO A RIFLETTERE" SU UNA QUESTIONE DI SOSTANZA, PROPAGANDA (FEDE), FILOLOGIA, E "FACOLTA’ DI GIUDIZIO" (#KANT2024) E, INSIEME, AD ACCOGLIERE "L’AFFASCINANTE «SFIDA» AL PANETTONE LOMBARDO" (si cfr. Emiliano Antonino Morrone, "Federica Greco, l’orgoglio calabro e l’affascinante «sfida» al panettone lombardo", Corriere della Calabria, 19 gennaio 2024):
Per meglio accogliere la sollecitazione del giornalista Emiliano Antonino Morrone, e, possibilmente, riprendere il filo dall’amore (#charitas) di Gioacchino da Fiore (San Giovanni in Fiore) e dal coraggio di assaggiare ("#Sàpere aude") di Orazio (Venosa), mi sia lecito, ricordare alcuni contributi storiografici sul tema del cibo e della antropologia filosofica:
a) Ludwig Feuerbach, "L’uomo è coà che mangia", a c. di Franco Tomasoni, Morcelliana, Brescia 2015.
b) Ludwig Feuerbach, L’uomo è ciò che mangia, a c. di Andrea Tagliapietra, Boringhieri, Torino 2017.
c) Gianfranco Ravasi, "L’uomo è ciò che mangia", Famiglia Cristiana,18 maggio 2023.
"Sàpere aude!" (Kant, 1784). L’Illuminismo e il buon uso della propria intelligenza, della propria facoltà di giudizio, per uscire dallo "stato di minorità":
A)
ANDREA TAGLIAPIETRA, "La metafora gustosa. Feuerbach e la gastroteologia": "[...] Il detto italiano «parla come mangi», al di là dell’invettiva del luogo comune, rivela un fondo di verità difficilmente smentibile. La cultura umana si specchia, infatti, vuoi nelle parole del linguaggio che dalla bocca escono, vuoi in quegli alimenti e in quelle pietanze che nella bocca, invece, entrano.
Si inizia a intravedere, quindi, tutto lo spessore e la ricchezza che la frase di Feuerbach racchiude e che sta alla base del suo successo e della capacità di condensare molti motivi del pensiero del filosofo tedesco ben oltre l’immagine scolastica e polverosa dei manuali, che ne hanno fatto una sorta di mero raccordo della storia della filosofia fra Hegel e Marx. Del resto l’efficacia della massima appartiene già alla dimensione del significante e all’ambivalenza fonetica che ne fa oscillare il significato fra l’affermazione ontologica e la descrizione dell’azione di mangiare. Il gioco di parole Mensch ist, was er ißt è di fatto intraducibile nella nostra lingua, come anche nei principali idiomi europei correnti di cui abbiamo dato conto in apertura di questo saggio.
Traducendo «l’uomo è ciò che mangia», infatti, noi rendiamo il significato principale della «formula», ma non quello allusivo, veicolato non dal significato ma dal significante delle parole. Esso nasce dall’assonanza, nella lingua tedesca, fra ist (= «è», terza persona singolare dell’indicativo presente del verbo sein, «essere») e ißt, ossia isst con la «s» raddoppiata (= «mangia», analoga voce del verbo essen, «mangiare»).
Per dare un’idea di ciò che qui risulta intraducibile ci viene in soccorso la lingua latina che, in virtù di un gioco linguistico affine al tedesco e, anzi, ancora più sofisticato, dal momento che l’ambiguità non è solo fonetica ma anche grafica, ci permette di volgere la formula feuerbachiana in homo est quod est, dove il primo est è la terza persona singolare dell’indicativo presente del verbo essere, mentre il secondo est è la terza persona singolare del verbo edere, cioè «mangiare». In questo caso, l’ambiguità grafica consente di leggere la «formula» in perfetta specularità, per cui possiamo tradurre sia con «l’uomo è ciò che mangia» sia con «l’uomo mangia ciò che è».
Questi parallelismi linguistici avevano già una loro tradizione in cui forse Feuerbach, nelle sue ricerche intorno alla religione e al tema del sacrificio, può essersi imbattuto.
Nel 1784 Friedrich Gedike, un teologo protestante di simpatie illuministe che, proprio per queste ultime, era incorso nella censura prussiana, aveva scritto il breve articolo Su «mangia» ed «è». Un contributo alla spiegazione dell’origine del sacrificio, pubblicandolo nello stesso numero della «Berlinische Monatsschrift» che conteneva il saggio sull’Illuminismo di Moses Mendelssohn a cui rispose, com’è noto, quello celeberrimo di Kant.
Nel saggio Gedike paragonava la prospettiva ontologica dell’uomo civilizzato, condensata nella massima cartesiana per cui cogito ergo sum («penso dunque sono») e per la quale il pensiero fa da fondamento all’essere, alla condizione naturale dei nostri progenitori, per i quali valeva piuttosto il detto edo ergo sum («mangio dunque sono»). La frase, volta alla terza persona singolare, suona, in latino, est, ergo est, con una coincidenza tra l’essere e il mangiare che la lingua tedesca conserva nella somiglianza fonetica fra ißt e ist. È quindi in questa prospettiva naturalistica ed elementare, concludeva Gedike, che mostra lo stretto legame, suggerito anche dal linguaggio, tra l’idea dell’essere e quella del nutrimento, che dobbiamo comprendere illuministicamente l’origine e l’importanza religiosa dei sacrifici e del pasto sacrificale.
Comincia a risaltare, allora, l’assonanza decisiva della massima, il suo senso duplice, ambivalente e intraducibile che, mentre afferma che l’«uomo è ciò che mangia», ribadisce anche che l’«uomo è ciò che è», richiamando la citazione diretta e, quindi, sottilmente dissacrante, del famoso versetto del libro biblico dell’Esodo in cui l’Altissimo, il Dio degli ebrei e dei cristiani, nomina se stesso. Un passo che ha, nell’originale ebraico, ehyeh asher ehyeh, un significato puramente negativo e antidolatrico, suonando più o meno come «io sarò quel che sarò», ossia un rifiuto da parte del Signore di rispondere all’impertinente domanda di Mosè su quale fosse il Suo nome. Eppure, già la Septuaginta, la Bibbia greca, in età alessandrina, trasporta l’enigmatico versetto scritturistico nei termini del linguaggio ontologico dei filosofi ellenici (egó eimí ho on) e la Vulgata traduce in latino ego sum qui sum, espressione che verrà interpretata dalla tradizione della Chiesa prevalentemente come un’affermazione. Anzi, come la dichiarazione stessa del fondamento metafisico dell’esistenza: «io sono colui che è». Si tratta del Qui est che, secondo la Summa Teologiae di Tommaso d’Aquino, è il nome proprio che più si addice a Dio.
L’uomo, come la sua proiezione teologica alienata e fantasmatica, afferma dunque di essere ciò che è. Soltanto che, a differenza di Dio, ossia del desiderio che sublima se stesso nella vertigine dell’immaginazione, per essere ciò che è, l’uomo ha la necessità di mangiare, di nutrire il suo corpo, di misurarsi con la realtà della natura, con il bisogno e le difficoltà di soddisfarlo." (cfr. Ludwig Feuerbach, "L’uomo è ciò che mangia", di Andrea Tagliapietra, Boringhieri, Torino 2017, pp. 20-22. senza le note).
B) FRANCESCO TOMASONI, "Ludwig Feuerbach: l’uomo e la sua alimentazione":
"Nel 2015 si è svolto a Milano l’Expo, una manifestazione fieristica dal titolo “Nutrire il pianeta. Energia per la vita” che in 184 giorni e con 145 nazioni partecipanti, fra cui ovviamente il Brasile, ha avuto 21 milioni di visitatori. Sull’onda di questo evento è tornato di attualità il celebre motto di Feuerbach: «L’uomo è (ist) ciò che mangia (isst)». Nella lingua tedesca l’assonanza fra le terze persone del verbo essere e del verbo mangiare è evidente e suggerisce una stretta relazione fra essere e mangiare. Non a caso i critici dell’epoca vi videro un’espressione di rozzo materialismo, che poteva essere avvicinata alla frase di Karl Vogt: «I pensieri stanno press’a poco nel medesimo rapporto col cervello, come la bile al fegato o l’urina alle reni». Vogt era ben consapevole di usare un’espressione «in un certo senso rozza», ma intendeva dire che «tutte le attività psichiche» erano «solo funzioni della sostanza cerebrale».
Eppure l’assonanza fra essere e mangiare era già stata messa in rilievo più di sessant’anni prima da un teologo protestante di tendenze razionalistiche, Friedrich Gedike, in un articolo della prestigiosa rivista “Berlinische Monatsschrift”, in cui comparvero anche gli interventi di Kant, Mendelssohn e altri sul significato dell’illuminismo.
Già nel titolo [Friedrich Gedike, Über ißt und ist. Ein Beitrag zur Erklärung der Opfer, „Berlinische Monatsschrift“, Hrsg. F. Gedike u. J.E. Biester, Vierter Bd., Julius bis December 1784, pp. 175-180.] egli evidenziava l’assonanza e mostrava che, ancor più che nel tedesco, in latino e in greco i due verbi coincidevano per alcune forme della flessione. Non si trattava dunque di un caso, bensì dell’effetto di un processo naturale. Per i popoli primitivi i concetti astratti erano troppo ardui, perciò al loro posto subentravano riferimenti materiali. Così «per l’uomo rozzo e ancora del tutto sensuale il concetto di essere, nei tempi della prima origine delle lingue, era troppo sottile e remoto [...] al contrario il concetto del mangiare era certamente uno dei primi sviluppatisi in lui».
Poteva dunque argomentare nel modo seguente: mangia, dunque è (in latino: est, ergo est). La terza persona, nella quale la coincidenza era perfetta, rifletteva la mentalità primitiva secondo cui il soggetto osservava le cose fuori di sé, ma non era ancora giunto all’autocoscienza. L’identità fra essere e mangiare aveva anche indotto i primitivi a concludere che se gli dei esistevano, dovevano mangiare.
Da qui i banchetti sacrificali, in cui si invitavano le divinità a condividere la mensa con gli uomini. Quanto più però questi si convincevano della superiorità degli dei, tanto più offrivano loro cibi preziosi, addirittura carne umana. Secondo Gedike i sacrifici umani erano venuti non alle origini, bensì in un periodo «intermedio di civiltà». Solo il raggiungimento pieno dell’illuminazione (Aufklärung) e della civiltà aveva fatto percepire l’abominio di quelle pratiche. In antitesi all’identità fra essere e mangiare, Gedike ricordava l’affermazione di Cartesio: «cogito ergo sum». L’autocoscienza dell’uomo civile si fondava sull’identità fra essere e pensiero. Per il teologo dunque al materialismo del primitivo si contrapponeva il razionalismo o lo spiritualismo dell’uomo moderno.
Benché non esistano prove del fatto che Feuerbach abbia letto questo articolo, esso è utile per comprendere il suo distacco da Hegel e i suoi due interventi sull’alimentazione e sui sacrifici. Anch’egli nel suo periodo giovanile aveva sottoscritto la concezione cartesiana, secondo cui l’essenza umana era data dal pensiero o dall’autocoscienza. Poi però nei Principi della filosofia dell’avvenire aveva negato che il carattere distintivo dell’uomo risiedesse semplicemente in quelli. La sua essenza era una totalità che si rifletteva nel complesso della sua sensibilità. Non si trattava solo della capacità di sentire e percepire, bensì di tutta la relazione corporea con la natura. Anche lo stomaco umano era essenzialmente diverso da quello degli animali: «Dagli animali l’uomo non si distingue solo grazie al pensiero. Tutta la sua essenza costituisce piuttosto tale differenza [...] Anzi, persino lo stomaco dell’uomo, malgrado noi lo guardiamo dall’alto in basso con disprezzo non è un’essenza ferina, ma umana, perché è universale, perché non deve servirsi di un tipo determinato di alimenti. Proprio per questo l’uomo non è affetto da quel furore vorace (Freßbegierde) con cui l’animale si getta sulla preda».
L’universalità, che già nell’Essenza del cristianesimo Feuerbach aveva attribuito al genere umano, faceva sì che questo non si limitasse a un tipo di alimenti e quindi dimostrasse, anche nel mangiare, la sua libertà. In proposito egli si appoggiava alla distinzione, presente nella lingua tedesca, fra “essen”, mangiare proprio degli umani, e “fressen”, divorare tipico degli animali, aggiungendo come nel secondo caso lo stomaco assumesse il predominio su tutto, mentre nel primo caso esso era in armonia con la testa, ossia con la ragione e l’etica.
Un amico di famiglia, Georg Friedrich Daumer, criticò l’esaltazione che in questo passo Feuerbach aveva fatto dell’uomo rispetto agli animali [...] Daumer toccava un punto, al quale Feuerbach era stato sensibile fin dai primi scritti, quello della fame.
Nello stesso brano della Storia della filosofia moderna che prima abbiamo ricordato per l’identificazione dell’essenza umana col pensiero, Feuerbach accennava alla fame come esempio per distinguere vari gradi di essere: «Un essere con uno stomaco riempito in modo da star bene è un essere molto più reale di un essere con stomaco vuoto». Lo stomaco vuoto rappresentava sensibilmente la contraddizione fra la presenza ideale dell’oggetto e la sua assenza reale, ossia la separazione da un ente, al quale per natura si era uniti. Già nella dissertazione De ratione Feuerbach si era soffermato su questa situazione per mettere in luce la tensione dialettica del desiderio.
Nelle Lezioni tenute a Erlangen come Privatdozent era tornato sull’argomento trattando dell’impulso o della pulsione (Trieb), un concetto già elaborato da Fichte, che avrebbe avuto grande fortuna nell’Ottocento fino a Freud e al suo famoso saggio della Metapsicologia: Le pulsioni e i loro destini (Triebe und Triebschicksale). Aveva affermato: «Un altro esempio è l’appagamento dell’impulso (Triebes) stesso; quando calmo la fame, questo calmarla in quanto appagamento è affermazione della mia vita, un godimento, ma questo godimento c’è in me soltanto in quanto c’è la fame, il non godimento [...] al godimento spetta l’essere e il non essere». Nel Leibniz Feuerbach aveva spiegato ulteriormente il rapporto con l’oggetto, presente negli impulsi e, in particolare, nella fame e nella sete: «A dispetto di tutti gli empiristi fame e sete sono due filosofi a priori; esse anticipano e deducono a priori l’esistenza dei loro oggetti». Nella loro struttura ontica era dunque insito l’oggetto, prima che si presentasse nelle cose sensibili.
Questa visione caratterizza nell’Essenza del cristianesimo la relazione del soggetto con l’oggetto: «L’uomo non è nulla senza oggetto [...] Tuttavia l’oggetto al quale un soggetto si riferisca essenzialmente, necessariamente non è altro che l’essenza propria di questo soggetto, ma resa oggettiva».
La conclusione dell’opera consisteva nell’esaltazione dell’eucarestia secondo il suo significato etimologico, ossia come solenne ringraziamento per il pane e il vino grazie all’esperienza della fame: «Per comprendere il significato religioso della consumazione del pane e del vino mettiti nella situazione in cui quell’atto altrimenti quotidiano venga, contro natura, violentemente, interrotto. La fame e la sete non distruggono solo la forza fisica, bensì anche quella spirituale e morale dell’uomo, lo spogliano dell’umanità, dell’intelletto, della coscienza. Oh! Se tu mai provassi tale mancanza, tale infelicità, allora come benediresti e loderesti la qualità naturale del pane e del vino che ti ridonano la tua umanità, il tuo intelletto! Così basta solo interrompere il consueto, comune corso delle cose per restituire a quanto è comune un significato non comune, alla vita in quanto tale un significato assolutamente religioso. Santo sia per noi quindi il pane, santo il vino, ma santa anche l’acqua! Amen» [...]" (cfr. Francesco Tomasoni, Università del Piemonte Orientale, Vercelli - ripresa parziale, senza le note, pp. 109-112).
FLS
PREISTORIA E IPERSTORIA: #ANTROPOLOGIA, #STORIA E #LETTERATURA. #BuonNatale, buon #Natale2023: #Earthrise...
#DESTINI #INCROCIATI E #MEMORIA DEL #MONDO: UNO #SGUARDO DA #EXTRATERRESTRI. E’ VERO, concordo: noi "terroni" (#terrestri) siamo capaci di vedere la "Terra" come un unico "#Pianeta", unito da una storia, da una cultura, da una lingua, da uno spirito comune... solo dallo #spazio, solo da fuori della #Terra, purtroppo. Ma, uscire dalla #caverna, #oggi, è possibile...
Turismo, in migliaia a San Giovanni in Fiore sulle orme dell’abate Gioacchino
di Redazione Adnkronos, 23 giugno 2023
“Migliaia di turisti vengono ogni anno a San Giovanni in Fiore, centro della Sila cosentina, attratti dalla figura di Gioacchino da Fiore, dal fascino del Medioevo, dall’idea che l’abate sia un santo pur non essendolo, ma attratti anche dalla riscoperta della natura e dal fascino del mistero. Il ‘cammino di Gioacchino’ è percorso da migliaia di persone che in tempo di incertezze e conflitti si avvicinano all’abate, per me un filosofo della contemporaneità”.
Parole di Emiliano Morrone, giornalista e saggista calabrese che sulla rivista internazionale di studi filosofici diretta dal professore Michele Borrelli si è interessato soprattutto agli aspetti, che ritiene in parte trascurati, dell’attualità del pensiero di Gioacchino da Fiore.
Morrone, parlando con l’AdnKronos, svela le ragioni che ogni anno portano migliaia di turisti sulle orme dell’abate citato da Dante Alighieri nella Divina Commedia. “Migliaia di persone all’anno vengono a San Giovanni in Fiore attratti dall’abate Gioacchino da Fiore - osserva Morrone -, molti con le crociere sbarcando a Crotone, gruppi organizzati che vengono a visitare l’Abbazia Florense, grazie a un accordo che la sindaca Rosaria Succurro ha siglato con più tour operator, e che arrivano per visitare la chiesa di Gioacchino e sentir parlare di lui. A ciò si affianca una generale ripresa del turismo religioso legato a Gioacchino da Fiore, soprattutto da quando, nell’ottobre scorso, è stato istituito il premio ‘Città di Gioacchino da Fiore’, dato non a studiosi dell’abate ma a figure distintesi in vari campi, dall’arte allo spettacolo, dal cinema alla cultura. Anche questo ha riportato l’attenzione su San Giovanni in Fiore”.
“Già a dicembre - prosegue Morrone - si è registrata una risposta, e in più, con la collaborazione che il Comune e la parrocchia dell’Abbazia Florense hanno stretto già dall’anno scorso, che contempla la possibilità di visitare tutta l’Abbazia Florense con un unico biglietto, c’è stata un’ulteriore intensificazione del turismo legato alla figura dell’abate. Per intenderci, adesso chi viene visita la navatella di sinistra dove sono riprodotte le tavole del ‘Liber figurarum’ di Gioacchino da Fiore, e inoltre da qualche mese a questa parte il Comune ha dato in gestione tutti gli spazi dell’Abbazia Florense, compresa la navata di sinistra, a una società con proprie guide turistiche che parlano anche le lingue straniere”.
“Devo aggiungere - spiega ancora Morrone - che anche la collaborazione fra il Comune e il Centro Internazionale di Studi Gioachimiti presieduto da Giuseppe Riccardo Succurro, che ha sede a San Giovanni in Fiore e ha il grande merito d’aver tradotto le opere di Gioacchino, ha dato in questo senso i suoi frutti. E’ stato istituito, poi, anche un premio Gioacchino da Fiore organizzato dal Centro e dedicato agli studiosi dell’abate che ha contribuito a determinare un incremento delle presenze turistiche da tutta la Calabria basato sull’attrazione della figura di Gioacchino da Fiore. Per tutte queste ragioni, dunque, abbiamo registrato la presenza di migliaia di turisti più che in passato”.
“I turisti - sottolinea Morrone - vengono a San Giovanni in Fiore anche per visitare i resti della prima vera chiesa di Gioacchino da Fiore in località Jure Vetere Sottano, che sarà interessata dal passaggio di una ciclovia turistica attraverso un percorso in fase di realizzazione. I turisti che arriveranno lì troveranno un sistema elettronico plurilingue con il quale potranno avere notizie sul passaggio di Gioacchino da Fiore in Sila e sull’importanza dell’abate. È un progetto che sarà realizzato a breve e per il quale l’amministrazione di San Giovanni in Fiore, con un fondo concesso dalla Regione, ha acquistato questo primo sito dell’abate”.
“Nel 2025, ma non è escluso già nel 2024 - prosegue Morrone -, è prevista l’uscita del film ‘Il monaco che vinse l’apocalisse’ diretto da Jordan River, il primo film basato sulla vita e l’opera di Gioacchino da Fiore. Molte scene sono state girate in Sila, e anche questo si inserisce nel discorso di promozione turistica legata al territorio e alla figura di Gioacchino da Fiore”.
I motivi che spingono i turisti a prendere un volo, un treno, una nave per la Calabria per poi approdare a San Giovanni in Fiore sono, dunque, molti, e fra questi Morrone inserisce “il fascino per il Medioevo, da un lato, e dall’altro l’idea che Gioacchino da Fiore sia stato un santo. Certo, non è santo e neppure beato, ma a livello locale è ripreso il culto di Gioacchino da Fiore. Non dico che fa l’effetto di Padre Pio, anche se a Gioacchino sono attribuiti dei miracoli, ma è in atto una ripresa della figura di Gioacchino da Fiore anche da parte della Chiesa. Fondamentalmente l’abate riteneva possibile il compimento della giustizia su questa terra, e questo è un concetto un po’ particolare, se vogliamo di ‘scontro’, in quanto per la dottrina cattolica la giustizia ci attende nell’aldilà. La Chiesa guarda all’abate con un occhio positivo e gli dedica, ormai da anni, anche delle funzioni religiose. Il suo fascino attira gruppi religiosi, certo, ma anche gruppi di laici interessati al fenomeno religioso di un uomo che visse nel Medioevo e morì il 30 marzo del 1202”.
Per Morrone, inoltre, non è da trascurare anche “l’opera di riqualificazione strutturale dell’Abbazia Florense, coi lavori già avviati sotto l’attuale l’amministrazione. Saranno ripristinate anche tutte le illuminazioni. L’occhio vuole la sua parte, ragione per cui quando i turisti arriveranno troveranno una struttura più bella e più ‘visibile’”. Com’è noto, l’abate Gioacchino da Fiore è citato anche da Dante Alighieri nella Divina Commedia, collocato nel XII Paradiso.
“Non è cosa da poco, certo, ma il collegamento fra Dante e Gioacchino da Fiore è in un certo senso controverso ma soprattutto ‘elitario’, in grado di interessare una nicchia. René Guénon sosteneva, mettendo dentro anche i templari, che la citazione dell’abate da parte di Dante Alighieri fosse da ricondurre all’appartenenza a una comune tradizione sapienziale, ma, ripeto, il collegamento fra il Sommo Poeta e l’abate non arriva al pubblico di massa. Parliamo di una terzina, ‘e lucemi da lato/il calavrese abate Giovacchino/di spirito profetico dotato’. Dunque se è vero che questo legame a livello territoriale è molto riverberato, anche sulla stampa locale, all’esterno non arriva”.
“Il collegamento fra Dante e l’abate è dunque forte, innegabile - osserva Morrone -, altrimenti il Sommo Poeta non l’avrebbe citato, e di certo ciò attrae una nicchia di turisti, ma ad attirarli qui è soprattutto la riscoperta della natura e del fascino del mistero insito nella natura stessa. Esiste da qualche anno a questa parte un ‘cammino di Gioacchino’ che si è inventato un’associazione lametina, con tanto di diffusione di documenti che raccontano il cammino di Gioacchino da Fiore. La gente ha riscoperto la passione delle camminate, e se a questa passione, immergendosi nella natura, si dà una motivazione, respirando aria pura e ripercorrendo le strade in un’atmosfera avvolta nel Medioevo e nel mistero, allora c’è tutto. Ecco, questo è un aspetto non secondario e molto più ‘pratico’ del collegamento fra Dante e Gioacchino, che è una roba per specialisti”.
Ma cosa si portano dietro i turisti che lasciano San Giovanni in Fiore dopo aver seguite le orme dell’abate Gioacchino? Morrone non ha dubbi: “La sorpresa di aver ‘scoperto’, come annota un grande studioso dell’abate, Andrea Tagliapietra, che non a caso ha fatto da consulente per la stesura del soggetto del film, l’attualità del pensiero di Gioacchino da Fiore soprattutto in tempo di grandi crisi, guerre, conflitti, incertezze economiche, esistenziali e sociali. La scoperta di un uomo, per molti un santo, che riteneva possibile il compimento della giustizia in questo mondo. Un precursore del Rinascimento, diceva ancora Tagliapietra, pur essendo un uomo del Medioevo. E io dico: un filosofo della contemporaneità, una figura in grado di dare risposte alla crisi di senso o, per dirla con Battiato e Sgalambro, di ‘vuoto di senso, senso di vuoto’, che viviamo adesso”.
L’INTERVISTA
«Così la forza di Gioacchino da Fiore ha conquistato la “mia” Costanza d’Altavilla»
L’attrice Elisabetta Pellini racconta la sua esperienza sul set de “Il Monaco che vinse l’Apocalisse”. «Location uniche per poesia e spiritualità»
di Emiliano Morrone (Corriere della Calabria, 24/12/2022
Dallo scorso primo dicembre è in postproduzione il film su Gioacchino da Fiore Il Monaco che vinse l’Apocalisse, diretto da Jordan River e prodotto da Delta Star Pictures con il sostegno della Fondazione Calabria Film Commission. L’uscita dell’opera cinematografica è prevista entro il 2025, l’anno del prossimo Giubileo ordinario della Chiesa, nel quale l’abate florense, vissuto tra il 1135 circa e il 1202, potrebbe essere beatificato, stando ad autorevoli fonti religiose. Nel XVI secolo il messaggio di Gioacchino - la profezia, direbbe il filosofo Gianni Vattimo, dell’emancipazione spirituale degli uomini - arrivò perfino nelle Americhe, come documentato dall’antropologo Georges Baudot nel volume “Utopía e Historia en México”, e lì fu determinante per la fondazione di diverse città, tra cui Puebla de los Angeles, oggi Puebla de Zaragoza, secondo uno studio di Silvia Castellanos de García, docente nell’Universidad National Autònoma de México. Eppure, proprio l’origine calabrese del monaco sembra essere penalizzante, per via di forti pregiudizi culturali che ancora gravano sulla (e nella) regione Calabria.
Abbiamo intervistato Elisabetta Pellini, che nel film - alla cui scrittura ha collaborato il filosofo italiano Andrea Tagliapietra, tra l’altro curatore del volume gioachimita “Sull’Apocalisse”, edito da Feltrinelli - interpreta il ruolo di Costanza d’Altavilla, madre di Federico II e grande estimatrice dell’abate Gioacchino, di cui Dante Alighieri riprese la teologia figurativa e cui Michelangelo Buonarroti si ispirò per i suoi affreschi nella Cappella Sistina. Il film in questione punta a divulgare la spiritualità e l’attualità del pensiero di Gioacchino da Fiore, ancora poco conosciute dal grande pubblico nell’era del consumismo digitale, del mercatismo e della globalizzazione imperanti. Peraltro, la speranza di vari amministratori locali calabresi è che il film possa far conoscere nel mondo il fascino della Sila, in cui sono state girate diverse scene di quest’opera di River, da tempo cultore appassionato dell’abate calabrese.
«Nel film la regina Costanza intravede in quel monaco la figura spirituale più vicina cui affidare le sue preoccupazioni più intime. Nel segreto della confessione, Costanza, la madre di Federico II, imperatore del Sacro Romano Impero e re di Gerusalemme, manifesterà il suo più profondo riconoscimento. La regina Costanza decide di confessarsi con il monaco Gioacchino invece che con il Pontefice. Ciò perché aveva grande stima e fiducia nei suoi riguardi. Il gesto compiuto dalla regina Costanza entrerà nella storia. Nessuna regina fino ad allora si era mai confessata e inginocchiata davanti ad un monaco».
«Dante gli esprime il proprio riconoscimento non solo in una terzina. Va detto che la Divina Commedia è veramente intrisa di forza gioachimita. Non tutti sanno che leggendo il capolavoro della Divina Commedia si legge anche il pensiero di Gioacchino. Per esempio, nel Canto XXXIII del Paradiso, Dante contempla le tre Persone divine e, con una grandiosa raffigurazione, illustra il mistero della Trinità. Per esempio, quando Dante scrive “Nella profonda e chiara sussistenza/ dell’alto Lume parvermi tre giri/ di tre colori e d’una contenenza;/ e l’un da l’altro, come iri da iri,/ parea reflesso, e il terzo parea foco,/ che quinci e quindi igualmente si spiri”. Lì Dante illustra i tre cerchi trinitari di Gioacchino da Fiore presenti nel Liber Figurarum, un’edizione del quale è conservata a Oxford».
«Ho letto lo stralcio del copione e poi ho avuto un incontro con il regista, prima delle riprese per lavorare sul personaggio di Costanza d’Altavilla. River usa un metodo tutto suo, pone molta attenzione alla preparazione, fornendo gli strumenti necessari per l’avventura cinematografica. Poi sul set si gira. Il regista indica la via, ma poi è l’attore che deve percorrerla. River cerca, insomma, di lasciare gli attori liberi di esprimersi per arrivare all’anima del personaggio. Nel film c’è una crew, una squadra molto importante e attenta ai particolari. Ognuno ha messo un po’ della propria arte. Per il trucco, Vittorio Sodano ha usato l’aerografo, in modo da renderlo il più naturale possibile. Non ci sono molte foto e materiali sull’immagine della regina Costanza, ma all’epoca si usava il caolino per truccarsi e nascondere le imperfezioni. Il costumista Daniele Gelsi è stato attento a ogni particolare del costume e mi ha consigliato dei movimenti per rendere l’abito più visibile e anche per entrare nell’epoca di Costanza d’Altavilla. Per il resto ho seguito il mio istinto di attrice e sono entrata per magia in quel contesto storico. È stato bellissimo. Le scenografie erano magnifiche. Le luci del direttore della fotografia, Gianni Mammolotti, hanno creato l’atmosfera giusta e intima per il grande incontro della regina Costanza con Gioacchino da Fiore, il monaco che vinse l’Apocalisse».
«L’umiltà regale e la ricerca della spiritualità per il figlio Federico II».
«Sono stata sul set in occasione delle riprese girate nel Lazio, successivamente a quelle realizzate nelle location calabresi. Per ora ho avuto modo di conoscere le splendide location della Sila soltanto virtualmente, poiché il regista, per farmi entrare nella scia spirituale del film, mi ha inviato un link per visionare alcune scene girate proprio a San Giovanni in Fiore. Ho visto per esempio la scena della tonsura di Gioacchino, girata nella cripta dell’Abbazia Florense. Nello specifico, si tratta di una vera immersione nella luce divina».
«Ci sono molte ambientazioni simili alla famosa pellicola “Il nome della rosa”. Anzi, direi di più: nel film “Il Monaco che vinse l’Apocalisse” ci sono location uniche, davvero spettacolari, con uno stile in cui la poesia e la spiritualità saranno i punti di forza».
«Da quello che mi è parso di percepire l’opera non si limita a eventi storici, ma li riporta in vita per farli vivere e amare. Affronta tematiche atemporali e universali come il coraggio, la costanza, la vittoria della vita sulla morte, la fraternità, l’amore».
«La produzione non ha ancora annunciato la data di uscita, ma ha però confermato che sarà distribuito in tutto il mondo entro il Santo Giubileo del 2025».
«Sappiamo che è in corso la causa di beatificazione di Gioacchino da Fiore e non è escluso, come trapela da importanti fonti religiose, che la Chiesa lo proclami beato entro il prossimo Giubileo del 2025. Certo, la Chiesa è in forte ritardo, sono infatti passati oltre 800 anni. Ma forse ciò doveva avvenire in quest’era, della “terza età”».
«Nell’estate scorsa sono state girate le riprese in Calabria, ma non ho avuto modo di esserci. So che sul set ci sono stati molti colleghi attori e che l’amministrazione comunale di San Giovanni in Fiore e la presidente della provincia di Cosenza, Rosaria Succurro, è stata al fianco della produzione dandole il massimo supporto. All’uscita del film, se sarò invitata, verrò volentieri a presentarlo Calabria, insieme al regista e alla produzione». (redazione@corrierecal.it)
L’INTERVISTA
Premio Gioacchino da Fiore ad Alexander Patschovsky, Potestà: «È una figura luminosa»
Oggi a San Giovanni in Fiore il riconoscimento allo storico. Il presidente del comitato scientifico parla dei 40 anni di attività
di Emiliano Morrone (Corriere della Calabria, 02 dicembre 2022)
SAN GIOVANNI IN FIORE. Oggi pomeriggio lo storico del Medioevo Alexander Patschovsky riceverà il Premio Gioacchino da Fiore nell’Abbazia florense di San Giovanni in Fiore, per l’alto contributo dato agli studi sulle opere dell’abate calabrese, vissuto nel XII secolo. L’iniziativa inizierà alle ore 17, organizzata dal Centro internazionale di studi gioachimiti, che insieme festeggerà i 40 anni di attività, e patrocinata dal ministero della Cultura, dalla Regione Calabria, dalla Provincia di Cosenza e dai Comuni di San Giovanni in Fiore, Carlopoli, Celico, Luzzi e Pietrafitta. La premiazione dell’accademico Patschovsky sarà preceduta dalla relativa laudatio di Gian Luca Potestà, professore ordinario di Storia del cristianesimo nell’Università Cattolica di Milano e presidente del comitato scientifico del Centro. Dopo la consegna del premio, il presidente del Centro, Riccardo Succurro, ne riassumerà i 40 anni di storia e verranno consegnati dei riconoscimenti a tutti i sindaci di San Giovanni in Fiore, ai dirigenti scolastici locali in servizio, ad alcuni fondatori dell’istituto culturale e ai suoi soci in carica per l’impegno profuso. Con Potestà, che ci ha rilasciato un’ampia intervista, abbiamo discusso dell’importanza e dell’attualità di Gioacchino da Fiore, del rapporto tra l’abate calabrese e Dante Alighieri, del lavoro scientifico di Patschovsky e del futuro del Centro, che ha sede a San Giovanni in Fiore.
Professore, come definisce Gioacchino da Fiore?
«Gioacchino è un tesoro della cultura, della spiritualità e della teologia italiane. Egli si inscrive bene in una linea di pensiero meridionale, cioè quello che, a partire da Platone, ha cercato di riflettere sulla storia. Se noi pensiamo a grandi pensatori che con il Mezzogiorno hanno avuto a che fare - da Gioacchino a Campanella, a Bruno, e poi, scendendo, a Labriola e anche a Croce -, in loro vediamo una costante preoccupazione di riflettere sulla storia, sul senso della storia e sulla direzione della storia».
Perché Gioacchino è importante?
«L’importanza di Gioacchino, detta in poche parole, sta nello scoprire il segno effettivo della Trinità nella storia degli uomini. Questo è un problema, perché la storia degli uomini viene normalmente concepita, in ambito cristiano, in un senso binario, cioè Antico Testamento e Nuovo Testamento. Invece, con Gioacchino abbiamo lo sforzo di leggerla in una prospettiva ternaria, cioè di trovare all’interno della storia non solo la traccia del Padre, l’Antico Testamento, ma anche quella del Figlio, Nuovo Testamento, e soprattutto quella dello Spirito. Ciò vuol dire inscriversi in una linea, che peraltro non era del tutto rara nel XII secolo, per così dire di revival dello Spirito Santo, inteso come forza che spinge in avanti la storia e che ad essa dà un impulso nuovo».
È dunque, quella dell’abate calabrese, una visione aperta della storia? Non di rado, poi, Gioacchino viene collegato ad Hegel e a Marx.
«Sì, l’abate ha una visione aperta della storia. In Gioacchino ci sono tanti aspetti; è un autore, potremmo dire, polimorfo. L’idea di fondo è, per semplificare, che i giochi non sono finiti, che il futuro è ancora davanti a noi e offre tanti elementi nuovi. Questo è, possiamo dire, il senso di Gioacchino. In epoca moderna le teologie della storia sono un po’ passate di moda. Noi troviamo grandi filosofie della storia - da Hegel a Comte, e in qualche modo anche Marx rientra dentro questo territorio - che non sono affatto derivate da Gioacchino, ma ci spiegano come, dentro un orizzonte secolarizzato, quelle grandi idee continuino a vivere».
Gioacchino e Dante, il secondo è un erede del primo?
«È un punto di attualità, perché l’anno scorso abbiamo celebrato il settimo centenario della morte di Dante. Su questo, mi permetta di dire, io andrei con cautela. A partire dal fatto che Gioacchino riceve un posto di rilievo nel Paradiso, ed è quella famosa terzina tante volte citata, si tende a mettere Dante nella scia di Gioacchino. Negli ultimi anni ho lavorato tanto sul profetismo e sulle concezioni escatologiche e apocalittiche di Dante. Il discorso sarebbe lungo, ma mi sono convinto che si debba essere cauti. Dante crea in realtà una propria apocalisse, che è perfettamente percepibile negli ultimi Canti del Purgatorio, nei quali egli mostra uno scenario della storia che a prima vista sembra debitore della visione gioachimita delle età. In realtà Dante riplasma completamente lo scenario, in relazione al proprio linguaggio, alla propria densità letteraria e ai propri fini».
Quindi non trova corretto legare Dante a Gioacchino?
«Per dirla in due parole, Dante conosce Gioacchino così come conosce il pensiero francescano della storia, gli spirituali francescani eccetera. Tuttavia, definire Dante gioachimita mi pare una forzatura. Gioacchino è tra le sue letture, ed è ovvio che lo sia. Forse noi immaginiamo Gioacchino come un pensatore un po’ marginale, ma si tratta di un autore straordinariamente letto e diffuso nel Medioevo. Dell’abate calabrese ho appena tradotto i primi quattro dei cinque libri della Concordia, che è una delle sue tre grandi opere, forse la più audace, in cui egli legge il passato della storia per trovarne una chiave di senso profetica volta verso il futuro. Ebbene, questa è un’opera che mostra una propria cifra della storia, una propria lettura della storia. È molto ambiziosa e quindi, direi, Dante ne è consapevole. Dante conosce Gioacchino come tanti altri intellettuali fra il XIII e il XIV secolo. La Concordia, pensi, è un’opera di cui ci sono rimasti più di 40 manoscritti. Inoltre, abbiamo notizia di almeno 15 manoscritti perduti. È un’enormità per un testo del Medioevo, è come se noi dovessimo moltiplicare per 100».
Il Centro di San Giovanni in Fiore compie 40 anni, è un’età.
«Oggi il Centro studi gioachimiti celebra in un certo senso sé stesso, perché ha voluto fissare una data importante, che è quella dei suoi 40 anni di vita. Credo che sia stata una grande scommessa. Nato a partire dall’intuizione, dall’entusiasmo, dalla passione di alcuni intellettuali di San Giovanni in Fiore, in particolare penso al professore Salvatore Oliverio, è riuscito a darsi una dimensione internazionale e una longevità straordinaria. È giusto, quindi, festeggiare i quarant’anni di età del Centro. Se ci arriveremo, festeggeremo anche i 50».
Il Premio Gioacchino da Fiore coincide, allora, con questo compleanno importante?
«Per celebrare degnamente questi quarant’anni, si è pensato di dare dei riconoscimenti a coloro che erano già attivi agli inizi e che ancora sono presenti sulla scena culturale della regione. Soprattutto, abbiamo voluto conferire un premio allo studioso che maggiormente ha fatto per Gioacchino negli ultimi decenni».
Così siete arrivati a Patschovsky?
«Qui il comitato scientifico, che io presiedo, è stato unanime nell’individuare la figura del collega professor Alexander Patschovsky. Più tardi terrò una laudatio nei suoi riguardi: in alcune cartelle cercherò di mostrare qual è il profilo scientifico dell’autore. Per dirla ora in due parole, Patschovsky è stato allievo di uno dei maggiori medievisti tedeschi: Herbert Grundmann, morto nel 1970. È stato l’ultimo suo allievo e di Grundmann ha raccolto l’eredità su due piani. Nei primi anni si è occupato soprattutto di inquisitori ed eretici. Poi, a partire dalla fine degli anni ’80 - ricordo, e lo ricorderò più tardi nell’Abbazia florense, una sua venuta a San Giovanni in Fiore per un congresso gioachimita - ha deciso di dedicarsi pienamente allo studio di Gioacchino. In questo senso, Patschovsky ha scritto dei saggi e soprattutto ha curato le edizioni critiche di moltissime opere di Gioacchino. Se non ci fosse stato lui, ben poco sarebbe stato pubblicato dell’abate calabrese».
«Delle tre grandi opere di Gioacchino, Patschovsky ha pubblicato in proprio la Concordia, sta per pubblicare il Commento all’Apocalisse e infine ha revisionato a fondo il testo del Salterio a dieci corde, curato dal professor Selge. Quindi Patschovsky è una figura luminosa; è un autore che, già prima della pensione, e a maggior ragione dopo il pensionamento, avvenuto nel 2005, si è dedicato totalmente allo studio di Gioacchino. Questo può sembrare qualcosa di astruso, perché fare delle edizioni critiche vuol dire produrre dei testi latini e con apparati di commento che per un profano spesso non sono facilmente comprensibili».
Me ne rendo conto, seguo il suo ragionamento.
«In realtà, Patschovsky ha posto le basi per un lavoro su Gioacchino che a questo punto ha dei fondamenti estremamente solidi e non più incerti. Perché dico solidi? Lo dico perché, soprattutto per le grandi opere, Gioacchino ha lavorato producendo diverse redazioni delle sue opere. Lei pensi che alla Concordia Gioacchino ha lavorato per 15 anni, con continue revisioni. Ma intanto le prime copie del testo già circolavano. Quindi è stata enorme la difficoltà di arrivare a definire il testo di fronte a tradizioni manoscritte divergenti. Ecco, i testi ora sono stati fissati: si sono poste le basi per un lavoro scientifico di enorme rilevanza».
Adesso di che cosa vi state occupando come studiosi?
«Parallelamente, abbiamo cercato e stiamo cercando ancora di tradurre delle opere. Io stesso ho appena tradotto i primi quattro libri della Concordia in italiano, in modo da rendere Gioacchino accessibile al lettore che non sia iperspecialista. Così viene fuori la straordinaria ricchezza di questo autore, che non si lascia confinare dentro uno spazio isolato».
Il fascino dell’abate calabrese deriva anche dalla sua utopia, concepita tra i monti della Sila, del rinnovamento del mondo?
«Il fascino di Gioacchino è quello di un grande pensatore che nel contempo è stato un monaco, un abate, uno che ha concepito un’idea di riforma del mondo a partire da una località isolata, sperduta, sulla Sila, immaginando un grande sogno, forse anche la grande illusione che da lì sarebbe venuto fuori il rinnovamento del monachesimo e del mondo».
Qual è la sua impressione a proposito della percezione che gli studiosi calabresi hanno di Gioacchino da Fiore?
«In una rivista che ho diretto per parecchi anni e che ancora seguo, Annali di Scienze religiose, noi pubblichiamo ogni anno, da una dozzina d’anni, una bibliografia degli scritti, cioè di tutti gli studi che compaiono su Gioacchino da Fiore nel mondo. Si tratta di un elenco, brevemente commentato, di ciascun articolo, di ciascun libro, di ciascuna voce di enciclopedia. Diciamo che, per darle l’idea, ci sono tra i 20 e i 50 contributi all’anno che escono un po’ in tutto il mondo, prevalentemente in Europa, ma qualcuno anche in Paesi lontani: negli Stati Uniti, in America Latina eccetera. Dirle che c’è un contributo specifico di alto livello scientifico che venga dalla Calabria mi sembrerebbe in fondo una forzatura. Naturalmente ci sono degli studiosi calabresi che si occuopano di Gioacchino. Anche in passato ci sono stati degli studiosi calabresi; penso qui al padre Francesco Russo e credo che fosse calabrese pure Antonio Crocco, che insegnava all’Università di Salerno. Questi ed altri studiosi calabresi hanno lavorato molto sull’abate, ma direi in una fase - naturalmente non uso alcuna tonalità spregiativa - pionieristica, cioè in cui si trattava di aprire la strada su Gioacchino».
Ora qual è il contributo degli studiosi calabresi?
«Adesso, come un po’ dappertutto, il tecnicizzarsi e lo specializzarsi della ricerca fa sì che per fare un’edizione di Gioacchino ci debbano essere competenze paleografiche, filologiche, storiche eccetera, che non si trovano dietro l’angolo. Queste competenze potrebbero trovarsi in Calabria o potrebbero trovarsi, come è stato per il professor Patschovsky, tra Monaco di Baviera, dove lui ha esercitato parte della sua attività di ricerca nei primi anni, e l’Università di Costanza, in Germania, dove lui ha insegnato fino al pensionamento».
Non è, in qualche modo, un controsenso?
«Per quanto le ho già detto, non mi meraviglio che Gioacchino non sia particolarmente considerato, non sia particolarmente oggetto di studio in Calabria. Però proprio per questo sono grato, devo dirle, all’attività che il Centro studi gioachimiti ha fatto e fa. La trovo meritoria. Il Centro ha sempre rispettato il piano della ricerca scientifica, e in questo senso non ha mai posto argini, mai posto limiti alla ricerca degli studiosi che ha cercato di raccogliere intorno a sé un po’ in tutto il mondo, purché fossero bravi».
C’è anche bisogno di rendere Gioacchino da Fiore più alla portata di tutti?
«Il Centro ha messo in atto una grossa attività di carattere divulgativo a livello provinciale, ed anche regionale, che in qualche modo si avvale dei risultati della ricerca scientifica e li ripropone in una prospettiva pure più semplificata; innanzitutto per le scuole, per i centri di cultura, per le università della terza età, per le biblioteche».
Come vede il futuro del Centro internazionale di studi gioachimiti?
«L’ho detto diverse volte, lo dico anche a lei, nella speranza che questa riflessione possa essere raccolta: il Centro studi gioachimiti è una realtà che va ulteriormente potenziata, e ci sarebbero tanti modi per potenziarla. Certo, siamo ormai alla vigilia della conclusione delle edizioni di Gioacchino».
Questo, professore, che cosa significa?
«Che tante altre cose si possano progettare, perché Gioacchino è un personaggio che muore nel 1202 ma la sua impronta resta fino all’età contemporanea. Allora non si fa fatica, non si fa sforzo per trovare altre imprese».
Che cosa servirebbe, dunque, per ravvivare, rivitalizzare le attività del Centro?
«Occorrerebbero, credo, anche grandi finanziamenti. Più volte, mi sono augurato che il Centro studi gioachimiti possa fruire di finanziamenti maggiori, in modo tale da dare nuove prospettive e nuovi orizzonti rispetto a quelli delineati quarant’anni fa e che in parte stanno anche venendo a conclusione. Infatti, dopo che Patschovsky avrà pubblicato l’edizione del Commento all’Apocalisse, mancherà solo il Liber Figurarum, che è già stato preso in carico dal mio collega professor Marco Rainini, dell’Università Cattolica, e con Gioacchino avremmo finito».
La missione del Centro è quasi compiuta?
«Sì, però infiniti altri capitoli si possono aprire sotto il nome di Gioacchino, a partire dalle opere pseudogioachimite composte subito dopo la sua morte. Quindi io mi auguro che il Centro - il quale è, non so se il termine sia tecnicamente giusto, un’eccellenza in Calabria - possa essere ulteriormente valorizzato, sostenuto, finanziato, avvalendosi sempre anche dell’apporto degli studiosi che più tempo e più competenze hanno speso su Gioacchino».
IL CARTEGGIO
«Come tutte le merci di valore, la verità è spesso contraffatta»
di Paola Militano (Corriere della Calabria, 07/10/2022)
Ho letto la lettera inviatami da Giuseppe Riccardo Succurro (la riportiamo sotto, ndr), presidente “in aeternum” del Centro Internazionale di Studi Gioachimiti. Lo scrivente lamenta espressioni irrispettose e nel farlo - non avvedendosi dell’evidente contraddizione rispetto al lamento - aggiunge «sarebbe stato più corretto professare di ignorare Gioacchino». Già, perché in Calabria della figura, del verbo e del pensiero dell’abate Gioacchino lo scrivente si ritiene unico depositario, sacerdote officiante di un rito per pochi, pochissimi eletti che per autoconvincimento, sono irradiati di “luce intellettual piena d’amore” e popolano un dantesco empireo, inarrivabile e intangibile.
Mi è capitato raramente di assistere ad una tale manifestazione di supponenza, un’autoreferenzialità declinata con l’indicazione di articoli, lettere e medaglie ricevute dal Centro che sa di esercizio autoerotico di natura fintamente intellettuale. Nell’elenco fornito poi da Succurro ci sono le pubblicazioni di testi ed il florilegio di espressioni che è utile mettere in fila: teologica simbolica, principi esegetici, dottrina trinitaria, teologia della storia. Insomma, né più né meno che la plastica dimostrazione di una grottesca ricercatezza che lungi dallo smentirla, conferma invece l’affermazione “irrispettosa” di «Gioacchino confinato all’interno dei monti della Sila».
Mi piace richiamare, usandole come forzata analogia, alcune parole di Papa Francesco nell’esortazione Gaudete et Exultate «... forme di sicurezza dottrinale o disciplinare che danno luogo ad un elitarismo narcisista e autoritario dove, invece di evangelizzare, si analizzano e si classificano gli altri, e invece di facilitare l’accesso alla grazia si consumano le energie nel controllare».
Il sempiterno presidente - come documenta la sua lettera - non riesce a cogliere e distinguere l’approfondimento e la divulgazione di carattere scientifico-letterario dalla valorizzazione e promozione “urbi et orbi” della figura, del ruolo e dell’importanza di Gioacchino da Fiore che «ha conosciuto il mondo, i suoi vizi, le invidie ed i contrasti della chiesa e delle corti». Si tratta di punti di vista completamente diversi, ugualmente validi ed essenziali.
Ma vale la pena ragionare, stante l’occasione, anche del Centro Internazionale (e privato) di Studi Gioachimiti gratuitamente ospitato in spazi pubblici e titolare, alla stregua di un privé, dei cori notturni dell’Abbazia florense. Concessioni, unite a contributi pubblici, garantite a una associazione presieduta da quasi 13 anni dal finissimo intellettuale che - in forza delle previsioni statutarie - è anche membro di diritto del Comitato scientifico. Quest’ultima circostanza, stante la natura privata dell’associazione, ha dato luogo a singolari scelte, ineccepibili sul piano formale ma molto discutibili sotto il profilo dell’opportunità.
Diciamolo pure, solo in Calabria un’associazione privata riceve gratis spazi pubblici, è esclusivista di luoghi simbolici e identitari, si autoperpetua per mandato statutario e pensa che un gigante del pensiero e della storia possa essere questione di famiglia. Ma è questione di cui, magari, ci occuperemo in un altro momento. (paola.militano@corrierecal.it)
Gentile direttrice,
l’abbiamo ascoltata affermare pubblicamente davanti ad una affollata assemblea che “Gioacchino è confinato all’interno dei monti della Sila”. Ci è sembrata una espressione irrispettosa. Ciascuno è libero di sostenere che il sole sia nero! Sarebbe stato più corretto professare di ignorare Gioacchino come molti non sono tenuti per forza a conoscere Shakespeare o Corrado Alvaro.
Le segnaliamo un articolo che Il Sole 24 Ore ha recentemente dedicato a Gioacchino da Fiore, al Centro Internazionale di Studi Gioachimiti e a San Giovanni in Fiore. Non ci risulta che il Sole 24 Ore sia pubblicato negli sperduti monti della Sila abitati da feroci briganti.
Le segnaliamo le lettere che quest’anno ci hanno inviato Papa Francesco e Papa Benedetto XVI con splendide parole di elogio verso l’opera di diffusione del pensiero di Gioacchino da Fiore che stiamo compiendo. Le facciamo presente che il Presidente della Repubblica Mattarella ci ha concesso la medaglia presidenziale. Le segnaliamo che tante Reti nazionali hanno trasmesso servizi su Gioacchino da Fiore.
Come prima lettura, le consigliamo questo libro: “Bernard McGinn, The Calabrian Abbot. Joachim of Fiore in the History of Western Thought, New York 1985” che il Centro Internazionale di Studi Gioachimiti ha pubblicato presso la Casa editrice Marietti di Genova. “L’’abate calabrese. Gioacchino da Fiore nella storia del pensiero occidentale”.
È un’opera che è stata tradotta in quaranta nazioni, anche in Giappone, a testimonianza dell’interesse degli studiosi di tutto il mondo nei confronti del nostro Abate.
Bernard McGinn è professore emerito di Storia della teologia alla Divinity School dell’Università di Chicago. Membro del Comitato scientifico del Centro Internazionale di Studi Gioachimiti, ha partecipato ai lavori dei Congressi Internazionali di Studi Gioachimiti insieme ad altri cento relatori provenienti dalle Università americane, tedesche, inglesi, francesi, spagnole, australiane, ecc. Abbiamo avuto il piacere di ascoltarne la prolusione tenuta nell’ambito della commemorazione di Gioacchino a Roma, nell’Accademia dei Lincei, alla presenza del Presidente della Camera. Era presente quando ci ricevette il Presidente della Repubblica (la delegazione del Centro era guidata dal prof Oliverio e dal prof Fonseca).
Il libro di Bernard McGinn colloca Gioacchino da Fiore sullo sfondo dell’ambiente storico e dei precedenti dottrinali, per poi intraprendere un’accurata analisi della sua teologia simbolica attraverso lo studio dei principi esegetici, della dottrina trinitaria e della teologia della storia.
La visione apocalittica della storia di Gioacchino da Fiore affonda le proprie radici nella tradizione cristiana, fino all’Apocalisse di Giovanni, il libro che egli considera la chiave per decifrare l’intera Bibbia. Benché numerose opere abbiano trattato dell’influsso dell’abate calabrese, poche hanno tentato di determinarne la posizione nella storia del pensiero attraverso un’analisi dei suoi apporti teologici più significativi. Buona lettura!
LETTERA INASPETTATA
Il papa emerito Benedetto XVI scrive a sorpresa al presidente del centro dedicato a Gioacchino da Fiore
Nella lettera si esprime un ringraziamento verso l’attività che sta portando avanti il Centro Studi con la pubblicazione delle opere dell’abate calabrese
di Franco Laratta (LaCNews", 5 settembre 2022)
Il papa emerito, Benedetto XVI, a sorpresa scrive al presidente del centro internazionale di studi gioachimiti, Riccardo Succurro: "Quando negli anni Cinquanta scrissi il mio lavoro sulla Teologia della storia di San Bonaventura dovetti utilizzare l’edizione del cinquecento, pubblicata nella Repubblica di Venezia. A quel tempo- scrive il papa emerito al presidente del Centro Studi - Gioacchino da Fiore era ancora considerato un sognatore sulla cui opera si preferiva tacere. Da allora l’opera di Gioacchino è stata al centro di ampi dibattiti e il silenzioso abate di Fiore si meraviglierebbe di tutto quello che oggi gli si attribuisce".
Nella sua analisi, Benedetto esprime un significativo apprezzamento verso l’operazione culturale più importante che sta svolgendo da quarant’anni il Centro Studi, la pubblicazione delle opere di Gioacchino da Fiore che consente di poter attingere al pensiero dell’abate calabrese e non alle interpretazioni e manipolazioni che ne hanno caratterizzato la lettura: "Per questo la pubblicazione di una moderna edizione critica dei suoi scritti rappresenta un’assoluta necessità, alla quale Lei ha corrisposto con il Suo Centro Internazionale di Studi Gioachimiti". Il papa emerito ha infine chiesto l’invio dei libri pubblicati dal Centro Studi di San Giovanni in Fiore.
Perché tutto questo interesse verso Gioacchino da Fiore da parte di uno dei più grandi intellettuali del ‘900? Per darsi una risposta bisogna andare indietro nel tempo, fino agli anni cinquanta, quando Ratzinger scrisse un lavoro molto importante: "San Bonaventura. La teologia della storia", pubblicato successivamente dalla Porziuncola nel 2008. Ratzinger ha approfondito il confronto tra la concezione della storia di Bonaventura e quella dell’abate di Fiore ed ha studiato l’influsso di Gioacchino su Bonaventura.
Secondo Ratzinger, san Bonaventura ha accolto la concezione gioachimita di Cristo "centro dei tempi", e non solo "fine dei tempi". Ratzinger sostiene che "l’idea di considerare Cristo l’asse dei tempi è estranea a tutto il primo millennio cristiano ed emerge solo in Gioacchino... che divenne, proprio nella Chiesa stessa, l’antesignano di una nuova comprensione della storia che oggi ci appare essere la comprensione cristiana in modo così ovvio da renderci difficile credere che in qualche momento non sia stato così."
C’è anche da sapere che il cardinale Ratzinger nel corso dei suoi studi e delle sue ricerche si è più volte confrontato con il pensiero dell’Abate Gioacchino. Durante il suo pontificato, che si è concluso con le clamorose dimissioni, è ripreso con maggiore vigore il processo di beatificazione di Gioacchino. Benedetto XVI con questa sua ultima lettera ha inteso sottolineare lo straordinario ruolo che da 14 anni svolge a livello internazionale il Centro Studi Gioachimiti, chiedendo quindi materiale e libri sul pensiero dell’Abate.
Religioni e civiltà.
Il silenzio degli agnelli
L’autore dedicò le sue ultime riflessioni all’animale che rappresenta la potenza del sacrificio di Cristo. Spiegato attraverso il contrasto con i temi e i toni dell’Apocalisse
di Antonio Gnoli (la Repubblica, 14 Aprile 2022)
Il libro Sotto gli occhi dell’Agnello di Roberto Calasso (Adelphi, pagg. 107, euro 13)
Nelle ultime settimane che gli restavano Roberto Calasso rilesse l’Apocalisse. Quel testo, chiuso tra catastrofe e rivelazione, gli si rivelò in una forma inaspettata. Lesse quelle pagine, spesso oscure, immaginifiche, terrificanti avendo negli occhi l’immagine nitida e folgorante del Polittico di Gand, un dipinto, oggi diremmo hollywoodiano, di scene sacre di Jan van Eyck (con la collaborazione del fratello Hubert). Al centro vi è la figura dell’agnello, l’animale più mite e misterioso che l’iconografia religiosa ci abbia consegnato. Tanto da suggerire a Calasso il titolo del nuovo libro: Sotto gli occhi dell’Agnello.
Cosa intercetta l’autore in quello sguardo che improvvisamente diviene imprescindibile per la storia che sta per raccontare? La prima cosa che mi è venuta in mente è La finestra sul cortile di Alfred Hitchcock. Non perché la relazione sia immediata, ma perché, molti anni prima, dedicando alcune pagine al film di Hitchcock e ai Veda, Calasso rimarcava la centralità dell’occhio del fotografo, interpretato da James Stewart. Con questa differenza: l’occhio dell’Agnello mistico, cioè del Cristo, sembra osservarci con sovrana e remota indifferenza, indotta da un cristianesimo che ha tradito le aspettative e si è ridotto a uno stanco rituale liturgico. Mentre lo sguardo "immobile" del fotografo inviterebbe (nella lettura di Calasso) a uscire dal cristianesimo, per incrociare quel mondo vedico le cui dottrine aprono varchi interessanti nell’Occidente ampiamente secolarizzato.
Ad alcuni potrà risultare arbitrario il passaggio fulmineo dalla dottrina vedantica a Hitchcock. Ma nel ridisegnare - con la sua opera - il grande affresco delle civiltà, e le relative religioni che lo sostengono, Calasso forza i confini spazio-temporali e rigetta la concezione lineare della storia. Credo che una tale impostazione valga anche per la lettura dell’Apocalisse, per il modo diretto e spiazzante con cui interviene sulle cesure e le articolazioni del testo. Fino a farne la chiave (o almeno una delle chiavi) per comprendere il nostro debole e rinunciatario rapporto con il sacro. Niente di quello che i numerosi commenti hanno offerto, tra l’allegorico e il liturgico, si ritrova qui. Volutamente si ignora la tenace fortuna che il testo avrà nei secoli, fino a imporsi come il "Libro" al quale ricorrere ogni qualvolta un mondo, una civiltà, una storia sembrano destinati al dissolvimento e alla distruzione (quanto cinema e quanta letteratura si sono nutriti dei suoi effetti speciali e terrificanti!).
Movimenti millenaristici di ogni epoca e latitudine hanno interpretato l’Apocalisse come se quei fatti che vi sono raccontati fossero veri. Come se davvero Dio abbia stabilito un inizio traumatico (la caduta) e una fine contraddistinta dal trionfo e dalla salvezza dei giusti.
La lettura di Calasso si discosta dalla visione escatologica e rigetta l’idea che il testo di Giovanni (o più probabilmente di qualche allievo) sia la prosecuzione e il compimento dei Vangeli. Al contrario, come già sospettava Lutero, ne rappresenta la rottura. Il messaggio che l’Apocalisse diffonde sarebbe dunque il tentativo del cristianesimo di autodistruggersi. Ma perché mai una religione ancora giovane, erede della tensione giudaica e già proiettata a riscriverne la visione, compirebbe un gesto così autolesionistico? Cosa nasconde e poi rivela quel testo che sembra scritto da un dinamitardo?
Nell’Apocalisse cristiana - diversamente da quella giudaica - il Messia è giunto. La sua presenza nel mondo, descritta dalla dolcezza dei Vangeli, non ha tuttavia prodotto i risultati sperati. Egli ha fallito il compito di far coincidere il cambiamento annunciato con il trionfo della salvezza. Precarietà e delusione circolano nelle prime comunità cristiane. Gesù stesso è consapevole che il nuovo che comincia a farsi imperiosamente strada sta prendendo una direzione sbagliata. Invoca un successore, un altro messia, un "consolatore" in grado di rimettere l’umanità sulla retta via.
Ma dov’è un successore che sappia portare a termine il compito escatologico? Dal ruggito dell’Apocalisse si può dedurre solo che un essere molto potente in grado di domare il nuovo stia arrivando: "Quel demone del nuovo che usualmente viene attribuito al mondo secolare e alla scienza che lo innerva ha un’origine cristiana o più precisamente paolina".
Paolo prepara il futuro al culto della novità, ne sposa i segni della rivoluzione più che della rivelazione. È il depositario di una sapere antico e di un ordine nuovo. Fornito di un pensiero militante, si pone alla testa di una rivoluzione che nel nome della novitas liquida l’intero mondo antico: "Nessun Lenin del futuro avrebbe saputo parlare (e agire) con altrettanta concisione e vigore", commenta con lieve sarcasmo l’autore. Il nuovo che avanza travolgente non ha più bisogno del cosmo e delle sue storie. E se, per avventura, fa appello a qualcosa di remoto, tende a sfigurarlo e a tradirne la legittimità.
Sotto gli occhi dell’Agnello prende spunto da un’immagine potente dove la distanza dello sguardo animale sembra ignorare che qualcuno l’ha trafitto e che una lunga storia sacra - cominciata prima di Abele e giunta fino a Gesù - lo riguarda. Davanti a quella immagine si può solo constatare che senza quel sacrificio la potente macchina del mondo non si sarebbe più messa in moto. Ma le scritture non dicono a quale folle velocità essa è lanciata. Niente prefigura davvero cosa accade dopo che "l’innominabile attuale", sotto il cui segno il nuovo agisce, ha preso il sopravvento.
Sotto gli occhi dell’Agnello non appartiene all’oggi, ma al passato che convive col domani. Alcuni versi dell’Apocalisse sigillano il finale, ma l’autore li fa precedere da un preciso richiamo al senso intimo, starei per dire sacro, del leggere: quasi un’identificazione genetica tra chi scrive e l’idea stessa del libro: "Leggere è qualcosa che si misura con le potenze del mondo".
Cosa c’è di più commovente e rischioso di questa frase? Che cosa può frenare il dissolversi dell’esperienza artistica e religiosa se non il libro? Per tutta la vita Roberto Calasso ha cercato di dare un nome, o meglio ancora un libro, all’innominabile attuale. Quel libro - dove poter ammassare, avrebbe detto Baudelaire, le proprie collere - non è il mondo, così come l’Apocalisse non ne è la fine. È una grande finestra spalancata sul fluire della vita e sulle decisioni da prendere anche quando è giunto il tempo di congedarsi. Un tempo non già scandito dalla rassegnazione ma dallo scegliere da che parte stare, perché le battaglie celesti non finiscono mai.
DANTE2021
LA MEMORIA DI APOLLO E DELLE MUSE E IL MESSAGGIO SEGRETO DELLA DIVINA COMMEDIA, DEL MUSICO DI LEONARDO, DELLA PRATICA DELLA MUSICA DI GAFFURIO, E DELLA GAIA SCIENZA DI NIETZSCHE...
A) IL MUSICO. "Il messaggio segreto nel quadro di Leonardo: Un messaggio nascosto, per di più in chiave musicale, all’interno di un quadro: “Il Ritratto di Musico” di Leonardo da Vinci. Lo ha svelato lo storico d’arte e ricercatore siciliano Giuseppe Petix alla Fordham University di New York. [...] Petix ci racconta anche: «Il rebus all’interno del cartiglio è stato trovato grazie alle conoscenze musicali che abbiamo del periodo di Leonardo. Un rebus che se decifrato forma il versetto o meglio il rondò “Oh Re fammi lagnar: Sol l’amore mi fa sollazzar”, che in versione prosaica potrebbe essere visto così “Oh dio, permettermi di lamentarmi, concedimi un lamento da uomo, solo l’amore mi rende felice”». Un inno, quindi, una preghiera, una richiesta di aiuto [...] Questa frase ricorda le lamentazioni presenti nei salmi della bibbia, e di preciso il "dio" del quale si parla potrebbe rappresentare l’anima del Davide Biblico [...]" (Laura Pace , i.Italy, November 25, 2019)
C) LA GAIA SCIENZA (IV, fr. 334). "Si deve #imparare anche l’amore. Si deve imparare ad amare. Ecco quel che ci accade nella musica: si deve prima imparare a udire una sequenza e una melodia in genere, a enuclearla nell’ascolto e a distinguerla isolandola e delimitandola come se avesse una vita propria; quindi bisogna sforzarci e impiegare la nostra buona volontà per sopportarla, malgrado la sua estraneità, bisogna fare un esercizio di pazienza di fronte al suo sguardo e alla sua espressione, considerare con benevolenza quel che c’è di inusitato in essa - finalmente arriva un momento in cui ne abbiamo preso l’abitudine, in cui l’attendiamo, [...] finché non si sia diventati i suoi umili ed estasiati amanti, per cui non v’è più niente di meglio da chiedere al mondo se non la melodia e ancora la #melodia.
Questo ci accade però non soltanto con la #musica: proprio in questo modo abbiamo imparato ad amare tutte le cose che oggi amiamo. In definitiva, siamo sempre ricompensati per la nostra buona volontà, per la nostra pazienza, equità, mitezza d’animo verso una realtà a noi estranea, quando lentamente essa depone il suo velo e si manifesta come una nuova inenarrabile bellezza: è questo il suo ringraziamento per la nostra ospitalità. Anche chi ama se stesso, lo avrà appreso per questa strada: non ce ne sono altre. Si deve imparare anche l’amore. (F. Nietzsche).
D) COSMOLOGIA DANTESCA. "L’amor che move il sole e le altre stelle" (Par., XXXIII, 145).
E) DANTE LEONARDO E GAFFURIO: LE TRACCE DI UN PROGRAMMA E DI UNA STRATEGIA CULTURALE CON RADICI PROBABILMENTE GIOACHIMITE E FRANCESCANE...
Il messaggio segreto del Musico di Leonardo e il legame stretto con la Musica delle Sfere ("Theorica Musicae", (1492; "Practica Musicae", 1496) di Franchino Gaffurio (con Apollo, le Grazie, le Muse, il Cielo delle Stelle Fisse e dei Pianeti, e il Serpente) rende possibile una interpretazione e connesione con il viaggio della Divina Commedia: il cammino nel regno dell’Apollo de-caduto (dopo la venuta del nuovo Re, di Cristo), cioè di Lucifero, è finito ed è "ora" che Dante con Virgilio si liberino della loro stessa pelle di serpente e, lasciato Lucifero con" le gambe in sù" (Inf. XXXIV, 90) alle loro spalle, ... mettano i piedi a terra! La strada per il paradiso terrestre e celeste è libera.... sotto il cielo stellato, inizia la "vita nuova"!
F) LA MUSICA DELLE SFERE, LA DIVINA COMMEDIA, E LA QUESTIONE ANTROPOLOGICA. Nella sua "Mitologia creativa" (Milano 1992), Joseph Campbell, dopo aver premesso che "anche Dante invocò le Muse - all’inizio dell’inferno, nel Canto II - e fu guidato sia attraverso l’Inferno sia sulla cima paradisiaca del Monte del Purgatorio dal pagano Virgilio" (p. 128) e aver analizzato in dettaglio la Figura di «la Musica delle Sfere», "trattada un’opera neoplatonica del quindicesimo secolo, la Pratica musicae di Franchino Gaffurio, pubblicata a Milano nel 1496", scrive che "[...] l’intera Divina Commedia di Dante esprime questa visione pagana di una dimensione spirituale dell’universo", e, al contempo, lo "imbottiglia" (senza resti) nella tradizione cattolico-romana: "[...] Il fatto che, in Dante, il potere di guida dei pagani termini alla sommità del Purgatorio, nel Paradiso Terrestre, si accorda con la formula di san Tommaso secondo cui la ragione può condurre, come fece con gli antichi, fino al vertice delle virtù terrene, ma solo la fede e la grazia soprannaturale (personificata da Beatrice) possono portare oltre la ragione, fino alla sede di Dio". Pur, se con incertezze e difficoltà, continua e finisce paradossalmente col riportare Dante nell’orizzonte della tragedia e dell’antico patto edipico (di "mammasantissima", altro che patriarcale): "Tuttavia, analizzando questo Dio Trinitario che, nella dottrina cristiana delle tre persone divine in un’unica sostanza divina, abbiamo una trasposizione delle tre Grazie e dell’Apollo Iperboreo in un ordine mitologico di maschere escusivamente maschili di Dio, il che si accorda bene con lo spirito patriarcale dell’Antico Testamento, ma sbilancia radicalmente le connotazioni simboliche, e quindi spirituali, non solo del sesso e dei sessi, ma anche dell’intera natura".
Federico La Sala
Edificare e riedificare: per una Chiesa in uscita
S.Ecc. Mons Francesco Nolè, Arcivescovo di Cosenza
Nel mistero dell’Incarnazione, il Figlio di Dio fatto uomo ha rivoluzionato la visione e il concetto umano del tempo: Dio non abita più nelle costruzioni fatte dalle mani dell’uomo ma nella comunità cultuale che in essa si raduna.
Questa essenziale novità della fede permette di guardare all’edificio cristiano come uno specchio della presenza di Dio in mezzo al suo popolo. Da quasi ottocento anni la Cattedrale rappresenta per il territorio cosentino non solo un insigne monumento di arte ma, soprattutto, un luogo rappresentativo del cammino di fede che ha plasmato le generazioni passate, conferendo vita alle pietre camminate dell’edificio sacro.
Chi entra oggi nella Chiesa Madre della Città e della Diocesi di Cosenza rimane affascinato dallo stile cistercense realizzato dal suo costruttore, l’arcivescovo Luca da Casamari, già abate e scriba di Gioacchino da Fiore, uno dei figli più illustri della Diocesi bruzia.
L’itinerario pensato conduce all’incontro con il Mistero di una Divina Presenza, che trova spazio e accoglienza nel vero tempio spirituale che è il cuore dell’uomo che si lascia sorprendere dalla manifestazione attraente ed inaspettata di Dio.
La forma fortemente cristocentrica della struttura si rispecchia nella collocazione dell’altare al centro della crociera, sormontato da un artistico Crocifisso del XV secolo appartenente alla nobile famiglia cosentina dei Telesio di cui era membro il famoso filosofo Bernardino, evocando costantemente la visione paolina della Chiesa “mistico corpo in Cristo”.
Questa sacramentale incorporazione rende la Chiesa non un semplice aggregato umano, ma il segno della presenza viva del Cristo Risorto, e si manifesta nelle celebrazioni liturgiche, in cui la diversità gerarchica dei ministeri, fusi nell’unica azione di grazia e di supplica, fa palpitare veramente l’animo umano.
Dalla posizione della cattedra episcopale, collocata - dopo l’ultimo adeguamento liturgico dell’area presbiteriale - in fondo all’abside, si può godere di una visione unica: un popolo unito e articolato, chiamato a plasmare con la propria vita le realtà temporali nello spirito del Vangelo.
Il 30 gennaio 1222 fu solennemente celebrata la Dedicazione di questo edificio sacro, alla presenza dell’Imperatore Federico II, “stupor mundi”, il quale, secondo la tradizione, donò al Capitolo dei Canonici una preziosa Croce reliquiario attualmente custodita nel Museo Diocesano.
L’ottavo centenario di questo evento, per cui sarà indetto uno straordinario anno giubilare per l’Arcidiocesi, sarà per l’intera Chiesa locale di Cosenza-Bisignano e per il territorio cosentino e calabrese un momento di grazia spirituale, per una rinnovata e più solida coscienza ecclesiale.
Dalla riscoperta e riappropriazione della memoria storica, di cui la Cattedrale è scrigno preziosissimo, si auspica che la celebrazione dell’evento permetta di instaurare una rinnovata sinergia tra le ricchezze del panorama culturale calabrese, che dia avvio ad una rinascita del centro storico della città e che rimetta in moto la stima e l’apprezzamento per quella parte di storia plurisecolare che, passando attraverso luci ed ombre, si intreccia con la mirabile storia della salvezza, di cui Dio è origine e fine ultimo.
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Fonte: “ChiesaOggi.com” (RIPRESA PARZIALE - SENZA IMMAGINI).
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Teologia.
La Chiesa superstite, profezia sul domani
Il biblista Walter Vogels indaga la questione del “resto” come unità residuale che sembra indicare il declino, ma in realtà può annunciare una rinascita
di Roberto Righetto (Avvenire, venerdì 19 febbraio 2021)
L’esilio babilonese: James Tissot, “ La deportazione dei prigionieri” - WikiCommons
Resto. Oggi viene da pensare al popolo dell’Artsakh, violentemente aggredito da turchi e azeri e costretto a rifugiarsi in Armenia, abbandonando case e campi, oltre che chiese e monasteri testimonianze di una civiltà millenaria.
Nelle culture precristiane, il concetto di ’resto’ fu applicato a quel che rimaneva di una popolazione dopo una guerra o un disastro naturale e, come noto, la Bibbia abbonda di citazioni relative al popolo di Israele. In particolare, dopo la serie di crudeli invasioni e deportazioni da parte di Assiri e Babilonesi. Nell’Antichità infatti, al termine di un conflitto, i vincitori si abbandonavano alla distruzione quasi totale degli avversari, a cominciare dai loro leader, ma anche delle fonti di vita, dei villaggi e delle vigne.
Un’esperienza verificatasi più volte, dai Sumeri agli Ittiti, dagli Assiri agli Egizi. Eppure, nonostante questa sistematica opera di annientamento dei vinti, qualche sopravvissuto rimaneva sempre. E in alcune circostanze, dopo anni o decenni la vita poteva riprendere. È il caso appunto di Israele, che riuscì a risorgere dopo periodi di cattività a Babilonia. «Racimolate, racimolate come una vigna il resto d’Israele», scrive Geremia dopo l’invasione babilonese che portò, nel 586 a.C., alla distruzione di Gerusalemme.
In realtà, il primo a parlare di ’resto’ era stato Amos, considerato anche il primo profeta-scrittore. Molto severo verso gli israeliti che avevano abbandonato il Signore, egli preannuncia la distruzione del regno del Nord da parte degli Assiri, che si verificherà nel 721 a.C., ma esprime pure la speranza che «forse il Signore, Dio degli eserciti, avrà pietà del resto di Giuseppe ».
La nozione di ’resto’ si affaccia la prima volta dunque, come accennato, in un contesto di guerra. È noto che gli Assiri erano particolarmente feroci, puntavano ad schiacciare completamente i popoli conquistati e, nei loro rapporti ufficiali, i re rimarcavano come ’il resto’ fosse stato catturato, ucciso o deportato, in modo che i vinti non potessero ribellarsi in futuro. Però, v’era sempre un ’resto’ che era riuscito a fuggire nel deserto.
Gli Assiri dovettero accontentarsi di prendere la Samaria ma non giunsero sino a Gerusalemme, cosa che si verificò invece anni dopo con Nabucodonor, prima nel 597 e poi nel 586, quando il tempio venne distrutto dalla foga dei Babilonesi, e infine in un’ultima deportazione voluta da Nabuzaradan, nel 582. In queste circostanze, vari profeti, da Isaia a Sofonia e Geremia, lamentarono la sorte del resto d’Israele. Dice Isaia: «Da Gerusalemme uscirà un resto, dal monte di Sion un residuo». E Geremia auspica che il suo popolo si lasci sottomettere dai Babilonesi per sopravvivere.
Così Ezechiele, che vede una speranza e un futuro possibile per il popolo di Dio anche nell’esilio. Sarà Ciro, re di Persia, nel 538 a.C., a ridare la possibilità al resto d’Israele di tornare nella sua patria. Così finì il periodo di castigo e purificazione. Nella Bibbia il riferimento al resto è legato anche a circostanze diverse, come il diluvio di Noè o l’incendio di Sodoma (probabilmente conseguenza di un terremoto), ma tutti questi disastri sono dovuti al peccato d’Israele, cui Dio dà però sempre la possibilità di risollevarsi.
È a partire dall’esame accurato di questo tema biblico che attraversa tutte le Scritture che il biblista e teologo Walter Vogels, docente emerito di Antico Testamento all’Università Saint-Paul di Ottawa, nel suo libro Il piccolo resto nella Bibbia (Queriniana, pagine 144, euro 16,00) finisce per applicarlo al declino attuale della Chiesa: «E se la manciata di fedeli pronti a mantenere viva la fede in Cristo svolgesse oggi la stessa missione dei superstiti dell’Antico Testamento».
È sotto gli occhi di tutti il calo enorme non solo nella frequenza alle cerimonie religiose, ancor più evidente in questo periodo di pandemia, tanto che risulta ben difficile parlare ancora di ’Europa cristiana’. Anche secondo le indagini recenti, meno della metà delle persone che vivono nel Vecchio Continente si dice credente o religiosa e i cristiani si collocano ormai fra il 20 e il 30 per cento.
Diversa la situazione nel resto del mondo, in particolare in America, Asia e Africa, dove semmai il cristianesimo è messo in pericolo non dall’abbandono dovuto dalla secolarizzazione ma dalla persecuzione. Vogels enumera il Medio Oriente, che ha visto i seguaci dell’Isis assassinare centinaia di cristiani, o la Nigeria, il Pakistan e l’India, ove molti subiscono angherie, se non conversioni forzate all’islam o uccisioni, solo perché cristiani.«Non è sorprendente - commenta l’autore - che papa Francesco parli della nostra epoca come quella dei martiri. In Occidente, una cultura umana e cristiana è del pari in via di estinzione, e chi si preoccupa?».
Le persone che si collocano dentro la Chiesa hanno tre diverse reazioni. Ci sono i profeti di sventura, che rimpiangono i bei tempi andati e mettono sotto accusa tutta la cultura moderna. Poi ci sono quelli che guardano alla differente e più positiva situazione della Chiesa nel resto del mondo e perciò non si preoccupano più di tanto.
Infine vi sono coloro che vedono in questa situazione di crisi un’opportunità, quella di tornare alle origini, «un’umile, piccola Chiesa, lievito nell’impasto, granello di senape, luce per il mondo». Si apre insomma la possibilità di ritrovare la natura vera ed essenziale della Chiesa, che si deve purificare abbandonando ogni compromissione col potere.
Qui il tema del ’resto’ non appare affatto ingiustificato. Come ha detto Gesù: «il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?», una domanda che non ha una risposta scontata e che deve far riflettere, perché la perdita di fede in Europa potrebbe non aver raggiunto il culmine.
Anche il popolo d’Israele subì una terza deportazione e «rimase il resto di un resto di un resto»: accadrà così anche ai cristiani d’Occidente? Per Vogels non si tratta di consolarsi sostenendo che ora va a Messa solo chi ci crede davvero e che la Chiesa è più pura. Se in questo c’è del vero, non ci si può illudere che il futuro delle comunità cristiane sia costituito solo da pochi eletti, che magari si ritengono perfetti. Anche coloro che in passato frequentavano in massa la parrocchia e che magari non erano acculturati, vivevano però una fede sincera e profonda. E trasmettevano la fede ai loro figli.
Il volume esamina anche le possibili cause del declino, fra cui le stesse colpe della Chiesa dovute per esempio agli scandali e agli abusi, ma pone pure alcuni segni di speranza. «Quanto durerà questo esodo?», si chiede Vogels, e aggiunge: «Dopo tutte le apologie degli ultimi papi per le colpe della Chiesa, la chiamata costante e fervida di papa Francesco alla misericordia di Dio sarebbe una profezia che questo tempo della misericordia, che darà il cambio a quello dell’ira, è vicino?».
Si tratta di ripartire proprio dal ’resto’, da coloro che rimangono legati alla Chiesa e continuano ad impegnarsi e a trasmettere la fede alle nuove generazioni. Sarà capace questo ’resto’, grazie a un processo di riforma autentica e una nuova evangelizzazione, di recuperare almeno una parte di coloro che se ne sono andati? «La rimpatriata non sarà facile. Ma non abbiano il diritto di lasciare i feriti della vita da soli, in esilio, lontani o esclusi dalla comunità». E ancora: «Spalanchiamo le porte della misericordia, della comprensione e della tolleranza. Ci deve essere posto per molti nella casa del Padre, per coloro che sono chiamati liberali o conservatori, tradizionalisti o rivoluzionari, di sinistra o di destra. Ci sarà del vecchio e del nuovo. Nessuna comunità è perfetta ».
Ma si può ricostruire rispettando due condizioni: che sia salvaguardato il patto fra la Chiesa e i diritti dell’uomo, nel rifiuto di ogni violenza, e che si testimoni il primato dell’agape, segno vero della presenza dei cristiani nel mondo.
DIO: AMORE ("CHARITAS") O MAMMONA ("CARITAS")?!
Abitare le parole
Impronta.
SEGNAVIA DELLA NOSTRA STORIA
di Nunzio Galantino *
Per coprire il campo semantico della parola “impronta”, oltre al contributo che viene dalla derivazione etimologica, è opportuno porre attenzione al significato del termine χαρακτήρ che rende, in greco, la parola impronta e identificare gli attributi che, di volta in volta, l’accompagnano.
Sul piano etimologico, la parola impronta deriva dal latino imprĭmere (premere sopra, calcare). Χαρακτήρ - dal verbo χαράσσω (incidere, scolpire) - nella cultura greca è un nomen agentis: è cioè più di una traccia lasciata. È invece una persona che ritrae qualcuno o qualcosa. Come nella Bibbia (Ebr 1,3), dove Gesù è χαρακτὴρ τῆς ὑποστάσεως αὐτοῦ, è impronta - nel senso di piena ed esatta rappresentazione - della sostanza di Dio.
A proposito, poi, dell’impronta e degli attributi che l’accompagnano, si parla di impronta fisica lasciata da una parte del corpo o da uno strumento fisico, di impronta digitale cellulare e di impronta genetica. Sempre più spesso sentiamo, inoltre, rivolto a tutti l’invito a ridurre l’impronta ecologica; una sorta di indicatore che misura la quantità e la qualità del consumo delle risorse naturali prodotte dal pianeta Terra.
In senso generico, l’impronta è un segno tracciato con una pressione su una superficie. In senso figurato, la parola impronta indica una caratteristica che permette di identificare una persona o una sua produzione artistica, letteraria ecc. È vero che, almeno dal punto di vista fisico, non si può non lasciare un’impronta. Ma è anche vero che l’impronta non è solo il frutto inconsapevole di un gesto, di una presenza o di un passaggio.
Il più delle volte, proprio perché espressione di una identità, l’impronta è frutto di una scelta consapevole, attraverso la quale io, di fatto, racconto la mia vita, le priorità che mi guidano e la qualità che scelgo di far ricadere in modo incisivo sulle mie relazioni.
E, proprio perché contengono pezzi di noi e della nostra interiorità, le impronte possono trasmettere un’immagine positiva di noi o comunicarne una negativa. Sono lì, come segnavia della nostra storia personale.
Bisogna avere, di tanto in tanto, il coraggio di prenderle in mano e di fermarci per verificare cosa le impronte di cui disseminiamo la nostra presenza e le nostre relazioni stanno raccontando di noi.
Uno sguardo attento e onesto sulle impronte ci permetterebbe di verificare se, quelle lasciate nel cuore e nella storia delle persone incontrate sul nostro cammino, sono impronte che generano e tramettono vita o piuttosto dolorose cicatrici.
La storia personale e quella relazionale in genere vive di impronte lasciate e di impronte subìte, attraverso uno sguardo, una parola, una carezza o un’emozione provocata. Ma essa è esposta anche a impronte che assomigliano molto di più a ferite. Quelle provocate da rifiuti, sguardi indifferenti o evidenti strumentalizzazioni. Se le prime hanno la capacità di ricomporre pezzi di vita andati in frantumi, le altre, più che impronte, sono cicatrici che rendono sempre più insopportabile la vita.
*Rubrica de Il Sole 24ore, 28/09/2020.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
MONSIGNOR RAVASI, MA NON E’ POSSIBILE FARE CHIAREZZA ? SI TRATTA DELLA PAROLA FONDANTE E DISTINTIVA DELLA FEDE CRISTIANA !!! DIO E’ AMORE ("Charitas") O MAMMONA ("Caritas") ?!
Federico La Sala
Una vita di preghiera nelle Serre calabresi
San Bruno, il fondatore dell’Ordine dei Certosini
di Maurizio Schoepflin *
Talvolta quelle che siamo soliti definire radici cristiane dell’Europa assumono i caratteri di fili invisibili che uniscono spiritualmente località lontane fra loro centinaia e centinaia di chilometri. È il caso della celebre città tedesca di Colonia, situata nella parte centro-occidentale della Germania, e di Serra San Bruno, piccola località calabrese in provincia di Vibo Valentia. All’origine di questo profondo collegamento si trova una delle grandi figure della santità medievale, Bruno, il fondatore dell’Ordine certosino, a cui è stato di recente dedicato un bel volume di vari autori intitolato San Bruno e i certosini. Una vita di preghiera nelle Serre calabresi (Soveria Mannelli, Rubbettino, 2020, pagine 160, euro 14).
Originario della terra renana, ove nacque intorno al 1030, Bruno andò a studiare a Reims e qui acquistò grande prestigio, divenendo ben presto un punto di riferimento della scuola e della chiesa, anche per la sua opposizione coraggiosa e decisa alla rilassatezza morale di vari prelati, che proprio per questo non esitarono a rendergli la vita difficile.
Fu in quei momenti di difficoltà e sofferenza che avvertì una forte attrazione per la vita monastica e, dopo aver rinunciato all’offerta di diventare vescovo, al termine di un breve periodo di peregrinazione si stabilì in una zona montana assai boscosa, nella regione francese del Delfinato, non lontano da Grenoble. Il massiccio dove Bruno fondò il primo monastero era denominato Cartusia, termine che è all’origine dell’italiano “certosa”.
Correva l’anno 1084 e si cominciò a lavorare all’edificazione della chiesa, l’unico edificio in pietra dell’intero complesso, che venne consacrata il due settembre del 1085. I monaci iniziarono subito a vivere in pressoché totale solitudine, lontani dal mondo, in un clima di grande austerità e fervore.
Qualche tempo dopo, Bruno dovette abbandonare la Certosa: il Pontefice Urbano ii, che da giovane era stato suo allievo a Reims, lo desiderava a Roma e il Nostro, seppur con una certa sofferenza, obbedì prontamente. Il suo animo restò comunque tutto preso dal fascino della vita eremitica, e quando il Papa lo volle nominare vescovo di Reggio Calabria preferì rifiutare, accettando invece di buon grado la donazione di un terreno sito nella località chiamata Torre, a circa 850 metri di altitudine, nell’attuale Calabria centromeridionale. Qui fondò l’eremo di Santa Maria e andò ad abitarvi, trascorrendo le giornate nella preghiera, nel silenzio e nella solitudine, fino a che la morte non lo colse la domenica 6 ottobre 1101.
Il libro descrive bene il forte e fecondo rapporto stabilitosi tra il santo e la terra calabrese, che lo annovera tra i suoi più eminenti figli adottivi. In una lettera inviata all’amico Rodolfo il Verde, prevosto di Reims, egli scrive: «In territorio di Calabria, con dei fratelli religiosi, alcuni dei quali molto colti che, in una perseverante vigilanza divina “attendono il ritorno del loro Signore per aprirgli subito appena bussa”, abito in un eremo abbastanza lontano da tutti i lati, dalle abitazioni degli uomini. Della sua amenità, del suo clima mite e sano, della pianura vasta e piacevole, che si estende per lungo tratto tra i monti, con le sue verdeggianti praterie e i suoi floridi pascoli, che cosa potrei dirti in maniera adeguata? Chi descriverà in modo consono l’aspetto delle colline che dolcemente si vanno innalzando da tutte le parti, il recesso delle ombrose valli, con la piacevole ricchezza di fiumi, di ruscelli e di sorgenti? Né mancano orti irrigati, né alberi da frutto svariati e fertili».
Sono parole che fanno apprezzare la viva sensibilità di Bruno per la bellezza del creato e la grande importanza che egli attribuisce all’ambiente naturale ai fini di una piena realizzazione dell’ideale monastico e contemplativo.
Per tale ragione bene hanno fatto gli autori a destinare varie pagine del libro - oltre a molte eloquenti suggestive illustrazioni - alla Certosa calabrese, alla sua lunga storia e alla terra dove sorse. Un’opportuna attenzione viene pure riservata alla vita certosina, scandita dai momenti e dai gesti che le sono propri, nonché caratterizzata dalle sue più tipiche componenti spirituali e materiali: la liturgia eucaristica, l’incessante orazione, il rigoroso orario quotidiano, l’umile cella del monaco, il giardino, il lavoro, lo studio, il canto e altro ancora.
Da oltre novecento anni la testimonianza dei certosini e delle certosine (il ramo femminile dell’ordine nacque intorno al 1150 nel sud della Francia) continua a essere una luce splendente sulla via della spiritualità cristiana. All’origine del ricco contributo offerto dalla tradizione certosina alla Chiesa nella sua interezza sta proprio la fisionomia spirituale del fondatore, a cui il libro dedica alcune dense pagine, dalle quali si apprende che al centro della vita interiore di Bruno era situato un ardente, esclusivo amore per Dio: la scelta della solitudine fu da lui operata per vivere tale amore in maniera davvero radicale.
Bruno sottolinea in particolare la bontà e la dolcezza divine, che diventano motivo di gioia autentica, quella che il vero cristiano assapora nel silenzio e nella pace dell’eremo, lontano dal frastuono e dagli affanni mondani. La lunga storia dell’ordine certosino, come è comprensibile, ha conosciuto momenti di crisi e di appannamento, ma l’esigenza interiore avvertita da Bruno è rimasta intatta nella sua significativa importanza.
Particolarmente eloquente è il motto dei certosini che suona Stat Crux dum volvitur orbis (“La Croce resta salda mentre il mondo gira”). Così commentò quelle parole tanto brevi quanto significative Benedetto XVI nell’omelia pronunciata durante la Messa celebrata alla Certosa di Serra San Bruno il 9 ottobre 2011: «La Croce di Cristo è il punto fermo, in mezzo ai mutamenti e agli sconvolgimenti del mondo. La vita in una certosa partecipa della stabilità della Croce, che è quella di Dio, del suo amore fedele».
* L’ Osservatore Romano, 25 agosto 2020 (ripresa parziale).
L’anima e la cetra /5.
La benedizione dell’attesa
di Luigino Bruni (Avvenire, sabato 25 aprile 2020)
«Porgi l’orecchio, Signore, alle mie parole: penetra nel mio bisbiglio. Sii attento alla voce del mio grido, o mio re e mio Dio, perché te, te supplico Signore» (Salmo 5, 2-3). Un uomo innocente è accusato di un delitto. Ha cercato di difendersi, invano. Ha esaurito i gradi di giudizio della giustizia umana. Gli resta ancora il Giudice di ultima istanza. Si alza di buon mattino, anticipa il sorgere del sole, si reca nel tempio per presentare a Dio la sua “causa”. Riesce solo a bisbigliare poche sillabe, a emettere un sussurro con le ultime energie morali che gli sono rimaste: «Al mattino ascolta la mia voce; al mattino ti espongo la mia causa e resto in attesa...» (4). Penetra nel mio bisbiglio. In queste ultime udienze della vita resta solo il fiato per un bisbiglio. Non ci sono preghiere più umane dei sussurri sottovoce mescolati col pianto. Il sussurro dell’uomo umiliato e straziato è la forma pura della preghiera che commuove il cielo e la terra. Ed è la più bella preghiera laica e umanissima che ci possiamo dire gli uni agli altri, quando solo chi è capace di sussurrare tra il cuscino, il ventilatore e il cuore può penetrare bisbigli preziosi come la vita.
Quest’uomo sa di essere innocente, e denuncia e condanna i malvagi che l’hanno ingiustamente infamato: «Tu non sei un Dio che gode del male... Tu hai in odio tutti i malfattori... Sanguinari e ingannatori, il Signore li detesta» (5-7). E poi loda Dio che lo ascolta: «Io, invece, per il tuo grande amore, entro nella tua casa... Guidami, Signore, nella tua giustizia a causa dei miei nemici; spiana davanti a me la tua strada» (8-9). Bella l’immagine della strada spianata. La giustizia è anche rettitudine, cioè l’arte di rendere rette le vie, di spianare gli ostacoli, di rimuovere le pietre d’inciampo, cioè gli scandali. La via del povero è costellata di pietre e di ostacoli. Leggi, decreti dei potenti, trucchi. La giustizia dovrebbe spianare la sua strada e farlo camminare libero. La buona storia umana è una progressiva trasformazione di strade accidentate in strade dritte e poi una continua manutenzione di queste strade aggiustate perché alla prima nostra distrazione si riempiono subito di pietre e di scandali.
L’uomo del Salmo 5 usa una tipica struttura retorica del salterio: “loro ... io invece”. Loro stolti e bugiardi ... io invece innocente. Quale il senso di questo: “io invece”? Una prima lettura di questi versi porterebbe a dire che il Dio biblico esaudisce le preghiere in virtù della giustizia di colui che prega. L’intervento della giustizia di Dio sarebbe una risposta alla giustizia dell’uomo. Solo il giusto è ascoltato nella sua preghiera. Molti lo pensano, molti lo hanno sempre pensato, perché tendiamo ad attribuire a Dio le stesse caratteristiche dei buoni giudici umani. Delitti e pene, meriti e premi. Amiamo talmente la giustizia da non poter immaginare un Dio che sia meno giusto di noi. E così, prima creiamo la giustizia divina “a immagine e somiglianza” della nostra, e poi, una volta creata, usiamo questa giustizia “divina” per dare un crisma sacrale alla nostra giustizia umana, per condannare gli altri con la benedizione di Dio, fino a fondare oggi la meritocrazia sulla Bibbia e sui Vangeli. Lo abbiamo sempre fatto, e continuiamo a farlo. Noi conosciamo le leggi economiche e quelle giuridiche e, senza volerlo, abbiamo costretto Dio a diventare un commerciante e un giudice.
Ma c’è anche una seconda possibile lettura. È quella che non pone la ragione dell’ascolto della preghiera nei meriti/colpe di chi prega ma nella gratuità di Dio. Siamo salvati perché siamo buoni o diventiamo buoni perché siamo salvati? L’antica domanda al cuore della fede biblica. San Paolo cita questo salmo 5 (il versetto 10 sulla cattiveria e la menzogna degli altri) per dire qualcosa che va nella direzione di questa seconda interpretazione: «Non c’è differenza, perché tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia» (Rm 3,13). Tutti sono giustificati gratuitamente per la sua grazia. Una rivoluzione epocale e ancora incompiuta, perché è troppo forte in noi la tentazione di leggere ciò che di buono ci accade come la ricompensa dei nostri meriti, e le cose cattive che succedono agli altri come frutto delle loro colpe. Perché ci piacciono i doni, ma di più ci piace pensarci meritevoli dei doni. Ma se Dio fosse circoscritto nello stesso perimetro della nostra idea di giustizia commerciale e giuridica non avremmo da nessuna parte qualcuno capace di far evolvere ciò che già chiamiamo giusto in quel giusto che non ha ancora questo nome.
Se e quando le comunità costringono Dio a essere giusto nelle forme e nei modi della loro giustizia umana, si auto-confinano in trappole etiche che impediscono alla giustizia loro e di Dio di diventare migliore. Sono i casi, molto frequenti nelle religioni, quando una teologia ristretta restringe l’umano. La Bibbia e il suo Dio sono invece cresciuti insieme alle interpretazioni che gli uomini e le donne hanno dato alla giustizia divina. Anche questo è reciprocità tra cielo e terra. Le stesse pagine bibliche, gli stessi salmi, hanno detto cose diverse alle diverse generazioni di lettori. E non tanto né soltanto per lo sviluppo delle tecniche esegetiche, ma perché l’evoluzione delle nostre idee di giustizia e di amore hanno cambiato e arricchito le domande che abbiamo imparato a rivolgere a Dio e a noi stessi, e così quelle antiche parole bibliche hanno imparato parole nuove e diverse dal patire degli uomini e delle donne. La Bibbia è logos e dia-logos, ci parla solo se le facciamo domande, e attende che ogni giorno le ripetiamo: “vieni fuori”.
Ogni generazione ricomprende il “sacrificio” di Isacco e la passione di Cristo sulla base della crescita delle idee di giustizia che è stata capace di generare e far risorgere dalle sue ferite. Oggi diciamo cose diverse - e le dobbiamo dire - sui padri, sui figli, sui sentimenti che provano gli uni e gli altri di fronte ai Golgota e ai Monti Moria, perché abbiamo avuto migliaia di anni per capire cosa sia il morire e il risorgere. E se noi impariamo cose nuove sulla vita, in noi le impara anche la Bibbia che riesce così a dirci cose che non poteva dirci duemila anni fa, né ieri. Il Dio biblico per crescere ha bisogno di noi e della crescita della nostra giustizia. La parabola del buon samaritano che si prende cura dell’uomo “mezzo morto” ha detto sempre cose nuove dopo ogni guerra, dopo ogni epidemia, dopo ogni volta che siamo arrivati noi “mezzi morti” in un prontosoccorso; e potrà dire cose nuove oggi quando medici e infermieri ci hanno ampliato la semantica dell’espressione “prendersi cura”. E forse avevamo bisogno di due mesi di chiese chiuse e liturgie sospese per capire diversamente, in questa ora, le parole del Vangelo di Giovanni: «Ma viene l’ora - ed è questa - in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità» (Gv 4,23).
C’è molto del canto di Giobbe nei canti del Salterio. Il nostro canone colloca i Salmi dopo il Libro di Giobbe perché non capiamo i Salmi senza leggerli in compagnia di Giobbe, se non li cantiamo dal suo mucchio di letame, se non li intoniamo fuori dalla mura, come lui scomunicati, condannati dagli amici, in dialogo con un Dio che tarda ad arrivare. Anche Giobbe trasformò la sua discarica in una aula di tribunale, anche lui portò sul far del mattino la sua “causa” a Dio: «Con Dio desidero contendere. Ecco, espongo la mia causa, sono convinto che sarò dichiarato innocente» (Gb 13, 17-18). Allora se leggiamo la causa del salmista insieme alla causa di Giobbe possiamo imparare qualcos’altro di nuovo sul loro Dio.
L’autore del Salmo 5 porta a Dio la sua causa, e... “attende”; Giobbe chiede a Dio di scendere dal suo trono per essere fideiussore della sua innocenza, e ... attende. Entrambi hanno in comune l’innocenza e hanno in comune l’attesa di una giustizia diversa. Non sappiamo se questa giustizia più giusta arrivò per il protagonista del Salmo 5, non è mestiere del Salterio narrarci gli epiloghi delle vicende dei suoi personaggi. Conosciamo però come finì la preghiera di Giobbe: nonostante la sua innocenza, il Dio di Giobbe non venne all’appuntamento, e quando, alla fine, arrivò, non era il dio che Giobbe aspettava; non venne il Dio di Giobbe ma quello dei suoi amici e della loro teologia, un dio che si rivelò troppo più piccolo della giustizia di Giobbe che era cresciuta insieme alle sue piaghe.
Allora un messaggio nascosto in queste pagine bibliche è la benedizione dell’attesa. La fede in una giustizia diversa e più alta genera la speranza non-vana che domani possa davvero arrivare il Messia e che lo sapremo riconoscere come si riconosce un amico perché lo abbiamo atteso e desiderato.
Il giorno del Messia è domani, ma questo domani benedice l’oggi e gli cambia il nome. Alla nostra generazione non manca solo la fede, le manca soprattutto la speranza e il desiderio dell’attesa.
Questa attesa in-finita della storia non è esclusiva di un club di innocenti e di giusti: è anche quella dei malvagi e dei peccatori, perché si può sempre infilare in uno dei pertugi di innocenza che ogni uomo vive in alcuni giorni luminosi della vita - anche Caino, anche Giuda, e quindi anche io, sebbene debba sempre combattere la tentazione invincibile di identificarmi con la parte giusta dei salmi. La nostra bontà è più grande dei nostri peccati.
Un’altra volta, un altro giorno, un altro uomo in crisi e depresso che voleva morire sotto una ginestra, fu salvato da un sussurro, da una «sottile voce di silenzio» (1 Re 19). Quella volta fu Dio che imparò a sussurrare, e quel bisbiglio arrivò all’orecchio di Elia e lo risuscitò. E se la preghiera fosse soltanto un incontro di sussurri?: «Tu benedici l’innocente Signore, lo corazza e lo incorona la tua benevolenza» (15).
L’annuncio.
Il Papa indice per il 2022 un Sinodo dei vescovi su Chiesa e sinodalità
Tra due anni si terrà la prossima assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi sul tema della sinodalità. Lo ha annunciato il segretario generale del Sinodo, il cardinale Lorenzo Baldisseri
di Mimmo Muolo (Avvenire, sabato 7 marzo 2020)
Papa Francesco ha sempre posto l’accento, negli ormai quasi sette anni del suo pontificato, sullo stile sinodale della Chiesa. Appare dunque perfettamente in linea con questa convinzione la scelta del tema del prossimo Sinodo dei vescovi, comunicata ieri dal segretario generale dell’organismo voluto subito dopo il Concilio da Paolo VI. Il cardinale Lorenzo Baldisseri, come riporta una nota della Sala Stampa della Santa Sede, ha infatti annunciato che «Papa Francesco indice la XVI assemblea generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi, che si terrà nel mese di ottobre del 2022 sul tema: "Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione e missione"».
La Chiesa sinodale, al centro del cammino di preparazione, dunque, e poi dei lavori in aula, in programma tra due anni e mezzo. Ma proprio a motivo dell’abbondante magistero di Francesco sull’argomento non si partirà certamente da zero.
Un importante punto di riferimento appare fin d’ora il discorso che il Papa tenne il 17 ottobre 2015 (proprio mentre era in corso l’assemblea ordinaria dedicata alla famiglia) per la commemorazione del 50° anniversario dell’istituzione del Sinodo. «Fin dall’inizio del mio ministero come Vescovo di Roma - affermava in quella occasione papa Bergoglio - ho inteso valorizzare il Sinodo, che costituisce una delle eredità più preziose dell’ultima assise conciliare. Per il Beato Paolo VI - aggiungeva -, il Sinodo dei Vescovi doveva riproporre l’immagine del Concilio ecumenico e rifletterne lo spirito e il metodo. Lo stesso Pontefice prospettava che l’organismo sinodale «col passare del tempo potrà essere maggiormente perfezionato».
A lui faceva eco, vent’anni più tardi, san Giovanni Paolo II, allorché affermava che «forse questo strumento potrà essere ancora migliorato. Forse la collegiale responsabilità pastorale può esprimersi nel Sinodo ancor più pienamente».
Infine, nel 2006, Benedetto XVI approvava alcune variazioni all’Ordo Synodi Episcoporum, anche alla luce delle disposizioni del Codice di diritto canonico e del Codice dei canoni delle Chiese orientali, promulgati nel frattempo».
Il cammino - è proprio il caso di usare questa parola - del Sinodo ha dunque attraversato tutti i pontificati dal Concilio a oggi. Francesco ha dato nuovo impulso alla sinodalità nella Chiesa. E infatti in quel discorso affermava: «Dobbiamo proseguire su questa strada. Il mondo in cui viviamo, e che siamo chiamati ad amare e servire anche nelle sue contraddizioni, esige dalla Chiesa il potenziamento delle sinergie in tutti gli ambiti della sua missione. Proprio il cammino della sinodalità è il cammino che Dio si aspetta dalla Chiesa del terzo millennio».
Sempre nello stesso discorso, il Papa enunciava poi alcune caratteristiche della Chiesa sinodale. Ad esempio la consultazione del popolo di Dio nella preparazione delle assemblee del Sinodo: «Come sarebbe stato possibile parlare della famiglia senza interpellare le famiglie, ascoltando le loro gioie e le loro speranze, i loro dolori e le loro angosce?» (la stessa cosa cosa si è fatta poi con i giovani in occasione dell’assemblea incentrata proprio su di loro).
Inoltre «una Chiesa sinodale è una Chiesa dell’ascolto, nella consapevolezza che ascoltare «è più che sentire». Per il Pontefice questo deve essere «un ascolto reciproco in cui ciascuno ha qualcosa da imparare. Popolo fedele, collegio episcopale, Vescovo di Roma: l’uno in ascolto degli altri; e tutti in ascolto dello Spirito Santo, lo Spirito della verità», per conoscere ciò che Egli dice alle Chiese».
Il Sinodo dei Vescovi è dunque «il punto di convergenza di questo dinamismo di ascolto condotto a tutti i livelli della vita della Chiesa». Infine «il fatto che il Sinodo agisca sempre cum Petro et sub
Petro - dunque non solo cum Petro, ma anche sub Petro - non è una limitazione della libertà, ma una garanzia dell’unità».
In sostanza, proseguiva in quella occasione papa Francesco citando san Giovanni Crisostomo, «Chiesa e Sinodo sono sinonimi». E questo ci offre anche la possibilità di comprendere meglio «lo stesso ministero gerarchico», che è soprattutto «servizio». «È servendo il Popolo di Dio - affermava il Pontefice - che ciascun Vescovo diviene, per la porzione del Gregge a lui affidata, vicarius Christi, vicario di quel Gesù che nell’ultima cena si è chinato a lavare i piedi degli apostoli. E, in un simile orizzonte, lo stesso Successore di Pietro altri non è che il servus servorum Dei».
Francesco richiamava poi anche le dimensioni "locali" della sinodalità, come ad esempio il sinodo diocesano e gli «organismi di comunione» della Chiesa particolare come il consiglio presbiterale, il collegio dei consultori, il capitolo dei canonici e il consiglio pastorale. E in conclusione sottolineava che «l’impegno a edificare una Chiesa sinodale è gravido di implicazioni ecumeniche».
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Mediterranea-mente ... *
Anticipazione
«Mediterraneo messaggero di pace per il mondo».
Il sogno di La Pira
Culla della famiglia di Abramo deve essere esempio di riconciliazione fra i popoli. Partendo dal "sindaco santo" l’introduzione del presidente Cei al libro suile idee che ispirano l’incontro pugliese
Gualtiero Bassetti (Avvenire, martedì 18 febbraio 2020)
Sono vissuto in un paese di orfani e di poveri. Tra i banchi della scuola elementare di Fantino, una minuscola frazione del Comune di Marradi sull’Appennino tosco-romagnolo, molti alunni erano orfani. I padri di quei bambini, infatti, erano stati uccisi il 17 luglio 1944 da una crudele rappresaglia tedesca nella vicina località di Crespino sul Lamone: ben 45 persone erano state fucilate senza alcuna pietà. Tra di loro anche il parroco, don Fortunato Trioschi, che era stato preso dai soldati mentre stava recitando il vespro in chiesa con le donne. «Strappato a viva forza dal suo pietoso ufficio - si legge nel Bollettino mensile di Crespino del marzo 1946 - egli recitava per i moribondi la preghiera della speranza cristiana». «Un colpo di mitra gli mozzò le parole sul labbro» e cadde riverso sulla fossa che aveva precedentemente scavato insieme ai suoi parrocchiani. All’indomani della fine del conflitto eravamo tutti poveri, ma di una povertà dignitosa. Siamo sopravvissuti alla miseria tipica degli anni del dopoguerra perché avevamo capito che il condividere è moltiplicare. Se mia madre faceva il pane, quel pane era anche per i vicini. Se un contadino aveva munto una mucca, quel latte era anche per i bambini. Se qualcuno comprava il sale, che era un alimento preziosissimo, ne dava un po’ anche agli altri. Si condivideva tutto. E condividendo tutto siamo cresciuti insieme, uomini, donne e bambini, in una comunità coesa in cui la Chiesa svolgeva una funzione importantissima. L’anticlericalismo era ben presente anche nell’Italia degli anni Cinquanta ma, nella vita quotidiana, non metteva in discussione la figura del sacerdote. Il prete, soprattutto nelle campagne, era il segno di una presenza religiosa, culturale e sociale. Le persone andavano dal sacerdote per consigli di tutti i tipi, perché era l’unica persona che aveva una cultura e che, al tempo stesso, si prendeva cura concretamente della «povera gente». Quella «povera gente» a cui anche Giorgio La Pira (terziario domenicano e francescano, professore universitario di diritto romano, membro dell’Assemblea costituente, deputato alla Camera per tre legislature e, soprattutto, sindaco di Firenze per molti anni) dedicò gran parte della sua esistenza.
Nell’aprile del 1950, su "Cronache Sociali", La Pira pubblicò un saggio molto importante dal titolo L’attesa della povera gente. Sebbene svolgesse un’analisi che partiva dall’esame del reddito pro capite mondiale, quello scritto non era solo un testo che si inseriva nel dibattito economico, ma era soprattutto la traduzione concreta del messaggio evangelico di giustizia sociale e amore verso gli ultimi.
Quando entrai in seminario nel 1956 a Firenze, La Pira era un personaggio straordinariamente amato dalla popolazione. Non era solo il sindaco, era molto di più. Era una testimonianza di fede autentica riconosciuta da tutti. Il nostro rettore, uomo di grande cultura biblica, lo invitava spesso in semi- nario. Lui ci incantava ad ascoltarlo, si fidava di noi piccoli e ci parlava dei suoi grandi progetti. I fiorentini, sin da vivo, lo consideravano un santo.
Ogni incontro con La Pira, anche fugace, lungo la strada, rappresentava per i cittadini un momento di arricchimento personale. Egli annunciava con gioia il Vangelo in ogni momento e tutto, per lui, era motivo di contemplazione: dal campanile di Giotto ai pescatori sotto il ponte Vespucci. È stato, senza dubbio, un mistico prestato alla politica. Nella sua visione del mondo, carità e politica si fondevano in un legame indivisibile. E al centro della sua azione si collocava il cosiddetto «pilotaggio della speranza».
La sua missione terrena, collocata in un’epoca storica dominata dalle ideologie, non si esauriva nella gestione della cosa pubblica ma era una «missione essenzialmente religiosa» che rispondeva a una «specifica chiamata» divina. Egli è stato un «ambasciatore di Cristo», cioè un uomo di Dio o, meglio, un « nabì (bocca di Dio)», un profeta dei tempi odierni. Il profeta è un chiamato dal Signore e colui che parla per conto del Creatore. È colui che sa mettersi in ascolto della parola di Dio e perciò riesce a leggere in profondità il mondo che gli sta attorno. Il profeta è una «sentinella per la casa d’Israele» ed esprime con passione e generosità, fino a sembrare stolto e ingenuo, questa sua missione divina.
Giorgio La Pira è stato un profeta del dialogo, della speranza e della pace. La fede era il motore della sua azione, che si innestava in un contesto internazionale caratterizzato da un «crinale apocalittico» dominato dallo scontro tra le due superpotenze e dall’incubo nucleare. Alla logica del conflitto, La Pira opponeva la supremazia del dialogo. Un dialogo cercato con tutte le forze nei Paesi dell’Europa dell’Est, in Asia, in America Latina e in Africa.
In questo sforzo incessante il sindaco di Firenze traccia una strada; è il «sentiero di Isaia» che si basava sull’antica profezia messianica: «Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci». Il sentiero di Isaia tracciato da La Pira si proponeva di arrivare al disarmo generale trasformando le «armi distruttive in strumenti edificatori della pace e della civiltà». Secondo la sua visione escatologica, tutta la storia convergeva verso «il porto finale» della pace.
Per raggiungere la pace, La Pira incontra molti capi di Stato. In uno di questi incontri, conia una delle sue espressioni più note: «Abbattere i muri e costruire i ponti». Un’immagine che mutuò da quello che vide al Cairo nel 1967 dopo aver incontrato il presidente egiziano Nasser. In quell’occasione notò «una squadra di operai abbattere i muri che erano stati costruiti davanti alle porte dell’albergo, come strumenti di difesa antiaerea». In quel gesto vide il simbolo di una grande azione politica e culturale. Bisognava abbattere «il muro della diffidenza» tra i popoli e costruire ponti di dialogo tra le genti. Occorreva unire e non dividere.
Dopo la crisi di Suez del 1956, matura il progetto di convocare a Firenze un grande incontro internazionale dedicato al Mediterraneo. Nel maggio del 1958, all’interno di una corrispondenza fittissima col pontefice, invia una lettera a Pio XII in cui presenta il suo progetto di Colloqui mediterranei.
«Vi dico subito, Beatissimo Padre, quale è la ’intuizione’ che da qualche tempo fiorisce sempre più chiaramente nella mia anima. Questa: il Mediterraneo è il lago di Tiberiade del nuovo universo delle nazioni: le nazioni che sono nelle rive di questo lago sono nazioni adoratrici del Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe; del Dio vero e vivo. Queste nazioni, col lago che esse circondano, costituiscono l’asse religioso e civile attorno a cui deve gravitare questo nuovo Cosmo delle nazioni: da Oriente e da Occidente si viene qui: questo è il Giordano misterioso nel quale il re siro (e tutti i ’re’ della terra) devono lavarsi per mondarsi della loro lebbra (4 Re V, 10)».
Secondo La Pira, dunque, il Mediterraneo, culla delle civiltà monoteiste che egli chiamava «la triplice famiglia di Abramo», è chiamato a riprendere il suo posto nella storia in un mondo sempre più minacciato da guerre e distruzione. Una costruzione della pace che passava anche dalla preghiera e dalla contemplazione. Dal 1951 al 1974, divenuto presidente delle Conferenze di San Vincenzo della Toscana, La Pira aveva introdotto nel programma dell’associazione una novità: l’assistenza economica da offrire ai monasteri di clausura in difficoltà, in cambio di preghiere. In questo modo, veniva inviato alle claustrali un foglietto stampato come «lettera circolare» in cui riportava le motivazioni e le iniziative «politiche» per cui chiedeva di pregare. Centinaia di monache risposero a questi appelli. In una di queste lettere alle claustrali, La Pira allega anche un lungo telegramma che, il 26 ottobre 1961, aveva scritto all’ambasciatore sovietico a Roma, Semen Kozirev, pregandolo di trasmettere il suo messaggio a Nikita Krusciov. In quel telegramma, La Pira prega il leader dell’Urss di impegnarsi concretamente verso il disarmo nucleare. Se questo avverrà, scrive, «ve ne sarà grato il Padre celeste che saprà considerare con cuore di padre il vostro atto di buona volontà».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
I TRE ANELLI E L’UNicO "PADRE NOSTRO". NATHAN IL SAGGIO: CHE ILLUSIONE AFFIDARSI ALLA CHIESA ’CATTOLICA’!!!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
«Canzonissima della Bibbia».
Il sorprendente dono del Cantico dei Cantici a Sanremo
di Rosanna Virgili (Avvenire, sabato 8 febbraio 2020)
Che gioia il Cantico dei Cantici a Sanremo! Grazie a Roberto Benigni che ha sorpreso e stupito il Festival con quel libretto della Bibbia che la tradizione ebraica e cristiana ha conservato come la canzone più bella, la ’canzonissima’ secondo una suggestione di Gianluigi Prato. Tre sono i trascendentali: verum, bonum e pulchrum. Importante è il bello. L’arte, nelle sue forme più nobili - quali la musica, la pittura, la poesia - è capace di far emergere il divino che si annida nella Parola, più di ogni altro linguaggio.
E allora l’idea di far conoscere e gustare il Cantico è stata davvero stupenda, appropriata, preziosa per un pubblico tanto vasto e popolare come quello del Sanremo in mondovisione (e non può inficiarla neppure la forzata ’licenza interpretativa’ che ha tradotto, tradendolo, l’amore tra amato e amata in altri amori che sono lontani e fuori dal limpido orizzonte biblico).
Del resto i duetti del Cantico, intervallati dalle voci del coro, assomigliano ai testi delle canzoni in gara e anch’essi nascono in un ambiente popolare; quadretti di vita rurale che hanno il sapore delle sere d’estate o del primo autunno quando, dopo la mietitura o la vendemmia, a notte, si faceva festa e gli occhi e le braccia dei ragazzi e delle ragazze si incrociavano, si intrecciavano, si inebriavano al sogno dei baci. Nel Cantico - scrive Guido Ceronetti - non c’è il nome di Dio, perché tutto è puro, quindi tutto è sacro! La forza dell’amore sveglia la primavera sui passi dell’amante che - inverosimilmente - è una donna. È lei a uscire per prima verso chi ancora non ha mai visto, ma è solcato nel suo desiderio profondo, nelle sue cavità vitali. Trasgressiva, testarda è la ’sorella’ del Cantico, si sottrae all’autorità dei fratelli, non cura la sua vigna ma corre verso le ’tende dei pastori’, esce nei deserti, batte la campagna, sfida le guardie alle mura della città, ’malata d’amore’! Una vera anomalia per un mondo in cui le donne non potevano scegliere i loro uomini ma venivano date in spose a scopo di procurare ai mariti una discendenza. Non avevano diritto sul proprio corpo, ma la donna del Cantico lo rapisce e ne fa guida e grammatica del viaggio dell’Amore. C’è un esodo dal sé, un’effrazione del self, per osare gli ignoti sentieri, le rischiose curve, gli anfratti del volto dell’Altro.
L’Amore è un’avventura senza garanzie, una strada senza ritorno, ’forte più della morte’. Irreversibile, fonte di creature nuove, diverse, bagnate di futuro. Amore che azzera i possessivi: ’io sono sua, mentre lui è mio’: l’estasi di un’unione che non risponde alla tentazione di divorare l’altro, rendendolo un cadavere.
Ma è pienezza di ’te’: del consegnarmi a te. Bocca d’infinito, sorso d’eternità, graffio di Vita! Nel testo originario le sue consonanti asciutte, nette, impossibili a essere fraintese. I sensi sono sentinelle e finestre del corpo, teso fuori di sé. ’Una voce, il mio amato’: il primo senso è casto come l’udito. ’Come sei bella, amica mia, come sei bella, le tue labbra una striscia di porpora’. Gli occhi di lui scoprono l’incanto della pelle di lei ’color del miele’, traduce magnificamente Luca Mazzinghi. Il tuo profumo è la quintessenzadi ogni aroma delle piante più squisite d’Oriente; ’c’è latte e miele sotto la tua lingua’; l’olfatto e il gusto si alleano nell’estasi d’Amore dove il tuo nardo è ben più forte di ogni vino drogato. Restituiscono al corpo la sua anima. Un minuto solo dura il tatto ma procura un vero svenimento; com’era per i Greci così nel Cantico, l’Amore è lelymmenos ’scioglitore di membra’. Per fare ’dei due un corpo solo’ direbbe l’Apostolo Paolo.
L’Amore è attesa, fatica, sudore di brama e di timore; esso regala attimi di estasi e anni di deserto, però quegli attimi valgono bene gli anni! L’Amore è corpo nudo, vuoto, puro, come il Santo dei Santi. Per questo il Cantico è il libro dei mistici, Paese sospeso. Dio come in un passaggio, la meghillà di Pasqua. Nel corpo che si perde è il profumo di Dio. Per questo è un gran peccato che la Chiesa abbia impedito per secoli l’accesso a questo piccolo libro, grandissimo tesoro, fonte di salute e salvezza per il corpo e per l’anima. Teniamo sveglio il cuore ora che ’il tempo del canto è tornato’.
L’AMORE ("CHARITAS") NON E’ LO ZIMBELLO NE’ DEL TEMPO NE’ DELLA FILOLOGIA. ESISTE UNA MISURA NELLE COSE ("Est modus in rebus") ... *
L’analisi.
Sanremo, il camaleonte tatuato e il bene non più negoziabile
Basta un rapido sguardo ai testi delle canzoni del Festival e si nota un bisogno profondo di senso, la voglia di imparare resistendo al degrado, di resilienza umana
di Antonio Staglianò (Avvenire, mercoledì 5 febbraio 2020)
Codice etico cercasi, anche in musica: valore educativo (e no) delle canzoni popolari. Uno sguardo veloce ai testi delle nuove canzoni di Sanremo e si nota subito un bisogno profondo di senso, la voglia di imparare resistendo al degrado, desiderio di resilienza umana, come in 8 Marzo della giovanissima Tecla: «Ci vuole forza e coraggio, lo sto imparando vivendo ogni giorno questa vita; comunque dal dolore si può trarre una lezione; e la violenza non ha giustificazione». E la bella canzone sul bullismo di Marco Sentieri, Billy blu che dice al bullo - salvandogli la vita - no ma quale odio, no nessun odio, eri tu quello più debole, tu dentro stavi male». Si giunge perfino a punte mistiche, con Matteo Faustini in Nel bene e nel male: «perché dentro quel rancore si può ancora perdonare ».
Frasi estrapolate? No, testi con una certa coerenza, alla ricerca di un codice etico capace di rilanciare i giovani in un futuro in cui l’essere umano cresca con l’uomo - «nonostante che a volte uomo non vuol dire essere umano per tutto il sangue che è stato versato» (Tecla). Tante proposte e tanti messaggi positivi sull’amore universale che pur essendo tale non è aleatorio, ma sempre incarnato dentro drammi umani ed esperienze di persone speciali, magari ai margini o sopra le righe: «Ti prego insisto, fatti il segno della croce e poi rinuncia a Mefisto siamo chiese aperte a tarda sera, siamo noi; siamo l’amen di una preghiera, siamo noi» (Levante).
E poi c’è Junior Cally (rapper noto al pubblico per il suo linguaggio sessista e violento contro le donne). Ed è subito polemica. Di mezzo c’è un diffuso senso di scandalo: questa volta non è la frangia ’religiosa’ della popolazione (facilmente criticata di ’beghinismo’ e bigotteria), ma quella espressione di organizzazioni sociali e di istituzioni politiche. Gruppi organizzati a chiedere l’esclusione dal palco di Sanremo di Junior Cally: un giovane che, anche nella foto-immagine di ’Sorrisi e canzoni’ in prima fila è ritratto con la sua maschera. Il suo volto è la sua maschera o le tante maschera che indossa. Perché, a quanto pare, vuole presentarsi ’fuori da ogni identità’, senza una riconoscibilità che lo inquadri.
Con il brano che presenterà a Sanremo - No grazie - intende essere un «antipopulista e folle », dice: «sono un ragazzo semplicissimo che ha un sogno nel cassetto e va a prenderselo ». Una identità ce l’ha: Antonio Signore ha 28 anni. Tanto basta per capire che non è un ragazzino e sa bene quello che fa e che scrive. Non ci sta e dice ’no grazie’ a quanto lo possa omologare a destra o a sinistra o al centro: politicamente corretto? No grazie; puntare il dito contro e fare il populista? No grazie; «non fare niente tutto il giorno e proclamarmi artista? No no no-no grazie». È fuori da tutto, dalle righe e dalle rime e se la gente ’fa buon viso a cattivo gioco’, Junior il mascherato fa l’opposto: »faccio cattivo viso a buon gioco». Al suo rap (forse troppo violento, per lui «parlare di eccesso non è eccessivo») non vuole ri- nunciare e dice «no grazie» anche a chi gli consiglia di smetterla con questa storia del rap per incanalare la sua creativa fantasia a scrivere canzoni d’amore per la sua ex, oppure «trovarmi un lavoro serio e diventare yes man, insultare tutti sì, ma solo nel web».
No grazie è una canzone di un mascherato che vuole comunque dire qualcosa di sé, farsi conoscere, presentarsi: «sono il fuori programma televisivo». Addirittura «spero che si capisca che odio il razzista » e nel passaggio è possibile intravedere un affondo ’politico’, perché non sta con Salvini (e la sua Lega) - che sarebbe «il raz- zista che pensa al paese ma è meglio il mojito », come anche l’altro Matteo, «il liberista di centro sinistra che perde partite e rifonda il partito». E se qualcuno si chiedesse - ’questo da dov’è uscito?’ - la risposta è semplice: «dal terzo millennio col terzo dito ».
Si, Junior Cally appartiene alla generazione dei ’nati liquidi’, di quelli che per quanto ’fuori’ vivono una certa smania affannosa di «notorizzare la propria individualità ». Con l’abbigliamento manifesta la propria disponibilità a rinunciare ai simboli dell’identità comune e la voglia di incarnare identità diverse e plurali in ogni cangiante istante. Il camaleonte è la metafora giusta per capire la direzione. Eppure, la contraddizione emerge lampante nei segni del corpo, stracarico di tatuaggi, magari indelebili e quindi portatori di un impegno duraturo e serio della propria identità (non solo di un momentaneo capriccio): «il tatuaggio, miracolo dei miracoli, segnala al contempo l’intenzionale stabilità (forse anche irreversibilità) dell’impegno e la libertà di scelta che contraddistingue l’idea di diritto all’autodefinizione e al suo esercizio » (Zygmunt Bauman, in Nati liquidi).
Nella condizione liquida giovanile delle società liquide e del pensiero liquido e gassoso, è difficile stabilire, però, cosa va bene e cosa non va. Chi stabilisce i ’limiti’, i ’paletti’ del buon gusto, del pudore? Est modus in rebus , si diceva in un latino che tutti capiscono. Un tempo la censura era una sorta di competenza della religione (e della Chiesa cattolica in Italia). Ora è tutto cambiato, ovviamente. La democrazia - ma in verità è la democrazia ridotta a procedure e vuota di ogni riferimento valoriale, a tal punto che democraticamente non si può nemmeno giungere a stabilire cosa sia un valore condivisibile per tutti, nell’attuale dittatura del relativismo e del (non) pensiero unico - sembra incapace di garantire una protezione valoriale agli stessi simboli religiosi, spesso vilipesi e ridicolizzati in nome della liberà di pensiero, di espressione e del diritto all’ironia. Le libertà individuali - si fa per dire che siano poi davvero ’libertà’ - sono esaltate senza ’limiti’, mentre è ormai perduto il riferimento all’appartenenza comunitaria e a un quadro valoriale di riferimento che debba imporsi a chiunque voglia condurre una convivenza pacificata tra esseri umani.
Ora, però, la cosa è diversa, perché nonostante il trend liquido della cultura, un quadro normativo tende a emergere come l’araba fenice dalle ceneri della distruzione libertaria dei processi culturali degli ultimi trent’anni. Così, il cambiamento climatico porta i nostri giovani sulle piazze a gridare la loro volontà di vivere respirando ’aria pura’ e questo diventa un ’valore non più negoziabile’, come anche i diritti delle donne a non essere violentate dalle tante forme di bullismo sociale e di femminicidio.
In verità, è doveroso anche riferire la giustificazione del rapper il quale ha precisato - ovviamente da grande intellettuale ed ermeneuta contemporaneo (!) - che il rap, come genere letterario e stile musicale, «fa grande uso di elementi narrativi di finzione e immaginazione che non rappresentano il pensiero dell’artista» e, pertanto, non sarebbe possibile ascrivergli l’idea della violenza contro le donne: idea che egli stesso troverebbe insopportabile. Forse ci troviamo davanti a un filosofo incompreso! A un nuovo Nietzsche che diagnostica dove sta andando la cultura e l’umanità? Tuttavia, il punto dolente riguarda ciò che è stato da molti sottolineato: il potere di grande influenza che un musicista ha sulle nuove generazioni (specie sulle giovanissime). Quale messaggio arriverà ai più piccoli? Quale insegnamento si darà ai nostri figli se passasse l’idea (già oltremodo sdoganata e diffusa) che gli atteggiamenti più sono turpi e più portano al successo.
Resta comunque una sintesi che deve dare a pensare. Le canzoni pop non sono innocue. Hanno un valore educativo o diseducativo potente e performante che non può essere disatteso nell’annuncio del Vangelo ai giovani. Perciò, una buona teologia popolare - una pop-Theology - è attesa come servizio alla ’carità intellettuale’ (Antonio Rosmini) di cui oggi c’è bisogno più del pane nelle nostre comunità parrocchiali. Allora, al lavoro, al lavoro, per risorgere!
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
SANT’AGOSTINO, DOTTORE DELLA GRAZIA ("CHARIS"): "ECCO DA DOVE COMINCIA L’AMORE" ("ECCE UNDE INCIPIT CHARITAS").
L’AMORE NON E’ LO ZIMBELLO DEL TEMPO: "AMORE E’ PIU’ FORTE DI MORTE" (Cantico dei cantici: 8.6).
Federico La Sala
Cercando la fede / 15.
Lumini: «Lo Spirito soffia. È tempo di rischiare»
Fiorentina, eremita di città, da 35 anni conduce una ricerca spirituale fondata su silenzio e preghiera che ne ha fatto un riferimento per tante persone
di Roberto I. Zanini, inviato a Firenze (Avvenire, domenica 2 febbraio 2020)
«Intorno a noi crollano strutture e certezze che per secoli hanno sorretto la società, ma che ora non sembrano più corrisponde alla vita reale. Questo provoca smarrimento, crisi di identità, angoscia. C’è chi si arrocca nel passato, alimentando vari fondamentalismi, chi si lascia prendere dalla paura del futuro. Indietro però non si torna. Dobbiamo imparare a stare nel qui ed ora per scorgere i germi di un futuro ancora in gestazione. E questo, noi cristiani lo dovremmo sapere, si può fare solo lasciandosi ispirare dallo Spirito Santo. Ma ci crediamo davvero allo Spirito Santo?».
Nel parlare Antonella Lumini è sempre molto diretta. Le sue espressioni, senza fronzoli, centrano il problema così come i suoi occhi ti guardano senza incertezze. Vive a Firenze e da trentacinque anni porta avanti un percorso di spiritualità fondato sulla preghiera interiore ispirandosi alla ’pustinia’ (deserto), la via del silenzio secondo la tradizione ortodossa russa. La sua pustinia, posta nell’appartamento in cui vive, l’ha fatta conoscere come eremita di città. Nei fatti, come per tutti gli eremiti nella storia della Chiesa, il suo stile si è rivelato attrattivo e ora organizza e conduce numerosi incontri di silenzio, meditazione e preghiera. Scrive sull’Osservatore Romano e ha pubblicato alcuni libri, l’ultimo dei quali, Spirito Santo. Divina maternità, amore in atto, è da poco in libreria per le Paoline (pagine 220, euro 17) ed è frutto di una ricerca spirituale e di scavo nel testo biblico di un paio di decenni.
Ci crediamo allo Spirito Santo? Siamo stati battezzati «in Spirito Santo e fuoco». I primi discepoli lo percepivano come presenza che guida, illumina e indica la strada. Se ci crediamo non possiamo né restare ancorati al passato, né avere paura del futuro, perché lo Spirito Santo è atto creativo, che spinge sempre oltre. La creazione non si è fermata con la Genesi, è sempre in atto. Siamo sempre nell’’in principio’ perché lo Spirito è eterna dinamicità. Non cessa di soffiare e il nostro compito, di singoli cristiani e di Chiesa, è di metterci in ascolto. Il primo comandamento, del resto, ci chiede di ascoltare: «Ascolta Israele: il Signore è il nostro Dio...».
Se non ascoltiamo? Se non ascoltiamo tendiamo a rimanere attaccati al passato, non evolviamo spiritualmente, perdiamo contatto con la realtà che si rinnova sempre. La Parola è eterna, lo Spirito la attualizza nella realtà concreta, nel qui e ora sempre nuovo di ogni giorno. Se non restiamo in ascolto come possiamo vivere la Parola nelle nostre azioni?
Cosa vuol dire ascoltare? Il buon ascolto avviene nel silenzio. Quando riusciamo a far cessare il rumore intorno e dentro di noi per poter sentire il ’soffio leggero’ col quale Dio si rivela, come a Elia sull’Oreb. Silenzio e solitudine consentono di vivere la dimensione dello Spirito. Poi, come Elia, come Gesù si scende dal monte e si lascia che la Parola ascoltata agisca nella quotidianità. Non si tratta di fuggire dal mondo ma di stare nel mondo senza appartenere al mondo. Si può fare opera di salvezza solo testimoniando l’azione dello Spirito in noi. Lo Spirito Santo agisce in coloro che si rendono disponibili e mai come nei nostri tempi sta attirando a sé.
Cosa intende dire? Che in questa umanità sradicata e smarrita lo Spirito apre i suoi canali di luce. Il nostro è un tempo di smascheramento dai tanti inganni, false identificazioni, ipocrisie. C’è un passaggio in atto che tutti avvertiamo, ma le cui potenzialità ancora non sono in grado di emergere. Lo Spirito preme per far dilatare i cuori, illuminare le coscienze, per trasformare le macerie del mondo con la sua opera creatrice. È evidente che quanto è mal costruito o troppo rigido sia destinato a crollare. Il nuovo che affiora sta imponendo anche alla Chiesa trasformazioni che mettono in crisi strutture ormai sterili. Sono germi di futuro che bisogna saper cogliere nel presente. Sono convinta che l’era dello Spirito stia avanzando, per questo come Gesù alla donna al pozzo possiamo ben dire che «è giunta l’ora, ed è questa, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in Spirito e verità».
Perché la gente è attratta dall’idea del silenzio e da tante proposte di meditazione? Per lo smarrimento, la crisi di senso che domina la società. Il vecchio assetto sta crollando, mancano però nuovi riferimenti in sostituzione di quelli che fino a poco fa sembravano incrollabili. Il silenzio consente di entrare in contatto con l’atto creativo che ci ha generati e che è rimasto impresso nel cuore. Le persone avvertono una nostalgia di bellezza, di quell’innocenza che la memoria profonda preserva nonostante che questo mondo abbia smesso perfino di tutelare l’innocenza dell’infanzia. Oggi lo Spirito chiede di incoraggiare coloro che sentono il desiderio di percorrere strade che conducono a un’esistenza più profonda e consapevole. Segno evidente dell’insorgere di una nuova quanto antica vocazione che la Chiesa deve saper cogliere.
Perché non dovrebbe? Perché per troppo tempo si è creduto che vivere la libertà dello Spirito potesse comportare troppi rischi... ma la libertà dello Spirito chiede spoliamento, morte a se stessi. Si sono messe regole su regole, ma tutto ha un rischio, anche il troppo controllo comporta il rischio del potere. Se si crede allo Spirito e ci si affida, bisogna rischiare. L’urgenza lo esige. Solo lo Spirito può generare la Chiesa in uscita. In uscita dalla propria autoreferenzialità, dalle troppe regole. La beata Elena Guerra, apostola dello Spirito Santo, diceva che la Chiesa dovrebbe sentirsi come un cenacolo universale... gli apostoli stavano nel cenacolo impauriti e smarriti, ma l’irrompere dello Spirito Santo li spinge fuori senza troppo stare a guardare a rischi e conseguenze. Lo Spirito Santo irrompe e attiva. L’azione della Chiesa deve essere suscitata dallo Spirito. Non serve troppo efficientismo, servono azioni efficaci ai fini della salvezza.
Si tratta semplicemente di testimoniare il Vangelo... Come affermava Simone Weil il cristianesimo deve essere incarnato, riverberarsi nell’umanità e nel modo di vivere, emanare dalla persona. Questo è ciò che colpisce e attrae di Gesù. Non servono proselitismo, strategie, ma essere quel che si è: questa è la testimonianza fondamentale oggi per la Chiesa. Il cristianesimo risveglia uno sguardo nuovo che nasce dall’ascolto, dalla preghiera interiore. È l’esatto contrario dell’autocentratura tipica del nostro tempo, dei social, dei selfie. Il cristiano non ha bisogno di mettersi in mostra perché la sua pienezza viene da dentro, non conta l’apparire ma, ripeto, quello che si è. E questo evangelizza.
Servono maestri di silenzio e di preghiera? Dobbiamo sostenere le esperienze di coloro che sentono il richiamo al silenzio, incentivare la preghiera personale. Sviluppando comunione con Dio, la preghiera interiore crea comunione con i fratelli. Libera da condizionamenti egoici. Lo Spirito purifica, lavora nell’anima, apre alla grazia. Permette di discernere lo spirito del mondo attecchito dentro di noi. Attiva la lotta interiore. Non si parla più dei sette vizi capitali, di quella sottile psicologia elaborata dai padri del deserto, che scruta le malattie dell’anima. Ci sono forze che ci dominano e ci chiudono all’azione dello Spirito. La luce dello Spirito fa come da specchio che purifica, spezza le catene. È urgente tornare a dare importanza alla cura dell’anima, alla ricerca della luce di Dio nel nostro cuore. Le persone ne hanno bisogno, per questo scelgono pratiche di altre tradizioni, cercano maestri di vita interiore. Una sensazione di vuoto sempre più evidente che accelera l’avvento dell’era dello Spirito.
Questa è mistica... Certo. Ma la mistica non è una cosa per pochi eletti, per i santi sugli altari. L’esperienza dello spirito è relazione intima con Dio, è una potenzialità per tutti e oggi lo Spirito chiama perché i tempi urgono. Per questo «è giunta l’ora ed è questa». Gesù fa questo importante annuncio a una donna come tante. Bisogna tornare a dare spazio allo Spirito, fulcro del nostro battesimo che altrimenti rischia di restare come un seme che non fruttifica.
COSTITUZIONE, MESSAGGIO EVANGELICO, CATTOLICESIMO ROMANO, E FILOLOGIA... *
Sala: “La fede mi guida. Ma da divorziato soffro senza la comunione”
La lettera del sindaco di Milano. Riflessione sul rapporto con la religione: “Mi aiuta nell’impegno a favore dei più deboli. Altrimenti la parola di Dio rimane scritta solo nei libri e non nei nostri cuori”
di GIUSEPPE SALA (la Repubblica, 24 dicembre 2019)
Caro direttore, sono un uomo fortunato perché la fede è per me qualcosa di irrinunciabile. È un dono fondamentale che apprezzo ancor di più adesso, dopo i sessant’anni, con tanta vita alle spalle. Ho avuto momenti di stanchezza, ho vissuto dubbi e contraddizioni ma non ho mai smesso di ricercare il Signore. Tra tante vicende della vita sento di non potere fare a meno del confronto con il Mistero e, in definitiva, con me stesso.
Ed è proprio da questa esperienza che conosco i miei limiti. Non mi sono mai sentito così profondo da potermi nutrire solo di fede, di farmi “bastare” l’intima relazione con Dio. Penso spesso che la mia fede non reggerebbe senza la pratica, senza la possibilità di entrare in un luogo di culto, senza la Messa della domenica. Ho bisogno della Messa, di sentire la voce, più o meno ispirata, di un pastore e di misurarmi con Gesù e con il suo Vangelo. Pur nella consapevolezza dell’ineluttabilità del confronto che nasce in me e ritorna in me.
La Messa della domenica è un momento di pace e di verità. Mi fa star bene, mi aiuta a sentire la mia umanità, i miei dolori, la mia essenza. La gratitudine e la precarietà. Sono solo a disagio rispetto al momento della comunione, essendo divorziato e in uno stato che non mi consente di accostarmi al Sacramento. Amo stare insieme agli altri, condividere quel senso di solitudine e, allo stesso tempo, di comunione che la Messa ti dà. La liturgia ci insegna l’umiltà di essere come (e peggio) degli altri, di condividere la speranza, di far ammenda delle nostre miserie.
Si deve essere popolo anche fuori dalle porte della Chiesa. Tra tante urla, la ricerca della verità e della giustizia è l’impegno che dà senso alla mia fede, quella fede che mi dà l’energia giorno per giorno per rendere concreto il mio cammino sulla via dell’equità, del rispetto e dell’accoglienza soprattutto verso i più deboli e i più abbandonati. Altrimenti la parola di Dio rischia di rimanere scritta solo nei libri e non nei nostri cuori.
Per tutto ciò amo parlare di religione, ma ne aborro l’ostentazione. Sorrido pensando che ne sto scrivendo, ma è come se stessi parlando a me stesso.
I divorziati e l’eucarestia.
La lettera del sindaco Sala e le risposte che dà la Chiesa
È raro che un politico parli della sua vita di fede. Il primo cittadino di Milano lo ha fatto rivelando un’adesione di fede e una ferita
di Luciano Moia (Avvenire, sabato 28 dicembre 2019)
È raro che un politico parli della sua vita di fede. Il sindaco Beppe Sala lo ha fatto rivelando un’adesione e una ferita. Un atto di coraggio e di chiarezza. Che non può che essere apprezzato da chi, come noi, da anni è impegnato a divulgare e promuovere la svolta pastorale voluta da papa Francesco all’insegna dell’accoglienza e della misericordia. Nella confessione spirituale che ha affidato, la vigilia di Natale, alle pagine de "la Repubblica", il sindaco di Milano rivela «di non poter fare a meno del confronto con il Mistero» e di partecipare regolarmente alla Messa domenicale, ma di sentirsi «a disagio rispetto al momento della Comunione, essendo divorziato e in uno stato che non mi consente di accostarmi al Sacramento».
Se una persona seria e preparata come Sala, è costretta ad ammettere un disorientamento spirituale per la sua condizione di divorziato risposato, significa che la strada per trasformare in consapevolezza diffusa le indicazioni uscite dal doppio Sinodo sulla famiglia (2014 e 2015) voluto da papa Francesco e poi dall’esortazione apostolica Amoris laetitia, è ancora lunga.
In quel testo il Papa scrive in modo esplicito che nessuno deve sentirsi condannato per sempre e che la Chiesa è chiamata ad offrire a tutti, compresi i divorziati risposati a cui è dedicato un intero capitolo - l’VIII - la possibilità di vivere pienamente il proprio cammino di fede. In questo cammino si può comprendere anche l’aiuto dei sacramenti (nota 351).
Non è un’opinione. È quanto emerso da un cammino sinodale proseguito per oltre tre anni che il Papa ha sancito con la sua parola. Poi, di fronte alle critiche e ai distinguo, Francesco ha voluto che l’interpretazione da lui considerata più efficace, quella dei vescovi della regione di Buenos Aires, fosse inserita nei cosiddetti Acta apostolica sedis - gli atti ufficiali della Santa Sede - a ribadire che indietro non si torna e che tutte le diocesi del mondo devono incamminarsi lungo quella strada.
Milano non fa eccezione. Inutile far riferimento al rito ambrosiano e alle aperture del cardinale Carlo Maria Martini, che su questi aspetti non ci sono state, in quanto scelte che non si potevano e non si possono pretendere da una singola Chiesa locale.
Francesco, come detto, ha ritenuto necessarie due assemblee mondiali dei vescovi per gettare i semi del cambiamento. Una persona divorziata e risposata che desidera riaccostarsi alla Comunione - spiega il Papa - può chiedere l’aiuto di un sacerdote preparato per avviare un serio esame di coscienza sulle proprie scelte esistenziali.
Sei, in rapidissima sintesi, i punti da non trascurare: quali sforzi sono stati fatti per salvare il precedente matrimonio e ci sono stati tentativi di riconciliazione? La separazione è stata voluta o subita? Che rapporto c’è con il precedente coniuge? Quale comportamento verso i figli? Quali ripercussioni ha avuto la nuova unione sul resto della famiglia? E sulla comunità? Domande spesso laceranti e risposte non codificabili, che possono richiedere anche lunghi tempi di elaborazione e da cui non derivano conseguenze uguali per tutti. Ma anche modalità pastorali efficaci per metterle in pratica.
Trovare e attuare queste buone prassi è faticoso e Sala, con le sue parole, ha dato voce a un disagio e una sofferenza spirituale, ma anche a una speranza, che condivide con tanti altri credenti, divorziati e risposati.
*SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE.
FLS
RIPARTIRE DA GRECCIO, DAL PRESEPE ... *
Papa. Francesco: «Domenica sarò a Greccio, vi invierò una lettera sul Presepe»
Domenica primo dicembre con l’avvio del tempo dell’Avvento il Papa invierà una lettera per far capire il significato del Presepe, da Greccio dove san Francesco diede vita al primo presepe vivente
di I.Sol. (Avvenire, mercoledì 27 novembre 2019)
"Domenica prossima inizierà il tempo liturgico dell’Avvento. Mi recherò a Greccio, per pregare nel posto" dove San Francesco realizzò il primo presepe "per inviare a tutto il popolo credente una lettera per capire il significato del presepio".
È l’annuncio di Papa Francesco al termine dell’udienza generale.
A GRECCIO IL PRIMO PRESEPE VIVENTE DELLA STORIA
Correva l’anno 1223 quando san Francesco d’Assisi scelse l’umile paese montano del alto Lazio di Greccio, affacciato sulla vasta conca reatina, per rievocare la nascita del Salvatore. La tradizione vuole che a far nascere nel mondo la prima idea di presepe vivente fosse sorta su intuizione del Poverello di Assisi con l’aiuto del nobile signore di Greccio Giovanni Velita. Secondo le agiografie, durante la Messa, sarebbe apparso nella culla un bambino in carne ed ossa, che Francesco prese in braccio. Da questo episodio ebbe origine la tradizione del presepe.
La testimonianza di tutto questo ci arriva da un antica fonte come la "Legenda di san Francesco": «Come il beato Francesco, in memoria del Natale di Cristo, ordinò che si apprestasse il presepe, che si portasse il fieno, che si conducessero il bue e l’asino; e predicò sulla natività del Re povero». A simboleggiare ancora oggi questo episodio singolare e della vita del Poverello è il dipinto attribuito a Giotto "Il presepe di Greccio" (realizzato tra il 1295 e il 1299) che è la tredicesima delle ventotto scene del ciclo di affreschi delle "Storie di san Francesco" presenti nella Basilica superiore di Assisi.
Da allora, la tradizione si diffuse nel resto d’Italia e negli altri Paesi cristiani. Oggi, i presepi viventi sono organizzati pressoché in tutto il mondo occidentale cristiano, non solo cattolico, ma anche da parte di fedeli di altre Chiese.
Nella città laziale di Greccio ando a sorpresa anche papa Francesco nel gennaio 2016 proprio per visitare il luogo dove per la prima volta venne realizzato un presepe e per pregare al Santuario che custodisce la memoria di quel Natale 1223, in cui san Francesco volle «vedere con gli occhi del corpo» la povertà del Bambino di Betlemme.
IL VIDEO DELLA VISITA NEL 2016 DEL PAPA A GRECCIO
Video
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
"DUE SOLI": COME MARIA, COSI’ GIUSEPPE!!!
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Gioacchino da Fiore, ’profeta di speranza’
di Emiliano Morrone *
Si è concluso ieri il IX Congresso internazionale degli studi sul teologo della storia Gioacchino da Fiore (1135-1202), intitolato “Ordine e disordini” e svoltosi per tre giorni nell’abbazia florense di San Giovanni in Fiore (Cs). L’appuntamento cui hanno partecipato borsisti di varia provenienza, caduto nel 40° anniversario della fondazione del Centro internazionale di studi gioachimiti, che ha sede nella stessa abbazia, "è servito a chiarire aspetti essenziali del pensiero dell’abate nel contesto storico-culturale di appartenenza, dominato dalla paura della fine del tempo", ha detto il presidente del Centro, Riccardo Succurro, concludendo i lavori, aperti dal direttore del comitato scientifico e membro dell’Accademia dei Lincei: Cosimo Damiano Fonseca, già rettore dell’Università della Basilicata.
"Stavolta, a differenza dei precedenti congressi, basati in prevalenza sui contenuti dell’opera di Gioacchino, abbiamo proposto un programma di approfondimento multidisciplinare", ha spiegato Succurro: dalle nozioni di "ordine, simmetria e simbolo in Gioacchino", di cui ha parlato Marco Rainini, dell’Università Cattolica di Milano, al canone iconografico del teologo calabrese "attorno alle ruote di Ezechiele", tema affrontato da Véronique Rouchon Mouilleron, dell’ateneo francese Lumière Lyon 2, fino alla lectio magistralis del filosofo teoretico Alessandro Ghisalberti sull’"ordine nell’Aldilà", con una minuziosa disamina della disputa tra Anselmo, Aberlardo e Roscellino sulla natura di questo "ordine ontologico-dialettico".
Constant J. Mews, professore alla Monash University di Melbourne, ha relazionato su un argomento che per certi versi ha perfino evocato il senso del film-documentario di Philip Groening “Il grande Silenzio” (2005): "oltre la teologia monastica", legato alle "ragioni dei monaci" anche in rapporto alla loro vita di regole, riti, tradizione e ciclicità. Riccardo Saccenti, dell’Università di Bergamo, ha discusso di "ordine della società, ordine escatologico", inquadrando il pensiero di Gioacchino "nel contesto del XII secolo".
Gianluca Potestà, della Cattolica di Milano, ha illustrato il "contributo di Tullio Gregory agli studi sull’escatologia medievale", in una dotta lezione in memoria del noto storico della filosofia, peraltro accademico dei Lincei, morto nel gennaio scorso. Luisa Valente, dell’università romana La Sapienza, si è soffermata sull’"uso teologico dell’immaginazione nel XII secolo", che costituisce il fondamento delle scritture, del metodo esplicativo e del fascino dell’abate Gioacchino.
Questo intervento è stato accompagnato da quello di Piero Cappelli, dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, centrato sull’"attesa ebraica della fine fra antichità tarda e medioevo". "Proprio l’attesa della fine - ha chiarito Succurro - attraversa e segna lo spirito medievale. Gioacchino la supera: sostituisce il tempo della fine con la fine del tempo. Così conferisce un senso al divenire della storia" e "dunque per l’abate, che interpretando i testi sacri profetizza un orizzonte di speranza, la rivelazione - ci ha precisato Ghisalberti - continua oltre l’avvento di Cristo, con la prospettiva della piena grazia di Dio agli esseri umani e della conversione universale alla fede cristiana".
Viene qui in mente la riflessione di Gianni Vattimo dell’ottobre 2004 al VI Congresso internazionale di studi gioachimiti. "Non sarebbe difficile - scandì allora il filosofo torinese di origini calabresi, che poco dopo si candidò sindaco proprio di San Giovanni in Fiore - annettere Gioacchino al gruppo di coloro che, allo spirito di crociata che sembra imporsi un po’ dovunque, certo sia in Bin Laden sia in Bush, contrappongono la politica della parola e del dialogo".
Al netto dell’interpretazione autentica delle sue opere, Gioacchino da Fiore si pone, dunque, come pensatore di riferimento nell’epoca attuale delle incertezze: politiche, economiche, sociali, esistenziali. Il monaco calabrese sembra sopravvivere all’antistoricismo che spesso caratterizza il “mondo” digitale, la cui comunicazione immediata ed emotiva, divenuta strumento primario per il consenso politico, confligge con ogni visione dello sviluppo, dell’ordine, del progetto della storia.
Gli altri relatori del congresso sono stati: Guy Lobrichon (Université d’Avignon), Roberto Guarasci (Università della Calabria), Francesco Siri (École nationale des chartes, di Parigi). Dominique Poirel (Institut de recherche et d’histoire des textes, di Parigi), Sabine Schmolinisky (Universität Erfurt), Guido Cariboni (Cattolica di Milano), Nicole Bériou (già docente nell’Università Sorbona, di Parigi), Frances Andrews (University of St. Andrews), Jeffery R. Webb (Bridgewater State University).
Assente il governatore della Calabria, Mario Oliverio (Pd), per il deputato del Movimento 5 Stelle Alessandro Melicchio - che siede in commissione Cultura e nella giornata conclusiva ha salutato i congressisti - "eventi di questa portata vanno più sostenuti e incoraggiati a livello istituzionale, e in questo senso è un’opportunità che la collega calabrese Anna Laura Orrico (M5S, nda) sia stata nominata sottosegretario ai Beni culturali". Secondo il sindaco di San Giovanni in Fiore, Giuseppe Belcastro (Pd), "Gioacchino parla da questa nostra montagna simbolica alla coscienza contemporanea di ogni latitudine".
* ADNKRONOS, 22.09.2019 (ripresa parziale, senza immagini).
Scienza e fede.
Teologia e cosmologia in dialogo seguendo Teilhard de Chardin
L’astrofisico Piero Benvenuti rilancia l’eredità del gesuita: «Suo il merito di avere intuito il valore rivoluzionario dell’evoluzione del cosmo. Ora serve una nuova teologia della natura»
di Piero Benvenuti (Avvenire, giovedì 19 settembre 2019)
Nel novembre 2017, durante la prima sessione dell’Assemblea Plenaria del Pontificio Consiglio della Cultura, il cui tema era “Il futuro dell’umanità”, il nome di Teilhard de Chardin venne evocato più volte, tanto che lo spirito del gesuita sembrava aleggiasse nell’aula. Forse fu proprio lui a darmi l’ispirazione di proporre ai partecipanti, dopo la pausa caffè del pomeriggio, di scrivere a papa Francesco perché considerasse la possibilità di revocare il Monitum del 1962 che ancora grava sulle sue opere.
In fondo, non solo gli autorevoli membri del Consiglio ritenevano l’intuizione profetica di Teilhard quanto mai attuale e rilevante nel discutere il futuro dell’Uomo e del Cosmo, ma anche gli ultimi pontefici avevano più volte citato il suo pensiero nelle loro Encicliche. La proposta fu accolta con entusiasmo, manifestato da un estemporaneo caloroso applauso, e il giorno seguente la lettera, approvata dall’Assemblea, venne firmata da più di quaranta partecipanti e inviata al Santo Padre attraverso i canali ufficiali.
La risposta, arrivata qualche tempo fa a firma del segretario di Stato, cardinale Pietro Parolin, riporta il parere della Congregazione per la Dottrina della Fede che non ritiene opportuna la rimozione del Monitum in quanto «...non ha perso il suo significato come ammonimento per una valutazione serena di alcune discutibili proposte filosofico-teologiche negli scritti di padre Pierre Teilhard de Chardin».
Nonostante il parere negativo, la risposta precisa il significato del Monitum, aggiornandolo: innanzitutto commenta positivamente gli sforzi del gesuita nel riavvicinare costruttivamente i progressi della scienza con la fede cristiana e conclude esortando gli studiosi «...ad approfondire lo studio delle ambiguità presenti negli scritti dell’autore, con l’auspicio di poter giungere ad ulteriori chiarificazioni».
Quest’ultima importante esortazione - si legge nella risposta - è condivisa da papa Francesco ed è significativo che coincida temporalmente con la pubblicazione della costituzione apostolica Veritatis gaudium, il cui proemio rappresenta un possente invito al rinnovamento degli studi teologici.
Questa coincidenza stimola alcune riflessioni sulla relazione tra la moderna cosmologia (ovvero la filosofia della natura) e la teologia. Non c’è dubbio infatti che, al di là di alcuni aspetti controversi del pensiero di Teilhard, il suo merito principale consista nell’avere intuito il valore rivoluzionario dell’inattesa caratteristica fondamentale del cosmo, ovvero la sua evoluzione unitaria e globale.
Intuizione doppiamente meritoria tenendo conto che all’epoca eravamo appena agli albori della nuova cosmologia, nata nel 1927 per opera di un altro sacerdote cattolico, il belga George Lemaître. Infatti, risolvendo le equazioni della relatività generale di Einstein applicate a tutto l’universo, Lemaître dimostrava teoricamente e verificava sperimentalmente che il cosmo si espandeva ed era quindi «in divenire».
A riprova che il fatto fosse totalmente inatteso, basti ricordare l’istintiva reazione di Einstein che, pur riconoscendo la correttezza della soluzione matematica di Lemaître, gli disse senza mezzi termini: «La sua ipotesi fisica è abominevole»... per poi ricredersi quando gli ulteriori dati osservativi sgombrarono ogni dubbio sulla natura evolutiva dell’universo.
Non c’è da meravigliarsi quindi che anche in campo teologico le conseguenze di questa rivoluzione cosmica fossero a prima vista difficili da accettare, ma oggi non è più così: la storia dell’universo che si dipana per quasi 14 miliardi di anni attraversando fasi diversissime, con accelerazioni e rallentamenti temporali, diversificandosi in una trama di strutture e organismi imprevedibili, fino a raggiungere la coscienza, tutto questo richiede con forza una revisione radicale della filosofia della natura, sinora erede della tradizione greca.
Per usare un termine caro a Thomas Kuhn, siamo di fronte a un cambio di paradigma, simile a quello che precede le grandi rivoluzioni scientifiche, e come in quei casi, l’abbandono di schemi mentali consolidati, come la suddivisione netta tra materia inanimata, vita vegetale, vita animale e infine - essenzialmente diverso - l’essere cosciente, può essere traumatico e richiede coraggio e onestà intellettuale.
Di fronte a questa nuova situazione la teologia non può più rimanere inerte: è già positivo aver recuperato, grazie agli stimoli della nuova cosmologia, il concetto di Creazione che Tommaso d’Aquino aveva lucidamente individuato già nel XIII secolo: «Risulta con chiarezza l’incongruenza di chi ricerca la creazione con argomenti desunti dalla natura dell’universo o dalla sua evoluzione... La creazione infatti non è una mutazione, ma è la dipendenza stessa dell’essere creato in rapporto al principio che lo fa esistere. Essa appartiene quindi alla categoria di relazione» (Summa contra Gentiles, II, 18).
Se per Tommaso la Creatio continua è quindi un atto a-temporale che sostiene in esistenza tutta la realtà, oggi sappiamo che essa possiede anche la caratteristica di essere in divenire, di non essere ancora giunta a compimento: come una sorgente vivace il cosmo evolvente ci ha stupito nel corso di 13,8 miliardi di anni facendo emergere strutture sempre più diversificate e complesse, inattese e imprevedibili, ma tutte parte della stessa unica narrazione.
Cosa ci riserva l’evoluzione/ creazione nel futuro? Ecco la domanda che affascinava Teilhard e alla quale ha cercato con passione di dare una sua personale risposta che non poteva allora, come non può oggi, essere disgiunta dalla rivelazione cristiana che apre la speranza all’avvento della basileia ton ouranon, del Regno dei Cieli.
Domanda ancor più attuale per l’uomo d’oggi che non solo ha conosciuto il carattere evolutivo dell’universo di cui è parte, ma sta apprendendo anche i meccanismi della sua evoluzione e li può controllare e indirizzare. La nostra chiamata in causa come co-creatori è sempre più impellente e richiede a sostegno una adeguata Teologia della Natura.
Quest’ultima potrebbe essere uno dei primi risultati dell’accorato appello della Veritatis gaudio per un rinnovamento degli studi teologici. Purtroppo la seconda parte della Costituzione apostolica, pur scontando lo stile necessariamente più formale di una normativa universitaria, non sembra recepire in pieno lo slancio innovativo del proemio. Si parla indubbiamente della necessità di una maggiore interdisciplinarietà negli studi, ma il riferimento è generico ad «...altre scienze, in primo luogo le scienze umane» e comunque non si riferisce alle Facoltà propriamente teologiche per le quali la massima attenzione, per quanto riguarda l’interdisciplinarietà, rimane ancora concentrata sullo studio della filosofia.
È sintomatico che la Cosmologia e la Filosofia (o Teologia) della Natura non siano mai nominate, come se la prima fosse equiparabile a una qualunque altra disciplina scientifica e la seconda non più materia di studio della Filosofia, ma unicamente della Scienza.
Il cambio di paradigma intuito da Teilhard è oggi così evidente che andrebbe approfondito con determinazione in almeno alcune Facoltà teologiche, che potrebbero specializzare i propri studi verso una nuova Teologia della Natura, anche seguendo i molti spunti contenuti nell’enciclica Laudato si’.
In questa prospettiva sarebbe auspicabile e sicuramente accolta con entusiasmo una stretta collaborazione con le Facoltà scientifiche laiche che si occupano di Cosmologia e di materie correlate, sgombrando così il campo da ogni artificiale separazione tra Scienza e Fede. Se tale ipotesi non si realizzasse, l’ormai ineludibile sviluppo di una nuova Teologia della Natura avverrà comunque, ma si concretizzerà al di fuori delle Università Cattoliche con immaginabili spiacevoli conseguenze che sarebbe opportuno evitare a ogni costo.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
ALBERT EINSTEIN, LA MENTE ACCOGLIENTE. L’universo a cavallo di un raggio di luce (non di un manico di scopa!)
LA VIA DI KANT: USCIRE DALLA CAVERNA, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI “DIO” CONCEPITO COME “UOMO SUPREMO”. Note per una rilettura della “Storia universale della natura e teoria del cielo”
LA LUCE, LA TERRA, E LA LINEA DELLA BELLEZZA: LA MENTE ACCOGLIENTE. "Note per una epistemologia genesica"
Federico La Sala
Congresso studi su Gioacchino da Fiore, suo messaggio vicino a riforma Papa
di Emiliano Morrone (ADNKRONOS, 18.09.2019)
"Senza dubbio c’è un rapporto tra il messaggio di speranza di Gioacchino da Fiore e l’opera riformatrice di Papa Francesco". Ne è convinto Riccardo Succurro, presidente del Centro internazionale di Studi gioachimiti, alla vigilia del IX congresso di accademici dedicato al pensiero dell’abate calabrese Gioacchino da Fiore, intitolato “Ordine e disordini” e previsto da domani al 21 settembre nell’Abbazia florense di San Giovanni in Fiore (Cosenza), con interventi di studiosi europei, statunitensi e australiani.
"Per Gioacchino, tra il XII e il XIII secolo, in mezzo a pesanti conflitti per il potere temporale e minata al suo interno, la Chiesa - prosegue Succurro - doveva guardare di più alla dimensione spirituale e restare accanto ai deboli, agli ultimi. Molto di questa prospettiva di rinnovamento è presente, non sappiamo con quanta influenza diretta, nella trasformazione del clero che sta compiendo l’attuale pontefice".
Secondo il presidente del Centro internazionale di studi gioachimiti, attivo da 40 anni e tra gli istituti culturali più longevi della Calabria, "Gioacchino è figura contemporanea perché offre una visione aperta della storia, nella quale l’uomo, ogni uomo, è parte vitale del progresso collettivo e pertanto può contribuire all’emancipazione della società, della comunità globale, al di là delle differenze tra i popoli". Nel 2014, in occasione della XXVIII edizione dell’Incontro Internazionale Uomini e Religiosi promosso dalla Comunità di Sant’Egidio, Papa Francesco raccomandò: ’Dobbiamo essere costruttori di pace e le nostre comunità devono essere scuole di rispetto e di dialogo con quelle di altri gruppi etnici o religiosi, luoghi in cui si impara a superare le tensioni, a promuovere rapporti equi e pacifici tra i popoli e i gruppi sociali e a costruire un futuro migliore per le generazioni a venire’.
"È dunque il tema dell’accoglienza delle diversità - spiega Succurro - uno degli aspetti più attuali del pensiero di Gioacchino da Fiore, cui va aggiunta la propensione al dialogo che attraversa la sua teologia della storia", che prevede uno sviluppo dell’umanità in senso spirituale, cioè non più condizionata da codici, norme, sanzioni e paure. Infatti, nel libro della "Concordia" Gioacchino scrive: ’Tre sono dunque gli stati del mondo (...) che i simboli dei sacri testi ci prospettano. (...) Il primo è trascorso nella schiavitù, il secondo è caratterizzato da una servitù filiale, il terzo si svolgerà all’insegna della libertà. Il primo è segnato dal timore, il secondo dalla fede, il terzo dalla carità. Il primo periodo è quello degli schiavi, il secondo è quello dei figli, il terzo è quello degli amici. Il primo è il tempo dei vecchi, il secondo dei giovani, il terzo dei fanciulli’.
"Tuttavia - avverte Succurro - non bisogna lasciarsi suggestionare dalle tante, continue deformazioni dell’opera gioachimita. Qualcuno l’ha ricondotta al millenarismo o al marxismo, altri alla Teologia della liberazione. Il lungo lavoro del nostro Centro è servito a restituire nella loro purezza gli scritti di Gioacchino. Ne stiamo completando la pubblicazione integrale, al fine agevolare gli studi scientifici e anche perché la Chiesa abbia, con tutta la sua autonomia, ulteriori strumenti per valutare l’eventuale beatificazione del religioso (la relativa causa è in corso da circa 20 anni, ma forse risente negativamente di ricostruzioni teoriche articolate da Papa Benedetto XVI nel volume Perché siamo ancora nella Chiesa, nda), che necessita di un culto".
Così, il IX congresso internazionale sull’abate calabrese sarà centrato - sintetizza Succurro - sull’ordine perseguito dall’abate calabrese, cui Dante Alighieri conferì nella Divina commedia la dignità di profeta, in relazione ai disordini dell’Apocalisse e all’idea che dopo il XII secolo la storia del mondo dovesse finire, concludersi. In realtà Gioacchino da Fiore spalanca lo sguardo sulle possibilità e potenzialità dell’essere umano, sul procedere della storia, dopo l’avvento di Cristo, nella direzione del miglioramento dell’uomo e del futuro", della pace e della giustizia terrena (senza la necessità dei tribunali).
È un po’, in breve, una prospettiva ottimistica che si oppone al mondo perfetto, all’Iperuranio di Platone, all’Aldilà della dottrina a lungo dominante, cui corrisponde un al-di-qua fatto di sofferenze e patimenti da accettare, perché l’anima umana riceva il meritato premio dopo la morte del corpo. Quella di Gioacchino da Fiore è una prospettiva, insomma, che per molti versi include la responsabilità individuale: se al futuro non corrisponde la degenerazione dell’umanità, in quanto libero ogni essere umano può avere un ruolo positivo nella propria esistenza, nella storia in cui vive.
Non è poco come messaggio che riecheggia dalla Calabria, regione costretta a fare i conti con il dominio criminale della ‘ndrangheta. E non è poco, come messaggio - che avrebbe influenzato l’evangelizzazione francescana e perfino Michelangelo Buonarroti - partito da un territorio su cui gravano ancora forti pregiudizi, anche culturali.
Il Congresso si aprirà domani alle 9.30 all’Abbazia Florense di San Giovanni in Fiore (Cs) con l’intervento di presentazione di Giuseppe Riccardo Succurro, Presidente del Centro internazionale di Studi Gioachimiti, cui seguiranno i saluti delle autorità. Nella tre giorni si alterneranno interventi di studiosi italiani e internazionali.
Profezia è storia / 6.
Il Nome che si deve imparare
di Luigino Bruni (Avvenire, sabato 6 luglio 2019)
La tentazione di tutti i costruttori di templi è il desiderio di catturare Dio nella dimora che gli hanno edificato. Perché il rischio di ogni teoria e prassi del sacro è la trasformazione della divinità in un bene di consumo. La Bibbia ci ricorda che la presenza di Dio nei templi e sulla terra è una presenza assente, dentro la quale si può compiere l’umile esercizio della fede. Il sacro biblico è un sacro parziale, il tempio è luogo religioso imperfetto. Questa necessaria "castità religiosa", che lascia sempre indigenti e desiderosi del "Dio del non-ancora" mentre se ne sperimenta una certa presenza vera e imperfetta, è stata custodita e coltivata gelosamente dalla Bibbia; e un giorno ha consentito agli ebrei di continuare la loro esperienza di fede anche con il tempio distrutto. La povertà di dover stare in un tempio meno luminoso di quelli degli altri popoli, generò la ricchezza di una religione liberata dal luogo sacro e quindi possibile anche negli esili. Solo gli idoli sono abbastanza piccoli da essere contenuti dai loro santuari. Il Dio biblico è l’Altissimo perché infinitamente più alto di ogni tetto di tempio che gli possiamo costruire.
La dedicazione del tempio avviene durante una grande assemblea di tutto Israele. La liturgia inizia con il trasporto nel tempio dell’arca dell’alleanza, prelevandola dalla tenda dove l’aveva posta Davide: «Il re Salomone e tutta la comunità d’Israele, convenuta presso di lui, immolavano davanti all’arca pecore e giovenchi, che non si potevano contare né si potevano calcolare per la quantità» (1 Re 8,5). L’arca dell’alleanza (che, come ricorda il testo, conteneva "soltanto" le tavole della Legge di Mosè) è sacramento del tempo nomade dell’esodo e del Sinai, è il legame tra passato, presente e futuro. Un altro filo d’oro che unisce il nuovo tempio alla storia antica d’Israele è la presenza della nube: «Appena i sacerdoti furono usciti dal santuario, la nube riempì il tempio del Signore, e i sacerdoti non poterono rimanervi per compiere il servizio a causa della nube, perché la gloria del Signore riempiva il tempio» (8,10-11). La nube, infatti, aveva già riempito la "tenda del convegno" quando Mosè ne ebbe completato la costruzione: «Allora la nube coprì la tenda del convegno e la gloria del Signore riempì la Dimora»; neanche «Mosè poté entrare nella tenda del convegno, perché la nube sostava su di essa e la gloria del Signore riempiva la Dimora» (Esodo 40,34-35).
Il tempio inizia la sua vita pubblica sotto il segno di una radicale ambivalenza. Esso è la nuova tenda del convegno, la nuova dimora dell’Arca e delle tavole della Legge, la casa che custodisce le radici e il Patto. Al tempo stesso, la nube scura dice che il tempio ospita una presenza che pur essendo vera è meno vera dell’assenza del Dio, che è signore del tempio perché non è costretto ad abitarvi. La nube è simbolo della presenza della "gloria di YHWH" e dell’oscurità della nostra capacità di vederlo e di comprenderlo. E così Salomone, in quello che è forse il verso più bello e il senso profondo di tutto questo grande capitolo, può (e deve) esclamare: «Ma è proprio vero che Dio abita sulla terra? Ecco, i cieli e i cieli dei cieli non possono contenerti, tanto meno questa casa che io ho costruito!» (8,27). E così Salomone, nel giorno stesso della dedicazione del tempio, il suo capolavoro religioso e politico, ripete più volte che la "dimora" vera di Dio non è il suo tempio meraviglioso. È questa capacità di continua auto-sovversione che rende la Bibbia viva e capace di sorprenderci sempre.
Un’altra strategia narrativo-teologica per esprimere l’assenza-presenza di Dio è la distinzione tra YHWH e il suo nome. Il nome nella Bibbia dice molte cose, e tutte importanti (la Bibbia è anche una storia di nomi dati e cambiati, detti e taciuti). YHWH, il nome che Dio rivela a Mosè sul Sinai, è rivelazione perché svela e subito ricopre (ri-velare). È un nome/non-nome ("Io sono colui che sono"), che non si lascia manipolare né pronunciare se non nel tempio in speciali occasioni. Il nome svolge allora la stessa funzione della nube: svela e rivela, dice e tace, illumina e abbuia. Ogni volta che un ebreo entrava nel tempio doveva rivivere qualcosa dell’incontro di Mosè con il roveto: un dialogo con qualcuno che arde senza consumarsi, che parla senza esserci: «Siano aperti i tuoi occhi notte e giorno verso questa casa, verso il luogo di cui hai detto: "Lì porrò il mio nome!"» (8,29). Nel tempio c’è il nome di Dio per ricordarci che il Dio del nome non è lì, perché se ci fosse non sarebbe Dio. E se il tempio non contiene Dio, ma solo il suo nome, è possibile pregare e incontrare YHWH ovunque.
La fede biblica ha fatto di tutto per salvaguardare la co-essenzialità della presenza e assenza di Dio. Tutte le deviazioni idolatriche che ha conosciuto lungo la sua lunga storia sono state l’esito dell’uscita della nube dal tempio e dell’illusione che il nome di YHWH fosse YHWH stesso. Quando la nube del mistero si dirada e scompare riusciamo finalmente a vedere gli dèi in una luce chiarissima solo perché sono diventati idoli. Il prezzo del vedere senza la nube è vedere qualcosa di diverso - che ci piace tanto, ma che non è Dio. Finché riusciamo a restare indigenti di fronte a una nube che avvolge il mistero e ad un nome che svela e rivela, possiamo sperare in modo non vano che oltre quella nube e quel nome ci possa essere una presenza viva; quando invece, per vedere meglio, non accettiamo più questa povertà religiosa, quando scacciamo la nube e vogliamo vedere Dio faccia a faccia, quando pronunciando il nome di Dio pensiamo di conoscerlo perfettamente, lì finisce la fede biblica e inizia l’idolatria.
La fede vive nello spazio che si crea tra la nostra sincera esperienza soggettiva di Dio e la realtà di Dio in sé: quando questo spazio si riduce con esso si riduce la fede; quando si annulla, è la fede che si annulla. La pronuncia del nome di Dio ci salva finché teniamo viva la coscienza che tra quel nome e Dio c’è una nube di mistero che non riduce la fede ma la rende umanissima e vera. Sotto il sole l’unica esperienza di Dio che possiamo fare è dentro una nube densa, e il nome al quale Dio risponde è un non-nome che riesce a chiamarlo e svegliarlo finché sa di chiamarlo con un nome imperfetto e imparziale e quindi vero. E poi, se come dice l’Apocalisse, «porteranno il suo nome sulla fronte» (22,4), allora il nome di Dio ce lo rivela l’altro mentre ci guarda in volto - e noi lo riveliamo a lui.
Dentro questo orizzonte di luce e d’ombra, di vicinanza e di distanza, possiamo entrare nella grande preghiera di Salomone nel suo tempio. È una preghiera solenne, abbraccia l’intera storia della salvezza che dall’Egitto arriva fino alla distruzione del tempio di Gerusalemme e all’esilio, e forse oltre. È un canto individuale e collettivo; è ringraziamento, memoria e supplica, con incastonate alcune autentiche perle. Il suo centro è ancora l’esperienza dell’esilio: «Se nella terra in cui saranno deportati, rientrando in se stessi, torneranno a te supplicandoti nella terra della loro prigionia, dicendo: "Abbiamo peccato, siamo colpevoli, siamo stati malvagi", se torneranno a te con tutto il loro cuore e con tutta la loro anima nella terra dei nemici che li avranno deportati ... tu ascolta nel cielo, luogo della tua dimora, la loro preghiera e la loro supplica e rendi loro giustizia» (8,47-49).
È meravigliosa questa preghiera detta da Salomone e scritta da scribi deportati in Babilonia che stavano imparando una lezione essenziale: ci si salva nell’esilio "rientrando in se stessi" e "tornando a te [Dio]". Sono questi i due movimenti primi negli esili, che sono molto più radicali e decisivi del "ritornare a casa". Perché senza il "mi alzerò e andrò da mio padre" (Lc 15, 18), nessun ritorno è ritorno di salvezza - nella Bibbia e nella vita non è sufficiente tornare a casa perché terminino gli esili, come ci ha raccontato anche il Terzo Isaia.
L’esperienza dell’esilio ispira anche l’altra splendida preghiera di Salomone per lo straniero: «Anche lo straniero, che non è del tuo popolo Israele, se viene ... a pregare in questo tempio, tu ascolta nel cielo, luogo della tua dimora, e fa’ tutto quello per cui ti avrà invocato lo straniero» (8,41-43). Se la dimora di Dio è "il cielo" (ritornello costante) allora ogni uomo sotto il sole lo può pregare, perché questo Dio non è più imprigionato dai confini nazionali e il suo regno è la terra intera. Sono questi brani ispirati da una religiosità universalistica e inclusiva, scritti da un popolo che stava ricostruendo attorno al suo Dio diverso la sua identità nazionale ferita mortalmente, che fanno della Bibbia qualcosa a sua volta diverso da un libro che narra le vicende storiche e teologiche di un singolo popolo. Queste frasi, queste preghiere, potevano e dovevano non esserci in questi libri storici; e invece ci sono, come "fiori del male" generati lungo i fiumi di Babilonia. Solo un popolo che aveva conosciuto l’umiliazione di sentirsi straniero in un grande impero dai grandi dèi, poté capire che se c’è un Dio vero e se la terra non è solo popolata di idoli, allora questo deve ascoltare la preghiera di ogni persona; perché se il mio Dio non ascolta lo straniero allora non ha orecchie capaci di ascoltare neanche me, perché, semplicemente, è un banale idolo che sa operare solo dentro il suo finto recinto sacro. La fede biblica degli esiliati comprese che il suo Dio era diverso perché stava diventando il Dio di tutti.
L’umanesimo biblico e il cristianesimo ci hanno detto e ridetto che se c’è un Dio vero, deve essere il Dio di tutti. Lo sapevamo, ma lo abbiamo imparato veramente durante le guerre, le deportazioni, i campi di prigionia, nei soldati "nemici" nascosti dentro le nostre case, quando abbiamo saputo leggere, nel grande dolore, il "nome di Dio" sulla fronte di chi bussava alla nostra porta, di chi arrivava ai nostri confini e nei nostri porti. I nostri nonni e i nostri genitori lo avevano imparato, e su questa lezione della carne e del sangue hanno costruito e ricostruito l’Europa. Noi lo abbiamo dimenticato. Ma forse nel lungo esilio dell’umano che stiamo attraversando potremo ancora reimparare quel Nome.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
IL NOME DI DIO, SENZA GRAZIA ("CHARIS")! L’ERRORE FILOLOGICO E TEOLOGICO DI PAPA BENEDETTO XVI, NEL TITOLO DELLA SUA PRIMA ENCICLICA. Nel nome della "Tradizione"
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANA. PERDERE LA COSCIENZA DELLA LINGUA ("LOGOS") COSTITUZIONALE ED EVANGELICA GENERA MOSTRI ATEI E DEVOTI ... *
Politica.
Che cos’è il populismo? L’inganno della parte che vuole essere il tutto
Il politologo Yves Mény: le democrazie rappresentative si fondano sul popolo ma lo relegano a osservatore. Ma non c’è reale alternativa: un vero potere popolare finirebbe nelle mani dell’uomo forte
di Yves Mény (Avvenire, giovedì 20 giugno 2019)
Le democrazie sono al centro del desiderio politico. O almeno lo sono state per molto tempo e si sono identificate con la libertà, l’autonomia, l’auto-governo, con la vittoria della maggioranza e del numero sul singolo sovrano. La democrazia è, potremmo dire in sintesi, il desiderio della multitudine di sostituirsi al re, al dittatore o a un gruppo ristretto ma dominante, alle élites, alla casta, all’establishment. Ma la folla, le masse, l’aggregazione dei singoli, si trova di fronte ad un impasse, che nel mio recente libro pubblicato dal Mulino, Popolo ma non troppo ho denominato “malinteso democratico”.
Come unire infatti tutti questi atomi, attraversati da aspirazioni, interessi, emozioni cosi diversi da impedire loro di fatto di unirsi? Nel corso della storia molti sono stati i tentativi: ridurre, ad esempio, la dimensione territoriale della città per rendere possibile la conoscenza e l’unione di tutti. È il sogno greco, rivisto da Rousseau; ma non possiamo scordare la deriva delle colonie greche di Sicilia dove il despota finisce per incarnare il demos.
Una variante diversa è offrire una visione alternativa del popolo. È il realismo senza pietà di Hobbes dove il sovrano, sulla copertina del suo libro, è rappresentato da mille corpi di cittadini assorbiti, ingoiati e capovolti per dar corpo all’unità. C’è poi il sogno-incubo della rivoluzione russa di dare il potere a una classe unica al prezzo di eliminare qualche privilegiato; e c’è il realismo all’inglese che “inventa” il principio rappresentativo per incanalare le aspirazioni di molti nella fattibilità pratica del governo di pochi; e c’è la non meno realistica e fredda osservazione di Gaetano Mosca sull’ineluttabilità delle élites, la doccia fredda sul desiderio.
"Unirsi in un popolo" è il desiderio che continuamente si ripresenta di trasformare la diversità in una unità metafisica. «L’Italia è fatta, bisogna fare gli italiani» constatava Massimo d’Azeglio; Eugen Weber descrive la trasformazione dei francesi di fine Ottocento «da contadini a cittadini»; Benedict Anderson evoca la nazione come «comunità sognata». Per farla breve, il “popolo” non smette di desiderare di diventare anche una realtà sociale e non soltanto un’utopia magica.
Purtroppo la contraddizione interna è sempre in agguato: il popolo come concetto è indispensabile per legittimare l’accesso al potere. Anche le dittature pretendono di governare in nome e per il bene del popolo. E questo popolo che le democrazie hanno posto sul piedestallo per poi relegarlo nel ruolo di osservatore degli atti dei governanti si rivolta sempre di più per far avverare l’utopia di Lincoln «Government of the people, by the people, for the people».
In altre parole, il popolo americano, ma anche tutti gli altri, fanno proprie le tre prime parole della costituzione americana «We the People...», che è una splendida frase per parlare di legittimazione, ma è una pia illusione quando si tratta di governare.
Si potrebbe ricordare la reazione di un francese chiamato ad approvare la costituzione scritta da Napoleone: «Che c’è nella costituzione?» E la risposta fu «Bonaparte»...
Non c’è alternativa alla necessità della rappresentanza: non vi è mai stato un “vero” potere popolare e se ci fosse si correrebbe il rischio di radunarsi di fatto sotto le ali di un uomo forte, di un salvatore. Dio ci salvi da questa fatalità! Il desiderio di sentirsi uniti in un popolo non è soltanto forte, inganna, inebria.
Qualunque gruppo può pretendere di essere il popolo anche quando si tratta di una parte di popolo molto ridotta, come quella che vota sulla piattaforma Rousseau o quando i Gilets jaunes che da sei mesi pretendono di essere il «popolo» prendono più o meno 1,5% dei voti alle elezioni europee. La parte pretende cioè di essere il tutto.
Ovviamente ci sono anche buone ragioni per portare avanti le proprie rivendicazioni perché il sistema rappresentativo è sempre (al meglio) il governo della maggioranza o, più spesso, appoggia su una minoranza sociologica trasformata in maggioranza politica grazie ai miracoli dei sistemi elettorali. La situazione non sembra particolarmente felice.
Ma bisogna essere lucidi: l’unanimità, che sulla carta sembra il sistema più rispettoso della volontà del popolo è un sistema “blocca-tutto” ed esiste soltanto nelle piccole tribù primitive, benché sia attivo anche là dove la ricerca del consenso si trasforma in molteplici veti incrociati: l’Italia ne sa qualche cosa...
Ricordiamoci che l’unanimismo sfocia nella dittatura e soprattutto nella dittatura delle menti. Il populismo, «l’ideologia del popolo» rischia quindi di essere una grande illusione e un inganno. Riconosciamogli però un merito: rimescola le carte e spesso pone fine a quello che il poeta Paul Eluard chiamava «il duro desiderio di durare».
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
VIVA L’ITALIA!!! LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico.
MESSAGGIO EVANGELICO E SANTO PADRE?! ABUSO DEL TITOLO E MENZOGNA. L’ERRORE DI RATZINGER (E DI TUTTI I PAPI).
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
L’ABBAZIA FLORENSE E IL DELIRIO TOTALE A SAN GIOVANNI IN FIORE (CS)
di Emiliano Morrone (Fb., 31.10.2018).
Sul Quotidiano del Sud di oggi leggo della forte preoccupazione di un cronista locale per la sorte degli anziani della casa di riposo privata e accreditata "Villa forensia", data la recentissima sentenza con cui il giudice civile di Cosenza ha stabilito che i locali in cui si trova, dentro l’Abbazia florense del XIII secolo, sono del Comune di San Giovanni in Fiore (Cs) - che, in dissesto finanziario, non ha mai ricevuto un centesimo da codesta occupazione - e vanno dunque liberati.
La causa è andata avanti per 11 anni, durante i quali c’è stata una costante battaglia civile, parallelamente all’inteso procedimento, che in prima persona ho con amici contribuito ad alimentare, coinvolgendo intellettuali di fama, da Gianni Vattimo a Cosimo Damiano Fonseca, Vittorio Sgarbi e Marcello Veneziani, nonché giornalisti, esponenti politici di diversi schieramenti, attivisti del bene comune e più in generale, per dirla con De Andrè, "voci allenate a battere il tamburo", tra cui Beppe Grillo.
Del caso, su cui sono state presentate ben 5 interrogazioni parlamentari, si sono occupati colleghi (non solo calabresi) di livello, che come me hanno raccontato l’incredibile paradosso della rsa dentro un monumento di enorme valore religioso ed artistico, simbolico per l’intera Calabria e legato all’opera profetica dell’abate Gioacchino da Fiore, che riteneva possibile l’affermazione della giustizia in questo mondo, al contrario del neoplatonismo su cui si basa il catechismo cattolico.
Mi lascia di stucco che miei concittadini, pure con buoni strumenti interpretativi, la buttino sul pietismo; sul presunto disagio degli anziani della casa di riposo prodotto dalla riferita sentenza; sulla tesi, suggestiva quanto infondata, dell’abbandono dei "vecchietti" conseguente al loro spostamento presso altra sede, che i titolari della struttura potranno individuare e attrezzare; sulla professionalità, che nessuno mette in dubbio, degli operatori della rsa e sui danni all’economia di San Giovanni in Fiore, che si spopola - questo è il corollario - perché qualcuno fa guerra a residenze sanitarie assistenziali.
Se per davvero ci fossero i marziani, osservandoci dall’esterno direbbero che siamo in preda al delirio totale. In altri luoghi non ci sono né l’Abbazia florense né il Centro studi giochimiti, che ha sede dentro lo stesso complesso badiale, né figure come Gioacchino da Fiore, la cui posterità è impressionante.
Eppure, di là dai colori politici, altrove si fa a gara per valorizzare il patrimonio artistico e culturale, che in Calabria è in genere ritenuto un peso da levarsi il prima possibile.
Ancora, per aver scritto dell’Abbazia florense fui querelato insieme a Carmine Gazzanni dall’allora dirigente dell’Ufficio legale della Provincia di Cosenza, Gaetano Pignanelli, oggi capo di gabinetto della Presidenza della Regione Calabria. Il Gip di Cosenza archiviò perché Gazzanni e io avevamo scritto il vero, e cioè che Pignanelli, ai tempi responsabile dell’Ufficio legale del Comune di San Giovanni in Fiore, aveva prodotto un "parere non vero", servito alla rsa per l’esercizio dell’attività.
Inoltre un vescovo, infine condannato per rivelazione di segreto istruttorio, mi intimò, tramite il suo avvocato, di cancellare da un mio servizio giornalistico ogni riferimento al suo assistito. Gli risposi che non l’avrei mai fatto e che, invece, avrei ospitato per dovere professionale una replica dell’alto prelato, che non arrivò mai. Finì che colleghi giornalisti del posto scrissero contro di me, accusandomi d’aver agito per invidia, data la nomina del sacerdote, originario di San Giovanni in Fiore, a vescovo della Chiesa.
Anche questa è la Calabria, oltre alle sue straordinarie ricchezze seppellite, e dobbiamo ripetercelo. Prendano nota i miei (pochi) lettori che mi seguono da altre regioni.
FILOLOGIA E TEOLOGIA
LUCE DELLA FEDE ("LUMEN FIGEI"): "CHARITAS" O "CARITAS"?!
PER IL PAPA E I CARDINALI, UNA LEZIONE DI GIANNI RODARI ... *
CONSTITUTIO DOGMATICA DE ECCLESIA
LUMEN GENTIUM (21 novembre 1964):
A) Testo latino
1. Lumen gentium cum sit Christus [...]
42. "Deus caritas est, et qui manet in caritate, in Deo manet, et Deus in eo" (1 Io 4,16). Deus autem caritatem suam in cordibus nostris diffudit per Spiritum Sanctum qui datus est nobis (cf. Rom 5,5); ideoque donum primum et maxime necessarium est caritas, qua Deum super omnia et proximum propter Illum diligimus. Ut vero caritas tamquam bonum semen in anima increscat et fructificet, unusquisque fidelis debet verbum Dei libenter audire Eiusque voluntatem, opitulante Eius gratia, opere complere, sacramentis, praesertim Eucharistiae, et sacris actionibus frequenter participare, seseque orationi, sui ipsius abnegationi, fraterno actuoso servitio et omnium virtutum exercitationi constanter applicare. Caritas enim, ut vinculum perfectionis et plenitudo legis (cf. Col 3,14; Rom 13,10), omnia sanctificationis media regit, informat ad finemque perducit(132). Unde caritate tum in Deum tum in proximum signatur verus Christi discipulus.
PAULUS EPISCOPUS
SERVUS SERVORUM DEI
UNA CUM SACROSANCTI CONCILII PATRIBUS
AD PERPETUAM REI MEMORIAM
B) Testo italiano
COSTITUZIONE DOGMATICA SULLA CHIESA
LUMEN GENTIUM (21 novembre 1964):
1. Cristo è la luce delle genti [...]
42. « Dio è amore e chi rimane nell’amore, rimane in Dio e Dio in lui » (1 Gv 4,16). Dio ha diffuso il suo amore nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo, che ci fu dato (cfr. Rm 5,5); perciò il dono primo e più necessario è la carità, con la quale amiamo Dio sopra ogni cosa e il prossimo per amore di lui. Ma perché la carità, come buon seme, cresca e nidifichi, ogni fedele deve ascoltare volentieri la parola di Dio e con l’aiuto della sua grazia compiere con le opere la sua volontà, partecipare frequentemente ai sacramenti, soprattutto all’eucaristia, e alle azioni liturgiche; applicarsi costantemente alla preghiera, all’abnegazione di se stesso, all’attivo servizio dei fratelli e all’esercizio di tutte le virtù. La carità infatti, quale vincolo della perfezione e compimento della legge (cfr. Col 3,14; Rm 13,10), regola tutti i mezzi di santificazione, dà loro forma e li conduce al loro fine [132]. Perciò il vero discepolo di Cristo è contrassegnato dalla carità verso Dio e verso il prossimo.
* PAOLO VESCOVO
SERVO DEI SERVI DI DIO
UNITAMENTE AI PADRI DEL SACRO CONCILIO
A PERPETUA MEMORIA
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
CAMBIARE REGISTRO: "TERTIUS IN CHARITATE" (Gioacchino da Fiore)!!! Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno - nemmeno Papa Francesco - ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!!
L’ACQUA DI FRANCESCO E IL MULINO DI BENEDETTO XVI: MA QUALE FEDE?!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
KANT, FREUD, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
50 anni dopo
Il Sessantotto. Agostino Giovagnoli (storico): “Profondo legame con il Concilio che ne ha anticipato alcuni tratti”
I legami tra Concilio Vaticano II e Sessantotto sono più profondi di quanto si sia portati a ritenere. Il Concilio ha infatti "preparato" in certa misura il terreno al grande movimento di contestazione. Intervista a tutto campo con lo storico Agostino Giovagnoli
di Giovanna Pasqualin Traversa (Agenzia SIR, 26 aprile 2018)
Gli anni Settanta hanno rappresentato un passaggio cruciale nella vita della Chiesa in Italia. Sono gli anni della recezione del Concilio e sono al tempo stesso attraversati da tensioni e polarizzazioni legate al Sessantotto. Fede e politica intrecciate fra loro? Se sì su quali premesse e con quali sviluppi? Lo abbiamo chiesto ad Agostino Giovagnoli, docente di storia contemporanea all’Università cattolica di Milano
Fra le trasformazioni della Chiesa cattolica legate al Vaticano II e gli eventi del ‘68 c’è stato un intreccio?
Sì; più profondo, soprattutto in Italia, di quanto abitualmente si ritenga.
La contestazione del 1968 si è intersecata in modi diversi con un’evoluzione del mondo cattolico italiano già in corso da tempo.
Non è strettamente sul livello politico che si è sviluppato l’influsso del Concilio sulla società e sulle sue trasformazioni. Il Concilio ha in realtà toccato questioni di grande rilievo, ha aperto una riflessione di fondo sull’organizzazione istituzionale della Chiesa cattolica all’interno di un’ampia trasformazione della società europea e occidentale che stava mettendo in discussione le proprie istituzioni ecclesiastiche, politiche, sociali e familiari. Il ‘68 è stato soprattutto una contestazione anti-istituzionale ed è su questo terreno che è ravvisabile il nesso che lega i due fenomeni.
Il Concilio ha dunque “preparato in qualche modo il terreno” al Sessantotto?
La Chiesa cattolica ha anticipato una trasformazione che poi si è presentata in modo convulso nel 1968, nel senso di un ridimensionamento del peso delle istituzioni all’interno della società. Da questo punto di vista il dissenso cattolico ha rappresentato un fenomeno specifico e forse anche marginale. Ha ripreso alcune modalità della contestazione studentesca ma non è qui il cuore più profondo del rapporto che investe aspetti più globali.
Qual è stata l’intuizione di Giovanni XXIII?
L’avere compreso che la Chiesa aveva bisogno di mettersi in ascolto del mondo e di se stessa. Nella modalità conciliare ha in qualche modo superato la rigidità istituzionale che l’aveva caratterizzata per cinque secoli sul modello tridentino. In questo senso il Concilio ha avviato un processo di cui ravviso alcuni tratti anche nel 1968.
Lo storico gesuita Michel de Certeau, che ha partecipato al “maggio francese” a Parigi, ha scritto che nel ’68 “è stata presa la parola come nel 1789 è stata presa la Bastiglia”. Un’immagine metaforica che sottolinea la liberazione della parola, tipica di quel movimento. L’analogia è profonda perché il Vaticano II ha a modo suo “liberato” la parola, in questo caso la Parola di Dio, da una Chiesa che l’aveva rinserrata all’interno di schemi organizzativi e istituzionali che la rendevano in certa misura marginale e l’ha riportata al centro della vita ecclesiale. E’ dalla Parola di Dio che rinasce la Chiesa.
In che modo il ’68 ha influito su associazioni e movimenti del laicato cattolico?
Per l’Azione cattolica un cambiamento importante è cominciato con il pontificato di Giovanni XXIII e soprattutto con l’elezione di Paolo VI nel 1963. La nomina di mons. Franco Costa quale assistente ecclesiastico generale e di Vittorio Bachelet quale presidente nazionale segnano il definitivo distacco dal modello geddiano. Il rinnovamento si è realizzato pienamente con il nuovo statuto (1969) che ha prodotto una vasta riorganizzazione e ha soprattutto affermato “la scelta religiosa” dell’Ac, espressione che sottolinea la fine di ogni collateralismo con qualsiasi partito politico. L’impatto del Sessantotto sull’Ac è stato soprattutto indiretto e probabilmente ha influito sul calo degli iscritti che dal 1964 al 1974 passano da 3,5 milioni a 600mila.
E per quanto riguarda le Acli?
Anche qui si deve parlare di un impatto indiretto. La trasformazione delle Acli era cominciata all’inizio degli anni Sessanta, in stretto rapporto con l’evoluzione economico-sociale della realtà italiana e il nuovo ruolo assunto dai sindacati. Un’ulteriore svolta è avvenuta a seguito dell’“autunno caldo” nelle grandi fabbriche italiane del 1969 con l’adozione della cosiddetta ipotesi socialista alla quale seguì una richiesta di chiarimenti da parte della presidenza della Cei, una presa di posizione critica del Pontefice e il ritiro dell’assistente ecclesiastico. La contestazione del ’68 ha invece riguardato in modo più diretto Gioventù studentesca, ramo dell’Ac che aveva iniziato un percorso originale, soprattutto in Lombardia, a seguito dell’iniziativa assunta da don Luigi Giussani nel 1954. In questo contesto nasce Comunione e Liberazione.
Il Sessantotto ha dunque interferito con un’evoluzione in atto nell’associazionismo cattolico degli anni Sessanta?
Sì. Forse l’impatto maggiore ha riguardato le grandi questioni internazionali con particolare riferimento al terzo mondo: guerra in Vietnam, Cuba, Biafra, lotte per i diritti civili degli afroamericani negli Usa. I membri dell’associazionismo cattolico, soprattutto giovani, furono molto sensibili a queste cause e, più in generale, a quella della pace.
Su questo terreno maturarono una sensibilità simile a quella di molti altri giovani di altra provenienza culturale e ideologica, che fece cadere molti steccati tradizionali.
Ci furono infine esperienze nuove che nacquero al di fuori dall’associazionismo cattolico o del rapporto con la Dc, nel clima del Sessantotto, come la Comunità di Sant’Egidio a Roma, segnata fin dall’inizio da un forte rapporto con il Vangelo e i poveri.
Che giudizio ha del Sessantotto?
Ha avuto peso non tanto quale fenomeno politico, ma piuttosto come istanza culturale e sociale di “inventare” un mondo nuovo affrontando le grandi sfide del tempo, le sfide di un mondo terrorizzato dall’arma atomica e in cerca di pace, che vuole dare la parola a tutti, che affronta le gravi disuguaglianze economiche e sociali. Si è disperso di fronte a forze più grandi; in fondo è stato un movimento di studenti, non avrebbe potuto cambiare il mondo, però ci ha provato ed è questa la sua eredità più preziosa.
Pensare al ’68 ci fa bene perché ci ricorda che possiamo anche non subire il mondo in cui viviamo.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
IL PAPA [GIOVANNI XXIII, 1962] HA DECISO DI DARE IL VIA AD UN NUOVO CONCILIO, AL CONCILIO ECUMENICO VATICANO II. PACE E E DIALOGO SU TUTTA LA TERRA, TRA TUTTI GLI ESSERI UMANI, TUTTE LE RELIGIONI, TUTTI I CREDENTI E I NON CREDENTI. QUESTA LA DICHIARAZIONE DI APERTURA
UN NUOVO CONCILIO, SUBITO. 95 TESI? NE BASTA UNA SOLA! Cattolicesimo, fascismo, nazismo, stalinismo: il sogno del "regno di ‘dio’" in un solo ‘paese’ è finito.
UNA MEMORIA DI "VECCHIE" SOLLECITAZIONI. Il cardinale Martini, da Gerusalemme, dalla “città della pace”, lo sollecita ancora!!!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
FRANCESCO E CHIARA A SANTA MARIA DEGLI ANGELI, UN FUOCO GRANDE.... *
Il filosofo Todisco.
La strada di san Bonaventura per la felicità
A colloquio col filosofo Todisco autore di un saggio sul santo francescano: «Riconoscere come lui che tutto è dono spinge a condividere la vita, a sperimentare la nostra gioia in quella dell’altro»
di Antonio Giuliano (Avvenire, mercoledì 16 maggio 2018)
È inutile nasconderlo. Dentro di noi c’è un desiderio mai sazio di felicità. L’uomo di ogni tempo ha fatto i conti con questo bisogno incalzante che puntualmente riemerge. Nessuna gioia materiale riesce ad appagarlo. Non a caso anche un animo profondo come Giacomo Leopardi si interrogava spesso: «Che cos’è dunque, la felicità? E se la felicità non esiste che cos’è dunque la vita?». Una questione essenziale oggi spesso banalizzata o fraintesa nell’era dei social. Occorre uno sguardo più elevato, anche perché riguarda il destino stesso della nostra esistenza: sentirsi nelle mani di un Padre è diverso dalla prospettiva di essere frutto del caso e finire nel nulla. È questo il percorso tracciato anche da Orlando Todisco, frate minore conventuale, in un ponderato volume filosofico: Stare bene al mondo. L’arte di essere felici secondo san Bonaventura (Porziuncola, pagine 230, euro 18). Docente e autore di numerosi saggi sulla metafisica medievale, Todisco propone un cammino controcorrente, ispirato alle lezioni di un grande mistico e dottore della Chiesa, tra i primi seguaci di Francesco d’Assisi. Quel Giovanni Fidanza, nato a Bagnoregio (Viterbo) nel 1217, a cui da bambino il Poverello guarendolo avrebbe predetto «buona ventura» (da cui fra Bonaventura).
In che cosa si distingue la felicità secondo san Bonaventura da quella intesa oggi?
«Se per Bonaventura è un modo più o meno stabile di stare al mondo, la felicità oggi è l’incrocio di eventi favorevoli, che accadono e scompaiono con grande velocità; più che un saper vivere è l’improvvisa insorgenza di emozioni colte nella loro immediatezza. Questo perché la pupilla dell’occhio moderno è di carattere possessivo, quasi si venga al mondo per prendere e farsi valere».
Come si è arrivati a questo sguardo distorto?
«Abbiamo perso la concezione secondo cui il mondo è un dono e noi siamo chiamati ad abbellirlo, non a depredarlo. Bonaventura ci pone davanti all’alternativa: o il fascino dell’essere come dono, da accogliere e vivere donandolo a propria volta, o la rivendicazione dell’essere come diritto. Eppure nessuno viene al mondo da sé. Il che implica, anzitutto, il riconoscimento che l’altro viene prima di me, colui cioè (Dio, il singolo, la comunità) che mi ha chiamato gratuitamente all’essere. L’egoismo, come misconoscimento del primato dell’altro, è l’idolatria della menzogna».
La consapevolezza di sentirsi amati genera la felicità che però non è tale se non è condivisa.
«Non solo non si viene da sé, ma neppure si può vivere senza il supporto dell’altro. La coscienza della propria auto-insufficienza accompagna l’intera avventura. Ma non è motivo di umiliazione, perché l’altro che mi ama, mi vuole creativo, non suddito. La potenza del dono sta nel suscitare in colui che lo riceve il desiderio di donare a propria volta secondo la logica del dono, che è logica circolare».
Tutti i filosofi hanno cercato la felicità. Ma quale il loro limite secondo Bonaventura?
«Ciò che conta per i filosofi è il sapere, non l’essere Bonaventura, rilevando che Dio non è, ma si dona, espressione suprema della logica oblativa, fa emergere quella dimensione espansiva che evita l’idolatria del sapere e spinge a condividere la vita e dunque a cercare la propria felicità nella felicità dell’altro, perché altrimenti è solo una maschera, più o meno dissimulata, del proprio egoismo».
Chi sono nel concreto gli uomini “oblativi”?
«La logica oblativa matura là dove è in atto il passaggio dall’ “essere-come-diritto” all’ “essere-come-dono”. E non è forse questa l’ispirazione dei missionari, delle famiglie, dove ognuno è padrone e servo, come dell’immenso panorama del volontariato?».
In che cosa è più evidente il francescanesimo di Bonaventura?
«Intuendo la pericolosità del primato della ragione e dunque della filosofia - questo il senso della diffidenza di Francesco per il sapere - che avrebbe fatto crescere il nostro potere ma impoverito l’orizzonte, Bonaventura ha aperto un’altra strada, affermando che le cose sono opera della benevolenza di Dio. Ben diverso è lo scenario della filosofia occidentale, secondo cui il mondo è come una sfinge da interrogare, una minaccia da scon- giurare o una miniera di risorse da sfruttare. È questo il cuore della proposta di Bonaventura: l’amore oblativo, anima dell’alleanza tra Dio e l’uomo oggettivata nel mondo come dono, da accogliere e custodire».
Bonaventura, generale dell’Ordine francescano per diciassette anni, è anche l’autore della prima biografia ufficiale su san Francesco. Ma oggi viene accusato di aver tradito l’immagine storica del Poverello.
«È vero che nel Capitolo generale di Parigi del 1266 ordinò di eliminare tutti gli scritti relativi a Francesco. Ma con l’esplicito obiettivo di impedire il consolidamento dell’immagine del santo teorizzata da Gioacchino da Fiore come se fosse un rivoluzionario politico, un contestatore e un sovversivo dell’ordine ecclesiale, sociale o istituzionale. Bonaventura, ha riscritto la biografia di Francesco, ma senza tradirne i tratti essenziali. La Leggenda Maggiore è un’opera politica, propria di un teologo che ama sopra ogni cosa la comunione della famiglia francescana con la gerarchia, con il clero e l’autorità accademica».
«Per san Bonaventura il destino ultimo dell’uomo è amare Dio, l’incontrarsi ed unirsi del suo e del nostro amore. Questa è per lui la definizione più adeguata della nostra felicità». È quanto ha scritto papa Benedetto XVI, un grande ammiratore del santo francescano.
«Uno dei motivi di questo fascino è costituito dalla “razionalità allargata” di Bonaventura, grazie a cui viene superata la separazione tra ciò che è divino e ciò che è umano, ciò che è eterno e ciò che è temporale, propria di una certa epistemologia occidentale. Per il santo non si possono isolare tra i di loro i rami del sapere. Le grandi interrogazioni e i conseguenti orizzonti di luce sorgono solo quando si associano le conoscenze delle singole discipline. Nel caso del loro isolamento si cade inevitabilmente in errore, come è capitato ai sommi filosofi, Aristotele e Platone, autori di grandi filosofie ma prive della coscienza dell’essere via per forme ulteriori di sapere. Vale anche per la teologia se non oltrepassa se stessa in direzione della santità. Il problema della scienza non è solo teoretico. Non è sufficiente sapere quanto è buono il Signore, occorre gustare tale bontà, vivendola».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
GIOACCHINO DA FIORE, DANTE, E LA "GRANDE RUOTA DEL CARRO" DI EZECHIELE - LA "CHARITAS". Alcune pagine dalla «Concordia Novi ac Veteris Testamenti» e dalla "Monarchia", con note.
MEMORIA, STORIA, E FILOLOGIA. L’AMORE NON E’ LO ZIMBELLO DEL TEMPO. Il ’cattolicesimo’ è finito...
GIOACCHINO DA FIORE, LA SORPRENDENTE “CARITÀ”, E IL DRAMMA DEL CATTOLICESIMO ATEO E DEVOTO.
GIOACCHINO DA FIORE INVITA BENEDETTO XVI AD APRIRE PORTE E FINESTRE IN VATICANO. La Chiesa, il bunker di Papa Ratzinger, e lo Spirito di Gioacchino.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Pasquino nel cielo papistico
Un nuovo studio sul bestseller del primo ’500: sotto accusa la corruzione della Chiesa cattolica e l’armamentario di vuote pratiche devozionali
di Massimo Firpo (Il Sole-24 Ore, Domenica, 15.04.2018)
Sempre apparso anonimo, il Pasquillus extaticus fu un vero e proprio best seller dei primi anni quaranta del Cinquecento, come testimoniano tre edizioni in latino con numerose varianti e tre in italiano (in due diverse versioni), destinate alla circolazione europea le prime e al proselitismo riformato al di qua delle Alpi le altre. Di queste esistono anche numerosi manoscritti che ne documentano ulteriormente la larga diffusione, attestata anche da una coeva traduzione tedesca e una più tarda traduzione olandese. A scriverlo e a raccogliere i testi che vi compaiono fu Celio Secondo Curione, un letterato piemontese convertitosi alla Riforma e rifugiatosi nel 1542 dopo varie peripezie in Svizzera, a Basilea, dove si sarebbe infine avvicinato a dottrine radicali, sempre più distanti dall’ortodossia calvinista.
È merito di questo studio aver stabilito con buona certezza che il testo latino fu pubblicato per la prima volta a Basilea nel 1541, quando il suo autore non aveva ancora preso la via della fuga oltralpe, all’indomani della quale fu stampata a Venezia la prima edizione italiana, che fu quindi successiva. Sono queste due editiones principes ad essere qui pubblicate con introduzioni storiche e testuali, note di commento e apparato critico. Non stupisce che il Sant’Ufficio romano giudicasse «perniciosissimo» il libello constatandone il successo nell’ambito dei gruppi e movimenti filoriformati in Italia.
Con il Beneficio di Cristo, l’Alfabeto cristiano, la Tragedia del libero arbitrio, la Medicina dell’anima, testi anch’essi apparsi negli anni quaranta del secolo, sullo sfondo delle prime convocazioni del concilio di Trento, il libro fu uno dei più presenti sui piccoli scaffali clandestini di cui si nutriva una nuova identità religiosa sempre più costretta agli artifici della dissimulazione.
In quelle pagine, infatti, la pungente satira delle pasquinate romane dei primi decenni del secolo si spersonalizzava, non investiva più singoli personaggi, ma un’intera istituzione, la Chiesa cattolica, passando dalla beffa morale alla polemica religiosa per denunciarne la corruzione e arricchire l’arsenale delle armi con cui combattere la battaglia per l’abbattimento dell’Anticristo papale.
Non più versi satirici fatti di insulti e più o meno triviali allusioni, ma un dialogo umanistico e pedagogico tra Pasquino e Marforio, sulla base di evidenti modelli erasmiani, che si propone come «una grandiosa ricapitolazione secolare in grado di mostrare al lettore come i tempi della rovina definitiva della Chiesa romana fossero ormai maturi» (p. 23).
Un’opera militante, dunque, in cui il racconto fatto da Pasquino di un viaggio nel cielo papistico (un demoniaco e infernale cielo alla rovescia) offre lo spunto per investire di una critica feroce frati e monache, confessori e martiri, scalzando dalle radici l’imponente edificio della Chiesa visibile e l’infausto armamentario di pratiche sacramentali, liturgiche e devozionali da essa proposto ai fedeli, spingendoli nell’abisso di una pietà farisaica e superstiziosa. -Venerazione delle immagini, purgatorio, voti, pellegrinaggi, digiuni, celibato ecclesiastico, messe di suffragio, indulgenze, miracoli, tutto veniva triturato nella macchina antipapale del Pasquillus curioniano, che investiva non solo e non tanto i comportamenti, ma soprattutto le dottrine erronee che li legittimavano, sì da configurare il discorso come una sintesi della teologia riformata.
Per esempio, se la denuncia dei «fratacci» che, anziché fuggire il mondo «lo portano seco ne’ monasterii, [...] dove non si vede già altro che passioni d’animo e mere pazzie, con che cercano di scacciarsi l’un l’altro o di innalzarsi» (p. 212), poteva rifarsi all’erasmiano «monachatus non est pietas», è evidente il magistero della Riforma laddove si criticavano coloro che preferivano lasciare il monopolio delle cose sacre ai presunti «gran teologi», perché credere «semplicemente» non significa credere «ignorantemente» e ogni cristiano ha il dovere di conoscere la Scrittura (p. 217).
Se la denuncia del cielo papale come un empio «mercato» simoniaco (p. 230) ripropone antiche invettive anticuriali, di chiara matrice eterodossa sono gli strali contro il culto dei santi (vero e proprio pantheon neopagano), i «novi e orribili riti» e le infinite superstizioni popolari di cui si nutriva, per esortare invece a porre ogni speranza di salvezza solo e soltanto nella fede in Cristo (pp. 232-33), unico «advocato nostro» (p. 244), senza «tanti miracoli fatti a mano, tante fraterie, tanti publichi mercati di meriti e buone opere» (p. 237).
Un cielo tuttavia, quello papistico, sempre più gravemente insidiato da moderni guastatori, «bravi uomini», in massima parte tedeschi, ma anche «assaissimi italiani et franzesi» che ne preparavano il definitivo crollo scavandone le malcerte fondamenta, fatte di «cappucci, rosari, vesti succide, capelli tagliati, veli di monache e mille fogge di vesti, mille di scarpe, mille di berette, mille di colori, [...] pesci fradici, erbaggi, ligumi, lasagne, mitre pontificali», e sostenute dai muri ormai pericolanti della Superstizione, della Persuasione, dell’Ignoranza e dell’Ipocrisia (pp. 229-30).
I tempi stavano cambiando rapidamente, scriveva Curione, evocando con grande violenza verbale quanti avevano ormai «comminciato a caccar nei capucci, a forbirsi il culo coi rosarii, a farsi beffe dei pelegrinaggi, ad aver a scherzo quelle putanesche astinenze e ad aver in somma abominazione tutte le superstizioni» (p. 235).
Una violenza che scaturiva dal suo sentirsi schierato in prima linea nella guerra in corso tra verità ed errore, Riforma e papismo, evocata anche dai nomi di numerosi personaggi che compaiono in queste pagine, illustri riformatori come Zwingli, Melantone, Butzer e non meno illustri cardinali come Sadoleto, Aleandro, Carafa, o grandi sovrani europei in guerra tra loro.
Tra di essi figura anche Erasmo da Rotterdam, rappresentato come una vela esposta a ogni vento perché «non si seppe mai, né dai suoi scritti si può sapere, s’ei s’appressasse più al ciel divino o al papistico» (p. 268). Un giudizio severo dal quale lo stesso Curione non tarderà a prendere le distanze, ispirandosi al De immensa Dei misericordia per il suo scritto più celebre, il De amplitudine beati regni Dei, pubblicato nel 1554.
Chi è il numero uno?
Eugen Rosenstock-Huessy e il ruolo della prima persona.
di Damion Searls (Il Tascabile, 03.04.2018) *
Può essere sconvolgente rendersi conto, all’improvviso, che qualcosa a cui non avevi mai pensato - qualcosa che avevi sempre accettato come reale - è solo un articolo di fede. Spesso è il linguaggio a far accendere la lampadina: qualcuno ridefinisce la realtà con una nuova parola (mansplaining, Rebecca Solnit) o mostrando i poteri nascosti e le interconnessioni di una parola antica (debito, David Graeber). Raramente la rivelazione riguarda il linguaggio in sé.
La citazione è di Eugen Rosenstock-Huessy (1888-1973), un teorico del Cristianesimo dell’età moderna molto particolare. (Tutte le traduzioni sono dal volume The Language of the Human Race: An Incarnate Grammar in Four Parts [Die Sprache des Menschengeschlechts: Eine leibhafte Grammatik in vier Teilen].) Rosenstock-Huessy ha ispirato alcuni connoisseur, tra cui W. H. Auden e Peter Sloterdijk, ma possiamo dire in tutta tranquillità che è ancora poco conosciuto. È difficile capire cosa pensare di lui. Di sicuro trovo fastidiosa la palese importanza della nascita di Cristo - o della Missione Divina - che inserisce regolarmente nei suoi ragionamenti filosofici. (Auden: “Chi lo legge per la prima volta può trovare, come è capitato a me, certi aspetti della sua scrittura un po’ difficili da accettare... Per quanto mi riguarda, posso solo dire che ascoltando Rosenstock-Huessy, io sono cambiato”). Il dogma grammaticale a cui fa riferimento - e contro cui si è battuto a morte in un libro di oltre 1.900 pagine - è la lista all’apparenza innocente che risale ai Greci: la prima persona, la seconda persona, la terza persona. Io amo, tu ami, egli ama, o, se avete studiato Latino, amo, amas, amat.
Non sta dicendo che dovremmo aggiungere una forma per la “quarta persona”, come per esempio la distinzione tra terze persone in Ojibwe, oppure una “persona zero” per le costruzioni impersonali come in Finlandese. Sta dicendo che rendere “io” la prima persona è il peccato originale non solo della linguistica, ma della filosofia, della scienza e della stessa vita sociale. E lo intende davvero. Teoricamente, appiattisce l’esperienza vissuta in resoconti freddi e asettici, assimilando tutto all’“affermazione” di un “dato” in terza persona che non richiede alcun coraggio personale, non ha alcuna rilevanza sociale.
Empiricamente, la lista Greca commette un errore: la “prima persona” infatti non arriva per prima. L’io di un bambino si sviluppa quando gli viene rivolta la parola, da un genitore o da un’altra persona che si prende cura di lui. Qualcuno deve dire “tu” nel modo giusto perché un “io” non folle possa di fatto esistere. (Vedi Neither Sun Nor Death di Peter Sloterdijk, p. 30, dove ho sentito parlare di Rosenstock-Huessy per la prima volta). Dal punto di vista psicologico, neurocognitivo e dello sviluppo, “io” è l’ultima persona. Sei un bravo bambino. La bottiglia è lì. Ho fame.
È questa la rivelazione che mi ha tanto colpito. La prima persona non è la prima. Non esiste nessuna lista, a parte quelle che inventiamo. Che aspetto avrebbe il mondo se potessi vedere al di fuori di questo schema? Se prima venisse un legame tanto forte da darti l’autorità di giudicare l’esperienza di qualcun altro - tu ami, tu hai fame, sei carino oggi, ti stai comportando male - e poi venisse una visione condivisa del mondo, e solo successivamente un’espressione di sé? L’idea Cartesiana, “penso dunque sono”, e tutte le distinzioni tra mente/corpo/io/altro avrebbero potuto non emergere mai se Cartesio non fosse stato indottrinato con l’idea che “io” viene per primo. Esistono romanzi in prima e in terza persona, ma la seconda è un’anomalia, proprio come nella vita reale non possiamo prenderci la libertà di parlare per una seconda persona come faremmo di noi stessi in quest’era dell’espressione di sé. Quanto altro ancora della natura del romanzo, e della percezione della mia vita, risale essenzialmente alla grammatica greca di duemila anni fa?
Vale la pena notare che scrisse questi pensieri sulla tirannia nel 1945. E che l’uso del “lui o lei”, ben avanti sui tempi, è suo.
Rosenstock-Huessy fa risalire tutto a questo peccato, dai conflitti con l’autorità a scuola alla schizofrenia, e avanza delle rivendicazioni impressionanti per un proprio “metodo grammaticale” che riconfiguri il linguaggio. Come dicevo, non so cosa pensare al riguardo. Ma è qui, presentato per voi sotto forma di paragrafi alternati da me e da lui. Voi siete la prima persona. Fatene quello che volete.
Traduzione di Alessandra Castellazzi. Si ringraziano l’autore e The Paris Review per la pubblicazione dell’articolo.
* Damion Searls traduce dal tedesco, dal norvegese, dal francese e dall’olandese. Ha tradotto classici come Proust, Rilke, Nietzsche, e Ingeborg Bachmann. Il suo ultimo libro è Macchie d’inchiostro - Storia di Hermann Rorschach e del suo test.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89). Un omaggio a Kurt H. Wolff e a Barrington Moore Jr.
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
Il ring del Vaticano: i Due Papi agli angoli della Teologia
La coabitazione, sebbene su due piani diversi, tra Benedetto e Francesco s’incrina adesso sulla dottrina
di Pietrangelo Buttafuoco (Il Fatto, 26.03.2018)
La pubblicazione di scritti teologici rischia di provocare uno scisma all’interno della Chiesa Cattolica. Non finisce qui, ahinoi, la storia dei Due Papi. La coabitazione, sebbene su due piani diversi - uno è in romitaggio di rinunzia, l’altro è visibile sul Trono - s’incrina adesso nella dottrina. La vicenda è nota ed è sufficiente un rigo e mezzo per riassumerla: Benedetto XVI è invitato a redigere una prefazione alla collana La teologia di Papa Francesco, cortesemente dice no per lettera e però lo motiva il suo no.
Poco importa che questo secondo passaggio - il perché no - sia stato messo tra parentesi, non divulgato, per poi riemergere scandalosamente (con tanto di dimissioni di monsignor Viganò), ancora più interessante - ai fini della sorpresa epocale - è il dettaglio. E non per il fumus diabolicus proprio di ogni dettaglio quanto per l’ambito della disfida: la teologia, ovvero - letteralmente - lo studio intorno al Divino, la scienza di Dio. Va da sé che il signor Diavolo - è la terza volta che torna in questa rubrica - è un raffinatissimo teologo e dice sempre sì per arrivare al no (tra tutte le creature, ’o Malamente può far vanto di “diretta conoscenza” di Issa, la teologia, per negare Isso, l’Iddio Onnipotente).
Il Grande Inquisitore che inchioda per la seconda volta Cristo, quello di Fedor Dostoevskij, è profondamente abile nella dottrina - e riconosce, infatti, Gesù - e così tutta la fabbrica del nichilismo che s’adopera nel capovolgere le fondamenta di Luce della Rivelazione - senza riuscirci, va da sé - sussurra, nel compimento della coscienza borghese, il cupo buio di un transito fatto di ciacole vacue, ma correttissime. Ecco, senza incorrere in anatemi, può ben dirsi che - in tema di sacro - tanti sono i testi intinti nell’inchiostro della gramigna di Satana. Dalla cancellazione della Religio di Roma Antica presso i popoli del Mediterraneo ne derivò un gran danno; una tragedia mai sanata è quella della damnatio della Sacrissima impronta di Iside, talvolta recuperata nel Sud del Sud dei Santi grazie ai paesani in processione dietro ai fercoli delle Sante, trasfigurate in quell’aura egizia, e amate con la devozione propria dell’amor panico.
Va da sé che tutto, nell’eterno circolo dell’eguale, torni ma che nell’anno di Grazia 2018, la disputa teologica, bussi al cospetto dell’opinione pubblica, fa specie. E non può che far bene se si pensa a quanto sia sempre più cheap la produzione intellettuale intorno al Credo, ormai ridotto al rango di calepino etico. La filosofia, ancella della teologia, impegna le giornate di Benedetto XVI. Era stato chiamato a scrivere. E non ha scritto, anzi, meglio. Una cosa ha scritto. Ha scritto un no. Per custodire il sì? No, non finisce qui.
IL "LOGOS" E LA "CHARITAS". Sul Vaticano, e su Roma, il "Logo" del Grande Mercante. Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno - nemmeno papa Francesco - ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!!
Il motto dello stemma episcopale del Vescovo Ausiliare di Roma, S.E.R. Mons. Angelo De Donatis
Le parole scelte da Don Angelo per il proprio motto episcopale sono tratte dal “De officiis ministrorum” di Sant’Ambrogio laddove dice “Sit inter vos pax, quae superat omnem sensum. Amate vos invicem. Nihil caritate dulcius,nihil pace gratius...”(“Sia tra di voi la pace che supera ogni sentimento. Amatevi gli uni gli altri. Nulla è più dolce dell’amore, nulla più gradevole della pace”) *
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Fonte: http://www.sanmarcoevangelista.it (ripresa parziale).
Federico La Sala
Il Vangelo dalla parte della Maddalena
Escono in un libro gli esercizi spirituali che il cardinale Carlo Maria Martini tenne in Israele tra la fine del 2006 e l’inizio del 2007. Sono dedicati alla figura della santa peccatrice
di Vito Mancuso (la Repubblica, 16.03.2018)
La simpatia del cardinal Martini per Maria Maddalena appare evidente dalla prima all’ultima parola degli esercizi spirituali da lui tenuti in Israele tra la fine del 2006 e l’inizio del 2007, come evidente è la sua simpatia per le consacrate dell’Ordo Virginum della diocesi di Milano per le quali aveva preparato gli esercizi e alle quali diceva: «Vi riconosco nella vostra bellezza interiore ed esteriore, perché quando l’anima rimane nella sua costante proposta di servizio a Dio, rimane bella e questa bellezza si diffonde».
Io penso sia proprio così, e penso che Martini sia stato a sua volta un esempio di questa misteriosa connessione tra etica ed estetica avvertita già dagli antichi greci con l’ideale della kalokagathía, perché il morbo di Parkinson contro cui già allora combatteva, e che l’avrebbe portato alla morte il 31 agosto 2012, non giunse mai a privarlo della sua originaria e nobile bellezza.
Cosa siano gli esercizi spirituali lo spiega lo stesso Martini dicendo che non sono un corso di aggiornamento, né una lettura spirituale della Bibbia, né un’occasione di preghiera; sono invece “un ministero dello Spirito Santo”, nel senso che “è lo Spirito Santo che parla al mio cuore per dirmi ciò che vuole da me adesso”.
Gli esercizi spirituali sono quindi un tempo di ascolto e di raccoglimento per capire la propria situazione qui e ora, e come tali prevedono «un silenzio assoluto a tavola e anche negli altri momenti», perché, avverte Martini, «soltanto una parola detta qua e là disturba tutti».
Maria Maddalena è «il segno dell’eccesso cristiano, il segno dell’andare al di là del limite, il segno del superamento»: nell’eccedere della sua vita travagliata ma sempre dominata dall’amore, si dà per Martini la chiave privilegiata per «essere introdotti nel cuore di Dio».
Il cuore di Dio. Mediante la storia della Maddalena, Martini giunge a parlare di Dio, e parlando di Dio giunge a illuminare la logica e il ritmo dell’essere, cogliendo nell’amore il suo segreto più profondo: «Dio è tutto dono, è tutto al di là del dovuto e questo è il segreto della vita».
Individuare “il cuore di Dio” significa quindi per Martini individuare “il segreto della vita”. In questa prospettiva egli illumina magistralmente il paradosso dell’esistenza segnalando la dinamica profonda secondo cui ci si compie superandosi, ci si arricchisce svuotandosi, si raggiunge l’equilibrio perdendolo.
È la pazzia evangelica. La quale però, in quanto verità dell’essere, è universale, e quindi è avvertita anche al di là del cristianesimo, per esempio già da Platone che coglieva la medesima logica di eccedenza scrivendo che «la mania che proviene da un dio è migliore dell’assennatezza che proviene dagli uomini» ( Fedro 244 d). Maniaca in senso platonico, la Maddalena è definita da Martini “amante estatica”, cioè letteralmente “fuori di sé” e in questo modo è indicata quale via privilegiata per accedere al cuore di Dio.
Per lui è infatti evidente che «non può comprendere Dio chi cerca solo ragioni logiche», mentre lo può comprendere «chi vive qualche gesto di uscita da sé, di dedizione al di fuori di sé, al di fuori del dovuto», perché Dio, simbolo concreto del mistero dell’essere, “è uscita da sé”, “dono di sé”.
In questa prospettiva la Maddalena, perfetta esemplificazione della logica evangelica, fa capire che “solo l’eccesso salva”. Per “eccesso” Martini intende “uno squilibrio dell’esistenza”. E proprio questo è il punto: che la vita si alimenta di tale squilibrio. Il nostro universo non viene forse da un eccesso, cioè dalla rottura di simmetria all’origine del Big Bang? E la vita non è a sua volta squilibrio, essendo la morte, come disse Erwin Schrödinger nelle lezioni al Trinity College di Dublino, “equilibrio termico”? E cosa sono l’innamoramento e le passioni di cui si nutre la nostra psiche, se non, a loro volta, squilibrio?
Afferma Martini: «Quando definisco me stesso, mi definisco di fronte al mistero di Dio e mi definisco come qualcuno che è destinato a trovarsi nel dono di sé... e tutto questo si dà perché Dio è dono di sé». Prosegue dicendo che molti non capiscono Dio perché non lo collegano a questa dinamica di uscita da sé, visto che «soltanto quando accettiamo di entrare in questa dinamica della perdita, del dare in perdita, possiamo metterci in sintonia con il mistero di Dio».
In questa prospettiva Martini giunge a parlare di Dio secondo una teologia della natura che avrebbe fatto felice il confratello gesuita Pierre Teilhard de Chardin, riferendosi a «quella forza che potremmo dire trascendente, perché è in tutta la natura fisica, morale, spirituale ed è la forza che tiene insieme il mondo... la forza che si può concepire come una lotta continua contro l’entropia e il raffreddamento».
Anche il voto di verginità delle consacrate alle quali rivolgeva i suoi esercizi appare a Martini un segno di quell’eccesso di amore che fa sì che nel mondo non vi sia solo la forza di gravità che tira verso il basso, ma anche «una forza che tira verso l’alto, verso la trasparenza, la complessità e anche verso una comprensione profonda di sé e degli altri fino ad arrivare a quella trasparenza che è la rivelazione di ciò che saremo». Ovvero, conclude Martini, “la vita eterna”.
La categoria dell’eccesso
Maria Maddalena secondo il cardinale Martini *
L’eccesso è per Martini la “categoria” che ci consente non solo di comprendere il mistero di Dio adombrato nella passione, morte e risurrezione di Gesù, ma ciò che esprime il senso profondo dell’essere cristiano, della maturità cristiana.
Ancora una volta è attraverso i personaggi di Giovanni che Martini costruisce questa sua visione, in particolare è Maria di Magdala a guidarci in questo ultimo tratto di cammino. «Maria di Magdala è una figura particolarmente importante nei Vangeli, è il prototipo della persona che accede alla fede nel Risorto. Se gli altri due episodi narrati da Giovanni rappresentano piuttosto una comunità che accoglie il mistero della Risurrezione, l’episodio che ha per protagonista la Maddalena è piuttosto dedicato al singolo credente o meglio al non credente che diventa credente».
Chi è Maria Maddalena? Tutti i vangeli la annoverano tra le donne che si recano al sepolcro. Forse, dice Martini, tale menzione indica «una qualche funzione di leadership», ma non abbiamo elementi sufficienti. Compare inoltre nei racconti della passione e nella vita pubblica di Gesù, dove è messa «sullo stesso piano dei discepoli». La sua figura però si può comprendere anche grazie al confronto con altre figure femminili presenti nel vangelo. Per esempio la peccatrice in casa di Simone, le «Marie di Betania» e, infine, la sposa del Cantico; come lei, la Maddalena «ha cercato Gesù con una passione inesausta, con una perseveranza invincibile e di conseguenza è una figura della ricerca di Gesù e del Signore risorto». Tutte rimandano in qualche modo a un «eccesso d’amore».
Nel testo si legge che il primo giorno dopo il sabato Maria si reca al sepolcro «di buon mattino», quando era ancora buio. Un atteggiamento inusuale e anche un po’ rischioso, che la dipinge fin da subito come una «donna che supera le convenzioni». Esce di casa perché non si dà pace e non si preoccupa di ciò che può capitarle o di ciò che può pensare la gente. Quando arriva al sepolcro ha una prima intuizione degli eventi, ma ancora parziale, distorta. -Sconvolta, va da Simon Pietro e dagli altri discepoli, ma, fa notare Martini, riferisce una sua versione dei fatti. In fondo cosa ha visto? La pietra ribaltata e il sepolcro vuoto; su questi elementi costruisce una storia; il corpo di Gesù è stato rubato. L’inquietudine di non sapere dove lo hanno portato non le dà pace.
* L’Osservatore Romano, 17 luglio 2017
Sul tema, nel sito, si cfr.:
MICHELANGELO E LA SISTINA (1512-2012). I PROFETI INSIEME ALLE SIBILLE PER LA CHIESA UN GROSSO PROBLEMA .... DOPO 500 ANNI, PER IL CARDINALE RAVASI LA PRESENZA DELLE SIBILLE NELLA SISTINA E’ ANCORA L’ELEMENTO PIU’ CURIOSO. Materiali sul tema, per approfondimenti
Federico La Sala
IL DIO MAMMONA ("CARITAS"), IL DENARO, E "IL GATTO CON GLI STIVALI". LA LEZIONE DI EDOARDO SANGUINETI ... *
PURGATORIO DE L’INFERNO, 10. "Questo è il gatto con gli stivali" *
Questo è il gatto con gli stivali, questa è la pace di Barcellona
fra Carlo V e Clemente VII, è la locomotiva, è il pesco
fiorito, è il cavalluccio marino: ma se volti pagina, Alessandro,
ci vedi il denaro:
questi sono i satelliti di Giove, questa è l’autostrada
del Sole, è la lavagna quadrettata, è il primo volume dei Poetae
Latini Aevi Carolini, sono le scarpe, sono le bugie, è la scuola di Atene, è il burro,
è una cartolina che mi è arrivata oggi dalla Finlandia, è il muscolo massetere,
è il parto: ma se volti foglio, Alessandro, ci vedi
il denaro:
e questo è il denaro,
e questi sono i generali con le loro mitragliatrici, e sono i cimiteri
con le loro tombe, e sono le casse di risparmio con le loro cassette
di sicurezza, e sono i libri di storia con le loro storie:
ma se volti il foglio, Alessandro, non ci vedi niente
*
Edoardo Sanguineti
La poesia è tratta dalla raccolta Triperuno, dalla sezione Purgatorio de l’Inferno,1964.
*
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Ritratto critico di Edoardo Sanguineti. Prima parte - Seconda parte - Terza parte (di Angelo Petrella, "Belfagor", 2005 - "Nazione Indiana", 2017).
Federico La Sala