Gelbison, Gibson ... e la Chiesa Cattolica (e l’Occidente). Due parole ... e un "rivelativo" segno dei tempi.Una breve nota
di Federico La Sala (www.ildialogo.org, 26 aprile 2004)
Giorni fa (a Milano) con un’amica, parlando delle terre del sud italiano e in particolare del salernitano (mia terra di origine), ci siamo ricordati di Velia (Elea, città di Parmenide e Zenone) e di Novi Velia e abbiamo citato il vicino Monte Sacro o monte GELBISON.
Senza volerlo, il solo nome del monte ha subito attivato la connessione sonora con una parola simile, attualmente sulla bocca di tutti: ha rinviato il pensiero al tema dell’evento pasquale, al messaggio del "figlio di Dio" e, ovviamente, alla parola GIBSON, al film del regista Mel Gibson.
Il suono delle due parole ha aperto la strada ad altre connessioni, tanto più che "The Passion" ha ricevuto da una parte moltissime critiche da esponenti della cultura e del mondo ebraico e dall’altra addirittura l’avallo totale del papa (che, a pochi giorni dalla ’prima’, in udienza privata, ha addirittura incontrato di persona lo stesso ’Gesù’ - l’attore protagonista... e l’ha fatto sapere a tutti: io l’ho visto!) e, in particolare, del portavoce del Vaticano Navarro, che così l’ha fatto proprio e sottoscritto: "Il film è la trascrizione cinematografica dei Vangeli. Se fosse antisemita il film, lo sarebbero anche i Vangeli". La dichiarazione è stata sconcertante e lo scandalo si è dato: ma è bene che gli scandali avvengono....
Premesso questo, ora chiariamo ciò che ha portato alla luce la connessione sonora delle due diverse parole, "gelbison" e "gibson". Assumendole come parole americane o inglesi, e dividendole, innanzitutto dicono entrambe di un figlio (= son). Invece, rispettivamente, "gelb" e "gib" hanno un significato (e un’origine) diverso, e dicono appunto altro.
La parola "gelb" - la stessa presente in "Gibil-terra" - ha origini arabe [Jabal, Jebel] e significa "Montagna [di Tarik]". Ora si tenga presente che il film [di Gibson] è sulla passione di Gesù, e uno dei Suoi messaggi più forti e famosi (non citato nel film) è proprio quello delle "beatitudini", conosciuto appunto come il "discorso della MONTAGNA". Simbolicamente, la parola richiama ovviamente e decisamente la montagna del Sinai e dice metaforicamente, e in continuità, che il messaggio di Gesù - il "figlio di Dio" è, al fondo, lo stesso messaggio di Mosè - il "figlio della Montagna": la Legge della Libertà portata da Mosé e la Legge dell’Amore portata da Gesù è la Legge dell’unico Dio, del Dio dei nostri Padri, e del Dio delle nostre Madri.....
A questo allude GELBISON, ma la parola (ripetiamo, di origini arabe) dice ancora altro: significa più propriamente "Montagna dell’Idolo" (perché questa montagna era sacra già prima che i Monaci Basiliani nel X sec. fondassero sulla vetta il Santuario della Madonna del Sacro Monte: da dove, dal piazzale sommitale, si può osservare il panorama di quasi tutto il Cilento) e ci fa capire quanto lunga sia la lotta per l’egemonia e la nominazione dei luoghi tra le religioni e le culture mediterranee e quante tracce ovunque sul nostro territorio.... e ai problemi che ci ha lasciato: Quale la vera religione? Quale il vero Dio? Chi è il vero figlio di Dio? Chi è il vero Liberatore e chi il falso? Chi il Salvatore e chi l’Ingannatore? Chi il Re di Giustizia e di Pace e chi il Re della Menzogna, della Violenza e della Morte (o che è lo stesso, come ironizzava Kant, della pace perpetua)?
Lo sappiamo tutti e tutte. Con e a partire da Costantino, la Chiesa cattolico-romana è riuscita ad assicurarsi l’egemonia in Occidente, ma le sue relazioni con Atene, Gerusalemme, e la Mecca, sono state sempre altamente instabili e in bellicosissimo equilibrio....... e oggi lo stanno diventando sempre di più.
Giunta al capolinea, in uno scenario non più solo mediterraneo, e trovandosi in gran difficoltà, per cercare di stare a galla e vincere la concorrenza nel mercato delle religioni, cosa fa? Si acceca e, furiosamente, fa un passo decisivo, e all’indietro - a prima di Cristo!!! Cerca di mettere una "zeppa" (detto in inglese = gib), un "puntello provvisorio" (sempre in inglese = gib), alla casa che cade e alla barca che affonda.... e manda tutti i suoi fedeli a scuola dal regista Platone, nella caverna-cinema! E sollecita tutti, cardinali e preti, a seguire la "predica" del nuovo "cardinale" - il regista Gibson! Di chi? Sì, proprio del regista hollywoodiano che si chiama Mel Gibson.
Ma, per curiosità (e senza assolutamente alcuna offesa per la persona di Mel Gibson), che significa la parola "gib-son"? Significa proprio quello che vogliono significare le due parole messe insieme: se si vuole, "figlio-del-gatto". Vale a dire, figlio del dio-gatto, figlio del faraone... ma non più di Egitto, ma degli Stati Uniti di America.... Finalmente è iniziato il nuovo ordine e il nuovo millennio - quello americano.... nato già vecchio e "usa-to"!
Karl Rossmann (cfr. Franz Kafka, America - Il fochista) aveva visto giusto: la Statua della Libertà di N.-Y. non ha in mano la fiaccola della libertà (appunto!) e della conoscenza vera ma la spada - la spada di Brenno ("guai ai vinti!") - e l’America non è (se mai lo è stata) più l’America, ma l’Egitto, l’Egitto dei Faraoni.... e il presidente che la guida non è il Mosè del Dio del roveto ardente (= bush, in inglese e nella bibbia americana) che non brucia e porta parole di vita e verità, ma il Faraone che porta la sua volontà di menzogna, di morte e distruzione su tutta la terra - anche nel deserto!
"Il grande Teatro di Oklahoma vi chiama! Vi chiama solamente oggi, per una volta sola! Chi perde questa occasione la perde per sempre! Chi pensa al proprio avvenire, è dei nostri! Tutti sono i benvenuti! Chi vuol divenire artista, si presenti! Noi siamo il teatro che serve a ciascuno, ognuno al proprio posto! Diamo senz’altro il benvenuto, a chi si decide di seguirci! Ma affrettatevi, per poter essere assunti prima di mezzanotte! A mezzanotte tutto verrà chiuso e non sarà più riaperto! Guai a chi non ci crede!"(Franz Kafka, America).
Sul tema, nel sito e in rete, si cfr.:
MESSAGGIO EVANGELICO E FIGLIO DELL’UOMO ["Filius hominis", "υἱὸς τοῦ ἀνθρώπου]! - "Allora la folla gli rispose: «Noi abbiamo appreso dalla Legge che il Cristo rimane in eterno; come dunque tu dici che il Figlio dell’uomo deve essere elevato? Chi è questo Figlio dell’uomo?»"(Gv. 12,34).
AL DI LÀ DELLA LEZIONE DI "ANDROLOGIA" DI PAOLO DI TARSO: "Diventate miei imitatori [gr.: mimetaí mou gínesthe], come io lo sono di Cristo. Vi lodo perché in ogni cosa vi ricordate di me e conservate le tradizioni così come ve le ho trasmesse. Voglio però che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo [gr. ἀνήρ ἀνδρός «uomo»], e capo di Cristo è Dio" (1 Cor. 11, 1-3).
IL DIO DEI MAFIOSI NON E’ CRISTIANO, MA CATTOLICO-ROMANO - ’MEDITERRANEO’
Federico La Sala
Il Mediterraneo e l’Italia: un abbraccio lungo millenni
di LORENZO TERZI *
Con i suoi ottomila chilometri di coste, l’Italia è naturalmente - quasi forzatamente - orientata verso una piena dimensione marittima e marinara. Lo dimostrano, fra l’altro, la diffusione della nautica da diporto, il ruolo della Marina militare e mercantile, la piccola e grande cantieristica, le flotte da pesca. Senza trascurare i moltissimi naviganti del Ferragosto.
Il mare, questo sconosciuto
Eppure, sul piano culturale e nella narrazione popolare e nazionale, il mare - che nel caso dell’Italia si identifica senz’altro con il Mediterraneo - non sembra rappresentato quanto meriterebbe. Perfino nella letteratura il mare, quando c’è, è una presenza incombente ma lontana, come nel caso dei Malavoglia.
Assai poche le eccezioni: Gente di mare di Giovanni Comisso, per esempio, oppure Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo.
Il Mediterraneo secondo Ivetic
Qual è, allora, il rapporto dell’Italia con il mare e con il Mediterraneo?
A questa domanda cruciale prova a rispondere Egidio Ivetic nella monografia Il Mediterraneo e l’Italia. Dal mare nostrum alla centralità comprimaria (Rubbettino, 2022).
L’autore, innanzitutto, inquadra il problema in una prospettiva storica.
La marineria italiana ha una sua tradizione in quelle ligure, napoletana e siciliana. E poi in quelle veneta (Venezia, Chioggia), istriana (compresa Trieste) e dalmata, tutte e tre eredi della Serenissima.
In sostanza, sono tre o quattro modelli storici corrispondenti a realtà marinare che per alcuni secoli si sono spartite il Mediterraneo nelle loro reti di navigazione e di commercio.
Geopolitica e mare (Nostrum)
In linea generale si può dire che, mentre l’idea di Europa si presenta a partire dall’alto medioevo (cioè da Carlo Magno), la percezione del Mediterraneo in quanto contesto geopolitico è di molto antecedente.
In particolare, la centralità dell’Italia in questo contesto risale al dominio di Roma sul mare: tale centralità, infatti, si sovrappone a quella della penisola nel sistema imperiale, che non venne meno neppure in seguito alle crisi del III secolo d.C.
L’area appenninica centro-meridionale diventò quindi il fulcro assoluto del Mediterraneo, in quanto collocata in perfetto equilibrio tra la dimensione adriatica e ionica, in direzione della Grecia e dell’Oriente, e la dimensione tirrenica, rivolta alla Sicilia, all’Africa, all’Iberia e alla Gallia. L’egemonia su questo centro strategico consentì la realizzazione del Mare Nostrum.
Dopo l’Impero
La caduta dell’impero e i tumultuosi avvenimenti successivi determinarono scenari nuovi. Fra il IX e l’XI secolo l’Italia si trovò nel cuore stesso dell’Europa cristiana latina, con Roma come capitale spirituale, e, allo stesso tempo, diventò oggetto delle mire espansionistiche arabe, proprio perché protesa nel Mediterraneo.
Nel contesto italiano l’Occidente e l’Oriente, sia arabo-islamico sia bizantino, si confrontarono e convissero soprattutto nelle regioni marittime, tra Adriatico, Jonio e Tirreno. Furono secoli in cui nei luoghi di mare si alternarono guerre, commerci e convivenze, e in cui si comprese la necessità (o la modalità) della mediazione tra mondi simili e diversi.
Le repubbliche marinare: Pisa contro Genova
Dopo il Mille si assiste all’avvento delle città marinare italiane, più note come repubbliche marinare. L’egemonia di Venezia sull’Adriatico è una realtà consolidata già nell’XI secolo. La rivalità fra Pisa e Genova, invece, aumentò per il dominio su Corsica e Sardegna. Nell’agosto del 1284, nelle acque della Meloria, ebbe luogo lo scontro decisivo: la flotta pisana fu completamente sbaragliata e i caduti e i prigionieri furono diverse migliaia. Genova ebbe definitivamente tutta la Corsica.
Inizialmente Pisa cercò di reagire, riuscendo a mantenere attive le sue colonie nel Mediterraneo.
Arrivano gli Aragonesi
Le cose precipitarono quando gli Aragonesi, ormai padroni della Sicilia, volsero alla conquista della Sardegna, ultima risorsa pisana. Nel 1324, a Lucocisterna, le flotte catalana e pisana si affrontarono, e ancora una volta Pisa ebbe la peggio. La città decadde lentamente ma inesorabilmente, e la stessa marineria toscana non fu più all’altezza delle sfide mediterranee, nonostante la tarda vicenda di Livorno.
Egemonia veneziana: Lo Stato da Mar
Caduta Pisa, seguì lo scontro per l’egemonia mediterranea tra Genova e Venezia. Nel 1298, presso Curzola, in Dalmazia, ci fu la battaglia decisiva con la vittoria di Genova, che però non ebbe la forza di dare il colpo di grazia all’avversaria. Si giunse così alla pace del 1299.
Dal canto suo Venezia, nel Duecento, gettò le basi per la costruzione di quello che chiamò, due secoli dopo, Stato da Mar, in contrapposizione allo Stato da Terra.
Lo Stato da Mar - afferma Ivetic - «rimane forse la più marittima e mediterranea delle compagini politiche che si sono susseguite nella storia del Mediterraneo».
Il primo pilastro di questo sistema politico, commerciale e marittimo era rappresentato dalle colonie commerciali di veneziani, che si diffondevano dalla Tana nel Mare d’Azov ad Antiochia, Damasco, Tripoli di Siria, Acri, Alessandria e Salonicco, nonché nei porti pugliesi.
Il secondo pilastro era la flotta commerciale e militare, che si affermò sempre di più, tra il medioevo e l’età moderna, come strumento atto a garantire la sicurezza e la sovranità nel Golfo di Venezia e oltre.
Il corsaro Barbarossa
A partire dal Quattrocento, un terzo pilastro fu identificabile nella rete diplomatica veneta, soprattutto nella rete dei consolati, presenti nei maggiori porti del Mediterraneo. La sovranità di Venezia si estese, così, su un’ampia fascia di territori nell’Egeo, a Creta e Cipro, nello Ionio, in Dalmazia e Albania, nonché in Istria. La supremazia della città di San Marco nell’Egeo durò fino agli anni del corsaro Barbarossa (1520-1530 circa), nello Ionio fino al 1718, nell’Adriatico fino alla scomparsa della Repubblica (1797).
Il declino italiano
Il punto più basso della parabola storica del rapporto fra Italia e Mediterraneo corrisponde all’irrilevanza politica degli Stati italiani emersi dal Congresso di Vienna: i due stati marinari, Venezia e Genova, non esistevano più, mentre quelli indipendenti - Regno di Sardegna, Regno delle Due Sicilie e Stato pontificio - erano periferie nel centro del Mediterraneo.
La tendenza di queste realtà fu di mantenere la marineria commerciale e militare per lo stretto necessario, senza tentare la crescita. Questa passività lasciò libero il Mediterraneo, anche nei settori italiani, all’iniziativa britannica e francese, mentre l’Adriatico finì all’ombra dell’impero d’Austria, il cui sviluppo costiero coincideva con gli ex possedimenti della Serenissima, con l’aggiunta di Trieste, Fiume e del litorale croato.
La rivalsa in tricolore
Gli anni successivi all’unità d’Italia segnarono la rinascita dell’interesse italiano per il mare. Ne furono espressione, da un lato, la questione adriatica, che mirava a compiere l’unificazione nazionale con la liberazione delle terre irredente, e, dall’altro, la politica coloniale inaugurata da Crispi.
L’idea del dominio del Mediterraneo raggiunse la sua massima espressione nell’età del nazionalismo, fra il 1908 e il 1943. Secondo Ivetic, vi sarebbero due eventi che possono esprimerne l’inizio e la fine: rispettivamente La nave, dramma di Gabriele d’Annunzio eseguito al Teatro Argentina di Roma nel gennaio del 1908, e l’inabissamento della nave da battaglia Roma il 9 settembre 1943 presso l’Asinara.
Una nuova mediterraneità?
Dopo la seconda Guerra mondiale, la negazione della mediterraneità, su cui molto si era spesa la propaganda fascista, divenne una catarsi necessaria. A ciò si aggiunse l’adesione alla Nato, che inaugurò la stagione dell’atlantismo, nuova fede di cui gli Stati Uniti erano il faro. Poi venne l’Europa: un altro riferimento fideistico, anch’esso astratto, distante dalla vita civile, così inevitabilmente locale. In questo clima non c’era posto per il Mediterraneo e, soprattutto, per una politica mediterranea.
Eppure, rileva Ivetic, si può ancora dare un «mediterraneismo italiano».
La centralità geografica della Penisola ha le sue problematiche e le sue complessità, ma comporta anche dei vantaggi. Tutti i paesi mediterranei devono in qualche modo rapportarsi con l’Italia, dal momento che essa è il centro del Mediterraneo inteso come regione e sistema: «Inteso nel bene (quando si pensa alle possibilità di sviluppo) e nel male (quando si pensa ai conflitti e alle emergenze umanitarie)».
* Fonte: L’indYgesto, LUGLIO 10, 2022
NOTA:
D’ANNUNZIO ("LA NAVE", FIUME, IL LAGO DI GARDA) E IL "MARE NOSTRO":
FORSE, NON è meglio distinguere e precisare che la massima espressione d’ispirazione nazionalistica, nasce sul filo della memoria di Venezia e finisce con l’impresa del "primo duce", a Fiume (1919-1920), di D’Annunzio, e il suo autoconfinarsi sul Lago di Garda; dopo, la massima espressione del dominio del Mediterraneo, quella "imperialistico-romana". è espressa dal "secondo duce" e finisce il 25 luglio 1943?
Federico La Sala
Nostra Signora d’Europa.
Dalla periferia estrema protegge il Continente
di Matteo Liut (Avvenire, giovedì 5 maggio 2016)
Dal lembo più estremo del Vecchio Continente arriva una devozione fondamentale per la storia dell’Europa e per il futuro dell’Unione Europea. A Gibilterra, infatti, fin dai primi anni del XIV secolo la Vergine è venerata con il titolo di "Nostra Signora d’Europa", indicando così a tutte le popolazione del continente il modello da seguire per la costruzione di una società più giusta, accogliente, amorevole, attenta agli ultimi e capace di futuro. Quando il promontorio di Gibilterra venne riconquistato dai principi cristiani, nel luogo in cui i musulmani avevano costruito una moschea, sorse un santuario dedicato proprio a Nostra Signora d’Europa: qui trovò casa una statua della Vergine. L’effige venne sotterrata pochi anni più tardi quando quel lembo d’Europa venne riconquistato dagli arabi e fu ritrovata solo nel 1967. [...]
VISITGIBRALTAR. Santuario di Nostra Signora d’Europa (Our Lady of Europe)
Situato all’estremità meridionale della Rocca, questo santuario era originariamente una moschea che fu poi convertita in una cappella dai cristiani nel 1462. Una fiamma permanentemente accesa in una torre sopra la cappella, fu il primo faro di Gibilterra. Sebbene il santuario sia stato saccheggiato e depradato dal pirata Barbarossa, il suo tesoro più prezioso, la statua del XV secolo della Vergine e del Bambino, è sopravvissuta ed è ancora tutt’oggi venerata.
C’è un museo nel Santuario che descrive la sua lunga e tumultuosa storia. Negli anni ‘60 c’è stata una rinascita della devozione a Nostra Signora d’Europa e da allora non ha cessato di crescere. Nel 2009, Gibilterra ha celebrato il 700° anniversario della devozione a Nostra Signora d’Europa. Sua Santità il Papa ha donato al Santuario la Rosa d’Oro, il più alto riconoscimento pontificio per qualsiasi santuario.
L’IMPERO E LA CHIESA (BARI, 1936). Storia, storiografia, e sonno dogmatico.
Una nota a margine di una segnalazione ... *
Il 9 maggio 1936, Mussolini celebra "dopo quindici secoli, la riapparizione dell’Impero sui Colli fatali di Roma". Il "5 settembre 1936", nella Basilica di San Nicola di Bari, è murata su una parete una lapide ben illuminata su cui è scritto:
Per capire le ragioni politico-culturali di questo "documento" del Comune di Bari, collocato "nello storico tempio del santo mediterraneo", nella Chiesa di San Nicola di Bari, forse, è bene ampliare lo sguardo intorno alla data del "5-SETT-MCMXXXVI" (5 SETTEMBRE 1936) e quanto meno ricordare gli accordi sottoscritti tra il Regno d’Italia e la Santa Sede l’11 febbraio 1929 (Patti Lateranensi) e al contempo "riascoltare" e rileggere il "Discorso di proclamazione dell’Impero", tenuto da Mussolini dal balcone di piazza Venezia la sera del 9 maggio 1936:
Il 1° marzo 1924, su "L’Ordine Nuovo", Antonio Gramsci aveva già scritto: "Roma non è nuova a questi scenari polverosi. Ha visto Romolo, ha visto Cesare Augusto e ha visto, al suo tramonto, RomoloAugustolo". Evidentemente gli ideologi imperiali avevano ignorato la lezione di Dante sulla Monarchia e sui "venticinque secoli" (Par. XXXIII, 95), come quella di Goethe sui "tremila anni" ("Libro del malumore", 1819).
* Una "lapide che lascia perplessi!", si cfr. la segnalazione di Nicola Fanizza.
Federico La Sala
Ucraina: appello a vescovi, ’Kirill interceda per stop a guerra’
Dall’associazione ’L’isola che non c’è’, oltre 100 firmatari *
(ANSA) - BARI, 10 MAR - Un appello ai vescovi del "Mediterraneo: Frontiera di Pace" affinché "rivolgano un accorato appello a sua santità Kirill, patriarca di Mosca e di tutte le Russie, perché interceda presso il presidente Putin per far cessare la guerra in Ucraina" viene lanciato dall’associazione culturale pugliese "L’Isola che non c’è".
"Nella ricorrenza dell’anniversario del vostro incontro a Bari (19-23 febbraio 2020) e mentre eravate riuniti a Firenze per il secondo incontro (23-27 febbraio 2022), il mondo intero veniva sconvolto dalla tragedia che sta colpendo la nobile terra di Ucraina" dice l’associazione nell’appello, ricordando che "da Firenze avete fatto appello alla coscienza di quanti hanno responsabilità politiche affinché si fermi al più presto la follia della guerra".
"Nel manifestare pieno appoggio per tutte le iniziative che si intendono intraprendere per fermare la guerra", l’associazione "chiede umilmente a voi vescovi del Mediterraneo di farvi nostra voce" e ricorda una frase pronunciata proprio dal patriarca Kirill, "che in passato è giunto più volte pellegrino a Bari" per San Nicola e "accogliendo a Mosca nel 2017 una reliquia del Santo vescovo di Mira, ha affermato: ’Anche se non è mai stato in Russia e non è legato al nostro Paese né per nazionalità né per cultura, è percepito da noi come un santo russo perché ha attraversato con noi tutta la faticosissima e sanguinosa storia del nostro popolo’". (ANSA).
* Fonte: Redazione ANSA BARI, 10.03.2022
Firenze.
I vescovi del Mediterraneo sull’Ucraina: si fermi la follia della guerra
L’appello dall’Incontro per la pace che si tiene in Toscana. Il presidente della Cei, Bassetti: i conflitti non sono mai una soluzione. Il cardinale Betori: qui le sofferenze del popolo ucraino
di Giacomo Gambassi, inviato a Firenze (Avvenire, giovedì 24 febbraio 2022)
L’invasione russa dell’Ucraina irrompe all’Incontro Cei per la pace in corso a Firenze. E i vescovi del Mediterraneo riuniti da ieri nel capoluogo toscano lanciano il loro grido: «Si fermi la follia della guerra». In un messaggio inviato a Kiev i cinquantotto fra cardinali, patriarchi e presuli arrivati dalle nazioni del bacino «esprimono preoccupazione e dolore per lo scenario drammatico in Ucraina e rinnovano la loro vicinanza alle comunità cristiane del Paese». Poi il testo prosegue: «Accogliendo l’invito di papa Francesco a vivere il 2 marzo una giornata di digiuno e preghiera per la pace, i vescovi fanno appello alla coscienza di quanti hanno responsabilità politiche perché tacciano le armi. Ogni conflitto porta con sé morte e distruzione, provoca sofferenza alle popolazioni, minaccia la convivenza tra le nazioni». E infine il richiamo: «I vescovi del Mediterraneo conoscono bene questo flagello, per questo chiedono a una sola voce la pace».
Prima dell’inizio dei lavori della seconda giornata il presidente della Cei, il cardinale Gualtiero Bassetti, dialogando con i giornalisti che lo attendevano di fronte al convento domenicano di Santa Maria Novella, ha ammonito: «La guerra non è mai una soluzione, anzi è una follia». E ha sottolineato che ogni conflitto è «guidato esclusivamente da logiche che hanno come effetto soltanto morti, lacrime e distruzione: null’altro». Ecco perché, ha aggiunto Bassetti, «se avessimo dovuto scegliere come comunità ecclesiale un momento per riannunciare l’urgenza della pace con le parole e con i fatti, come avviene qui a Firenze, non potevamo trovare purtroppo un frangente più adatto».
Le notizie che arrivano da Kiev vengono seguite passo dopo passo dai vescovi del bacino. Da tutti, in modo particolare da quelli che provengono da Paesi ancora segnati dagli scontri e delle tensioni o che vivono le conseguenze devastanti di guerre recenti. Per la pace si è pregato al mattino durante la Messa nella Basilica di Santa Maria Novella che ha preceduto il via ai lavori. «Portiamo sull’altare le sofferenze del popolo ucraino», ha detto l’arcivescovo di Firenze, il cardinale Giuseppe Betori, in apertura della celebrazione che ha presieduto e che è stata concelebrata da tutti i vescovi presenti. E ha ricordato come «la situazione sia precipitata nel corso della notte». Nella preghiera dei fedeli un’intenzione è stata dedicata ai «governanti delle nazioni perché scelgano sempre la via del dialogo».
Già ieri nella prima giornata del forum ecclesiale la crisi ucraina era entrata nell’agenda. All’Incontro era atteso l’arcivescovo maggiore della Chiesa greco-cattolica ucraina, Sviatoslav Shevchuk, invitato dal cardinale Bassetti, ma l’acuirsi della situazione non gli aveva permesso di lasciare Kiev. E il presidente della Cei aveva letto un suo messaggio in cui Shevchuk evidenziava che l’Ucraina «rischia di diventare un campo di morte» e aveva spiegato di sentirsi «in dovere di stare con il mio popolo in veglia e in preghiera per la pace». Nella prolusione il cardinale Bassetti aveva fatto riferimento agli «inquietanti venti di guerra dall’Ucraina» che mostrano come gli Stati non abbiano «la forza, a fronte dell’eventuale buona volontà dei loro leader, di superare il meccanismo strutturato dai rapporti di forza». E poi aveva invitato a declinare «la nonviolenza in prassi politica».
Mediterraneo ancora al centro del mondo.
Una storia da cambiare
di Gualtiero Bassetti (Avvenire, martedì 15 giugno 2021)
«Il Mediterraneo è diventato il cimitero più grande d’Europa»: le parole pronunciate dal Papa all’Angelus, con le quali ha ricordato una delle più silenziose e drammatiche realtà del nostro tempo, ci interrogano profondamente. Nel mondo d’oggi, infatti, quasi più nulla sembra scalfire l’animo umano. Persino la morte di uomini, donne e bambini al largo delle nostre coste non sembrano turbare più di tanto la quotidianità del vivere.
Eppure la cerimonia svoltasi ad Augusta in Sicilia evocata da Francesco a San Pietro, in cui è stato esposto il relitto del peschereccio che il 18 aprile 2015 naufragò nel Canale di Sicilia con oltre mille migranti, ha proprio questo obiettivo: scuoterci da quell’ignavo torpore in cui la civiltà occidentale si è rifugiata per scappare da se stessa e dalle proprie responsabilità. «Questo simbolo delle tragedie», ha concluso il Papa, deve «interpellare le coscienze» e favorire «la crescita di un’umanità più solidale che abbatta il muro dell’indifferenza».
Queste parole portano alla luce alcune grandi questioni. In particolar modo, la centralità del Mediterraneo nel mondo contemporaneo. Forse mai come oggi, infatti, il Mediterraneo non è più soltanto un bacino marittimo che bagna tre continenti spesso in conflitto tra loro, ma un angolo visuale fondamentale da cui guardare il mondo intero. Questo mare è solcato da navi mercantili che viaggiano in tutte le direzioni; è caratterizzato da importanti centri strategici per le risorse energetiche del pianeta; è attraversato da migliaia di chilometri di cavi sottomarini che permettono le comunicazioni; e, infine, è drammaticamente percorso da uomini e donne migranti che provengono dal Nordafrica, dall’Africa subsahariana, dal Corno d’Africa, dal Vicino Oriente e dall’Asia centrale.
La centralità del Mediterraneo è segnata, dunque, da una pervasiva globalizzazione economica che si tramuta però in una dolorosa indifferenza quando il focus si sposta sui poveri e sui migranti. Questo strabismo concettuale non solo non è evangelicamente accettabile, ma è estremamente carico di incognite e di rischi per il futuro. Chiudere gli occhi davanti ai «popoli della fame» significa, prima di tutto, chiudere gli occhi a Cristo e a quell’umanità sofferente di cui da sempre si prende cura lo sguardo del Samaritano. In secondo luogo, voltare lo sguardo oggi alle migrazioni internazionali significa non affrontare concretamente una delle più grandi questioni sociali di domani: come si governa la mobilità umana? Come combattere lo sfruttamento della tratta? Come integrare queste persone nelle società d’accoglienza?
Sono queste alcune delle domande che le migrazioni nel Mediterraneo impongono all’agenda pubblica dell’Europa, dell’Africa e dell’Asia. Non solo ai governi, ma anche alla Chiesa. Al centro di tutti questi interrogativi si colloca un concetto che è alla base del pensiero cristiano: la difesa e la valorizzazione della persona umana. Ed è per questo motivo, sulla base dell’intuizione lapiriana di trasformare il Mare Nostrum in una «grande lago di Tiberiade», ovvero in un luogo di pace e speranza, che i vescovi del Mediterraneo si sono riuniti nel febbraio del 2020 a Bari e lo rifaranno nel febbraio 2022 a Firenze in un incontro di preghiera, fraternità e dialogo. Un’antica profezia di pace ha attraversato tutto il XX secolo: che questo mare unisca e non divida. Oggi cerchiamo, con umiltà e fervore, di seguire il sentiero segnato da questa visione profetica. Il Mediterraneo in cui si affacciano le civiltà che appartengono alla «triplice famiglia di Abramo», come scriveva La Pira, può realmente diventare un luogo di incontro tra culture, religioni e popoli diversi. Un incontro che, dopo secoli di divisione, potrebbe cambiare la storia non solo del Mediterraneo, ma del mondo intero.
Cardinale, arcivescovo di Perugia - Città della Pieve Presidente della Cei
Il santo del giorno
Nostra Signora d’Europa.
Sul punto di incontro tra continenti e religioni
di Matteo Liut (Avvenire, venerdì 5 maggio 2017).
Nel punto in cui l’Europa e l’Africa si "incontrano", a Gibilterra, c’è un santuario dedicato a Maria che ricorda al Vecchio Continente il compito dell’accoglienza. La Madre di Dio, infatti, è l’icona dell’amore cristiano che sa andare incontro all’altro e si dona senza confini. Il santuario è quello di Nostra Signora d’Europa e rappresenta un faro spirituale per il nostro continente fin dal XIV secolo.
Quando il promontorio di Gibilterra venne riconquistato dai principi cristiani, infatti, nel luogo in cui i musulmani avevano costruito una moschea sorse un santuario dedicato alla Vergine che custodiva una statua della Madonna.
L’effigie venne sotterrata pochi anni più tardi quando Gibilterra fu riconquistata dagli arabi; la statua venne ritrovata solo nel 1967.
Nel 1979 Giovanni Paolo II affidò la diocesi di Gibilterra proprio a Nostra Signora d’Europa.
Altri santi. Beato Nunzio Sulprizio, laico (1817-1836); beata Caterina Cittadini, fondatrice (1801-1857). Letture. At 9,1-20; Sal 116; Gv 6,52-59. Ambrosiano. At 7,55-8,1a; Sal 30; Gv 6,22-29.
“Il segreto del Tuffatore. Vita e morte nell’antica Paestum” di Gigi Spina
Intervista *
Prof. Gigi Spina, Lei è autore del libro Il segreto del Tuffatore. Vita e morte nell’antica Paestum edito da Liguori. Nel libro rivive il racconto di uno dei protagonisti degli affreschi della famosissima Tomba del Tuffatore di Paestum: innanzitutto, di quale importanza è il ciclo di dipinti della tomba?
La scoperta della tomba, nel 1968, offrì agli studiosi, fra cui va innanzitutto ricordato Mario Napoli, e al mondo intero un manufatto di grandissimo valore, sia per la fattura dei dipinti sia per la loro funzione nella decorazione della tomba stessa. Insieme alle quattro pareti laterali, la lastra di copertura è dipinta dall’interno. L’invisibilità del ciclo pittorico ai posteri, interrotta dalla scoperta - bisogna ricordarlo - mise in contatto con credenze e pratiche non certo ignote, ma sicuramente di grande impatto e per molti aspetti non immediatamente decifrabili.
Negli oltre cinquant’anni passati da allora la ricerca ha fatto molti passi avanti e, d’altra parte, l’allestimento curato negli ultimi anni dal Direttore del Parco Archeologico e del Museo di Paestum Gabriel Zuchtriegel offre al pubblico sempre più vasto dei visitatori la possibilità di godere in diretta di pitture davvero indimenticabili. Elementi analoghi in tombe della stessa area geografica si limitano a singole caratteristiche decorative. Inoltre, la presenza delle immagini in rete consacra a livello mondiale quella che ormai tutto il mondo conosce come Tomba del Tuffatore.
Senza questa opportunità, direi che il mio stesso tentativo di costruire un racconto di fantasia su quei dati reali sarebbe stato meno entusiasmante e coinvolgente.
Il Tuffatore di Paestum è diventato un simbolo dai molti, possibili, significati che ha ispirato immagini, scritture, musiche. Un percorso, questo, che è dunque relativamente giovane, nel quale s’inserisce anche il mio racconto. Nello scriverlo non ho voluto, però, né avrei avuto le necessarie competenze, offrire un ulteriore contributo specialistico, dedicato, cioè, al valore archeologico e storico-artistico, nonché culturale, del ciclo dei dipinti.
La presenza di validissime, anche se non definitive, pubblicazioni, cataloghi, ricerche specifiche mi è servita a inquadrare meglio - e nei limiti di una ipotesi almeno plausibile, anche se solo letteraria - il tentativo di immaginare la storia di quella tomba e le vicende dei protagonisti degli affreschi, pittore compreso.
Per questo il racconto è accompagnato da una guida di lettura, un’appendice che rinvia chi abbia voglia e curiosità a contributi scientifici per saperne di più e offre le necessarie spiegazioni utili alla comprensione di miti citati e altri riferimenti culturali. Il racconto si può leggere indipendentemente da tale appendice.
Nei dipinti sono raffigurate scene di un simposio: cos’era e come si svolgeva tale pratica?
Come possiamo ricostruire e conoscere a fondo da due fondamentali opere greche, che hanno lo stesso titolo, Symposion, scritte da Platone e Senofonte, fra V e IV sec. a.C. il simposio era un incontro che oggi definiremmo multimediale; in cui, cioè si mettevano in campo e si praticavano diverse forme di comunicazione e scambio culturale fra i partecipanti: discorsi, suoni, canti, giochi, consumazione di cibi e bevande. Il tempo del simposio consentiva di dialogare su temi di fondo del vivere umano (certo, relativi ai quadri mentali dell’epoca) e di intrattenersi con passatempi di vario tipo. Esistevano dunque regole condivise per dar vita a un evento di cui si conservano molte raffigurazioni.
Nel caso della Tomba del Tuffatore, l’evento fu immaginato come elemento di accompagnamento a una morte, sia per possibili intrecci metaforici e allegorici, sia per probabili connessioni reali, come ho immaginato nel racconto. In ogni caso, se si leggono i due testi indicati all’inizio, si ha una precisa idea di come la presenza fosse quasi esclusivamente maschile, come di rado una donna vi potesse essere ammessa - e solo se rivestiva determinati ruoli - e di come l’alternarsi di discorsi, riflessioni, bevute, giochi e ‘colonne sonore’, senza dimenticare l’insito aspetto politico degli incontri, potesse farne davvero un appuntamento di rilievo, degno di essere cantato e raffigurato.
Nel dipinto compare un gioco particolare, il cottabo: come si svolgeva?
Come accenno nell’appendice, ho fatto riferimento a una tesi di laurea di dottorato, che seguii a suo tempo, sui giochi nell’antichità, poi pubblicata col titolo Tabliope, frutto di una bellissima ricerca di Gabriella Carbone, ora docente in un liceo. Fra i tanti giochi analizzati e documentati, il cottabo è quello che non ha una continuità nelle epoche successive, ma ne abbiamo sia raffigurazioni, come quella di Paestum, ma soprattutto vascolari, sia descrizioni in singoli trattati. Aveva alla base il vino, momento importante di condivisione nel simposio. I giocatori e simposiasti, sdraiati sulle klinai, triclini che ovviamente garantivano il riposo e il rilassamento, aspettavano il loro turno per lanciare il residuo della loro bevuta in un recipiente al centro della sala.
Esistono descrizioni diverse o diverse ipotesi di gioco: il lancio poteva avvenire dalla coppa stessa attraverso la rotazione accorta ed esperta del braccio che, vincendo la forza di gravità e calcolando la distanza, faceva in modo che il getto finisse nel catino. Era, dunque, importante la quantità di vino da lanciare, residuo della bevuta, che poteva essere calcolata lasciando nella coppa la giusta quantità o restituendola, per così dire, dalla bevuta con un giusto dosaggio della bocca. Ciascun partecipante, al suo turno, lanciava cercando di effettuare un lancio ottimale, senza, cioè, che parte del liquido andasse perduto durante il tragitto.
Quale significato assumeva il tema del tuffo nel mito e nella letteratura antica?
Sin dalla scoperta, l’attenzione degli archeologi, e di Mario Napoli per primo, si concentrò sulla figura del Tuffatore, raffigurato all’interno sulla lastra di copertura della tomba, sia per la bellezza della scena, davvero suggestiva per scenografia, colori e armonia delle forme, sia per il possibile significato chiave della presenza di un tuffo in una tomba.
Alle spalle degli studiosi e, ancor prima, alle spalle del pittore, dei committenti e del suo (temporaneo) pubblico, c’era evidentemente una storia lunga quanto quella dei miti e della letteratura antica che parla del tuffo. Del tuffo in mare, prevalentemente, dall’alto di un dirupo, per una serie di motivi i più vari.
Il termine greco è katapontismos, lancio verso il mare, che assumeva anche una funzione giudiziaria, quasi di conferma o meno di una possibile colpa, nel caso il soggetto lanciato in mare si fosse salvato o meno. -Gli esempi sono dunque tanti, sia nel mito che nella storia letteraria, fermo restando il mistero della figura del Tuffatore di Paestum, il quale sembra lanciarsi in un elemento acqueo da un supporto non immediatamente perspicuo, mentre la tomba rinvia subito a una destinazione infera: un salto nell’Ade.
Come quello immaginato da un noto poeta ellenistico, di Cirene, Callimaco, che descrisse in un epigramma, composto da soli quattro versi, il tuffo nell’Ade (quindi metaforico, sostanzialmente un suicidio) di Cleombroto, un cittadino di Ambracia. L’epigramma ha un fondo ironico, perché Callimaco precisava che Cleombroto non aveva particolari motivi di rifiuto della vita; no, solo che aveva letto un dialogo platonico, il Fedone, che in qualche modo rendeva desiderabile l’abbandono del corpo con tutti i suoi impacci e la libertà dell’anima. Per questo, aveva deciso di accelerare i tempi raggiungendo ben in anticipo l’Ade.
L’epigramma fu tradotto in latino ed ebbe una grande diffusione nei secoli successivi. Ecco: come per molti altri riferimenti del racconto, ho utilizzato testi e situazioni che avevo studiato e sui cui avevo anche scritto nel corso del mio lavoro di professore universitario, per suggerire una storia che fosse adattabile alle immagini della Tomba del Tuffatore: il tuffo, potremmo dire il salto mortale, ha nell’antichità moltissimi modelli, dalla storia di Saffo che si butta in mare per amore alle sirene che si suicidano lanciandosi in mare e trasformandosi in scogli. Bastava solo ricordare e scegliere per dare al Tuffatore un motivo per il suo tuffo.
Poseidonio, lo sfortunato proprietario della tomba, era probabilmente di origini etrusche: quale crocevia di etnie rappresentava l’antica Poseidonia?
Vorrei precisare, per chi non avesse letto il mio racconto, che i nomi dei protagonisti sono inventati da me, anche se tentano di rispondere alle consuetudini delle denominazioni antiche. Ricordo che nell’Odissea assistiamo, per così dire, al battesimo di Odisseo, cioè all’imposizione di quel nome, proposto dal nonno Autolico, in ragione dell’odio che lui stesso aveva prodotto in chi incontrava.
Per questo il Tuffatore si chiama Poseidonio, in omaggio al nome antico di Paestum, Poseidonia, luogo consacrato al dio del mare, mentre il narratore si chiama Bute in omaggio a uno degli Argonauti, anche lui capace di tuffarsi in mare per raggiungere le Sirene.
Certo, Poseidonia, città d’acqua, è stata, come molti insediamenti della nostra penisola nella prima metà del primo millennio a.C., un luogo d’incontro di varie etnie, fra di loro in conflitto o in forme (meno frequenti) di convivenza.
Non mi sono addentrato, nel racconto, in queste discussioni e relative ricerche, pur avendo presenti le varie ipotesi sulle origini del morto, sulla localizzazione della tomba, periferica rispetto all’insediamento pestano ecc., ma mi è parso di poter affermare, anche nell’utilizzazione dei miti antichi che ho richiamato per il mio racconto, che la cultura greca ha avuto maggior forza nel gestire la colonizzazione e nell’orientare il contatto con le culture e popolazioni già presenti sul suolo italico - particolarmente suggestiva, anche dal punto di vista dei manufatti e delle pitture tombali, la presenza dei Lucani - tenuto anche conto del progressivo affermarsi della cultura romana.
Nel libro ci offre un saggio di quella che definisce diacultura o ricezione, una sorta di rilettura moderna e riattualizzata della cultura classica: quale ruolo, a Suo avviso, per la classicità nella società contemporanea?
Per rispondere adeguatamente a questa domanda - e ricordo che ormai da pensionato posso anche tracciare un bilancio della mia attività che ha attraversato diversi periodi cruciali della storia politica e culturale
italiana - devo fare qualche passo indietro e ricordare che quando, negli anni ’70, i metalmeccanici ebbero dal loro contratto la possibilità di usufruire di 150 ore di formazione culturale, anche nelle università, ci attivammo in molti alla Facoltà di Lettere della Federico II di Napoli, già politicamente impegnati in partiti e movimenti di sinistra; non avevo però ben chiaro, in quel momento di forte ideologia, quale contributo potessi dare, con le mie competenze, al confronto con i colleghi modernisti, storici, sociologi ecc.
Ora, forse, avrei le idee più chiare e farei agire meglio quella che ho chiamato diacultura. Mi spiego: è una pratica di rapporto col mondo antico che ho esercitato da molti anni anche se solo recentemente ne ho definito meglio i contorni. Nel 1983, in occasione di un congresso internazionale di Papirologia, pubblicai sul Manifesto un’intervista col Vesuvio in cui il vulcano rivendicava il suo ruolo positivo nella conservazione dei papiri di Ercolano.
Più recentemente ho messo in scena un lungo monologo, Fu mio nonno a chiamarmi Odisseo, in cui si alternano letture di versi dell’Iliade e dell’Odissea a riflessioni sulla vita di un eroe capace di affrontare così tante peripezie (il video è disponibile al link: https://www.youtube.com/watch?v=RJsRWN_L9qg).
Non ho, dunque, un atteggiamento sacrale o ‘religioso’ verso il mondo antico che, in quanto umano, profondamente umano, non è a mio parere un modello o uno scrigno di valori universali e perenni. Fu, intanto, un mondo complesso, come sono le culture in genere, non generalizzabile e non riconducibile a stereotipi.
Lo sguardo antropologico è servito a indagare meglio in quelle culture e a superare, io spero definitivamente, un classicismo che ha avuto le sue stagioni anche vivaci, ma ora non credo abbia più niente da offrire. Non si tratta, dunque, per gli antichisti, di attualizzare i classici o le culture antiche, renderle cioè capaci di parlarci ancora, magari schierandosi dalla parte di questo o quel pensatore antico o addirittura scrivendo in greco antico su temi moderni.
Gli attuali siamo noi, ciascuno e ciascuna con le proprie storie, e oggi siamo in grado di guardare alla complessità di quei mondi, molto diversi dai nostri, per cercare di comprenderne le dinamiche interne, le contraddizioni, le luci e le ombre.
Non c’è stato il vuoto, nei secoli che ci separano dall’Atene di Pericle o dalla Roma di Augusto; per questo, nel ripensare a quelle culture per tentare di farle rivivere nel nostro presente - rivivere, non renderle attuali, rivivere per come furono capaci di vivere - non possiamo ignorare tutti gli strati culturali che si sono accumulati da loro a noi, fino al nostro presente, e che interagiscono necessariamente, inevitabilmente, direi, con quel passato.
La diacultura è dunque una possibile ricezione proficua del passato, secondo la quale il passato si presenta per quello che è stato, non per il modello che alcuni pensano possa essere, per l’insegnamento che alcuni pensano ancora possa dare, ma come forma antica e diversa di umanità, più facile forse da interpretare perché, nel tempo, abbiamo recepito e sentiti più vicini a noi alcuni passaggi chiave delle loro storie. Ma con la consapevolezza che ci allontaniamo sempre più da quei mondi, che quindi dobbiamo solo preoccuparci di conservare al meglio, con tante altre cose, nel nostro patrimonio culturale come elemento dialettico di analogia, di arricchimento.
La diacultura non teme dunque i corto-circuiti arditi perché sa praticare le distinzioni e riconoscere le differenze; la diacultura accumula, non sostituisce o assolutizza; complica, non semplifica. La rilettura moderna dei classici, dei loro autori, delle vite che li hanno prodotti, non è dunque una lettura che attualizza, ma una lettura che precisa i confini: ripeto, le diversità. Continuerò a confrontarmi orizzontalmente con i miei contemporanei e le mie contemporanee, da antichista, perché so che è con loro che dovrò fissare gli obiettivi del mio vivere e lottare o fare compromessi per realizzarli, non con Demostene o Cicerone o Seneca o altri, che invece mi serviranno ad arricchire la consapevolezza del divenire, del passare del tempo e delle trasformazioni.
Penso, dunque che questo possa essere uno dei modi di rileggere la cultura antica nella nostra epoca, accanto a modi simili, purché si pongano l’obiettivo, come ho avuto già modo di scrivere, non di difendere il fortino dagli assedianti, ma di divulgarlo e renderlo familiare e visitabile, pur nella sua diversità, per decidere di inserirlo nelle nuove forme di conoscenza. Insomma, col mio racconto, Il segreto del Tuffatore, ho voluto scrivere un viaggio di fantasia sostenibile nel passato, con i piedi ben piantati nel presente.
Luigi (Gigi) Spina, Salerno 1946, ha insegnato Filologia classica all’Università Federico II di Napoli ed è stato Chaire Gutenberg all’Università di Strasburgo nel 2009. È segretario dell’Associazione Antropologia e Mondo Antico. Per il CV e per l’elenco completo delle sue pubblicazioni (volumi e articoli), comprese quelle non professionali e alcuni video, per la maggior parte scaricabili, si rinvia al sito www.luigigigispina.altervista.org.
* Fonte: Letture.org
Anticipazione.
Educare lo spettatore alla teologia del cinema
di Gianfranco Ravasi (Avvenire, venerdì 13 novembre 2020)
Perché anche un film a esplicito soggetto religioso può risultare spiritualmente insignificante, e un film di tema e taglio profano può essere di di altissima impronta religiosa. La collana della FEdS
Era l’anno 1895 e per la prima volta i fratelli Louis-Jean e Auguste Lumière facevano scorrere alcune immagini in movimento, dando origine a quella che sarebbe stata pomposamente chiamata “la settima arte”, la cinematografia. Pochi sanno, però, che alcuni mesi dopo, il 26 febbraio 1896, un operatore, Vittorio Calcina, per conto dei fratelli Lumière, aveva ottenuto il permesso di varcare le soglie del Palazzo Apostolico con le sue apparecchiature destinate a filmare Papa Leone XIII nell’atto di benedire. Da lì a poco un collaboratore di Edison aveva potuto riprendere lo stesso vecchio pontefice mentre passeggiava nei Giardini Vaticani, a beneficio dei fedeli americani desiderosi di vedere il Papa “di persona”.
Nel 1897, sul candido lenzuolo che allora fungeva da schermo passava la prima trascrizione in immagini mobili de La passione di Albert K. Léhar, un’esperienza che nel 1899 ripeterà un più noto regista, Georges Méliès, col film cristologico Le Christ marchant sur les eaux, cui seguirà Jeanne d’Arc. Da quei momenti iniziali si snoderà un itinerario che attraverserà tutto il Novecento e tutte le nazioni del mondo e approderà alle incessanti produzioni filmiche, alle variazioni di genere introdotte dalla televisione, alle voragini abissali nel nadir delle perversioni, delle violenze, della pornografia, ma anche allo zenit dei capolavori di umanità e spiritualità, alle esaltazioni dei colossal fino alle inedite creazioni digitali attuali, alla valanga della retorica di certi film “biblici” e agiografici, al moltiplicarsi dei festival e così via.
Non è possibile né è nostro compito ora ricostruire questa storia, sia pure soffermandoci solo sulla filmografia che coinvolge la fede. Ci accontenteremo, perciò, di presentare una trilogia schematica, simile a un trittico mobile e di taglio impressionistico.
Nella prima scena abbozzeremo un essenziale cenno teorico e teologico; nel secondo quadro faremo salire sulla ribalta, in una sorta di galleria di ritratti minimi, alcuni protagonisti - anche inattesi - della dialettica tra cinema e fede. Infine ci rivolgeremo ai non molti ma significativi approcci pastorali ufficiali offerti dal Magistero, mentre la Chiesa era coinvolta vivacemente nella trionfale affermazione della “settima arte”.
La matrice del cinema si lega sostanzialmente a due categorie fondamentali anche nella teologia, l’immagine e la parola, colte nella loro dinamicità ed efficacia. Alla giusta reticenza aniconica del Decalogo che proibisce ogni rappresentazione di «ciò che è nel cielo, sulla terra e nelle acque sotto terra» (Esodo 20,4) per liberare il Dio persona da ogni forma oggettuale idolatrica, subentra la svolta neotestamentaria. -Nelle Scritture cristiane e nella Tradizione la domanda di fondo sulla rappresentabilità del sacro è subito evasa in senso favorevole, non solo perché il linguaggio teologico è per sua stessa natura simbolico e analogico - come per altro aveva già intuito il libro della Sapienza, convinto che «dalla bellezza e magnificenza delle creature analógôs [per analogia] si può ascendere al loro Autore» (13,5) - ma anche perché il cristianesimo ha nel suo cuore l’Incarnazione che vede nel volto umano di Gesù di Nazareth una eikôn, un’icona, un’immagine del Dio invisibile, come scriveva san Paolo ai Colossesi (1,15). In questa linea si illumina anche la scelta iconica della Chiesa che si opporrà con forza all’iconoclasmo nel Secondo Concilio di Nicea (787), generando e sostenendo quello straordinario patrimonio artistico che avrà il suo approdo necessario anche nella stessa cinematografia.
Non è secondario, poi, il fatto che i due linguaggi, il filmico e il religioso, sono per loro natura performativi. Pur con tutte le distanze e le differenze del caso, la “sacramentalità” dell’atto liturgico ha un’analogia nell’efficacia dell’ “azione” cinematografica che cerca di “attuare” nello spettatore ciò che rappresenta. Ci sono, infatti, nei film di autentica qualità artistica e spirituale alcune suggestioni irrevocabili che, dopo il congedo dallo spettacolo, continuano a vivere nell’interiorità e nella stessa esistenza dello spettatore.
L’altra componente che intreccia fede e film è la parola. Naturalmente non intendiamo solo il sostegno che il dialogo offre alla rappresentazione, ma il racconto visivo. Ora, si comprende che la Bibbia sia divenuta un soggetto appetibile dal cinema perché è per sua natura “storia della salvezza” e quindi narrazione.
È suggestivo un aforisma giudaico che afferma: «Dio ha creato gli uomini perché Egli - benedetto sia - ama i racconti ». Ci sono, così, pagine bibliche che sembrano già un soggetto cinematografico, come nel caso delle 35 principali parabole di Gesù. Altri testi si presentano quasi come una sceneggiatura pronta per le riprese: si provi a leggere, ad esempio, il celebre racconto dell’adulterio di Davide e dell’assassinio di Urìa presente nei cc. 11-12 del Secondo Libro di Samuele.
In quest’ottica si sono sviluppati alcuni capolavori come il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini (1964) ma anche una serie di colossal di grande impegno finanziario e tecnico ma di modesta qualità religiosa. Pensiamo alla Più grande storia mai raccontata di George Stevens (1965), a Il grande pescatore di Frank Borzage (1959) o al Re dei re di Cecil B. DeMille (1927) remake di Nicholas Ray nel (1961); quest’ultimo ebbe anche il merito di aver diretto un più significativo film divenuto un “classico” della cinematografia biblica, I dieci comandamenti (1956).
Non si badava a spese e a effetti, ma alla fine si otteneva un’iconografia enfatica e solo esteriormente religiosa, anzi, in alcuni casi destinata a rasentare il sadismo, come nell’esagitato, La Passione di Cristo (2004) di Mel Gibson (90 minuti di torture su 126 di film!). Né si devono escludere le non rare provocazioni blasfeme che attingevano la loro capacità di scandalo proprio nell’uso improprio del testo sacro ( L’ultima tentazione di Cristo di Martin Scorsese del 1988, in verità meno negativa di quanto sembrasse, divenne al riguardo un emblema. Anche per il cinema si può, comunque, riproporre l’antica querelle che ha tormentato critici e teologi riguardo alla definizione dell’arte sacra o dell’arte religiosa (che non sono necessariamente sinonimi). In realtà, bisognerebbe superare le classificazioni troppo rigide perché anche un film a esplicito soggetto religioso può risultare spiritualmente insignificante, e un film di tema e taglio profano può essere di altissima impronta religiosa.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
GELBISON, GIBSON E LA CHIESA CATTOLICA. DUE PAROLE, UN ’RIVELATIVO’ SEGNO DEI TEMPI.
LA "PROFEZIA" DI MARSHALL MCLUHAN : NARCISO E LA MORTE DELL’ITALIA. Il "rimorso di incoscienza" di Marshall McLuhan
PLATONE, PLATONISMO PER IL POPOLO, E CROLLO DELLA MENTE DELL’UOMO TEORETICO ...
HANS BLUMENBERG CI SOLLECITA: "USCITE DALLA CAVERNA" !
FLS
Pasqua. Aramaico, ebraico, greco, latino... in che lingua Gesù parlò con Pilato?
Oltre l’aramaico, conosceva anche l’ebraico e il greco? E in che lingua avvenne il processo davanti a Pilato? Le ipotesi degli studiosi e l’importanza degli idiomi per l’evangelizzazione
di Mimmo Muolo (Avvenire, martedì 7 aprile 2020).
In che lingua parlava Gesù? E i protagonisti dei grandi eventi che portarono alla sua morte in croce? La questione, da tempo al centro del dibattito tra gli studiosi, può essere assunta proprio nei giorni della Settimana Santa, come filo rosso per comprendere alcune dinamiche fondamentali dell’annuncio della Buona Novella dall’inizio fino a noi.
Le quattro lingue della Palestina
Va detto innanzitutto che al tempo in cui si svolsero gli eventi descritti nei Vangeli quattro erano le lingue parlate in Palestina. Quella ufficiale (ma anche la meno diffusa: usata solo da un ristretto numero di funzionari pubblico) era il latino. Quella religiosa era l’ebraico, parlata nelle sinagoghe, dove si leggevano i testi della Torah, e dai farisei che erano gli ebrei più osservanti. Quella della vita quotidiana era invece l’aramaico, che il popolo aveva adottato dopo il ritorno dall’esilio babilonese (VI sec. a.C.). E infine il greco della koiné, che era un po’ come l’inglese di oggi, parlata ovunque. Ebraico e aramaico erano lingue semitiche, imparentate tra loro come ad esempio l’italiano e il napoletano, dato che l’aramaico (nell’VIII secolo a.C. lingua delle comunicazioni internazionali nella Mesopotamia) era diventata una sorta di dialetto.
Gesù parlava solo l’aramaico?
Tra queste quattro lingue è ormai certo che quella usata da Gesù per la predicazione e per i colloqui con i discepoli fosse l’aramaico. Come ricorda Rinaldo Fabris, nel suo “Gesù il Nazareno” (Cittadella Editrice), sono almeno una ventina i passi dei Vangeli canonici (scritti in greco) in cui vengono citate parole o espressioni aramaiche. Per limitarci a quelle che riguardano la Settimana Santa: “Abba” (Padre), usato da Gesù nel Getsemani; “Eloi Eloi lemà sabachtani” (Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato) cioè le ultime parole di Cristo sulla croce secondo Marco e Matteo; il toponomastico Golgotha (“Luogo del cranio”) per indicare l’altura della crocifissione; e infine l’appellativo “rabbunì” (maestro mio) con cui Maria di Madgala chiama Gesù dopo la risurrezione. E a proposito di vittoria sulla morte, possiamo citare ancora il “talità qum”, (ragazza alzati) con cui Cristo riporta in vita la figlia di Giairo.
Del resto è naturale: cresciuto ed educato in una modesta famiglia della Galilea che abitava a Nazareth, villaggio di poche centinaia di abitanti, Egli certamente aveva come lingua materna l’aramaico occidentale che si parlava nella sua terra. Tra l’altro connotato da accento diverso da quello in uso a Gerusalemme, come attesta il “riconoscimento” di Pietro, nella notte dell’arresto di Gesù (Mt 26,73) proprio a motivo di come parlava.
L’aramaico, scelta di incarnazione
Questo fatto ci dice già una cosa importante. La concretezza dell’incarnazione vale per tutti gli aspetti della vita. Gesù si esprime in un idioma che tutti possono comprendere e poco importa se non è la lingua dei dotti. Anzi proprio questa vicinanza ai “piccoli”, al punto da parlare in “dialetto”, conferma se mai ce ne fosse bisogno la sua “rivoluzione” delle periferie, come direbbe papa Francesco. Il quale, parlando ai genitori dei bambini che stava battezzando nella Cappella Sistina il 7 gennaio 2018, raccomandò: “La trasmissione della fede soltanto può farsi in dialetto, la lingua intima delle coppie. Nel dialetto della famiglia, nel dialetto di papà e mamma, di nonno e nonna”. E non è un caso che un grande santo e teologo come Tommaso d’Aquino abbia predicato il quaresimale del 1273 in dialetto napoletano.
Le ipotesi sull’ebraico e il greco
Ciò che resta ancora incerto è se Gesù sapesse parlare nelle altre lingue. Almeno l’ebraico e il greco. Quanto all’ebraico, bisogna registrare un simpatico siparietto durante la visita di papa Francesco in Medio Oriente nel 2014. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, durante un incontro ufficiale, disse al Pontefice: «Gesù ha vissuto qui, parlava ebraico». «Aramaico», lo corresse Francesco. Al che Netanyahu, immediatamente, precisò: «Parlava aramaico ma conosceva l’ebraico, perché leggeva le Scritture». Al di là dei cordiali sorrisi che chiusero l’episodio, viene da chiedersi: è proprio così?
Secondo Fabris, “sulla base delle scarne informazioni del Vangeli non si è in grado di dare una risposta categorica alla domanda se Gesù sapesse leggere e scrivere”. E anche l’episodio riferito da san Luca, in cui nella sinagoga di Nazareth Egli prende e legge il rotolo del profeta Isaia, “non può essere addotto come prova che egli è in grado di leggere il testo ebraico della Bibbia”. Probabilmente infatti, argomenta lo studioso, quel racconto è il frutto di una rielaborazione dell’evangelista al quale interessa dire che Gesù è il Messia.
Tuttavia questo punto non è pacifico fra gli esegeti. Stefano Tarocchi, biblista e preside emerito della Facoltà Teologica dell’Italia centrale, nota infatti che “diversi altri racconti dei Vangeli favoriscono la teoria secondo cui Gesù era in grado di servirsi anche dell’ebraico quando la situazione lo richiedeva”. Soprattutto le conversazioni e discussioni con capi religiosi ebrei. “Questi dialoghi di solito avvenivano in ebraico anche tra chi aveva come prima lingua l’aramaico. Per essere credibile come interlocutore, con molta probabilità Gesù usava l’ebraico quando era impegnato in discorsi teologici con i farisei, gli scribi e gli altri capi ebrei”.
Quanto al greco, alcuni esegeti hanno ipotizzato che Gesù potesse conoscerlo, dato che vicino a Nazaret c’erano Sepphoris, capitale della tetrarchia di Erode Antipa, e Tiberiade, centro commerciale di una certa importanza, dove i mercanti greci arrivavano facilmente. Ma Fabris esclude un’ipotesi del genere, così come la possibilità che egli abbia conversato o insegnato in greco.
In che lingua parlarono Pilato e Gesù durante il processo?
Più possibilista è invece Tarocchi, citando la conversazione con il centurione romano di Matteo 8,5-13. “Anche Pilato nel processo - afferma - avrebbe usato il greco, non il latino, come ha invece immaginato Mel Gibson in The Passion. Non è nemmeno ipotizzabile che un governatore romano abbia potuto conoscere ed usare l’aramaico”. Tuttavia il dialogo potrebbe essersi svolto con l’intermediazione di un interprete (anche se nei Vangeli non se ne fa menzione), perché quello a Gesù non era certamente l’unico processo che Pilato fece nella sua carriera e la registrazione di un particolare così scontato può essere stata considerata superflua.
L’importanza del greco per l’evangelizzazione
Il greco però sicuramente entra in scena - e pesantemente - dopo la risurrezione. Soprattutto grazie alle lettere di Paolo, che sono i documenti più antichi del Nuovo Testamento, tutto scritto nell’”inglese” dell’epoca.
A questo punto il cambio di priorità, e dunque di paradigma anche linguistico, appare evidente. Alla logica dell’incarnazione si affianca quella dell’universalità del messaggio evangelico, che essendo destinato a tutti gli uomini, ha bisogno di un veicolo comunicativo il più possibile conosciuto. Il greco, appunto, che diviene così la lingua della “fase due” dell’evangelizzazione, dopo il primo annuncio del Nazareno. A quel punto l’idioma originale parlato da da Gesù diventa secondario, quasi ininfluente.
"Siamo Parti, Medi, Elamìti e abitanti della Mesopotamia, della Giudea, della Cappadòcia, del Ponto e dell’Asia, della Frigia e della Panfilia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirène, stranieri di Roma, Ebrei e prosèliti, Cretesi e Arabi e li udiamo annunziare nelle nostre lingue le grandi opere di Dio", esclameranno i presenti alla predicazione degli Apostoli, il giorno di Pentecoste. La voce di Cristo raggiunge ognuno nel suo linguaggio, secondo la doppia regola dell’incarnazione e dell’universalizzazione del messaggio della salvezza. E non è un caso che la Bibbia sia oggi il libro tradotto nel maggior numero di lingue al mondo.
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Anticipazione
«Mediterraneo messaggero di pace per il mondo».
Il sogno di La Pira
Culla della famiglia di Abramo deve essere esempio di riconciliazione fra i popoli. Partendo dal "sindaco santo" l’introduzione del presidente Cei al libro suile idee che ispirano l’incontro pugliese
Gualtiero Bassetti (Avvenire, martedì 18 febbraio 2020)
Sono vissuto in un paese di orfani e di poveri. Tra i banchi della scuola elementare di Fantino, una minuscola frazione del Comune di Marradi sull’Appennino tosco-romagnolo, molti alunni erano orfani. I padri di quei bambini, infatti, erano stati uccisi il 17 luglio 1944 da una crudele rappresaglia tedesca nella vicina località di Crespino sul Lamone: ben 45 persone erano state fucilate senza alcuna pietà. Tra di loro anche il parroco, don Fortunato Trioschi, che era stato preso dai soldati mentre stava recitando il vespro in chiesa con le donne. «Strappato a viva forza dal suo pietoso ufficio - si legge nel Bollettino mensile di Crespino del marzo 1946 - egli recitava per i moribondi la preghiera della speranza cristiana». «Un colpo di mitra gli mozzò le parole sul labbro» e cadde riverso sulla fossa che aveva precedentemente scavato insieme ai suoi parrocchiani. All’indomani della fine del conflitto eravamo tutti poveri, ma di una povertà dignitosa. Siamo sopravvissuti alla miseria tipica degli anni del dopoguerra perché avevamo capito che il condividere è moltiplicare. Se mia madre faceva il pane, quel pane era anche per i vicini. Se un contadino aveva munto una mucca, quel latte era anche per i bambini. Se qualcuno comprava il sale, che era un alimento preziosissimo, ne dava un po’ anche agli altri. Si condivideva tutto. E condividendo tutto siamo cresciuti insieme, uomini, donne e bambini, in una comunità coesa in cui la Chiesa svolgeva una funzione importantissima. L’anticlericalismo era ben presente anche nell’Italia degli anni Cinquanta ma, nella vita quotidiana, non metteva in discussione la figura del sacerdote. Il prete, soprattutto nelle campagne, era il segno di una presenza religiosa, culturale e sociale. Le persone andavano dal sacerdote per consigli di tutti i tipi, perché era l’unica persona che aveva una cultura e che, al tempo stesso, si prendeva cura concretamente della «povera gente». Quella «povera gente» a cui anche Giorgio La Pira (terziario domenicano e francescano, professore universitario di diritto romano, membro dell’Assemblea costituente, deputato alla Camera per tre legislature e, soprattutto, sindaco di Firenze per molti anni) dedicò gran parte della sua esistenza.
Nell’aprile del 1950, su "Cronache Sociali", La Pira pubblicò un saggio molto importante dal titolo L’attesa della povera gente. Sebbene svolgesse un’analisi che partiva dall’esame del reddito pro capite mondiale, quello scritto non era solo un testo che si inseriva nel dibattito economico, ma era soprattutto la traduzione concreta del messaggio evangelico di giustizia sociale e amore verso gli ultimi.
Quando entrai in seminario nel 1956 a Firenze, La Pira era un personaggio straordinariamente amato dalla popolazione. Non era solo il sindaco, era molto di più. Era una testimonianza di fede autentica riconosciuta da tutti. Il nostro rettore, uomo di grande cultura biblica, lo invitava spesso in semi- nario. Lui ci incantava ad ascoltarlo, si fidava di noi piccoli e ci parlava dei suoi grandi progetti. I fiorentini, sin da vivo, lo consideravano un santo.
Ogni incontro con La Pira, anche fugace, lungo la strada, rappresentava per i cittadini un momento di arricchimento personale. Egli annunciava con gioia il Vangelo in ogni momento e tutto, per lui, era motivo di contemplazione: dal campanile di Giotto ai pescatori sotto il ponte Vespucci. È stato, senza dubbio, un mistico prestato alla politica. Nella sua visione del mondo, carità e politica si fondevano in un legame indivisibile. E al centro della sua azione si collocava il cosiddetto «pilotaggio della speranza».
La sua missione terrena, collocata in un’epoca storica dominata dalle ideologie, non si esauriva nella gestione della cosa pubblica ma era una «missione essenzialmente religiosa» che rispondeva a una «specifica chiamata» divina. Egli è stato un «ambasciatore di Cristo», cioè un uomo di Dio o, meglio, un « nabì (bocca di Dio)», un profeta dei tempi odierni. Il profeta è un chiamato dal Signore e colui che parla per conto del Creatore. È colui che sa mettersi in ascolto della parola di Dio e perciò riesce a leggere in profondità il mondo che gli sta attorno. Il profeta è una «sentinella per la casa d’Israele» ed esprime con passione e generosità, fino a sembrare stolto e ingenuo, questa sua missione divina.
Giorgio La Pira è stato un profeta del dialogo, della speranza e della pace. La fede era il motore della sua azione, che si innestava in un contesto internazionale caratterizzato da un «crinale apocalittico» dominato dallo scontro tra le due superpotenze e dall’incubo nucleare. Alla logica del conflitto, La Pira opponeva la supremazia del dialogo. Un dialogo cercato con tutte le forze nei Paesi dell’Europa dell’Est, in Asia, in America Latina e in Africa.
In questo sforzo incessante il sindaco di Firenze traccia una strada; è il «sentiero di Isaia» che si basava sull’antica profezia messianica: «Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci». Il sentiero di Isaia tracciato da La Pira si proponeva di arrivare al disarmo generale trasformando le «armi distruttive in strumenti edificatori della pace e della civiltà». Secondo la sua visione escatologica, tutta la storia convergeva verso «il porto finale» della pace.
Per raggiungere la pace, La Pira incontra molti capi di Stato. In uno di questi incontri, conia una delle sue espressioni più note: «Abbattere i muri e costruire i ponti». Un’immagine che mutuò da quello che vide al Cairo nel 1967 dopo aver incontrato il presidente egiziano Nasser. In quell’occasione notò «una squadra di operai abbattere i muri che erano stati costruiti davanti alle porte dell’albergo, come strumenti di difesa antiaerea». In quel gesto vide il simbolo di una grande azione politica e culturale. Bisognava abbattere «il muro della diffidenza» tra i popoli e costruire ponti di dialogo tra le genti. Occorreva unire e non dividere.
Dopo la crisi di Suez del 1956, matura il progetto di convocare a Firenze un grande incontro internazionale dedicato al Mediterraneo. Nel maggio del 1958, all’interno di una corrispondenza fittissima col pontefice, invia una lettera a Pio XII in cui presenta il suo progetto di Colloqui mediterranei.
«Vi dico subito, Beatissimo Padre, quale è la ’intuizione’ che da qualche tempo fiorisce sempre più chiaramente nella mia anima. Questa: il Mediterraneo è il lago di Tiberiade del nuovo universo delle nazioni: le nazioni che sono nelle rive di questo lago sono nazioni adoratrici del Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe; del Dio vero e vivo. Queste nazioni, col lago che esse circondano, costituiscono l’asse religioso e civile attorno a cui deve gravitare questo nuovo Cosmo delle nazioni: da Oriente e da Occidente si viene qui: questo è il Giordano misterioso nel quale il re siro (e tutti i ’re’ della terra) devono lavarsi per mondarsi della loro lebbra (4 Re V, 10)».
Secondo La Pira, dunque, il Mediterraneo, culla delle civiltà monoteiste che egli chiamava «la triplice famiglia di Abramo», è chiamato a riprendere il suo posto nella storia in un mondo sempre più minacciato da guerre e distruzione. Una costruzione della pace che passava anche dalla preghiera e dalla contemplazione. Dal 1951 al 1974, divenuto presidente delle Conferenze di San Vincenzo della Toscana, La Pira aveva introdotto nel programma dell’associazione una novità: l’assistenza economica da offrire ai monasteri di clausura in difficoltà, in cambio di preghiere. In questo modo, veniva inviato alle claustrali un foglietto stampato come «lettera circolare» in cui riportava le motivazioni e le iniziative «politiche» per cui chiedeva di pregare. Centinaia di monache risposero a questi appelli. In una di queste lettere alle claustrali, La Pira allega anche un lungo telegramma che, il 26 ottobre 1961, aveva scritto all’ambasciatore sovietico a Roma, Semen Kozirev, pregandolo di trasmettere il suo messaggio a Nikita Krusciov. In quel telegramma, La Pira prega il leader dell’Urss di impegnarsi concretamente verso il disarmo nucleare. Se questo avverrà, scrive, «ve ne sarà grato il Padre celeste che saprà considerare con cuore di padre il vostro atto di buona volontà».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
I TRE ANELLI E L’UNicO "PADRE NOSTRO". NATHAN IL SAGGIO: CHE ILLUSIONE AFFIDARSI ALLA CHIESA ’CATTOLICA’!!!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Incontro Mediterraneo.
A Bari il G20 dei vescovi, per la riconciliazione fra i popoli
Sono in arrivo 58 pastori da 20 nazioni. I primi ad arrivare i due provenienti dalla Siria. Il programma. Mediterraneo, a Bari l’incontro di pace
di Giacomo Gambassi, inviato a Bari *
Il primo soffio di Mediterraneo che Bari ha sentito due giorni fa è stato quello giunto da un Paese ancora segnato dalla guerra: la Siria. Perché da lì sono arrivati lunedì notte i primi due vescovi dei cinquantotto attesi, che porteranno l’intero bacino in Puglia: Youhanna Jihad Battah, arcivescovo di Damasco dei siri, e Nicolas Antiba, dell’arcieparchia di Damasco dei greco-melchiti. Strano scherzo della Provvidenza quello che fin da subito fa irrompere gli echi della guerra fra i pastori del Mediterraneo che per la prima volta si ritrovano insieme per cercare nuove vie di riconciliazione fra i popoli.
È l’incontro “Mediterraneo, frontiera di pace” che si apre oggi mercoledì a Bari e che fa abbracciare venti nazioni affacciate sul grande mare. Ecco perché sembra quasi un “G20” ecclesiale l’evento promosso dalla Cei che vuole chiamare tutti, a cominciare dai cristiani in comunione con Roma, a essere artigiani di pace. E come cornice ha il Castello svevo che nel 2017 ha già ospitato un G7. Da una delle torri scende l’enorme striscione con il logo azzurro del «laboratorio d’impegno», come viene definito, e quelle mani che si uniscono, auspicio di una nuova “civiltà dell’amicizia” per la regione.
Da questo pomeriggio le sale della fortezza diventeranno come aule sinodali per accogliere il confronto fra i vescovi: in assemblea e poi nei “circoli minori”.
Due i grandi temi: la trasmissione della fede, che farà da filo conduttore domani, giovedì; e il rapporto fra Chiese e società, al centro della giornata di venerdì.
Poi sabato verrà elaborato e approvato il testo finale.
«Non è un convegno accademico ma uno spazio di comunione tra vescovi che riflettono e, sotto la guida dello Spirito, provano a discernere i segni dei tempi - spiega il segretario generale della Cei, Stefano Russo -. I pastori che si incontrano hanno a cuore un Mediterraneo concreto con le genti che lo abitano. E il nostro progetto ambizioso ma necessario è di costruire ponti con una storia, una geografia e un’umanità che hanno fondazioni comuni».
«Pace, fede, fraternità, speranza» si legge nei quattro cartelloni appesi ai davanzali del Palazzo della città. Di fronte si sta già allestendo il palco per la Messa che papa Francesco presiederà domenica mattina e che concluderà l’evento Cei.
Almeno 40mila i fedeli previsti, anche se il numero potrebbe crescere in questi giorni.
Fra loro il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, e il premier Giuseppe Conte.
È come un suggello la presenza di papa Francesco che prima della celebrazione si vedrà consegnare il documento finale, sintesi delle giornate di lavoro, e dialogherà con i vescovi dell’area. Ovunque è affisso il suo volto accompagnato dal simbolo del “forum”: sulle vetrine dei bar, alle porte delle case, all’ingresso della Basilica di San Nicola, emblema della città e richiamo alla sua vocazione a essere terra di incontro oltre il mare che la bagna.
Resta di cinquantotto il numero complessivo dei pastori che partecipano. C’è stata una defezione dell’ultimo minuto: Jesús Esteban Catalá Ibáñez, vescovo di Malaga, uno dei delegati della Conferenza episcopale spagnola, assente per un’improvvisa malattia. Invece interverrà - e non era inizialmente nella lista - l’arcivescovo Paul Richard Gallagher, segretario vaticano per i rapporti con gli Stati. È uno dei tre rappresentanti della Santa Sede con il cardinale Leonardo Sandri, prefetto della Congregazione per le Chiese orientali, e il cardinale Michael Czerny, sottosegretario della sezione migranti e rifugiati del Dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale.
Nove le porpore a Bari: oltre alle due di Oltretevere, è già in città il cardinale Vinko Puljic, arcivescovo di Sarajevo, mentre stamani arrivano Cristóbal López Romer, arcivescovo di Rabat in Marocco, Louis Raphaël Sako, patriarca di Babilonia dei caldei, Juan José Omella, arcivescovo di Barcellona, Angelo Bagnasco, presidente del Consiglio delle Conferenze episcopali d’Europa, Jean-Claude Hollerich, presidente della Commissione delle Conferenze episcopali dell’Unione Europea.
E a fare gli onori di casa il cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della Cei, che ha ideato l’appuntamento e che questo pomeriggio alle 16 lo aprirà con una relazione introduttiva. L’arcivescovo di Perugia-Città della Pieve è nel capoluogo pugliese da ieri sera con il “gruppo” della Conferenza episcopale italiana che comprende anche i tre vice-presidenti Franco Giulio Brambilla, Mario Meini e Antonino Raspanti, quest’ultimo coordinatore del Comitato organizzatore che sempre oggi presenterà ai vescovi delegati lo stile e lo svolgimento delle giornate baresi.
* Avvemire, mercoledì 19 febbraio 2020 (ripresa parziale, senza immagini).
LINGUA GRECA E CRISTIANESIMO: LO STRUMENTO ELETTO E L’EU-CARESTIA... *
GIORNATA MONDIALE DELLA LINGUA GRECA
ΣΚΕΥΟΣ ΕΚΛΟΓΗΣ • VAS ELECTIONIS
Il ruolo della lingua greca nella diffusione del pensiero cristiano
Sabato 8 febbraio 2020, ore 10
Sala conferenze - Palazzo Reale, Piazza Duomo 14, Milano
Interventi
Sua Eminenza Gennadios - Arcivescovo d’Italia e Malta
L’educazione e la cultura sono la via per la pace
Stefano Martinelli Tempesta - Università degli Studi, Milano
Fede cristiana e tradizione classica nei codici della Biblioteca Ambrosiana
Alberto Barzanò - Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano
La lingua greca: strumento e veicolo di comunicazione tra primo cristianesimo e Impero romano
Emanuela Fogliadini - Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale, Milano
Eikōn, “icona”: somiglianza, rappresentazione, rivelazione del prototipo
Gilda Tentorio - Università degli Studi, Milano L’anima senza tempo dell’Athos: scrittori e impressioni di viaggio
Marco Roncalli - Saggista e scrittore
Patristica greca, ortodossia orientale ed ecumenismo in san Giovanni XXIII
Massimo Cazzulo - Presidente Società Filellenica Lombarda
Il lessico liturgico della poesia neogreca del Novecento: l’esempio di To ʼΆξιoν ἐστί di Odisseas Elitis
L’inizio dei lavori sarà preceduto dai saluti delle Autorità di
Filippo Del Corno Assessore alla Cultura del Comune di Milano, Nikolaos Sakkaris Console onorario della Repubblica di Grecia a Milano,
Dimitri Fessas Presidente della Federazione delle comunità e delle confraternite greche di Italia, Sofia Zafiropoulou Presidente della Comunità ellenica di Milano
* FONTE: LICEO CLASSICO STATALE "TITO LIVIO" - MILANO (27 gennaio 2020)
Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), E IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO ("DEUS CARITAS EST").Una storia di lunga durata... MURATORI, BENEDETTO XVI, E "UNO SPROPOSITO MAIUSCOLO"
EU-ANGELO, EU-ROPA .... E "SCRITTURA ED EU-CARESTIA"?! LA "CHARTA CHARITATIS" (1115), LA "MAGNA CHARTA" (1215) E LA FALSA "CARTA" DELLA "DEUS CARITAS EST" (2006).
LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM".
Federico La Sala
LA TERRA, IL "PADRE NOSTRO", E IL SINODO DEI VESCOVI SUL MEDITERRANEO, A PORTE CHIUSE...*
Mediterraneo, frontiera di pace. Le cose da sapere sull’incontro di Bari
Dal 19 al 23 febbraio l’evento per la pace. Cinque giornate di dialogo. Cinquantotto fra cardinali, patriarchi e vescovi che arriveranno in Puglia. Venti i Paesi rappresentati
di Giacomo Gambassi, inviato a Bari (Avvenire, mercoledì 12 febbraio 2020)
Cinque giornate di dialogo. Cinquantotto fra cardinali, patriarchi e vescovi che arriveranno in Puglia. Venti i Paesi rappresentati. Tre i continenti che idealmente si abbracceranno: Europa, Asia e Africa. Ecco in numeri l’Incontro “Mediterraneo, frontiera di pace”, il grande forum ecclesiale voluto dalla Cei che per la prima volta riunisce i vescovi degli Stati affacciati sul grande mare e che sarà concluso da papa Francesco. -Le cifre non dicono tutto, ma raccontano la scommessa di un’iniziativa che si terrà dal 19 al 23 febbraio e che avrà come cornice Bari, la città “ponte” fra Oriente e Occidente come testimonia «la venerazione senza confini del suo patrono san Nicola» o la scelta del Pontefice di tenere nel luglio 2018 all’ombra del Castello svevo l’incontro per la pace in Medio Oriente con i capi delle comunità cristiane della regione, spiega l’arcivescovo di Bari-Bitonto, Francesco Carucci.
Adesso lo sguardo si allarga all’intero Mediterraneo chiamando a un supplemento d’anima le Chiese. È l’urgenza della pace l’orizzonte di un evento che invita a una nuova responsabilità il mondo cattolico. Non un convegno o un seminario accademico ma un «incontro di fraternità dallo stile sinodale che vuole aiutare le comunità ecclesiali a camminare sempre più insieme», spiega il presidente della Cei, il cardinale Gualtiero Bassetti, durante la conferenza stampa di presentazione a Roma moderata dal direttore dell’Ufficio nazionale per le comunicazioni sociali, Vincenzo Corrado.
Nel 2018 era stato proprio Bassetti a lanciare l’idea dell’evento «rileggendo i Colloqui mediterranei promossi da Giorgio La Pira circa sessant’anni fa», racconta il cardinale le cui radici affondano nella Firenze del sindaco “santo”.
«Se La Pira aveva coinvolto l’ambito politico - dice Bassetti - io mi sono chiesto: perché anche i vescovi non possono mobilitarsi di fronte ai drammi delle proprie genti? Del resto la Chiesa non ha altro scopo che servire l’uomo. E ciò implica anche affrontare i problemi che le nostre comunità vivono». Tutto l’episcopato italiano ha sposato il percorso: ecco perché i pastori della Penisola saranno a Bari nelle ultime due giornate.
Due i temi di cui discuteranno i vescovi del bacino: l’annuncio del Vangelo, a cominciare dai giovani; e il dialogo fra Chiese e società. «Di fatto come pastori ci siamo posti una domanda: che cosa Dio vuole oggi dal Mediterraneo? E l’incontro sarà un’occasione di discernimento», chiarisce il vescovo di Acireale, Antonino Raspanti, vice-presidente della Cei e coordinatore del comitato organizzatore.
A fare da sfondo al confronto le guerre che ancora insanguinano l’area (dal conflitto israelo-palestinese a quelli in Siria, Iraq o Libia); le nuove tensioni che scuotono la regione; le ferite ancora aperte delle guerre che dai Balcani al Libano hanno segnato gli ultimi decenni; la povertà; le disuguaglianze fra la sponda nord e quella sud; le politiche di sfruttamento da parte dei grandi del pianeta; la complessa convivenza fra le fedi; le persecuzioni delle minoranze religiose, soprattutto cristiane; il dramma delle migrazioni.
«La questione della pace - dice Raspanti - non è disgiunta dagli squilibri sociali che qui si registrano. E anche lo stesso tema delle migrazioni sarà visto secondo prospettive diverse. Penso al grido che alcuni vescovi delegati hanno già lanciato chiedendo di aiutare i loro Paesi a non lasciare fuggire i cristiani».
Lo stile dell’incontro è mutuato dal Sinodo dei vescovi. Non solo nei due anni di preparazione sono stati coinvolti gli episcopati del Mediterraneo che hanno contribuito a elaborare una bozza di lavoro, ma soprattutto le giornate di Bari saranno nel segno dell’ascolto e del dialogo fra i vescovi.
«Ore e ore di discussione», annuncia Raspanti. Dal confronto scaturirà il documento che sarà approvato dai presuli e che domenica mattina verrà consegnato al Pontefice durante il suo incontro con i vescovi nella Basilica di San Nicola.
«Il Papa che condivide a pieno il nostro incontro - dice Bassetti - ci ha chiesto proposte concrete che vadano oltre le lamentele».
Il dialogo fra il Pontefice e i pastori della regione rappresenterà l’appuntamento centrale di Bari, che verrà aperto dal saluto di Bassetti e dalle testimonianze del cardinale Vinko Puljic, arcivescovo di Sarajevo e presidente della Conferenza episcopale di Bosnia ed Erzegovina, e dell’arcivescovo Pierbattista Pizzaballa, amministratore apostolico del patriarcato latino di Gerusalemme, e che si chiuderà con l’intervento dell’arcivescovo di Algeri, il gesuita Paul Desfarges, presidente della Conferenza episcopale regionale del Nord Africa. Momento concluso dell’evento sarà la Messa presieduta da Francesco alle 10.45 nel cuore di Bari.
L’incontro dei vescovi si porterà dietro anche un segno concreto di attenzione a tutto il Mediterraneo.
«Si tratterà di borse di studio per giovani delle diverse sponde con lo scopo di formare una nuova classe dirigente», annuncia Bassetti. Il progetto avrà come guida la Caritas italiana e vedrà il coinvolgimento di Rondine-Cittadella della pace, il laboratorio della riconciliazione alle porte di Arezzo che fa studiare i giovani provenienti dai Paesi in guerra fianco a fianco con il loro "nemico".
I lavori “sinodali” dei vescovi saranno a porte chiuse ma ogni giorno è previsto un briefing con la stampa. Guai comunque a pensare che le giornate siano blindate.
Sono previste infatti Messe e momenti di preghiera aperti a tutti; venerdì sera ogni pastore delegato sarà ospite di una parrocchia; poi sabato pomeriggio, a partire dalle 15.30, al teatro Petruzzelli si terrà l’incontro di testimonianze con voci e volti da tutto il Mediterraneo e gli interventi dei vescovi e di esperti di geopolitica.
Intanto si immagina già il “dopo Bari”. «Non ritengo che tutto si possa concludere in Puglia - avverte il presidente della
Cei -. È possibile che si creino tavoli di lavoro tematici che permetteranno ai vescovi di incontrarsi di nuovo. Del resto la sfida è far riscoprire la vocazione propria del nostro grande mare: una vocazione alla pace e all’incontro».
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LA CHIESA DI COSTANTINO, L’AMORE ("CHARITAS") E LA NASCITA DELLA DEMOCRAZIA DEI MODERNI. LA "CHARTA CHARITATIS" (1115), LA "MAGNA CHARTA" (1215) E LA FALSA "CARTA" DELLA "DEUS CARITAS EST" (2006).
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
RINASCIMENTO, OGGI (2020): PER "LA PACE DELLA FEDE" (1453) E IL CONCICLIO DI NICEA(2025). Note... *
Verso Bari 2020.
«Bari, ponte di pace per il Mediterraneo. Sui passi di san Nicola»
Parla l’arcivescovo di Bari-Bitonto, Cacucci, padrone di casa all’Incontro dei vescovi del Mediterraneo sulla pace. Tutto pronto per la visita del Papa il 23 febbraio. «La nostra è terra di dialogo»
di Giacomo Gambassi (Avvenire, sabato 8 febbraio 2020)
C’è una frase che l’arcivescovo di Bari-Bitonto, Francesco Cacucci, ama ripetere per descrivere la vocazione della sua terra. È quella che gli aveva affidato papa Wojtyla durante una visita ad limina dei vescovi della regione. «Giovanni Paolo II si rivolge a me dicendo: “Dovete guardare al Mediterraneo e all’Africa”. Ecco, in un’espressione dal sapore profetico il Pontefice santo ha condensato ciò a cui siamo chiamati. Bari è tenuta a essere ponte fra le sponde del grande mare: in particolare fra Oriente e Occidente, come lo è stato e lo è ancora il nostro patrono san Nicola». Una pausa. «In quest’ottica va letto l’incontro per la pace in Medio Oriente voluto il 7 luglio 2018 da papa Francesco con i capi delle Chiese e delle comunità cristiane della regione - afferma l’arcivescovo -. E adesso l’Incontro “Mediterraneo, frontiera di pace” promosso dalla Cei».
Mancano dieci giorni all’inizio di quello che il cardinale Gualtiero Bassetti ha definito “una sorta di Sinodo sul Mediterraneo” che dal 19 al 23 febbraio porterà nel capoluogo pugliese cinquantotto vescovi in rappresentanza di venti Paesi affacciati sul grande mare e di tre continenti (Europa, Asia e Africa). «Non ho proposto io Bari per questo evento - confida Cacucci -. È stato il cardinale Bassetti con il Consiglio permanente della Cei a indicare la nostra città. E come Chiesa locale abbiamo accolto con gioia la richiesta, ben sapendo che sono parte del nostro dna l’accoglienza, il dialogo, la cultura dell’incontro». L’arcidiocesi è in prima linea nell’organizzazione dell’iniziativa internazionale.
Il Castello svevo accoglierà le tre giornate “sinodali” di confronto (a porte chiuse) fra i vescovi. La Basilica di San Nicola e la Cattedrale faranno da cornice alle Messe quotidiane. Le parrocchie ospiteranno venerdì sera i singoli pastori. Il teatro Petruzzelli sarà lo sfondo dell’evento pubblico di sabato pomeriggio. Poi domenica arriverà papa Francesco che sarà a Bari per la seconda volta in due anni e che nella Basilica di San Nicola dialogherà con i vescovi, prima di presiedere la Messa in corso Vittorio Emanuele.
Eccellenza, l’Incontro giunge mentre il Mediterraneo torna a infiammarsi.
È vero, siamo di fronte a un disordine mondiale in cui gruppi etnici e formazioni militari scatenano conflitti sempre nuovi. Tutto ciò ha ripercussioni intorno al grande mare. Per questo l’iniziativa Cei si colloca in un momento dolorosamente provvidenziale per ciò che si sta verificando nel Mediterraneo. Se il bacino può essere considerato un «grande lago di Tiberiade», come lo definiva Giorgio La Pira, resta ancora oggi un luogo di morte. Pertanto dai vescovi che prenderanno parte alle giornate baresi non potrà che levarsi un’invocazione alla pace. Come del resto aveva fatto da qui, dal sagrato della Basilica di San Nicola, papa Francesco il 7 luglio 2018 quando aveva spiegato che la pace «va coltivata anche nei terreni aridi delle contrapposizioni perché oggi, malgrado tutto, non c’è alternativa possibile alla pace». Un’indicazione che troverà il suo sviluppo nell’imminente evento ecclesiale.
Bari si conferma sede privilegiata di dialogo.
Certo, a partire da san Nicola, uno dei santi più venerati nel mondo che collega Oriente e Occidente. Prima dell’incontro del 2018, il Papa aveva deciso che una reliquia del santo fosse traslata a Mosca e a San Pietroburgo. Un avvenimento straordinario, come ha sottolineato il patriarca Kirill, dal grande impatto ecumenico. Poi l’appuntamento per la pace nel Medio Oriente con il Pontefice. E adesso l’Incontro dei vescovi del Mediterraneo. In questo caso i protagonisti saranno i pastori cattolici che si ascolteranno a vicenda e poi consegneranno le loro osservazioni al Papa alla presenza dei vescovi italiani, invitati alle ultime due giornate.
Quale contributo alla pace dalle Chiese del bacino?
È proprio della nostra fede l’impegno per la pace. Di fronte agli odierni conflitti che costituiscono una «terza guerra mondiale a pezzi» secondo quanto detto dal Papa, come cristiani siamo chiamati ad annunciare al mondo che ogni uomo e ogni donna fa parte dell’unica famiglia umana. È questo il fondamento della fraternità. Il che significa prendere atto che esista un destino comune fra i popoli. Una visione rifluita nel Concilio come testimonia la Gaudium et spes la quale ci ricorda che la pace «non è mai qualcosa di stabilmente raggiunto ma un edificio da costruirsi continuamente».
Comunque già Giovanni XXIII, nell’enciclica Pacem in terris, evidenziava che l’urgenza di avere artigiani di pace. Ecco, nell’Incontro sul Mediterraneo entrerà tutto questo, consapevoli che i vescovi non giocano un ruolo politico ma intendono farsi apostoli di riconciliazione. Da Bari, quindi, non dobbiamo attendersi risultati politici. Va aggiunto che il cammino verso la pace richiede anche un cambio di mentalità. Ad esempio, la globalizzazione non va vista come pretesto per fomentare le paure ma come occasione per essere fratelli nella diversità.
L’Occidente e le grandi potenze agiscono ancora nel Mediterraneo per interesse particolare?
Negli ultimi due secoli è stato il Mediterraneo “coloniale” al centro delle preoccupazioni mondiali. Paradossalmente la creazione della Comunità europea ha spostato l’asse distante da questo mare. E ciò ha avuto l’effetto di allontanare le sponde, contribuendo ad alimentare il demone della paura. Di fatto l’Occidente non ha favorito il protagonismo del Medio Oriente o del Nord Africa. Così la riflessione dei vescovi intende aiutare anche l’Europa a ritrovare le sue radici che sono di per sé mediterranee.
A Bari papa Francesco aveva lanciato l’allarme sul rischio della scomparsa della presenza cristiana in alcuni angoli dell’area.
Tutti constatiamo che le persecuzioni verso i cristiani si sono intensificate. Non dimentichiamo che, anche solo guardando agli ultimi decenni, sono moltissimi i cristiani che hanno dato la vita per promuovere nel nome del Vangelo la convivenza pacifica fra i popoli in contesti segnati dalle guerre e dagli odi. Vorrei citare per tutti don Andrea Santoro ucciso in Turchia nel 2006. Ma siamo davvero consci che questa presenza abbia un ruolo profetico? O, come ammonisce il Papa, non c’è una congiura del silenzio?
Anche il tema dei migranti entrerà nell’agenda dei vescovi?
I processi di mobilità hanno accresciuto l’osmosi fra i popoli. Però da alcuni decenni il fenomeno migratorio ha subìto un’accelerazione a causa delle violenze e delle guerre ma anche della povertà generata da gravi ingiustizie e prevaricazioni. Tali processi hanno un inevitabile impatto sul dialogo fra le religioni e fra le confessioni cristiane ma anche sulla nostra identità di credenti. Se è vero che le migrazioni sono la conseguenza di un’assenza di pace, allora la questione non può non interrogare i vescovi. E anche tutti noi che siamo invitati a un’autentica testimonianza evangelica in grado di superare ogni sorta di egoismo.
Cacucci, dal 1999 arcivescovo di Bari-Bitonto
Ha 76 anni Francesco Cacucci, arcivescovo di Bari-Bitonto e delegato pontificio per la Basilica di San Nicola a Bari. Nato nel capoluogo pugliese, è sacerdote dal 1966. È laureato in teologia alla Pontificia Università Gregoriana e in scienze politiche all’Università di Bari. Nel 1987 viene nominato ausiliare di Bari-Bitonto e ordinato vescovo. Nel 1993 il Papa lo trasferisce alla sede arcivescovile di Otranto fino al 1999 quando torna come pastore nella sua Chiesa d’origine.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
SULL’INCONTRO DI RATZINGER - BENEDETTO XVI E BUSH. LA CRISI DEL CATTOLICESIMO ROMANO E DELLA DEMOCRAZIA AMERICANA NON SI RISOLVE... RILANCIANDO UNA POLITICA OCCIDENTALE DA SACRO ROMANO IMPERO.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
Federico La Sala
GUARIRE LA NOSTRA TERRA. FILANTROPIA... E AMORE di "DIO" ("AGAPE", "CHARITAS") *
La teologia corrente del Mediterraneo
Dall’esperienza di san Paolo alle riflessioni in musica di Cohen e Dalla: un viaggio per riscoprire l’essenza di un luogo di incontro e di mediazione
di Giuseppe Lorizio (Avvenire, martedì 22 ottobre 2019)
Perseguo qui il tentativo di mostrare come il Mediterraneo, questo (non nuovo, ma antico e per questo sempre attuale) “luogo teologico”, possa e debba innestarsi nel nostro teologare. Muovo dal Nuovo Testamento e in particolare dall’esperienza di Paolo e dei suoi compagni nell’approdo a Malta. Essi qui sperimentano innanzitutto una «rara umanità». «Una volta in salvo, venimmo a sapere che l’isola si chiamava Malta. Gli indigeni ci trattarono con rara umanità; ci accolsero tutti attorno a un gran fuoco, che avevano acceso perché era sopraggiunta la pioggia ed era freddo» (At 28,1-2).
Il testo greco la dice lunga e parla di «filantropia», rara e quindi eccezionale, senza la quale forse Paolo non avrebbe potuto raggiungere Roma. Sappiamo bene quanto sia “merce rara” l’umanità, che, in quanto filantropia apparterrebbe ai barbari, ma al tempo stesso dovrebbe essere inclusa nella forma agapica propria del cristianesimo, che deve esprimersi come «amore sconfinato » (R. Penna) e incondizionato, ossia senza e oltre le frontiere, o che comunque pensa la frontiera come luogo di incontro e non di scontro.
A proposito dell’agàpe, un’annotazione esegetica interessante riguarda la novità semantica che registriamo nei testi neotestamentari, dove il sostantivo ricorre solo diciassette volte (diciannove nella Settanta), mentre per ben centoquarantaquattro (centosessantatré nella Settanta) volte rinveniamo il verbo agapào. E se il verbo esprime - come afferma san Tommaso - una determinazione temporale, allora abbiamo a che fare non con qualcosa di atemporale (ad esempio la mediterraneità), ma con un sostantivo che (attraverso il verbo) deve penetrare nel tempo, nel nostro tempo, e sollecitare non solo la nostra mente, ma anche le nostre passioni. E a tal proposito possiamo leggere metaforicamente l’esperienza maltese/mediterranea di Paolo e dei suoi compagni, davvero carica di “umanità”.
Se trasferiamo quest’esperienza umana all’esperienza religiosa e credente, il calore di questo fuoco nella pietà popolare (ma anche individuale) degli uomini e delle donne mediterranee si esprime nella forma della “devozione” (il nocciolo duro che ha consentito al “ritorno del sacro” di archiviare la secolarizzazione). In questa prospettiva, mi piace leggere un’indicazione, suscitatami dalla lettura del bellissimo, prezioso e piccolo libro di Fabio Fiori, L’odore del mare. Piccole camminate lungo le rive mediterranee, (Ediciclo editore).
Karl Barth invitava infatti a leggere la letteratura profana e i giornali per comprendere la Scrittura del Nuovo Testamento: «Nel Mediterraneo - scrive Fiori - non c’è spiaggia che non sia stata teatro di approdi o naufragi, non c’è cala dove non sia stata calata ancora di pietra o di ferro. Lungo la riva il viandante ad ogni passo può incontrare il mito». La religiosità mediterranea assume in primo luogo una forma mitologica, piuttosto che logica.
Del resto, come più volte affermato da papa Francesco, quella del “popolo” è una «categoria mitica»: «La parola popolo non è una categoria logica, è una categoria mitica», ha detto di ritorno dal Messico. In seguito, intervistato dal suo confratello gesuita Antonio Spadaro, ha voluto precisare: più che “mistica”, ha detto, «nel senso che tutto ciò che fa il popolo sia buono», è meglio dire «mitica»: «Ci vuole un mito per capire il popolo». Attingendo dal già citato Fabio Fiori, un primo spunto riguarda l’ibridazione, non semplicemente declinata secondo la categoria del meticciato: «La sponda mediterranea è il risultato di ibridazioni tra natura e cultura, più di qualsiasi altro luogo ».
A livello teologico, più che di ibridazione, possiamo considerare il Mediterraneo come luogo di “mediazione”. Del resto la nostra identità cristiana risiede nella mediazione di Cristo mediatore e si riferisce alle mediazioni partecipate come quella di Maria (mediatrice). In secondo luogo, la necessità di costruire una koinè, ovviamente non solo linguistica, onde non cedere alla tentazione dell’anglismo: «Una koinè da costruirsi ogni giorno, innanzitutto con l’esperienza, camminando e navigando, leggendo e ascoltando, annusando e assaggiando, osservando e chiacchierando», come dovevano certamente chiacchierare, magari esprimendosi con i gesti piuttosto che col greco che i barbari non comprendevano o con l’assistenza di qualche mediatore, intorno al fuoco, i personaggi del testo lucano sopra evocato. In terzo luogo l’identità o appartenenza, tenendo anche conto delle lucide osservazioni di O. Roy, che ci mette in guardia dall’identificare le ricorrenti esibizioni di “identità cristiana” con la fede.
Tornando a Fiori: «L’appartenenza mediterranea non ha niente a che fare con il passaporto, il luogo di nascita, la nazione. L’appartenenza mediterranea si realizza con la pratica, sporcando il corpo di sale e riempendo i polmoni di salmastro». Con l’appello a realizzare la mediterraneità nel quotidiano, per non cadere nel rischio della retorica. «Noi con Albert Camus “vogliamo ricongiungere la cultura alla vita. Il Mediterraneo, che ci circonda di sorrisi, di sole e di mare, ce lo insegna” ». -Richiamerei, infine, l’invito di Edgar Morin a maternizzare e sacralizzare quella che definisce «l’essenza profana del Mediterraneo».
Una teologia mediterranea esprimerà innanzitutto la dimensione storico-escatologica della Rivelazione cristologica. Essa si può rinvenire, con una sorta di pop-theology, nella strofa di una canzone tradotta e interpretata da Fabrizio De André, di Leonard Cohen, intitolata Suzanne, che recita: «E Gesù fu marinaio / finché camminò sull’acqua / e restò per molto tempo / a guardare solitario / dalla sua torre di legno / e poi quando fu sicuro / che soltanto agli annegati / fosse dato di vederlo / disse: Siate marinai finché il mare vi libererà. / E lui stesso fu spezzato / ma più umano abbandonato / nella nostra mente lui non naufragò». Raggiungiamo la dimensione cosmica della Rivelazione evocando il grido etico circa la custodia del creato che dal Mediterraneo (o se si vuole dal mare) ci viene rivolto. Quando non lo impediscano interpretazioni negazioniste e del tutto fuorvianti, il grido ci raggiunge e provoca, insieme alla nostra indignazione, la domanda in noi dei contadini di Fontamara: «che fare?», purché essa non venga metabolizzata e trasformata in triste rassegnazione.
A tal proposito concludo evocando i versi di Lucio Dalla, nel famoso brano Come è profondo il mare, che non posso non pensare ispirato dai suoi soggiorni nelle isole Tremiti: «È chiaro che il pensiero dà fastidio, anche se chi pensa è muto come un pesce, anzi è un pesce e come pesce è difficile da bloccare perché lo protegge il mare, come è profondo il mare. Certo chi comanda non è disposto a fare distinzioni poetiche, il pensiero è come l’oceano, non lo puoi bloccare, non lo puoi recintare. Così stanno bruciando il mare, così stanno uccidendo il mare, così stanno umiliando il mare, così stanno piegando il mare».
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
RIPENSARE L’EUROPA!!! CHE COSA SIGNIFICA ESSERE "EU-ROPEUO". Per la rinascita dell’EUROPA, e dell’ITALIA. La buona-esortazione del BRASILE.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
"Pace senza confini”. Sul Mediterraneo chiamati a scegliere fra carità e odio *
Verso Bari 2020.
«La Spagna abbraccia l’Africa. Con una Chiesa senza confini»
di Giacomo Gambassi, inviato in Spagna (Avvenire, mercoledì 18 settembre 2019)
Parla il cardinale Blázquez Pérez, presidente dei vescovi iberici che parteciperà all’evento Cei sul Mediterraneo. «La nostra è una comunità che vive sulle due sponde. No ai cuori e alle porte chiuse»
È una piccola via nel cuore di Valladolid calle San Juan de Dios. A poche decine di metri dalla Cattedrale di Nuestra Señora de la Asunción, grandiosa testimonianza di fede rimasta incompiuta dopo il trasloco della capitale del regno a Madrid, la strada dedicata al fondatore dei Fatebenefratelli accoglie in un largo il palazzo arcivescovile. Il grande portone d’ingresso si apre sulla facciata color rosa, incastonata fra due torri.
Il cardinale Ricardo Blázquez Pérez rivolge lo sguardo verso una delle finestre del suo studio. «La Chiesa spagnola vive sulle due sponde del Mediterraneo», spiega il porporato di 77 anni che nel 2015 ha ricevuto la berretta da papa Francesco, l’anno dopo essere stato rieletto per la seconda volta presidente della Conferenza episcopale spagnola. Sarà lui a guidare la delegazione nazionale all’Incontro di riflessione e spiritualità “Mediterraneo, frontiera di pace” voluto dalla Cei che si terrà a Bari dal 19 al 23 febbraio 2020 e che sarà concluso da papa Bergoglio.
Con voce pacata, l’arcivescovo di Valladolid si dice convinto che la comunità ecclesiale «è chiamata ad essere testimone di riconciliazione fra i popoli» che orbitano attorno al grande mare «tenendo conto che viviamo nel medesimo spazio vitale e che non possiamo separaci men che meno ora, in un mondo globalizzato. Ricordare quanto ci consegna la storia può aiutare: qui è nato e si è diffuso il cristianesimo. E la convivenza nella diversità è precondizione e punto di partenza».
Dalla città nella comunità autonoma di Castiglia e León il cardinale racconta la sua Chiesa, quella spagnola, che è ancora di «popolo» anche se si assiste a «un raffreddamento religioso», che deve essere «missionaria» ripartendo dal laicato, che «soffre» per norme o proposte legislative che minano il matrimonio o aprono all’eutanasia, che sa dialogare con l’islam, che è tenuta a «praticare l’ospitalità in modo generoso».
Eminenza, una parte del bacino mediterraneo è segnata da conflitti e miseria. Come la Chiesa spagnola guarda a quanto accade a poca distanza?
Siamo una comunità ecclesiale che va al di là del mare. Dico fin da subito che quanti vivono nella sponda Sud sono nostri fratelli a tutti gli effetti. Basti citare ciò che accade nelle diocesi di Cadice, Ceuta, Malaga con Melilla che hanno cristiani sulle due rive.
Poi la Chiesa di Tangeri, città portuale del Marocco di fronte allo stretto di Gibilterra, tradizionalmente guidata da un vescovo francescano spagnolo, beneficia di aiuti sociali dalla Spagna.
In Italia si discute molto di migranti che giungono sulle nostre coste. Come il suo Paese si confronta con il fenomeno?
Anche da noi arrivano costantemente dall’Africa barche con persone in cerca di un nuovo orizzonte di vita. Molti fuggono dalla fame, dalle persecuzioni, dalla povertà. Il senso di umanità e di fraternità è insostituibile per affrontare la situazione e cercare di trovarvi soluzioni. Il Vangelo è fonte inestinguibile di azioni e comportamenti pacifici e rispettosi. Le condizioni presenti ci pongono la sfida di comprendere e di agire nella convinzione che le migrazioni agitur rea nostra. Viviamo un frangente nuovo che dobbiamo analizzare in modo profondo, tenendo conto dei vari fattori in gioco.
Quale il ruolo dell’Europa di fronte alle crisi nel Mediterraneo?
L’Africa confina con la Spagna, che al contempo è parte dell’Unione europea. L’Europa nel suo insieme deve assumersi la propria responsabilità in tale ambito. L’ospitalità, che è parte dell’etica umana e della morale cristiana, deve essere praticata all’interno di una pluralità religiosa delle nostre società nei confronti degli immigrati e, in particolare, dei rifugiati. D’altra parte, è chiaro che senza una regolazione complessiva cadremo nel caos. Che cosa si può fare nei Paesi d’origine? Ci sono nei tragitti uomini e organizzazioni che abusano dei poveri e degli indifesi? Certamente il cuore chiuso non deve portarci a chiudere le porte. A causa di pressioni sociali e politiche, l’Ue non affronta questa realtà né offre risposte.
La Chiesa spagnola è nel cuore della gente. Eppure un quarto degli abitanti si dichiara non credente o ateo.
Ritengo che la fede cristiana e la Chiesa siano ancora profondamente radicate. Al contempo si assiste a una minore esplicitazione dell’appartenenza ecclesiale, a una poca attenzione all’insegnamento cristiano e a una diminuzione dei praticanti. Che cosa fa la Chiesa? In primo luogo, analizza ciò che sta accadendo. Come cristiani vogliamo essere vicini alle persone con i loro dubbi, intensificare la trasmissione della fede nella vita personale e comunitaria. Comunque negli ultimi tempi notiamo un clima meno aggressivo nei confronti della Chiesa; a ciò contribuisce l’atteggiamento e il messaggio di papa Francesco.
Il Piano pastorale nazionale ha come tema “Chiesa in missione a servizio del nostro popolo”. E state preparando il Congresso nazionale del laicato.
Gli attuali percorsi di iniziazione alla fede non sono più sufficienti. La catena di formazione cristiana che comprendeva famiglia, parrocchia e scuola andava bene in un ambiente sociale uniforme, impregnato di pratica religiosa. Oggi la catena si è spezzata. È dunque necessario un itinerario che unisca dimensione personale e comunitaria. La formazione, l’azione e l’esperienza personale sono inseparabili. La Chiesa “in uscita” è l’altra faccia, necessaria, di una della Chiesa in comunione. Perché comunione e missione hanno una relazione reciproca. La fede deve essere apostolica. E a sua volta la missione consolida l’unità della Chiesa. Inoltre, dopo anni in cui era scomparsa di fatto l’Acción Católica General e quindi si assisteva a rimpianti per la sua assenza, stiamo creando un nuovo stile d’impegno. Ecco, perciò, il Congresso dei laici “popolo di Dio in uscita” che si svolgerà nel febbraio 2020.
Anche la Spagna fa i conti con un’onda libertaria. C’è la legge sulle nozze gay. Si discute di eutanasia.
L’istituto matrimoniale qui, come in altri Paesi europei, soffre di una de-istituzionalizzazione. Lo dimostrano le convivenze, le coppie di fatto con o senza forme di riconoscimento giuridico, le numerose separazioni, i divorzi facili, i cosiddetti matrimoni fra persone dello stesso sesso. Tutto ciò provoca instabilità sociale e un’educazione complicata per i figli. Siamo minacciati anche da una legge sull’eutanasia che eufemisticamente viene chiamata “morte degna”, perché manca il coraggio di chiamare le cose con il loro nome. Per la Chiesa ciò è fonte di angoscia. Così ci proponiamo di raccontare, con molte iniziative, la bellezza del matrimonio cristiano, la perseveranza nell’amore, il valore di educare i figli in un ambiente propizio. Uno stimolo importante giunge dall’Esortazione apostolica Amoris laetitia. Tuttavia la legislazione nazionale segue criteri ideologici.
Il Paese è tornato a fare i conti con il terrorismo. Stavolta di matrice islamista.
Per decenni abbiamo sofferto il terrorismo dell’Eta. Sebbene sia stato un sollievo la scelta dell’organizzazione di rinunciare alla violenza, restano numerose ferite da cicatrizzare. Sono necessari molti sforzi, il riconoscimento delle responsabilità e tempo per la riconciliazione.
Attualmente l’islam è la seconda religione spagnola per numero di fedeli. Come si coltiva il dialogo interreligioso?
Il documento firmato ad Abu Dhabi da papa Francesco e dal grande imam di al-Azhar indica il cammino. L’islam è radicato fra noi da anni ed è trattato con rispetto. Su questo ha influito probabilmente la convivenza secolare fra spagnoli e marocchini in Nord Africa. Tutt’altra cosa sono gli attentati terroristici che gli stessi musulmani condannano. Serve rafforzare la convivenza democratica e la formazione che è fondamentale in ogni società civile.
Sul tema, in rete, cfr.:
Madrid. Bassetti: sul Mediterraneo chiamati a scegliere fra carità e odio
Il presidente della Cei alla tavola rotonda “Mediterraneo: vivere insieme è possibile” inserita nel forum internazionale di Sant’Egidio “Pace senza confini” (Giacomo Gambassi, inviato a Madrid, "Avvenire", lunedì 16 settembre 2019)
C’ERA UNA VOLTA IN AMERICA. Il cinema (d’autore) di Sergio Leone .... *
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Il cinema (d’autore) di Sergio Leone
A 30 anni dalla morte di Sergio Leone Mimesis, editore sempre attento a spiegare le meccaniche del cinema, pubblica un libricino scritto da Antonio Rainone, docente de L’Orientale di Napoli, sul cinema del grande cineasta. Con pochi elementi e parole chiare l’autore definisce il profilo di un regista che ha ’semplicemente’ creato cinema
di Davide Parpinel (LINKinMOVIES, 26 Giugno 2019)
La domanda a cui sembra rispondere Antonio Rainone, autore del volumetto Sergio Leone. Dal cinema popolare al cinema d’autore, edito da Mimesis Cinema, per la collana Minima (8€, 85 pagine, 2019) è: "Nel 2019 il cinema di Sergio Leone può essere ancora oggetto di studio?". La risposta fornita è: "Certo. Anzi seppur il regista romano abbia girato solo sette lungometraggi, e su questi film è stato detto di tutto e di più, ancor’oggi è possibile rintracciare un filo d’analisi comune". Questo fil rouge è appunto svelato nel sottotitolo, ossia capire come il cinema di Leone, la sua poetica, la sua idea di cinema, il suo mestiere si è evoluto in una così breve carriera. In sette capitoli, più prefazione, conclusione, indice dei nomi e riferimenti bibliografici (strumenti necessari per elevare il libro da saggio critico a saggio scientifico) Rainone articola la sua dissertazione la quale si svolge in poche tappe e utilizzando semplici strumenti argomentativi.
L’autore nella prefazione particolareggia il quesito iniziale, domandandosi: "Perché, oggi, un’apologia di Sergio Leone?". La risposta è affidata alla voce dello stesso Leone che Rainone sembra restituire al lettore, discutendo dei suoi film. Utilizzando, inoltre, le voci della critica (contrarie o a supporto), i pareri degli addetti al settore o dei registi che hanno collaborato con Leone, confrontando il suo cinema con quello dei suoi contemporanei come Federico Fellini o Sam Peckinpah, riferendosi al contesto culturale dell’epoca, con particolare attenzione a quello italiano, oltre che a quello politico e sociale e poi menzionando e trovando spunti di relazione in altri film, Sergio Leone. Dal cinema popolare al cinema d’autore riflette sul cinema, sulle tematiche e sullo stile di un regista che film dopo film si è imposto autorialmente.
Prima data: 1960. L’analisi di Rainone comincia dal 1960, quando dopo una lunga gavetta a Cinecittà iniziata vicino al padre Vincenzo, regista del muto, e collaborando sui set di De Sica e Comencini, Sergio Leone dirige un peplum movie, cavalcando così quel filone storico-mitologico che piaceva più ai produttori e al pubblico che al regista. Il Colosso di Rodi fu il suo primo film e non riscosse molti riconoscimenti. È in questo contesto, come sottolineato dall’autore, che Leone subito dopo dirige Per un pugno di dollari. In un momento cinematografico in cui in Italia i film sui centurioni incontravamo il gusto anche dei giovanissimi spettatori, il regista romano diresse un western con uno stile innovativo in cui contava la mano e l’occhio del regista sopra l’interpretazione. Rainone illustra una geografia delle motivazioni che portano questo primo film di Leone ad avere quel quid in più rispetto al cinema in circolazione, considerando che al contrario dei western americani non aveva una storia d’amore e si appoggiava ai tratti del genere noir.
L’analisi del libro quindi prosegue, passando a Per qualche dollaro in più, film considerato poco riuscito, più spinto da interessi commerciali, che piacque solo a Carlo Verdone, come ricorda l’autore del libro, per arrivare a Il buono, il brutto e il cattivo che rappresenta, sempre nelle parole di Rainone, la prima vera svolta autoriale del regista. 182 minuti di western uscito a Natale 1966, curato nei minimi dettagli. Per questo la lente di ingrandimento dell’autore è precisa nel considerare tutti gli elementi linguistici che rendono grande questa pellicola: la fotografia di Tonino Delli Colli, il montaggio rapido e incisivo, l’organizzazione narrativa ricca di eventi e sottostorie. Ad avvalorare questa tesi nel libro sono riportati i pareri della critica, oltre alla voce di uno dei figli artistici di Sergio Leone, Bernando Bertolucci.
Con C’era una volta il West Leone diviene così un autore. Rainone afferma che il 21 dicembre 1968, qualche giorno dopo l’arrivo nei cinema italiani di 2001: Odissea nello spazio, uscì "il più straordinario, spettacolare, visionario ed epico western che si sia mai visto". Nonostante non sia in sintonia con la società che richiedeva al cinema messaggi e analisi di temi, e nonostante l’accoglienza fredda della critica (il libro riporta le parole di Tullio Kezich che riconobbe a Leone una grande immaginazione e gusto per l’effetto sonoro, ma troppa lentezza nella narrazione) e lo scarso successo commerciale con C’era una volta il West, Leone conferisce una dimensione mitica ed epica agli stereotipi del cinema western. L’esempio di tutto ciò: la morte fuori campo di Cheyenne.
Il capitolo 5 prende in esame la relazione tra Giù la testa e il messaggio politico, sempre nel prosieguo dell’analisi cronologica del cinema leoniano; mentre il capitolo successivo racconta la produzione di Leone di Il mio nome è Nessuno di Tonino Valerii, parentesi farsesca che testimonia la sua duttilità autoriale. Il lettore quindi giunge a C’era una volta in America. Qui il regista intreccia il noir, tanto caro, e il gangster movie nella storia tragica di un uomo, Noodles (Robert De Niro) inadatto al mondo che lo circonda e figlio di un’epoca passata. Tecnicamente con questo film Leone, nella tesi del libro, si avvicina a Orson Welles e così descrivendo filologicamente alcune scene, Rainone avvalora la sua idea e conclude il libro.
La conclusione è l’eredità. La vera chiusura con il cinema di Leone, afferma l’autore del libro, è la sua eredità. In quest’ultimo capitolo Rainone problematizza e sviscera in che modo i temi e la maniera di fare cinema del regista abbiano lasciato un modus operandi che è stato d’esempio per molti e che travalica i generi cinematografici. Al netto delle opinioni dell’autore i suoi più vicini eredi appaiono Quentin Tarantino come anche David Cronenbergh e Michael Cimino.
All’ultima pagina anche il lettore meno appassionato di cinema, apprezza Leone. Il motivo sta nella scelta del focus di analisi di Rainone, esaustivo, comprensivo e totale, e nella sua semplice capacità di argomentare. L’autore rimane sempre molto oggettivo, portando testi e opinioni a favore della sua tesi e anche quando queste confutano, alimentano comunque l’idea dell’evoluzione autoriale del cinema leoniano. Questo avviene perché Sergio Leone non è stato solo un regista: Leone ha fatto il cinema, come si legge nel libro.
Federico La Sala
IL PRIMOGENITO TRA MOLTI FRATELLI E LA COSTITUZIONE DOGMATICA DELL’IMPERO SU CUI NON TRAMONTA MAI IL SOLE...*
1. La gioia della verità (Veritatis gaudium) esprime il desiderio struggente che rende inquieto il cuore di ogni uomo fin quando non incontra, non abita e non condivide con tutti la Luce di Dio[1]. La verità, infatti, non è un’idea astratta, ma è Gesù, il Verbo di Dio in cui è la Vita che è la Luce degli uomini (cfr. Gv 1,4), il Figlio di Dio che è insieme il Figlio dell’uomo. Egli soltanto, «rivelando il mistero del Padre e del suo amore, rivela l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione»[2].
Nell’incontro con Lui, il Vivente (cfr Ap 1,18) e il Primogenito tra molti fratelli (cfr Rm 8,29), il cuore dell’uomo sperimenta già sin d’ora, nel chiaroscuro della storia, la luce e la festa senza più tramonto dell’unione con Dio e dell’unità coi fratelli e le sorelle nella casa comune del creato di cui godrà senza fine nella piena comunione con Dio. Nella preghiera di Gesù al Padre: «perché tutti siano uno, come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi» (Gv 17,21) è racchiuso il segreto della gioia che Gesù ci vuole comunicare in pienezza (cfr 15,11) da parte del Padre col dono dello Spirito Santo: Spirito di verità e di amore, di libertà, di giustizia e di unità. [:::] "(Costituzione Apostolica «Veritatis gaudium» di Papa Francesco circa le Università e le Facoltà ecclesiastiche, 29.01.2018. Proemio)
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
L’EREDE: IL PESO DEI PADRI (ATEI E DEVOTI). UN’EREDITA’ ANCORA PENSATA ALL’OMBRA DELL’"UOMO SUPREMO" E DEL "MAGGIORASCATO".
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Mediterraneo contesto del pensiero di pace.
Il Papa a Napoli, per la teologia che serve
di Stefania Falasca (Avvenire, giovedì 20 giugno 2019)
«La teologia dopo “Veritatis gaudium” nel contesto del Mediterraneo» è il titolo del convegno internazionale promosso dalla Pontificia Facoltà teologica dell’Italia meridionale-Sezione San Luigi di Napoli. L’incontro che si è aperto giovedì verrà concluso venerdì mattina alle 12 da un intervento di papa Francesco. Al suo arrivo ad attenderlo, il Papa troverà, tra gli altri, il cardinale Crescenzio Sepe, arcivescovo di Napoli e Gran cancelliere della Facoltà; il decano della Facoltà padre Pino Di Luccio e gli altri responsabili, il vescovo di Nola, Francesco Marino in rappresentanza dei presuli della Campania, e il gesuita Joaquin Barrero Diaz, assistente regionale per l’Europa del Sud. A Napoli sarà presente anche il presidente della Cei, cardinale Gualtiero Bassetti.
A Napoli, per la teologia che serve: quella del contesto. Che è quella che parte "dal basso" e non si stacca dalla vita concreta con tutte le sue contraddizioni, le sue tensioni e indaga i segni dei tempi per cogliere l’attualità della Parola di Dio, appunto, nel contesto in cui viviamo. Per capire e studiare i problemi che investono l’umanità e insieme proporre risoluzioni. E in questo caso, a Napoli, il contesto è il Mediterraneo, culla di dialogo e scambi e battaglie e oggi soprattutto teatro di conflitti. È per questa teologia che venerdì, nella partenopea collina di Posillipo, papa Francesco busserà alla porta della Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale - che ha dato corpo a un convegno di due giorni sulla nuova frontiera del Mare Nostrum a partire dalla Veritatis gaudium - per una riflessione conclusiva.
Il tema della sua relazione, "La teologia dopo Veritatis gaudium nel contesto del Mediterraneo" sarà così una messa a punto di una prospettiva e una spinta d’eccezione a un percorso indicato.
Il Papa ha voluto scegliere il luogo di questo contesto proprio per rilanciare e dare forma e contenuto pratici alla riforma teologica che quasi un anno e mezzo fa ha promulgato con la pubblicazione della costituzione apostolica destinata alle università e facoltà teologiche ecclesiastiche.
Nel proemio della Veritats gaudium, queste, infatti, non sono solo chiamate a offrire percorsi di formazione qualificata dei presbiteri, delle persone di vita consacrata e dei laici impegnati, ma «costituiscono una sorta di provvidenziale laboratorio culturale in cui la Chiesa fa esercizio dell’interpretazione performativa della realtà che scaturisce dall’evento di Gesù Cristo e che si nutre dei doni della sapienza e della scienza di cui lo Spirito Santo arricchisce in varie forme tutto il Popolo di Dio: dal sensus fidei fidelium al magistero dei pastori, dal carisma dei profeti a quello dei dottori e dei teologi».
Un «provvidenziale laboratorio culturale», insomma, nella visione del Papa, che porta a concepire anche le facoltà teologiche come le definiva Ivan Illich, academic inn, nel senso di una convergenza di studium e convivium. Un luogo privilegiato di servizio dove, l’intreccio fruttuoso delle conversazioni, può diventare l’autentico tessuto vitale e scientifico se anche il centro visibile e spaziale dell’università viene aperto nella consapevolezza che il modo migliore per dialogare non è solo quello di parlare e discutere, «ma quello di fare qualcosa insieme».
«È giunto ora il momento - ha scritto ancora Francesco nel proemio - in cui questo ricco patrimonio di approfondimenti e di indirizzi, verificato e arricchito per così dire "sul campo" dal perseverante impegno di mediazione culturale e sociale del Vangelo messo in atto dal popolo di Dio nei diversi ambiti continentali e in dialogo con le diverse culture, confluisca nell’imprimere agli studi ecclesiastici quel rinnovamento sapiente e coraggioso che è richiesto dalla trasformazione missionaria di una Chiesa "in uscita"».
Per il Papa il rinnovamento della teologia non può che passare dall’ascolto e dall’osservazione attenta di tutte quelle esperienze che il popolo di Dio già sta facendo e in cui sta avvenendo una sintesi tra le diverse culture delle persone e proprio nell’ascolto di queste esperienze, in cui il Vangelo tocca davvero il vissuto umano, si troveranno i criteri, le prospettive, gli impulsi che ci aiuteranno a rinnovare la teologia.
«Far precedere la partecipazione al convegno con una visita tra i terremotati di Camerino forse indica proprio questo», sintetizza il decano gesuita Pino Di Luccio, docente di teologia biblica. Quella della sua Facoltà, è una teologia "in contesto" nella direzione della riforma delineata da papa Bergoglio nella Veritatis gaudium che si distingue per l’attitudine al dialogo con le culture, per l’orientamento inter e trans-disciplinare, per le competenze nelle varie discipline del sapere, e per l’apertura e la conoscenza delle altre religioni.
La sezione San Luigi della Facoltà dal 2016 promuove iniziative all’insegna della convivenza, dell’interculturalità e del dialogo con i musulmani e gli ebrei, anch’essi tra i relatori del convegno cominciato giovedì.
A tema c’è anche il documento di Abu Dhabi. L’insieme di Paesi, attraversati dal Mediterraneo e uniti dal dialogo di due uomini che si incontrano, è simbolo e inizio di un nuovo periodo interreligioso per una via di fratellanza nel Mediterraneo. -Del resto nel documento che febbraio il grande imam di al-Azhar Ahmad al-Tayyeb ha firmato assieme a papa Francesco si chiede che questo diventi oggetto di ricerca e di riflessione in tutte le scuole, nelle università e negli istituti di educazione e di formazione, «al fine di contribuire a creare nuove generazioni che portino il bene e la pace e difendano ovunque il diritto degli oppressi e degli ultimi». E certamente non mancherà, in questo contesto, di essere menzionato dal Papa.
In Puglia c’è una città blu come quelle di India e Marocco: un’architetta svela il filo che le lega
C’è una linea che collega Casamassima con le città di Jodhpur (India), Chefchaouen (Marocco) e Safed (Israele): "Tutte ospitarono comunità di ebrei in fuga"
di NATALE CASSANO (la Repubblica - Bari, 13 giugno 2019)
C’è una linea che collega le città di Casamassima con le città di Jodhpur (India), Chefchaouen (Marocco) e Safed (Israele). Ed è di colore blu, come il colore con cui sono dipinti muri e porte dei quattro borghi turistici distanti migliaia di chilometri uno dall’altro. Quattro casi unici in tutto il mondo, che ne hanno persino modificato la nomenclatura: se il comune nel Barese viene spesso definito ’Paese azzurro’, per le altre tre città nelle guide si trova il termine ’Blue city’ (città blu).
A decifrare il collegamento legato al colore blu è stata l’architetta Marilina Pagliara, che ha figurato una suggestiva ipotesi legata alla religione e che, di fatto, offre un’alternativa alla leggenda della Madonna di Costantinopoli. Già perché finora si è sempre pensato che il colore azzurro di Casamassima fosse legato al ’Maphorion’ (velo) dell’allora protettrice del borgo, come ringraziamento per aver preservato gli abitati dalla peste che aveva colpito Bari e l’entroterra a metà del 1600. Fu l’allora duca Odoardo Vaaz a ordinare di dipingere a calce viva l’attuale centro storico, aggiungendo il colore azzurro del manto della Madonna.
Anche l’ipotesi della Pagliara si lega a motivazioni religiose, ma affonda le radici nella tradizione ebraica. E parte da Chefchaouen per spiegarlo: "La città santa musulmana divenne rifugio di ebrei in fuga dalla Spagna durante l’Inquisizione, occupando le aree musulmane. La città fu dipinta con la polvere blu di tekhelel, un colorante naturale a base di frutti di mare, perché nella Bibbia viene comandato al popolo di Israele di utilizzare questo colore, tradizione portata avanti attraverso i secoli, e oggi gli abitanti, pur non ebrei, ’rinfrescano la vernice’ sulle loro case, con il pigmento blu venduto in vasi".
Anche Jodhpur e Safed ospitarono all’epoca piccole comunità di ebrei in fuga, che usarono appunto la vernice blu per colorare le loro case. Safed in Israele è anche la città natale della Cabala lurianica, uno dei principali bastioni per lo studio della Torah ed è una delle quattro città sante dell’ebraismo legate a simboli biblici, insieme a Hebron (terra), Tiberiade (acqua) e Gerusalemme (fuoco). Safed era associata all’aria, al cielo e quindi all’azzurro, divenendo anch’essa nel XV secolo rifugio per ebrei espulsi nel periodo dell’Inquisizione dai ’Cattolicissimi Reali Isabella di Castiglia e Ferdinando di Aragona’, detti ebrei sefarditi dall’ebraico Sefarad (Spagna), che mantennero tradizioni e usanze del periodo iberico.
E anche Casamassima, ipotizza l’architetto, potrebbe quindi aver ospitato una piccola comunità ebrea, identificatasi attraverso il colore blu delle loro abitazioni.
Andando a scavare nella storia della città effettivamente un collegamento c’è, ed è legato alla figura di un ebreo sefardita: Miguel Vaaz de Andrade, considerato da molti storici uno dei maggiori mercanti di grano europei, rifugiatosi a Napoli nel 1580.
La compravendita di grano acquistato dalla Puglia lo rese ricchissimo e "nel 1609 comprò per 76.000 ducati il feudo di Casamassima devoluto al Regio Fisco dopo la scomparsa senza eredi della Baronessa D’Acquaviva e le terre di Rutigliano e Sannicandro ricche di grano - aggiunge Pagliara - Nel 1612 acquistò Mola ottenendo il titolo di conte, dove si reca qualche volta risiedendo nel suo palazzo da cui può seguire la sua flotta impegnata in scambi commerciali nell’Adriatico, diventando sempre più potente e tirannico nei confronti della popolazione". Potrebbe essere stato quindi Vaaz a insediare un comunità ebraica nel borgo barese; ipotesi che trova sostegno anche nella simbologia impressa sui muri del borgo antico. Un esempio? La casa seicentesca del rione Scesciola, dove è presente un’apertura rotonda con una stella a sei punte, che ricorda appunto la Stella di David, simbolo molto diffuso nella Cabala.
L’Americaaaa!
di Romano A. Fiocchi (Nazione Indiana, 23 maggio 2019)
Pochi sanno cosa sia Ellis Island. A scuola non te lo insegnano. A scuola ti parlano soltanto di quella migrazione in massa di milioni di europei verso un mondo dove c’era libertà, democrazia, lavoro. E allora l’immagine più comune scolpita nella memoria collettiva è il grido che Baricco mette in bocca ai passeggeri del Virginian che per primi avvistano la Statua della libertà: l’Americaaaa!
Ma l’America era altro. In primo luogo era Ellis Island. Tra il 1978 e il 1980 Georges Perec e il regista Robert Bober cercarono di capire cosa fosse e soprattutto lo documentarono in un lungometraggio che fu trasmesso nel novembre 1980 dalla rete francese con il titolo: Récits d’Ellis Island. Histoires d’errance et d’espoir (alcuni spezzoni sono reperibili su YouTube, mentre il video completo è acquistabile in versione DVD sul sito dell’Ina, l’ente nazionale francese incaricato di archiviare le documentazioni audiovisive). Quello che fecero, Bober con le immagini e Perec con il testo della voce fuori campo, fu raccontare come tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del secolo successivo, in alcuni edifici appositamente costruiti su un isolotto alla foce dell’Hudson, a un passo da Manhattan, oltre sedici milioni di emigranti vennero trasformati in oltre sedici milioni di Americani.
Il testo di Perec, pubblicato in Francia, uscì nell’edizione italiana solo nel 1996 grazie alla traduzione di Maria Sebregondi, in un volumetto verde della collana Gli Aquiloni di Rosellina Archinto. Poi, come tante pubblicazioni di Perec, sparì dal mercato. (La sparizione è un motivo caro a Perec, ricordiamoci che fece sparire la lettera “e” da un intero romanzo...)
Nel 2005 Ellis Island riapparve parzialmente in rete: una decina di pagine tradotte dal nostro Andrea Inglese, uscite appunto su Nazione Indiana, qui. Mentre il 10 maggio 2017 Laura Barile rievocava il fascino di questo testo su Alfabeta 2, l’Archinto S.a.s. lo ripubblicava e ricolmava il vuoto editoriale. È stato così che l’ho trovato, rovistando sulle scaffalature della Libreria del Mondo Offeso.
Ellis Island è un prezioso libretto di settantadue pagine composto di due parti: L’isola delle lacrime, una sorta di introduzione storica, e Descrizione di un cammino, la parte più corposa e poetica. Perché Perec, fedele alla sua scrittura, riesce a fare della poesia attraverso la semplice elencazione di oggetti, luoghi, persone: “All’inizio, si può solo provare a nominare le cose, una per una, semplicemente, enumerarle, censirle, nel modo più banale possibile, nel modo più preciso possibile, cercando di non dimenticare niente”. Tanto meno i numeri, quelli più impressionanti: cinque milioni di emigranti provenienti dall’Italia, quattro milioni dall’Irlanda, un milione dalla Svezia, sei milioni dalla Germania, tre milioni dall’Austria e dall’Ungheria, tre milioni e cinquecentomila dalla Russia e dall’Ucrania, cinque milioni dalla Gran Bretagna, e così via. Tutta gente disperata che per i più svariati motivi scappava dal vecchio continente.
Poi elenca le compagnie di navigazione (compresa la nostra Italian Line), i porti di partenza (i nostri: Palermo, Napoli, Genova, Trieste), i nomi dei piroscafi (i nostri: Umbria, Lusitania, San Giovanni, Giuseppe Verdi, Duca degli Abruzzi), la raffica incalzante delle ventinove domande che bersagliavano l’emigrante: Come si chiama? Da dove viene? Perché viene negli Stati Uniti? Quanti anni ha? Quanti soldi ha? Dove li tiene? Me li faccia vedere. Chi ha pagato la sua traversata? eccetera. Sì, perché i soldi erano una garanzia: chi viaggiava in prima o in seconda classe veniva ispezionato a bordo da un medico e da un ufficiale di stato civile, e sbarcava senza problemi.
Gli altri sostavano a Ellis Island sino a passare il controllo degli ufficiali sanitari che segnalavano i casi sospetti tracciando una lettera con il gesso sulla schiena: C la tubercolosi, E gli occhi, F il viso, H il cuore, K l’ernia, L la claudicazione, SC il cuoio capelluto, TC il tracoma, X il ritardo mentale. Il sospettato avrebbe prolungato la sua permanenza a Ellis Island per accertamenti più minuziosi, talvolta sino ad essere respinto.
Tutti insomma passarono da Ellis Island. Che funzionava, dal punto di vista organizzativo, con la proverbiale efficienza degli States: “Una fabbrica all’americana, rapida ed efficace come un salumificio di Chicago: a capo di una catena, si mette un irlandese, un ebreo ucraino, un pugliese, all’altro capo - previa ispezione degli occhi, ispezione delle tasche, vaccinazione, disinfezione - ne esce un americano”. Col tempo le regole di questa fabbrica diventarono sempre più severe. Alla fine i respingimenti furono duecentocinquantamila, tremila i suicidi. I fortunati sentirono invece pronunciare l’agognata e fatidica frase: Welcome to America.
Perec non commenta, lascia che commenti e paragoni siano elaborati nella mente e nel cuore del lettore, quello di allora e quello di oggi. Perché il testo, inutile dirlo, è di una valenza universale e attuale: “L’emigrazione verso gli Stati Uniti era cominciata molto prima che incominciasse Ellis Island e non è terminata con la sua chiusura. I messicani, i portoricani, i coreani, i vietnamiti, i cambogiani hanno dato il cambio”. Ci sono poi le vicende dei nomi storpiati, suoni tipici di mezza Europa trascritti all’americana trasformando Skyzertski in Sanders, Goldenburg in Goldberg, Kowalski in Smith (entrambi significano fabbro). Compresa la storiella del vecchio ebreo russo che disse shon vergessen (in yiddish: l’ho scordato), e lasciò Ellis Island come John Ferguson.
Tutto questo per poi scoprire che l’America non era poi l’America che era stata loro raccontata. Certo, la terra apparteneva a tutti, peccato che i primi arrivati si erano ampiamente serviti e ai nuovi emigranti non restava se non ammassarsi in tuguri senza finestre e lavorare quindici ore al giorno. “I tacchini - scrive Perec - non cadevano già arrostiti direttamente nei piatti e le strade di New York non erano lastricate d’oro. Anzi, il più delle volte, non erano lastricate affatto. E allora capivano che era proprio per fargliele lastricare che li avevano fatti venire. E per scavare gallerie e canali, costruire strade, ponti, grandi dighe, ferrovie, dissodare foreste, sfruttare miniere e cave, fabbricare automobili e sigari, carabine e vestiti, scarpe, chewing-gum, corned-beef e saponette, e costruire grattacieli ancora più alti di quelli che avevano scoperto all’arrivo”.
Pianeta Terra. Mediterranea-mente .... *
Reportage.
Cadice, la città sulla soglia fra due mondi lontani
Nella città spagnola, dove l’Africa si presenta con le sue speranze e contraddizioni, l’Europa mostra antiche chiusure e segni di un dialogo necessario, specie in un tempo che di nuovi nazionalismi
di Maurizio Fantoni Minnella (Avvenire, venerdì 1 febbraio 2019)
Dalla sommità delle fortificazioni di Tarifa, città bianca andalusa, si vede l’orizzonte chiuso della terra africana: da una parte c’è Tangeri dove ancora oggi resiste il mito di Paul Bowles, ossia del Marocco visto da uno scrittore americano inquieto e vagabondo, dall’altra Ceuta dove dietro sbarre alte come palazzi ci si difende a colpi di manganello, dalle folle di migranti che premono sui confini per entrare in Europa, tanto sognata quanto in realtà "lontana" nel suo essere costantemente sospesa tra ostilità e accoglienza.
Tarifa, che suona come un nome arabo di donna, è il punto d’incontro tra due mari, il Mediterraneo e l’Atlantico, ma al tempo stesso il confine tra due mondi, due civiltà, l’araba e la cristiana. Parlare di confini, di frontiere oggi può perfino apparire di moda, sia che se ne esalti l’assoluta necessità, sia che se ne lamenti l’oggettivo pericolo.
Tuttavia, da queste parti la memoria collettiva della Reconquista, della definitiva cristianizzazione delle terre andaluse e quindi dell’intera Spagna (1492) è ancora non solo assai viva, ma col nuovo vento nazional-populista che si agita in una terra sino a ora a guida socialista, portando con sé non solo i fantasmi più tetri del franchismo, ma anche quelli della croce e della spada, ora sembra rivolta alle migrazioni del ventunesimo secolo.
Questo spiega, anche se solo in parte, la scarsa presenza d’immigrazione africana come di edifici di culto religioso islamico nelle antiche terre arabo andaluse di Cadice, Jerez de La Frontera, Arcos de La Frontera ma anche in grandi centri come, ad esempio, Siviglia.
Si pensi, dunque, al paradosso secondo il quale, mentre si andava scoprendo il Mondo Nuovo (con tutto ciò che tale evento ha comportato in fatto di sterminio di intere popolazioni), si cacciava in fondo al Mediterraneo una cultura testimone di una civiltà raffinata basata sul principio di tolleranza tra i culti religiosi.
La tendenza dilagante ormai in tutta Europa a rinserrarsi entro i propri confini territoriali, rimette prepotentemente in gioco il concetto di nazione, resuscitando quel sentimento di intolleranza verso la diversità che si pensava superato, ma che in realtà covava sotto le ceneri dell’illuminismo, del pensiero marxista e anche di un’ideologia liberale che oggi cede piuttosto il passo a un neoliberismo sfrenato che sempre di più marcia verso un vicolo cieco che da solo potrebbe portare in un tempo non troppo lontano a una razionalizzazione dell’intolleranza e quindi, a una forma di regime totalitario o di democrazia illiberale come oggi vengono chiamati quei regimi parlamentari (un esempio su tutti, quello ungherese di Viktor Orban) in cui tutto il potere è concentrato nel partito del presidente.
Ci immergiamo nella luce cristallina di Cadice, circondata interamente dal mare. Dalle sue rive partì Cristoforo Colombo col figlio Fernando per il suo quarto e ultimo viaggio nel Nuovo Mondo. Una brezza atlantica, soave e leggera penetra fin dentro il monotono tessuto urbano composto da un’implacabile griglia ortogonale di stampo militaresco che nel XVIII° secolo, quando Cadice prese il posto di Siviglia nel ruolo di controllo dei commerci con l’America Latina, sostituì grandiosamente la vecchia e minuscola città medievale, diventando un modello urbanistico per le città del Nuovo Mondo, prima fra tutte Santo Domingo, poi Antigua e molte altre.
Eppure nell’osservarla dall’alto di un terrazza d’albergo, come per un inganno ottico, sembra di sorvolare i tetti di Tunisi o di Algeri senza che sotto di essi vi sia alcun labirinto. Solo strade diritte e traverse, pianificate a tavolino da una mente militare. Nel vagabondare lungo le interminabili vie rinserrate da file di palazzi riconoscibili dalla graziosa, costante presenza di verande aggettanti dipinte di bianco, ogni tanto ci si ritrova in una piazza la cui bellezza e serenità invitano alla sosta. Sarà la presenza di una natura lussureggiante fatta da ficus giganti e da arbusti sempreverdi e dalla compostezza dell’architettura che su di essa si affaccia, a indurre a sedersi e a riflettere come un secolo fa capitava al grande compositore Manuel De Falla che era nato nel 1876 in una di queste piazze.
Se lui udiva i suoni della propria anima, noi al contrario, ripensiamo alle ragioni che oggi allontanano i popoli da quei principi di conoscenza dell’altro e di tolleranza che in passato hanno permesso alla civiltà mediterranea di crescere, di intrecciare storie, pensieri, suoni e architetture (i soli elementi del paesaggio Tarifa, che suona come un nome arabo di donna, è il punto d’incontro tra due mari, l’Atlantico e il Mediterraneo, ma al tempo stesso il confine tra due civiltà, quella araba e quella cristiana urbano che consentono una lettura complessa degli intrecci e delle contaminazioni culturali avvenute attraverso i secoli), da costa a costa, da nazione a nazione.
Se assistiamo oggi al tentativo di separare tra loro le diverse culture, nel nome dei particolarismi e dell’egoismo individualista, lo dobbiamo a una duplice paura, quella dell’atomizzazione della società, per usare una definizione cara al sociologo di origine polacca Zygmunt Bauman, teorico della cosiddetta "società liquida", senza più classi né difese sociali, sempre più in balia del mercato, e quella di una possibile intrusione-invasione dell’altro, di colui che per definizione ci è estraneo (dietro il quale si vuole pensare si nascondano strategie occulte come ad esempio, l’islamizzazione dell’Occidente) e che assume sempre di più connotati di razza (i neri) e di religione (l’islam) e a cui, infine si vuole rispondere con un armamentario tanto più logoro quanto imbarazzante che può solamente riflettere un deficit di civiltà laddove l’uomo, il cittadino, ancora una volta, nel credersi protagonista, sicuro delle proprie scelte, in realtà si scopre pedina, strumento di un gioco politico ben più grande di lui cui difficilmente vorrà e potrà sottrarsi.
Oggi il diritto di appartenenza a una comunità nazionale si è trasformato in diritto di esclusione dell’altro, la cui esistenza e destino appartengono di fatto a un altrove sconosciuto, oggetto di una sistematica rimozione. Nel perimetrare, infine, l’area urbana in tutta la sua estensione con un occhio rivolto all’Oceano e con l’altro alla città raccolta nel proprio guscio reticolare, finalmente si giunge in prossimità dell’enorme cattedrale, col suo susseguirsi di absidi e di cupole, abbacinante per la povertà delle superfici interne. Ma la sua facciata borrominiana tutta curve e spigoli, non è rivolta verso il mare, verso l’orizzonte ma verso la città.
Non lontano da quel luogo di fede, guardando più a fondo, su di uno slargo insignificante si scopre una lapide accompagnata da una piccola barca ormeggiata in un’aiuola coperta da ciottoli bianchi dove è scritto: «En memoria de quienes buscando la vida, encontraron la muerte». E poi: «No ha sido el mar, hermanos. Hermanas, non ha sido el mar». (In memoria di coloro che, inseguendo la vita, trovarono la morte. Non è stato il mare, fratelli. Sorelle, non è stato il mare).
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Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
Cinema e Filosofia. "Il pensiero ha le ali e niente può impedirgli di volare" (Averroè).
Yussef Chahine (Yūsuf Shāhīn). Il grande regista di "Il Destino" ("Al Massir") è morto. Per l’Egitto e non solo una "voce della libertà".
RIPENSARE L’EUROPA!!! CHE COSA SIGNIFICA ESSERE "EU-ROPEUO". Per la rinascita dell’EUROPA, e dell’ITALIA. La buona-esortazione del BRASILE.
LA LEZIONE DI NELSON MANDELA: GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
Federico La Sala
Intervista
L’analisi dello storico francese Maurice Aymard: i porti chiusi e il sovranismo antieuropeo non risolvono alcun problema
Mediterraneo senza imperi
«Questo mare non è mai stato così instabile. Anche Usa e Russia sono in affanno»
dal nostro inviato Carlo Vulpio (Corriere della Sera, 05.08.2018)
PARIGI «Il fatto radicalmente nuovo è che il Mediterraneo oggi è diventato un moltiplicatore mondiale di instabilità, e questo sarà un grande problema per le nuove generazioni». Maurice Aymard, 82 anni, storico di fama mondiale, è direttore di ricerca all’École des Hautes Études en Sciences Sociales e amministratore della Maison des Sciences de l’Homme dell’università La Sorbona. Allievo, amico e collega di Fernand Braudel, ne ha raccolto l’eredità alla guida della Scuola superiore.
Professor Aymard, il mare Mediterraneo, che dalla scoperta dell’America in poi sembrava sempre sul punto di diventare marginale, è invece tornato centrale. Ma, sostiene lei, questa volta come mai era successo prima. Perché?
«Perché oggi il Mediterraneo è molto frammentato e non è controllato da nessuno. Io stesso pensavo che con la decolonizzazione tutti i problemi sarebbero stati risolti, compresa la questione israelo-palestinese. Invece è accaduto di tutto e nella maniera più imprevedibile. Dopo la caduta del Muro di Berlino è stato un crescendo: l’assassinio di Yitzhak Rabin (il 4 novembre 1995, a Tel Aviv), la dissoluzione del Sud Est europeo e l’esplosione della Federazione jugoslava, con l’emergere di nazionalismi che nessuno avrebbe mai immaginato, e il Medio Oriente di nuovo in fiamme dopo l’intervento di Bush jr in Iraq. Ecco, quest’ultima era forse l’unica cosa che si poteva prevedere, e cioè che le guerre coloniali si perdono sempre. I sovietici hanno perso la loro guerra coloniale in Afghanistan, gli americani in Iraq. Per fortuna la Francia ne è rimasta fuori e l’Italia avrebbe fatto meglio a imitarla. Adesso, con la Siria e l’intervento della Turchia il quadro è completamente a pezzi: nessuno controlla la situazione, nemmeno Putin che ha sostenuto Bashar al-Assad».
Che cos’è diventato il Mediterraneo negli ultimi vent’anni?
«Un sistema di equilibrio politico-militare molto precario e allo stesso tempo una frontiera assoluta per i flussi migratori. I migranti non vengono più dalle periferie immediate, cioè dall’Algeria o dal Marocco, ma dall’Africa subsahariana. Non vengono più dal Medio Oriente, ma dall’Asia. Ciò vuol dire che c’è una dilatazione del Mediterraneo oltre le fasce costiere, che arriva fino al ventre dell’Africa e all’Estremo Oriente. Un fenomeno di dimensioni intercontinentali, mondiale».
Che cosa significa che il Mediterraneo è diventato un problema mondiale, che riassume in sé le grandi questioni del mondo irrisolte?
«Di più. È esso stesso un fattore dinamico di questa crescente frammentazione, ne è un moltiplicatore. È questo il fatto radicalmente nuovo. E sarà un grande problema per le nuove generazioni, che non troverà una risposta adeguata nel breve periodo. Per ora, credo che l’unica cosa che si possa fare a breve scadenza sia cercare di limitare i guasti e, a più lunga scadenza, di costruire qualcosa di più complesso e incisivo».
Finita la guerra fredda, i decisori forti, i russi e gli americani, sono rimasti. Come mai allora questa instabilità?
«Oggi la situazione è un po’ diversa. Non credo ci sia alcuna possibilità di una qualche “pax imperiale”. Per esempio, Putin ha potuto approfittare della situazione di debolezza americana dopo l’Afghanistan e il fallimento in Iraq, ma nonostante questo non controlla la situazione. E chi ne esce più forte è Assad, non lui».
Il Mediterraneo è da tremila anni scenario di migrazioni. Anche Erodoto parlava della sua migrazione, ma come quella di una persona che cercava un posto in cui vivere meglio, non per sfuggire a una guerra. Perché dunque dovremmo essere allarmati dalle migrazioni più di quanto non avvenisse allora? E perché dobbiamo credere di non poter affrontare il problema come merita?
«Lo dobbiamo affrontare. Il problema non è nuovo per il Mediterraneo, certamente, ma ci sono diversi tipi di immigrazione. La prima è stata quella che ha prodotto la nostra umanità, che, non dimentichiamolo, viene dall’Africa. In epoca antica, la popolazione di origine asiatica, dal Sud Est asiatico, non arriva nel Mediterraneo. Bisogna giungere fino al primo millennio dopo Cristo per una immigrazione di origine germanica che si spinge verso il Sud, ma le due grandi correnti migratorie sono quella africana - degli schiavi africani - e quella transoceanica degli europei, e siamo fra i 12-13 milioni di persone durante tre secoli e mezzo. Ma, attenzione, per quanto riguarda i neri parliamo sempre di schiavi. Persone che non avevano alcuna intenzione di spostarsi e che sono morte in gran numero nel tragitto o per lo sfruttamento a cui erano sottoposte, anche se poi i sopravvissuti hanno acquisito la libertà. Adesso, anche se si parla di “nuova schiavitù”, perché parliamo di gente trattata male, in realtà siamo di fronte a persone che vengono a lavorare come “liberi” salariati, cercano di inserirsi nella nuova società e di fare arrivare qui le loro famiglie: questa è una situazione del tutto nuova, basti considerare le cifre enormi del potenziale demografico subsahariano».
Come si può affrontare questa situazione inedita, chiudendo le frontiere e i porti?
«Ma no. Chiudere le frontiere significa solo favorire il contrabbando. È come il proibizionismo per l’alcol. Più lo vieti, più l’attività rende. Senza considerare il problema reale delle pensioni da pagare ai cittadini europei di oggi, che senza il lavoro degli immigrati, la cui incidenza è sempre più importante, corre un grande rischio. Bisogna pensare a una stabilizzazione, affrontando questo argomento con razionalità e intelligenza. Diceva Braudel: “Ho bisogno di pensare la totalità”. Questa è la sua vera lezione. Mentre oggi di fronte a questo quadro inedito ci si limita ad adattare analisi logore e logiche vecchie. Se c’è stata una emigrazione europea che è durata 100-150 anni e ha popolato il resto del mondo, dobbiamo accettare che si creino movimenti in senso contrario e cercare di governarli. Non serve a nulla rieditare i nazionalismi di fronte alle migrazioni».
E l’Europa, cosa può fare? Dobbiamo lasciare che si sfaldi o è la nostra unica ancora di salvezza?
«Resto favorevole alla costruzione europea, soprattutto per le nuove generazioni, che ormai vivono non solo in ambienti europei, ma transnazionali, in una società in cui ci saranno sempre più matrimoni tra persone di diversa origine e nazionalità... Mi sembra difficile e non auspicabile tornare indietro. Evidentemente l’Europa che ha inventato gli Stati nazionali ha qualche problema a inventare una nuova forma di cooperazione politica che conservi anche gli Stati nazionali... Una cosa è sicuramente irreversibile. La stragrande maggioranza dei cittadini europei non accetterebbe un ritorno a un sistema di controllo dei passaporti e dei visti per circolare in Europa».
Lo stesso discorso vale per l’euro?
«Se ci fosse un referendum contro l’euro, persino in Italia dove oggi avete questo governo strano, i no-euro perderebbero. Esattamente come in Grecia, dove ho visto i miei colleghi del ceto medio intellettuale che hanno investito i loro risparmi in Belgio. Insomma, la gente vive sempre di più in modo europeo, lo vediamo dall’acquisto di macchine, dalle tecnologie, dalla pluralità di lingue parlate. Questi sono stati negli ultimi sessant’anni i veri cambiamenti “dal basso”, introiettati dalla gente, e quindi irreversibili. E dimostrano che la strada da seguire è quella di una Europa che non agisca solo dall’alto».
È arrivato o no il tempo per l’Europa di agire politicamente per rendere più stabile il Mediterraneo?
«C’è una cultura, artistica e letteraria, che possiamo definire europea, anche se le diverse popolazioni vivono in modo diverso e hanno persino cucine diverse. E ciò è un bene. Ma certe regole politiche, i diritti politici, individuali, i diritti dell’uomo, che sono valori europei, ora vengono più o meno accettati ovunque».
Ma sull’altra sponda del Mediterraneo non è così.
«È vero, ma le migrazioni hanno anche avuto proprio questo merito, di diffondere la cultura europea dei diritti umani».
La Ue cosa può fare concretamente?
«Intanto, può evitare di fare sciocchezze, come quella di Sarkozy di bombardare la Libia, o di Lega e M5S di chiudere i porti. E poi scegliere per sé una evoluzione prudente, senza imporre dall’alto ciò che in basso non viene accettato, e chiarire che solo l’accettazione di regole comuni dà diritto ai relativi vantaggi. In caso contrario, come per la Gran Bretagna della Brexit o la Polonia e l’Ungheria del gruppo di Visegrád, questi vantaggi non spettano e non possono essere rivendicati».
Infine, cos’è dunque il Mediterraneo?
«Non è una piccola provincia, come si poteva pensare un secolo fa. Perciò l’Europa non deve mai perdere di vista che il Mediterraneo ci aiuta, più che a capire, a formulare i problemi sul mondo di oggi».
TERRA!!! TERRA!!! PIANETA TERRA: FILOLOGIA E ’DENDROLOGIA’ (gr.: "déndron" - albero e "lògos" - studio/scienza). L’ALBERO DELLA VITA ... *
Ma che cos’è un albero?
di Marco Belpoliti *
Stanotte una tempesta si è abbattuta furiosa contro le case. Ha piovuto fortissimo e tirato vento: mulinelli d’acqua, quasi delle piccole trombe. Oggi sono uscito a camminare e lungo la strada c’erano rami e alberi per terra. Un cipresso, neppure troppo vecchio, era caduto. Gli avevano tagliato i rami più lunghi. Ho guardato il tronco tutto scheggiato dalla furia del vento.Mi sono chiesto, ma che cos’è un albero? Un essere vivente; meglio: l’unico essere vivente che non si sposta mai. Giusto. Ma anche le erbe e i cespugli hanno la medesima prerogativa. Inoltre, le radici dell’albero si muovono, s’allargano, camminano, se così si può dire.
Secondo un botanico di cui ho letto tempo fa il libro, l’albero è prima di tutto il suo cappello di foglie: una struttura per sostenere il suo fogliame attraverso cui respira e anche si nutre, di luce prima di tutto. Nudo con i rami d’inverno, un albero non sarebbe davvero un albero. In effetti in inverno gli alberi non sono davvero alberi, ma strutture scheletriche che si propendono verso il cielo. Per Teofrasto un albero è prima di tutto il suo tronco. Carl G. Jung ha un’opinione simile. Ha scritto in un suo volume che il senso stesso dell’albero non sta né nelle radici né nella sua chioma, ma piuttosto“nella vita che scorre tra le due”. Jung non considera troppo le foglie, e non ha il senso malinconico del tempo che passa, cosa che appartiene invece a Freud. Per lui il mondo si compone di archetipi, strutture eterne e durature, che superano l’esistenza dei singoli individui. Possiede una saggezza che si sposa bene con il senso della durata che gli alberi possiedono. Se non fosse per quel cipresso schiantato che ho visto stamane, avrei pensato anche io alla vita che scorre e alla durata dell’albero.
Un selvicoltore tedesco, autore di La saggezza degli alberi (Garzanti) definisce, non a caso, l’albero un “essere enigmatico”. In verità Peter Wohlleben, questo il suo nome, parla di alberi al plurale, e di alberi al singolare citandone i vari tipi: betulla, quercia, olmo, faggio, eccetera. Gli alberi per lui sono il bosco, sebbene il bosco non sia composto solo di alberi, ma di tante altre cose sotto gli alberi. Italo Calvino nel suo romanzo arboricolo, Il barone rampante, descrive il bosco mediterraneo parlando del “frastaglio di rami e foglie, biforcazioni, lobo, spiumii minuti e senza fine” dentro cui il cielo si vede solo “a sprazzi irregolari e ritagli”. Wohlleben è un ammiratore di questa forma vivente che cresce contrastando la legge di gravità. L’ammira per la sua forza, per l’altezza, per la quiete che infonde, per la durata nel tempo: gli alberi vivono più a lungo di qualsiasi forma di vita del Pianeta. Tuttavia ogni albero, come mi ha ricordato stamani il cipresso schiantato, è il risultato di una strenua lotta per la vita. Come tutti gli esseri viventi, anche l’albero deve superare una competizione continua. Wohlleben parla esplicitamente di “fatica d’essere un albero”.
L’albero cerca di crescere intercettando più energia possibile: lotta per la luce solare. Nel bosco ci sono gli alberi sovrani. Li vedi subito: sono maestosi, altissimi, grandi, occupano tutto lo spazio. Intorno non cresce nient’altro, se non fili d’erba, o al massimo bassi cespugli, esolo se riescono a trovare energia per poterlo fare. I rami dei re del bosco si estendono in tutte le direzioni. Sotto il loro cappello però crescono altri alberi, più piccoli. Un grande albero possiede almeno 200.000 foglie, che occupano, secondo i botanici, una superficie di circa 1000 metri quadrati. Gli alberi piccoli cercano di trovare il loro posto. Non sempre ce la fanno. Il re li esclude dal bagno di luce. Se si osserva con attenzione il bosco, si vedono tanti piccoli alberi intorno al sovrano, piccoli dignitari della sua corte. Alcuni anche piegati nell’inchino al signore e padrone della radura. Se potessimo misurare l’età di questi alberelli, scopriremmo che è ragguardevole. Alcuni hanno anche 100 anni, come capita in certi boschi del Nord Europa, ma anche nei boschi meridionali, al Sud dell’Italia, nel Meridione e in Grecia. Lì ci sarà meno sottobosco, per via del calore e della siccità, ma gli alberi attorno hanno età diverse: da 100 fino a qualche decina. Molti alberi nati sotto il gigante muoiono in breve tempo e si trasformano in humus per alimentare il re della radura. Solo se l’albero maggiore si ammala e muore, si trova lo spazio per crescere.
L’albero è un organismo sensibile. Non ci sono solo gli elementi atmosferici, il vento, la pioggia; ci sono anche nemici invisibili, almeno ai nostri occhi di non esperti: parassiti, muffe, microorganismi, funghi, insetti. Li minacciano e ne contrastano la crescita. Ne attentano alla vita. Non basta ammirarlo per la sua immobilità, per la solidità e forza. Dobbiamo ammirarlo per essere diventato grande in barba a tanti nemici e avversari. Il faggio, per esempio, albero molto ammirato dagli umani, è un terribile avversario. Arriva persino a tagliare i rifornimenti ai vicini, accaparrandosi le riserve d’acqua e i possibili nutrimenti nel terreno. Gli alberi non sono solo belli o buoni, sono anche spietati. Il cappello di foglie del faggio si è sviluppato nel corso di una lunghissima evoluzione per arrivare a creare una trama fittissima che toglie ai concorrenti almeno il 20% della luce che cade dall’alto. La forma degli alberi dipende da questioni come questa. Per esempio, la foggia conica di una conifera è la miglior risposta al carico di neve che cade nei climi freddi: non può accumularsi più di tanto sui suoi rami e cade giù, anzi scivola.
Leggo questo in un bel libro di Giuseppe Barbera, docente di Colture arboree all’Università di Palermo: Abbracciare gli alberi (il Saggiatore). Non c’è solo questa prerogativa, spiega. Questa forma serve alle conifere anche per intercettare la poca luce di quelle regioni: i raggi solari sono bassi sull’orizzonte. Nei climi secchi, invece, quando il sole è a perpendicolo, la medesima forma consente una minor insolazione nelle ore più calde, e quindi un risparmio d’acqua. Il pino mediterraneo ha una forma a ombrello, che è una silhouette aerodinamica, per resistere ai venti caldi disseccanti e per consentire un più facile raffreddamento della chioma. La forma tondeggiante della quercia, uno degli alberi più diffusi in Italia, è l’effetto dei climi temperati, perché consente di assorbire il massimo di energia offrendo al sole la massima superficie possibile. Non è solo la luce a determinare la forma degli alberi. C’è anche il vento, il terribile vento. Il pino mugo, che tanto piace agli escursionisti, ha deciso di restare un arbusto e non di diventare propriamente un albero, pur avendone la possibilità. Contorto e abbarbicato alle pietre, si ritrae, attento a radicarsi per contrastare il vento che soffia forte in alcune stagioni dell’anno.
Nelle regioni del Sud le architetture arboree sono poi modificate dai frequenti incendi, sia dolosi che spontanei - quest’anno è stato un disastro per tutto il Sud. Poi c’è la presenza delle capre, che ne inibisce la crescita. Alcuni alberi, come la quercia coccifera, detta anche spinosa, per via delle sue foglie, cerca di opporsi al morso delle capre e all’assenza di acqua: ha assunto questa forma nel corso di migliaia d’anni: un esempio di selezione. Sopravvivono le piante più adatte. Barbera ci assicura che potrebbe essere alta dai 5 ai 10 metri, ma per sopravvivere si è fatta arbusto cespuglioso. La lotta darwiniana per la vita non riguarda solo gli organismi cosiddetti superiori, ma anche quelli che noi reputiamo “inferiori” come cespugli ed erbe. L’intelligenza è distribuita in tutti e tre i regni della vita, e anche oltre. Anche le piante sono intelligenti e comunicano. Ad esempio, con gli insetti. Quando ci avviciniamo a un bell’albero in fiore - un ciliegio selvatico ad esempio -pensiamo, da narcisi della creazione, che si tratti di un omaggio a noi umani: i fiori sono per noi. L’albero invece sta dicendo agli insetti che si trovano lì intorno: venite qui, c’è un nettare delizioso per voi. L’albero vuole essere impollinato. E certamente noi non potremmo farlo: non abbiamo gli strumenti adatti e anche la nostra tecnologia, pur raffinatissima, non eguaglia quella degli insetti.
Gli alberi comunicano anche tra loro. Seuno di loro è attaccato dai bostrici, insetti dotati di grandi mandibole che s’incontrano nelle campagne,subito immagazzina nella corteccia sostanze repellenti. Non lo fa solo per sé, ma comunica la cosa ai suoi vicini attraverso l’odore, una forma di messaggio chimico simile a quello che usano gli insetti, api e formiche. Manifesta una volontà collaborativa. L’indicazione vola nell’aria seguendo un codice proprio. Inoltre, se non c’è la possibilità di farlo per via del vento, l’albero userà le radici che s’intrecciano a quelle dei suoi vicini. Gli alberi sono davvero un mistero. Sinora nessuno è ancora riuscito a spiegare interamente il processo attraverso cui una massa liquida valutabile tra i 500 e i 1000 litri d’acqua, durante il periodo vegetativo, riesca a salire lungo il tronco. Per capillarità, sostengono gli studiosi; ma c’è anche l’effetto traspirazione. Quando l’albero rilascia vapore acqueo attraverso i pori delle foglie si crea una pressione negativa e l’acqua procede verso l’altro. Tornando verso casa ho pensato a come mai le persone preferiscano gli alberi che non perdono le foglie, i sempreverdi, come il cipresso caduto. Le foglie mi affascinano per il fatto che pur essendo dello stesso albero sono tutte diverse. E sono diverse da albero ad albero, come abbiamo imparato da bambini, quando le raccoglievamo colpiti dalle loro differenze: pennate, lobate, dentate, settate, eccetera. Dipende tutto dalle necessità dell’albero: sagomarsi per raccogliere luce o per resistere al vento.
L’evoluzione ha funzionato anche in questo. Le foglie grandi sono idonee agli ambienti umidi, come le foreste tropicali; nei climi secchi non le troverete mai: lì sono piccole e spesse (si chiamano sclerofille), in modo da perdere poca acqua nella traspirazione. Le foglie sono un meraviglioso organismo. Sono loro la parte più attiva dell’albero. Traspirano attraverso gli stomi, delle piccole valvole disposte sulla parte inferiore. Mediante gli stomi avvengono gli scambi di gas, ricorda Barbera: entra l’anidride carbonica, fuoriescono vapore acqueo e ossigeno. Ecco perché sono così importanti per noi. E le radici. Sono tra le cose più disegnate da bambini, forse perché non si vedono. Un’altra meraviglia dell’albero. Sono più ampie della parte ramificata esterna, per necessità: sostengono l’albero e lo nutrono. Non scendono troppo in profondità. Sono superficiali, perché nel primo metro di terra c’è la maggior parte del nutrimento necessario creato da resti organici di altre piante o animali. Lì c’è più ossigeno e acqua.
Una ricercatrice, Malini Moreshwar Nadkarni, ha dedicato uno studio sul rapporto tra gli esseri umani e gli alberi. Ne ha scritto in Tra la terra e il cielo (Elliot). Questa è la loro posizione, non solo simbolica, come sostengono gli steineriani, ma reale. Sopra di noi umani ci sono gli alberi. Più sopra le nuvole. Tuttavia le nuvole non stanno piantate nella terra. Vanno e vengono, appaiono e scompaiono. Gli alberi tendono come noi verso l’alto. Per salire in alto, quando ancora non avevamo mongolfiere, palloni aerostatici o aeroplani, dovevamo arrampicarci sugli alberi. Secondo alcuni paleontologi siamo scesi da lì. Ci saremmo dotati del pollice opponibile per muoverci tra i rami. Ecco perché Cosimo di Rondò, il Barone rampante di Italo Calvino, piace ai giovani lettori: perché dà forma a qualcosa di ancestrale che si è conservato in noi, nei bambini. Arrampicarsi sugli alberi è un’esperienza fondamentale, non solo in senso evolutivo. Confuso omaggio e ritorno all’origine della specie, ha scritto Primo Levi. Gli alberi c’erano prima di noi e ci saranno dopo di noi, a meno che non li estinguiamo. Invece di tagliarli, piantiamoli. Il cipresso caduto sarà ripiantato, mi ha rassicurato il mio vicino. Per arrivare all’altezza del gigante di prima ci vorranno decenni. Forse noi non ci saremo. Gli alberi e la lunga vita.
* Doppiozero, 27.07.2017 (ripresa parziale - senza immagini).
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
RIPENSARE L’EUROPA!!! CHE COSA SIGNIFICA ESSERE "EU-ROPEUO". Per la rinascita dell’EUROPA, e dell’ITALIA. La buona-esortazione del BRASILE. Una "memoria"
Pianeta Terra. Mediterranea-mente ....
GELBISON, GIBSON E LA CHIESA CATTOLICA. DUE PAROLE, UN ’RIVELATIVO’ SEGNO DEI TEMPI. UNA ’MEMORIA’ DEL 2004
Federico La Sala
IL FILM. Lo scandalo della Passione di Cristo di Mel Gibson
Ravasi e il rabbino Laras: «Mel Gibson è un regista, non un teologo»
di Roberto Parmeggiani (Famiglia Cristiana, 16/04/2017)
Il film è appena finito. Il rabbino capo di Milano Giuseppe Laras e il biblista monsignor Gianfranco Ravasi si affrettano fuori dalla saletta in cui hanno assistito, invitati da Famiglia Cristiana, a un’anteprima di La Passione di Cristo di Mel Gibson. Si affrettano: un po’ per arrivare presto in redazione, dove discuteranno del film; un po’ per prendere una boccata d’aria, dopo un’enormità di scudisciate, sangue e dolore.
«Da spettatore», esordisce Laras, «mi ha colpito tutta questa violenza, per la quale il primo aggettivo che mi viene è "terribile". Una violenza incredibile, inaudita, forse anche improbabile. Ma, al di là del giudizio di merito, mi preoccupa l’impatto che il film può avere sulle persone comuni: anch’io ho provato grande emozione, e questa visione delle sofferenze e della morte di Gesù può alimentare sentimenti antiebraici, rinfocolare queste tensioni, questi stereotipi, soprattutto nelle persone semplici, che poi sono la parte che ci interessa di più. Come accade nel dialogo tra ebrei e cristiani: quando esso si svolge a livello alto va tutto bene, ma quando deve calare in basso trova difficoltà, resistenze».
Laras, rabbino capo di Milano da 24 anni, entra nel vivo delle polemiche suscitate dal presunto antisemitismo del film di Gibson, ma le smorza, sinceramente preoccupato del fatto che tanto clamore possa soffocare il dialogo.
Meglio ascoltare il Papa
«Con tutto il rispetto», dice, «Mel Gibson non è un teologo, è un regista. Consiglierei di ascoltare il Papa, non lui. Il film è giocato sulla passione, cioè sull’aspetto della sofferenza e della morte di Gesù, e trascura il versante della risurrezione («È vero», interviene Ravasi: «Alla risurrezione sono dedicati i tre minuti finali su 126»). Se si voleva lanciare un messaggio, poteva essere un messaggio di vita e speranza. Credo che gli effetti potenziali di questo film siano antitetici al Concilio Vaticano II e al documento conciliare Nostra aetate: è un passo indietro rispetto a queste tappe che ci hanno aiutato ad andare avanti, a eliminare molte suggestioni. Noi dobbiamo impegnarci di più, spendere di più sul dialogo, nel senso di non lasciarci dividere, di incontrarci di più per riprendere il cammino insieme».
Il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni ha chiesto alla Chiesa di prendere le distanze dal film... «Io non mi sento di dire alla Chiesa che cosa deve fare», continua Laras. «Ma è vero che se si indicassero, da parte cristiana autorevole, i rischi che possono derivare dal film, questo potrebbe aiutare a evitare altre fratture. Con alcune dichiarazioni che ho letto si rischia di compromettere il cammino che faticosamente si è fatto. E non credo che ne valga la pena».
Monsignor Ravasi annuisce, condivide le preoccupazioni del rabbino. Ma porta il discorso all’interno del mondo cattolico. «Il film è l’occasione per porsi almeno tre questioni: quella storico-critica, quella teologica e quella artistica. La prima riguarda gli eventi in quanto tali. Molti oggi chiedono di ricostruire ciò che è accaduto in quelle ore. Noi dobbiamo rispondere, non dicendo: "L’avete visto nel film, quella è la verità". Dobbiamo tornare a studiare i Vangeli, perché c’è la tentazione di identificare il film con il testo evangelico».
«Poi c’è il percorso teologico», continua Ravasi. «È giustissimo ribadire, come fa il rabbino Laras, che Gibson non è un teologo. Il suo approccio è piuttosto ingenuo e la sua rilettura dei Vangeli è costruita secondo un orientamento tradizionale. Si vede dall’introduzione di elementi apocrifi, e soprattutto dalle citazioni (fino al particolare del nome del centurione, Abenedar) delle visioni della Emmerick. È una lettura della passione e della morte di Gesù con categorie della teologia tradizionale, anche nel senso di un po’ datata, in cui si pone tutto l’accento sull’aspetto sacrificale».
Un grande sacrificio tragico
«Questo è un elemento valido della teologia cattolica, ma non l’elemento esclusivo (e comunque, se lo si sceglie, poi si deve per forza sottolineare il sangue il più possibile), perché la teologia riconosce che la morte di Cristo è, in pratica, la scelta estrema di Dio di condividere la natura umana. Soffrire e morire sono categorie fondamentali dell’uomo, ma la partecipazione di Dio al dolore umano è un’esperienza d’amore, una scelta compiuta per assumere su di sé la sofferenza allo scopo di trasfigurarla. Questo film, invece, fa vedere solo un atto sacrificale drammatico, eroico, tragico, ma si nota poco la dimensione dell’amore: il progetto di Dio non è qualcosa di fatalistico per cui Gesù, schiacciato, è costretto ad andare avanti. I Vangeli, di cui non si rimpiange mai abbastanza la sobrietà, ci aiutano a capire questa dimensione. Lo scopo di Gesù non è diventare uomo per morire come un uomo, ma di far sì che la realtà umana, anche il dolore, sia trasfigurata».
Interviene il rabbino: «Il film trasmette un’idea opprimente del dolore. Sembra che ci sia compiacimento nel sottolineare il piacere sadico dei persecutori romani nell’infliggere la sofferenza. Ma noi dobbiamo sperare al di là di quello che suggerisce il film. È un’occasione mancata, Gibson poteva farci vedere un po’ più di vita dopo la morte e la sofferenza. Ma non bisogna dargli troppa importanza, è solo un film».
Riprende Ravasi: «Gibson ha scelto di parlare soltanto della passione. Ma ha ragione il rabbino: anche dal punto di vista cristiano, non si può arrivare solo fino alla crocifissione e alla tomba, e non parlare della Pasqua. Sono realtà intrecciate e l’ultima spiega le precedenti, permette di vedere che questo dramma non sfocia nella disperazione. A livello artistico ci sono elementi positivi: l’ammiccare alla storia dell’arte e il gioco degli sguardi, bellissimo. Per questo dobbiamo cercare di non avvitarci attorno alla polemica. Il rischio che segnala il rabbino esiste».
Tornare a parlare di Gesù
«È il rischio che la gente comune prenda su di sé questo supplizio, lo carichi e dica alla fine: "Maledetti quelli che hanno portato a questo", dimenticando che Nostra aetate dice realisticamente che il Sinedrio c’entra, ma che non tutti gli ebrei volevano uccidere Gesù. Trovo anch’io che l’eccesso narrativo della violenza non giovi al film. Si doveva cercare di dire, alla fine, una parola di speranza, che nei Vangeli è l’ultima parola».
Quindi il film è un’occasione mancata, come dice il rabbino Laras? «Siamo in una società mediatica», risponde Ravasi, «eventi come questo diventano quasi celebrazioni, e purtroppo possono avere un’eco maggiore dei discorsi del Papa. Allora, anziché metterci a condannarlo o a glorificarlo, partiamo dal film per tornare a incidere sulla conoscenza dei Vangeli da parte dei cristiani. È una grande opportunità per parlare di Gesù, ma stiamo attenti a non appiattirci sulla lettura che ne dà Gibson».
Le faggete del Monte Gelbison
La natura ha un’anima
di Giuseppe Liuccio*
Il 21 marzo, primo giorno di primavera, abbiamo celebrato “La giornata internazionale delle foreste” su input delle Nazioni Unite per ricordare e riflettere sull’importanza della copertura forestale del nostro Pianeta Terra. Abbiamo, così, appreso che, tra il 2000 ed il 2013, la superficie delle “foreste vergini” è scesa di almeno il 7% e che il processo di deforestazione aumenta ed accelera in maniera preoccupante: tra il 2011 ed il 2013 è diventata tre volte superiore rispetto a 11 anni prima. Eppure il bosco resta un’oasi di vita, da difendere, conoscere ed esaltare per l’equilibrio dell’habitat. È uno di quei beni che tutti dovremmo apprezzare e difendere.
E, a tal proposito, mi permetto di suggerire un vademecum di comportamento, ispirato all’etica della responsabilità e che potremmo sintetizzare in quattro verbi: CONOSCERE per amare, AMARE per difendere, DIFENDERE per PROMUOVERE.
Ma sforziamoci di concentrare la nostra analisi sulla situazione del nostro Paese. La superficie dei boschi in Italia ammonta a 10.4677.533 kilometri quadrati, quella nella Campania è di 445.274 kilometri quadrati.
Come tutti sanno, il Parco del Cilento, del Vallo di Diano e degli Alburni (che difficoltà scriverne soltanto il nome, che ubbidirà pure ad una vanità provinciale e municipalistica di orgoglio nominalistico, ma evidenzia anche quanto di più conflittuale ci possa essere con una corretta ed efficace logica della comunicazione!!!!!), è il più grande della nostra regione, ma anche uno dei più belli e più vasti d’Italia. È il più antropizzato e può vantare monti di straordinaria bellezza e di lussureggiante vegetazione, a pochi chilometri dal mare. E non a caso uno degli slogan promozionali più efficaci e meglio riusciti fu: Il Parco verde e blu: dal faggio al corallo. I monti sono sempre imponenti e belli con le foreste di faggio cariche di mistero e seduzione e dalle cui alture lo sguardo spazia fino al mare cobalto/blu di Licosa e Palinuro, nei cui fondali crescono colonie di corallo di buona qualità.
In questa rubrica settimanale “LA NATURA HA UN’ANIMA” voglio proporre oggi alcune brevi riflessioni sull’albero del Faggio, che ha una sua sacralità esaltata dal mito oltre che dalle leggende popolari ed una sua nobiltà letteraria. Cominciamo da quest’ultima che può vantare due distici delle Bucoliche del grande Virgilio: “Tityre, tu patulae recubans sub tegmine fagi/silvestrem tenui Musam meditaris avena! = Titiro, tu sdraiato all’ombra di un grande faggio/moduli una canzone boschereccia sull’umile zampogna”. La religiosità è presente in molti miti sia greci che latini, secondo i quali il faggio era un albero sacro a Giove ed i nostri Antenati ritenevano che inoltrarsi in una foresta di faggi era come penetrare in un gigantesco tempio dai tronchi simili a colonne, alti dai 20 ai 45 metri, dai rami molto alti, ed entrare in contatto con la divinità.
Io questa sensazione l’ho vissuta ed interiorizzata nei miei vagabondaggi di scoperta d’amore sui monti del Parco. Ed, a proposito di sacralità e religiosità insieme, voglio riportare alcune considerazioni/riflessioni tratte dal “Viaggio nel Cilento” di Cosimo De Giorgi, il noto studioso pugliese, che, da un viaggio nella nostra terra fatto nella primavera del 1881, tirò fuori uno spaccato umano, antropologico, sociologico, storico ed ecologico di straordinario interesse e grande attualità”, come scrive Giuseppe Galzerano nella prefazione del libro, di cui è anche l’editore (3^ edizione).
Ed ecco come De Giorgi descrive la scalata al Gelbison fatta il 14 giugno del 1881: “Il monte si avvolgeva in un bianco mantello di nubi che si sollevavano dalla valle... Quei faggi secolari parlano un misterioso linguaggio, sembrano granatieri da 50 a 60 metri di altezza ritti, duri e piantati lì tra l’ira dei turbini e degli uragani ed il ferro dei vandali disboscatori... E saliamo saliamo... Questo piccolo dicono “il vestito della Madonna” e narra una leggenda curiosa. Più su è il monte dei ciottoli e dei macigni trasportati dai pellegrini per penitenza e deposti a piè d’una croce e piegando a sinistra ci appare un’alta rupe che sorge quasi a picco (ed è una vera curiosità geologica) in cima alla quale sorge il Santuario della Madonna di Novi”.
Le riflessioni di De Giorgi mi hanno acceso ricordi di infanzia lontana, quando accompagnai mamma nel pellegrinaggio, a piedi, da Trentinara al Gelbison e scoprii nomi e leggende di grande fascino, che interiorizzai e che per me bambino sapevano di sacralità: fiume freddo, lo manto re la maronna (un monolite su cui le intemperie della natura avevano scavato col lavorio di secoli, buchi e striature che la fantasia popolare aveva, per folclore sacralizzato, ribattezzato: “ago”, “ditale”, “filo” e “forbici” che la Madonna usava per cucire il suo manto).
E tornano alla mente “la croce di Rofrano”, ”la ciampa re cavaddo” a volo d’abisso e a memoria di conversione di infedele. Così come ricordo nitidamente, tra l’altro, che i miei compaesani pellegrini sulla via del ritorno saccheggiavano rami di faggio, a cui attribuivano potere miracolistico e che, tornati al paese, conservavano come reliquie nelle proprie case o piantavano in campagna con chiari intenti propiziatori per i raccolti. Oh, la dolce poesia della religiosità popolare!
Sulle montagne più note del Cilento ci sono sette santuari mariani dedicati ad altrettante madonne, che la fantasia popolare ha ribattezzato “le sette sorelle”. Sarebbe interessante se il Parco, in un rapporto di collaborazione feconda con le scuole, promuovesse viaggi di istruzione/scoperta delle nostre montagne sacre, che sono straordinari contenitori di specificità ambientali, geologiche, di flora e di fauna, oltre che di storia, di folclore e religiosità popolari. E mi sembra legittima una domanda/provocazione finale: Di queste iniziative se non si fa promotore il Parco chi lo deve fare?
* FONTE: IL SETTIMANALE UNICO, 26.03.2017.
Quando l’Occidente somigliava all’Oriente
La scienza araba adottata dai greci. I fasti di Venezia. L’Egitto di Marinetti. Così dialogavano le due culture
di Stefano Malatesta (la Repubblica, 07.11.2016)
Qualche anno fa ho ricevuto dal mio amico Giovanni che vive a Bibbiena nel Casentino, uno strano plico, di cui stava facendo un difficile editing. Giovanni aveva lavorato per ventuno anni per Penguin Books, ma non riusciva a venirne a capo di quella massa di capitoli slegati e bozze cominciate e non finite che riguardavano un solo argomento. Il nome dell’incartamento era: “Quello che sembra occidentale ma che è in realtà orientale”.
L’autore era uno studioso inglese di lingue orientali, e viveva ad Oxford dove andava sempre a scrivere la mattina all’Ashmolean Museum. Giovanni lo descriveva per metà come topo da biblioteca e per l’altra metà come un eccentrico viaggiatore che conosceva tutti i posti raggiungibili e irraggiungibili del Medioriente e dell’Asia centrale. E diceva anche che assomigliava a Tolkien, come gusto letterario e storico. Questo eccentrico aveva una visione molto diversa dalla vulgata tradizionale che vedeva nelle crociate il momento decisivo per il sorpasso dell’Occidente rispetto all’Islam. I crociati erano stati sconfitti dalle truppe del grande comandante curdo Salah al-Din Yusuf ibn Ayyub conosciuto in Europa come “Saladino” e avevano dovuto lasciare la Palestina. Ma portavano con loro un bagaglio immenso di nozioni, conoscenze, tecnologie e innovazioni senza le quali non si sarebbero fondate le basi per il Rinascimento.
L’inglese non era d’accordo con questa ricostruzione e anticipava di sei secoli il passaggio del know how dall’Oriente a Occidente. Dopo le invasioni barbariche in Europa erano rimasti solo i muri per piangere. La ricostruzione dell’Europa avvenne non per mano degli europei, ma dei siriani, dei bizantini, degli egiziani che avevano già nel V-VI secolo posato il loro sapere in Europa. Come poteva un popolo inseguito dagli Unni e che si era rifugiato nelle isole fangose dell’alto Adriatico costruire la città più bella che si sia mai vista, senza l’aiuto delle maestranze orientali, falegnami, carpentieri, ingegneri idraulici, maestri del vetro, dell’oreficeria, architetti bizantini?
Venezia non è stata una città occidentale che ha caratteristiche orientali, ma una città orientale nel pieno senso della parola, la più bella di tutte. Delle 1500 colonne che ornano la Basilica di San Marco non c’è ne è una che non provenga dall’Oriente. La pala d’oro che sta sull’altare, la quadriga di bronzo che domina la basilica, il Moro e centinaia di altre sculture sparse per la città sono parte del pagamento ai veneziani per aver trasportato i crociati con le loro navi fino a Bisanzio. Le cattedrali di Pisa e di Lucca sono state costruite tenendo a memoria la moschea degli Omayyadi di Damasco. E così la moschea di Santa Sofia di Istanbul disegnata da due architetti greci, è stata per sempre il modello di riferimento per le grandi costruzioni. In certi periodi l’arte e l’architettura musulmane hanno raggiunto il centro dell’Europa. Carlo Magno fece costruire ad Aquisgrana la cappella palatina sul modello del Tempio di Gerusalemme.
Tutte le conoscenze scientifiche dei greci passate agli ebrei e agli arabi, dopo il crollo della cultura classica, venivano dal Medioriente e non come si credeva dall’Europa. I vetri di Venezia non erano stati inventati da qualche artigiano di Murano della laguna veneta, ma provenivano dal mercato del Cairo. Quando le navi mercantili venete si avvicinavano al Levante abbassavano dal pennone l’insegna del leone di Venezia e issavano quella della luna crescente fertile; così potevano trasportare tutte le merci e l’unico pericolo erano le navi dei genovesi in agguato dietro i promontori.
La nascita della cavalleria, un’arma che dominò l’Europa fino all’arrivo dei fanti svizzeri con le picche, viene datata dal grande storico del Medioevo Duby intorno al 1100 durante la battaglia di Bouvines. In realtà sei secoli prima un’armata di cavalieri catafratti, ricoperti da capo a piedi di bronzo e che potevano caricare con la lancia in resta anche se il cavallo non aveva le staffe, avevano sconfitto due legioni romane guidate dagli imperatori che furono fatti prigionieri. La descrizione che ci dà il grande storico Ammiano Marcellino della battaglia è impressionante. I cavalieri apparvero all’alba illuminati da una luce livida che faceva riflettere il bronzo, terrorizzando i legionari, che non ressero alla carica nemica.
Tutte le culture mediterranee ed europee sono un groviglio inestricabile di Occidente e di Oriente, di sud e di nord, nelle quali è difficile risalire per li rami. Atene, nell’antica Grecia, era molto diversa da quella che ci ha fatto vedere Winckelmann, bianca e immacolata. La statua crisoelefantina di Zeus a Olimpia era colorata di rosso e il paese emanava un profumo orientale come una vera città del Levante. Gli dei dell’Olimpo erano trattati bonariamente come leggende tradizionali, vere o false non importava. Più immagini paternalistiche che veri e propri dei. Quando i Greci volevano conoscere il loro “ineluttabile fato” si infilavano nelle spaccature delle rocce o nelle grotte fumanti, abitate dalle maghe e dalle sibille che venivano dall’Oriente, con uno spiccato gusto per il mistero e per la violenza. E chi ha improntato l’arte della vera cultura greca non è Apollo, nonostante le migliaia di statue, ma Dioniso.
Così quello che sta succedendo in Medioriente non riguarda solo egiziani o siriani, ma interessa direttamente gli europei. All’epoca il Cairo era la più bella città del mondo, i musulmani si mischiavano con i cristiani e gli ebrei. Lì compresi la vera elegan- za del deserto. Quando andavo in Egitto mettevo in valigia due racchette Maxima incordate con il budello, come si usava, e la mattina dopo andavo a giocare a tennis nell’isola Abamelek in mezzo al Nilo. All’alba soffiava un vento profumato di aloe dal deserto e faceva ancora fresco e l’isola Abamelek era un posto incantato. La prima volta che ci ho messo piede avevo fatto attenzione a non essere troppo elegante per non mettere in imbarazzo l’allenatore di tennis. Quando arrivai, era vestito infinitamente molto meglio di me, con una maglia Lacoste, la prima che abbia mai visto, e portava i calzoni lunghi bianchi come una volta faceva il famoso giocatore Pancho Gonzales. Finita la partita mi precipitavo al Caffè Groppi dove facevano i migliori bignet alla crème chantilly e i migliori marron glacé che abbia mai assaggiato.
Ad Alessandria d’Egitto si potevano incontrare il padre del Futurismo Marinetti, Ungaretti, lo scrittore Forster, autore della migliore guida di Alessandria, e il grande Kavafis, che abitava su Rue Leptus, trasformata alla sua morte in un museo che racchiudeva i suoi scritti e le lettere inviate da T. S. Eliot.
So che non vedrò più questi posti, ma posso ricordarli. Sto mettendo mano ad una collana intitolata l’Oriente perduto. Saranno libri illustrati sull’Oriente: la storia dell’Impero ottomano di Leopold von Ranke, la Caduta di Costantinopoli di Steven Runciman, The blue Nile di Alan Moorehead, lo Smeraldo dei Garamanti del grande transahariano Théodore Monod. E ci sarà anche Assassinio sul Nilo di Agatha Christie con Poirot che svela i misteri anglo-egiziani. E sarà un ritorno in patria.
Alla scoperta del Monte Gelbison tra sacro e profano
di Alessandra Agrello *
Nell’anno del Giubileo della Misericordia non potevamo non dedicare questo spazio al cammino di fede che tanta importanza ha avuto nella storia per i nostri cilentani, e che oggi viene riproposto per tutti gli appassionati dei cammini lenti, fatti di solitudine e meditazione, per apprezzare anche con una certa devozione quello che offre la cultura del nostro territorio.
Nel cuore del Cilento, proprio alle spalle di Vallo della Lucania, si erge in tutta la sua imponenza, il “gigante” della valle di Novi, il massiccio del Gelbison, sulla cui vetta si trova il Santuario dedicato alla Vergine Maria.
Per i Cilentani il Gelbison è semplicemente “il Monte Sacro”, che attira annualmente migliaia di fedeli che lassù confluiscono non solo dalla Campania ma anche dalla Basilicata, dalla Puglia e dalla Calabria per deporre ai piedi di Maria le loro pene e chiedere delle grazie. Punto di ritrovo di fedeli,religiosi, pellegrini, ma anche di chi dopo un lungo cammino, tutto in salita, lentamente discende per festeggiare al suon di pizzica e tammorra la propria giornata, magari accompagnata da una grigliata e un brindisi di vino tra i tanti ricoveri costruiti a valle.
Il nome del monte è di etimologia saracena, Gebil-el-Son, il “Monte dell’Idolo”, perché questa montagna è sacra già prima che i Monaci Basiliani nel X sec. fondassero questo santuario sulla vetta. La sacralità dei luoghi si avverte già all’imbocco del sentiero dove tra la folta e suggestiva vegetazione il torrente Torna scorre saltellando qua e là tra i massi di arenarie formando una successione di pozze e cascatelle.
La leggenda narra che alcuni pastori di Novi Velia, volendo edificare ai piedi del monte per loro comodità, un piccolo tempio dedicato alla Madonna, ed essendo riusciti vani tutti i loro tentativi poiché al mattino si trovava disfatto il lavoro del giorno prima, decisero di vegliare di notte per scoprirne gli autori e portarono con loro un agnello per cibarsene. Ma, sul punto di essere ucciso, l’agnellino sfuggì loro dalle mani e, saltando da sentiero in sentiero, arrivò sulla vetta, arrestandosi tutto tremante davanti ad un muro che ostruiva una piccola grotta.
Sulla grotta i pastori videro rappresentata l’immagine della Madonna.
Attoniti, i pastori corsero a raccontare l’accaduto ai compaesani e al vescovo di Capaccio, dato che allora non c’era ancora il vescovado a Vallo. Il vescovo si recò sul luogo per verificare con i propri occhi ma, al momento di benedire la grotta, risuonò una voce dall’alto: “Questo luogo è santo ed è stato consacrato dagli Angeli”.
Come ad ogni santuario, anche a questo, ritenuto il più alto d’Italia, è legato il pellegrinaggio, come forma di devozione, insita in tutti i popoli e in tutte le religioni.
Il santuario, infatti, è meta di pellegrinaggi sin dal ‘300. Attualmente è aperto ai pellegrini dalla fine di maggio alla fine di ottobre.
Per raggiungere la vetta ove è situato il Santuario si possono seguire a piedi i secolari sentieri dei pellegrini oppure si possono percorrere le strade carrozzabili da Vallo della Lucania o Rofrano.
Lungo il percorso per giungere in cima il pellegrino incontra diversi luoghi ove la devozione popolare ritiene sia apparsa la Madonna, nonché la sorgente di Fiumefreddo (conosciuta anche come Acquafredda), con l’abbeveratoio per gli animali.
Con l’auto infatti, passando per Novi Velia, si raggiunge il punto di sosta a quota 1060 metri (località Fiume freddo) dove prende inizio l’antico percorso dei pellegrini.
Proseguendo in salita, sulla strada asfaltata, dopo circa 100 metri si imbocca il sentiero in sinistra. Lo si nota subito dato che è segnalato.
Il percorso, della durata di circa due ore, è molto panoramico, ben disegnato e sale in maniera costante senza affaticare il camminatore,
La vegetazione muta piuttosto rapidamente e i castagni cedono il passo ad abeti di diverse specie. Serpeggiando nel folto del bosco, il sentiero si fa sempre più stretto e aumenta anche la pendenza, finché ricompare l’ontano napoletano e cominciano ad aprirsi radure pittoresche in cui sono gli arbusti del sottobosco a prevalere. Fra questi spiccano splendidi esemplari di corbezzolo.
Da alcuni belvedere situati lungo il tragitto è possibile ammirare il sito dell’antica Elea-Velia, e Capo Palinuro. Dopo circa 3 km il sentiero finisce sulla strada asfaltata in una curva. Si prosegue a sinistra in salita, e dopo circa 1 km si giunge ai piedi dell’area del Santuario della Madonna del Sacro Monte. L’ultimo tratto del percorso lastricato è piuttosto ripido e attraversa la vasta faggeta che circonda la cima del Monte Gelbison.
Giunti qui, si nota un grande ammasso di pietre votive, disposte a cono sovrastate da una croce.
Si prosegue sempre in salita fino alla piazza antistante la Chiesa principale (1705 mt slm), il panorama è a 360°, dal mare di Ascea e le bellezza di Velia, sino alla valle di Rofrano e il monte Cervati con i suoi 1898 mt.
Numerose sono anche le tradizioni popolari collegate al pellegrinaggio al Monte Sacro. Tra le più note si ricorda la preparazione e il trasporto al santuario delle cosiddette “cente”, ovvero insieme di ceri votivi che il pellegrinaggio porta, in dono, alla Vergine. Sono a forma di barca o di torre, a seconda del paese di provenienza e addobbati con nastri multicolori. A volte i pellegrini portano anche i “torcioni”, che sono delle grandi candele dipinte, come ceri pasquali. E’ tipico di alcuni pellegrini, per devozione, prima di entrare in chiesa, fare sette giri intorno alle sue mura, (tradizione di cui si ignora il significato).
Altri compiono in ginocchio il percorso dalla soglia all’altare, implorando la Vergine con gli appellativi più belli. Si ricorda infine che sino ai primi anni ’80 del XX secolo, era fortemente d’uso nel Cilento, giungere al santuario sul Monte Sacro al termine di un cammino a piedi che poteva durare anche qualche giorno.
Inoltre, un enorme croce di ferro, domina la cima del monte, ed è visibile da tutto il Cilento quando è illuminata.
Come per la tradizione religiosa che si rispetti, bisogna anche annoverare le numerose leggende che circolano intorno al Santuario: una riguarda la cosiddetta “Ciampa di Cavallo” situata oltre la balaustra del piazzale dinanzi al santuario del Monte Sacro.
Pare che in età longobarda, due cavalieri giunsero sulla vetta del monte e mentre uno varcò il portale della chiesa per ringraziare la Madonna, l’altro non entrò nel santuario e rimase a schernire da fuori l’altro cavaliere per questo suo gesto di “debolezza” che poco si addiceva ad un vero guerriero. Ma all’improvviso il suo cavallo s’imbizzarrì e in pochi attimi raggiunse l’orlo del precipizio adiacente la chiesa per accingersi ad effettuare un salto nel vuoto. Allora il cavaliere implorò l’aiuto della Madonna la quale gli salvò la vita facendo arrestare la cavalcatura un pezzo di roccia calcarea sporgente oltre il ciglio del precipizio. Da allora tale spuntone di roccia è denominato “ciampa (cioè zampa) di cavallo”. Da tale episodio deriverebbe l’usanza, da parte dei pellegrini, di lanciare monetine (un tempo si lanciavano sassi del suolo sacro) nel tentativo di centrare lo spuntone di roccia. Secondo la tradizione popolare, invece, se nel tentativo vi riesce una donna nubile, ella ritornerà al santuario da sposata, se invece è un anziano a centrare la roccia, egli farà ritorno al santuario l’anno successivo.
Al ritorno si ripercorre lo stesso sentiero precedentemente intrapreso, solo che questa volta lo si fa in discesa.
Tra un sentiero e l’altro è possibile ammirare le comitive di pellegrini che oramai scesi dal Monte, in festa, consumano i loro pasti cantando e suonando gli antichi strumenti di una volta. Tra le tante curiosità, Novi Velia è anche il borgo medievale che ospita nel mese di agosto il famoso “Festival degli Antichi suoni” , la rassegna di musica popolare fatta da strumenti usati una volta come le ciaramelle, zampogne, chitarre battenti e pifferi di canna , tammorre e organetti.
Discendiamo soddisfatti e consapevoli di aver vissuto un’esperienza universale che ogni uomo prima o poi dovrà affrontare nella sua vita: il viaggio che conduce alla ricerca nei luoghi a lui intorno di quel mistero profondo che infine giace sacro nella sua anima.
* InfoCilento, 30 maggio 2016 (ripresa parziale - senza immagini).
Tremila anni di Mare Nostrum
La storia delle città mediterranee come «hub» politici, commerciali e culturali. Un intreccio millenario per farci capire come sarà il nostro avvenire
di David Abulafia (Il Sole-24 Ore, Domenica, 20.3.16
Gli storici hanno cercato di definire il Mediterraneo in svariati modi e il punto di partenza solitamente è l’opera di Fernand Braudel. Il grande storico francese pensava non solo a un mare ma al mondo che si stendeva ben oltre le sue rive e comprendeva tutte le aree che in un modo o nell’altro interagivano con il Mar Mediterraneo. Il Mediterraneo è infatti chiaramente un’entità fisica, uno spazio per ovvie ragioni disabitato (se si eccettuano le molte isole che possono fungere da ponte fra una costa e l’altra), che tuttavia per secoli è stato attraversato di continuo dagli esseri umani, e lo è tutt’ora.
Il Mediterraneo rappresenta meno dell’1% della superficie marina del globo ma la sua importanza storica è sproporzionata rispetto alle sue dimensioni fisiche. D’altra parte, il fatto di essere uno spazio relativamente esiguo (almeno su scala mondiale) ha reso agevole mantenere i contatti fra una sponda e altra, e la navigazione è stata possibile per tutto l’anno già nell’antichità. Così, nonostante le numerose storie di naufragi tramandate dal periodo classico, dall’epoca medievale ma anche in epoca moderna, le località che sorgono lungo le rive del Mediterraneo hanno sempre potuto intrattenere fra loro relazioni molto intense e regolari.
Le città sulle sue sponde sono sempre state i cruciali punti di contatto di un andirivieni incessante iniziato sin dall’Età del Bronzo, quantomeno nella sua regione orientale. All’incirca dal 1.000 a.C. possiamo considerare quest’area uno spazio integrato che si espande gradualmente fino ad abbracciare l’intero bacino, le cui acque vengono solcate non solo da mercanti, ma da profughi, da schiavi e da persone di ogni genere.
Un’altra peculiarità evidente dall’epoca dei primi navigatori (i fenici, i greci, gli etruschi) è l’enorme varietà di condizioni fisiche e di risorse naturali presenti lungo le coste mediterranee. Abbiamo così il ferro nell’Isola d’Elba, il rame a Cipro, il grano nel Nord Africa (dove Cartagine governava su terreni coltivati che si estendevano fino all’attuale Tunisia, e dove era cruciale il controllo del Delta del Nilo), come anche la fertilità della Sicilia. Fin dal passato più remoto tutte queste microeconomie interagivano le une con le altre a mano a mano che sorgevano non solo città sempre più grandi e bisognose di cibo, ma anche imperi presso le cui corti abbondavano i beni di lusso.
Ad esempio, durante la guerra fra le città-stato greche e l’Impero Persiano nel 5° e 6° secolo a.C., i mercanti fenici vendevano merci di ogni genere alla maggior parte dei popoli coinvolti in quel vasto conflitto. Le testimonianze di questa interazione - soprattutto commerciale, anche nelle fasi di conflitto o tensione - sono numerose anche nei periodi successivi; per esempio nel 13° secolo si formò un importante insediamento dei Genovesi nel centro di Tunisi, dove gli italiani vivevano protetti da privilegi e garanzie speciali.
Fin dall’Alto Medio Evo, poi, emerge un’ulteriore caratteristica del Mediterraneo che ci è ben nota: è la regione dove convivono fin dai loro inizi le tre religioni abramitiche (Ebraismo, Cristianesimo, Islam), plasmando la storia dell’intera area.
Nel corso dei secoli i confini delle rispettive aree di influenza sono stati tracciati e spostati diverse volte. E ciò ha avuto effetti anche politici, per cui il Mediterraneo è diventato un mare “diviso” e non è stato più possibile ricreare ciò che avevano creato i Romani: un Mediterraneo politicamente unificato. Nonostante le molte fratture, l’interazione fra le diverse sponde del mare non ha quasi mai perso intensità: i musulmani non amavano mandare le loro navi a commerciare nei paesi cristiani, ma gli ebrei viaggiavano avanti e indietro, molti di loro parlavano arabo ed erano capaci di vivere in maniera molto pacifica in città come Barcellona o Algeri, proprio come facevano i mercanti cristiani (soprattutto genovesi, pisani e veneziani, ma anche catalani).
Per tutto il Medio Evo, fino agli albori dell’Era Moderna, nonostante la proibizione papale al commercio con i musulmani, capitava spesso che i mercanti cristiani vendessero loro armi e al tempo stesso rifornissero gli eserciti europei o addirittura contribuissero in prima persona all’assedio delle città costiere. Ad esempio, nel 12° secolo diverse città nordafricane come Ceuta erano importantissime fonti per il commercio dell’oro che le carovane portavano attraverso il Sahara, ragione per cui esisteva un forte interesse reciproco a mantenere sempre aperte le vie commerciali.
Nel corso dei secoli è sempre esistito uno stretto rapporto fra l’Oceano Indiano e il Mar Mediterraneo, legato soprattutto al commercio delle spezie. I mercanti potevano arrivare al Mar Rosso e poi, raggiunto il Nilo, risalirlo fino al Cairo e ad Alessandria; altrimenti potevano risalire il Golfo Persico per poi raggiungere, via terra, città come Damasco e Aleppo.
A Ostia (il porto di Roma) c’erano magazzini grandi come interi caseggiati pieni solo di pepe, un prodotto che arrivava grazie a un viaggio lunghissimo. I carichi di zenzero provenivano dall’India o da luoghi ancora più remoti come l’Indonesia e la Malesia. Ecco perché non possiamo pensare al Mediterraneo senza considerare il suo rapporto con altri mari e in particolare con l’Oceano Indiano, almeno fino al 15° secolo quando il mondo cambiò a seguito delle grandi scoperte e dall’ascesa del commercio atlantico.
La grande trasformazione che si realizzò dal 16° secolo, con l’apertura delle rotte transoceaniche per raggiungere l’America e la circumnavigazione dell’Africa per raggiungere l’India, ebbe un impatto enorme non solo sul Mediterraneo, ma sul mondo intero.
Si può dire che fra il 16° e il 17° secolo il Mediterraneo tornò sostanzialmente a essere qualcosa di più simile a quell’1% della superficie marina del globo, perché poteva essere aggirato e (fino all’apertura del Canale di Suez nel 1869) cessò di essere una via per raggiungere l’Oceano Indiano. Mentre i vascelli spagnoli, e poi olandesi e inglesi, solcavano gli oceani, nel Mediterraneo orientale e meridionale le economie islamiche perdevano dinamismo, mentre i grandi poli manifatturieri si spostavano sempre più verso nord.
Tuttavia le interazioni fra le sponde del Mediterraneo, persino quando l’Europa diventò il centro di un mondo commerciale ben più ampio, continuarono a essere significative: ad esempio le élites in Egitto e in Siria indossavano abiti fiamminghi o inglesi, mentre i tre punti di accesso al Mediterraneo (il Bosforo, lo Stretto di Gibilterra e poi Suez) giocavano comunque un ruolo cruciale.
Buona parte del traffico commerciale fra l’Inghilterra (soprattutto Liverpool) e l’India, su cui si resse l’Impero Britannico nell’ultima parte del 19° secolo, passava dal Mediterraneo: Port Said costituiva l’accesso al Mar Rosso e all’Oceano Indiano, ma anche Alessandria e il Cairo diventarono centri commerciali di primaria importanza.
Alessandria, in particolare, diventò una città molto internazionalizzata dove vivevano ampie comunità italiane, greche, turche ed ebraiche. Gibilterra diventò il posto ideale per provvedere al rifornimento o alla riparazione delle navi. Così, benché il Mediterraneo fosse in un certo senso marginalizzato nel complesso del commercio mondiale transoceanico, alcune delle sue città prosperarono e conservarono un ruolo rilevante soprattutto grazie alla loro apertura.
Anche da queste esperienze nasce l’idea quasi romantica di una felice coesistenza fra comunità diverse sotto il profilo etnico e religioso. È una rappresentazione che non va esagerata, poiché nel corso della storia vi sono stati numerosi episodi di tensione, di conflitto e spesso di violenza. Ciò nonostante città come Salonicco e Alessandria o, più a occidente, come Livorno o Trieste, sono luoghi dove gruppi etnici e religiosi differenti riuscirono a vivere sostanzialmente in armonia. Vi fu spesso un’interazione vantaggiosa, non solo in termini di profitti commerciali, ma nel senso che le persone che vivevano in quelle città, o che ne facevano una meta frequente di viaggio, impararono a rispettarsi a vicenda, arrivando persino a sentire di appartenere a una comunità più ampia.
Per esempio gli ebrei o gli italiani ad Alessandria avevano un’identità culturale molteplice ed erano orgogliosi di ciò che la loro città rappresentava in quanto ultima città europea e margine estremo dell’Europa, appollaiata sul confine stesso dell’Africa di cui comunque non faceva parte. Oppure possiamo guardare alla Spagna musulmana (”al-Andalus”) e a città come Cordova, dove per lunghi periodi le tre religioni monoteistiche e i diversi gruppi etnici riuscirono a coesistere. Di conseguenza possiamo affermare che quell’ideale romantico di coabitazione non è privo di una base reale. Ed è importantissimo tenerlo vivo, poiché oggi nella maggior parte delle città da una parte all’altra del Mediterraneo la coesistenza pacifica certo non è certo la norma.
di don Aldo Antonelli (L’Huffinton Post, 11/07/2014
Guardo la foto e leggo il contesto. Una madonna, intronizzata come regina, incorniciata in una raggiera dorata, portata a spalle da una masnada di giovanotti biancovestiti, nel caos festante di una folla accalcata che non si capisce bene se prega, canta o chicchiericcia. Osservo la foto e mi chiedo quale rapporto può esserci tra questa "Madonna Regnante" e la semplice, umile ragazza di Nazareth di cui narrano i Vangeli. Mi domando come possa essere accaduto che colei che nel Magnificat inneggia al Dio che "depone i potenti dai troni", possa a sua volta sedere su un trono ed essere chiamata "Regina"! Come possa essere beffardamente ricoperta di ori e di argento la Madre di Colui che comandò ai suoi discepoli di non portare con sé né oro, né argento.
Siamo di fronte ad una metamorfosi depravata e deformante, funzionale ad una società auto-referente e lontana anni luce da quell’espressione di fede, coscienza critica della società, che la teologia più attenta vorrebbe evidenziare.
Secondo l’analisi funzionalistica di Emile Durkheim, la religione non è altro che un riflesso della società che venera se stessa. Con questa espressione, dalle connotazioni decisamente provocatorie, il grande sociologo intendeva sottolineare il carattere sociale e civile della religione, intesa come un sistema di riti grazie al quale una società si rinforza e crea legami profondi fra gli individui che la compongono. Secondo il sociologo francese, la religione serve alla società per salvaguardarsi, ma, soprattutto consente all’individuo di sentirsi parte di un’entità collettiva, nella quale assumere un ruolo definito. I riti religiosi, quindi, accompagnano le trasformazioni personali e sociali, permettendo, attraverso la loro capacità di regolamentare il caos e, insieme, di esprimere una forte carica simbolica, di creare, problematizzare e rafforzare le realtà sociali stesse.
Naturalmente, in una società mafiosa la religione diventa la legittimazione morale del sistema-mafia! In una società capitalistica, la religione consacra, facendone degli assoluti, i principi di "proprietà" e di "libertà"! In ambito politico, la religione si fa veicolo di consenso verso pratiche che pur contraddicendo i valori ne sposano la difesa. L’espressione più evidente di questo diabolico potere è offerta dal fenomeno di quelle persone che si definiscono come «atei devoti».
In questa formula, vi è evidente una contraddizione che, però, finisce con lo spiegare meglio il senso e le forme della religione civile. Scrive Marco Gallizioli sul numero 8 dal 2011 della rivista cattolica "Rocca", della Cittadella di Assisi: «Alcuni individui, infatti, pur negando validità trascendente alle religioni, ne sposano le linee etiche e ne ri-conoscono il valore insostituibile nel tessere un abito identitario dai colori netti. In altri termini, le fedi vengono svuotate del loro proprium, e imbalsamate nella loro funzione sociale, perché fungano da moltiplicatori di identità e di etica... Così facendo, la religione rischia di trasformarsi in una lobby di potere, che, grazie alle sue funzioni sociali, può giocare un ruolo decisivo nella politica degli stati, rischiando di mercificare la sua proposta spirituale».
Analisi precisa, puntuale e senza sconti di parte. A mio avviso, tanta strumentalità e, diciamolo pure, tanto abbrutimento è stato possibile anche grazie agli interessi di bottega e/o alle pigrizie di comodo di una chiesa e di un clero più inclini a tradurre la fede nella comoda e compensativa religiosità popolare che impegnati alla difficile e scomoda testimonianza. In questo, grande supporto è dato dalla teologia di palazzo, tutta ideologia e affatto evangelica. Ma qui si apre un altro discorso.
Per ora dobbiamo dire grazie al richiamo forte di papa Francesco e allo scandalo salutare di Oppido Mamertina.
Weekend di paura afroamericani
Tre neri uccisi a Tulsa. L’America riscopre la violenza razziale
Presi i due killer che giravano per le strade sparando a passanti di colore
di Glauco Maggi (La Stampa, 10.04.2012)
Un tragico weekend di fuoco a Tulsa, in Oklahoma, ha lasciato sul terreno tre cadaveri, tutti afro-americani, mentre due altre persone sono rimaste ferite. Su indicazioni anonime la polizia ha arrestato sabato mattina i presunti colpevoli, che venerdì avevano battuto le strade del quartiere a Nord della città, a popolazione prevalentemente di colore, sparando all’impazzata sui passanti da un furgoncino bianco, rintracciato poi semibruciato. I due, Jake England, 19 anni, americano nativo Cherokee, e Alvin Watts, 32 anni, bianco, vivevano insieme in una casa prefabbricata nella campagna di Tulsa e sono già apparsi in tribunale ieri mattina, senza avvocati e con una cauzione fissata per entrambi a 9,2 milioni di dollari.
Sulla loro colpevolezza non ci sarebbero dubbi, anche se non si sa se abbiano confessato e accettato di collaborare con lo sceriffo Shannon Clark e gli agenti Fbi che stanno conducendo l’inchiesta balistica per ricostruire la dinamica dei fatti e capire se la coppia abbia agito da sola o con dei complici.
Sui due, oltre alla incriminazione per i tre omicidi di primo grado e per i due tentati omicidi, pesa il sospetto d’aver agito per motivi di odio razziale. L’agente speciale dell’Fbi che guida l’inchiesta, James Finch, ha dichiarato però che «è molto prematuro parlare di crimine basato sull’odio. Ci sono troppe domande senza risposta a questo stadio dell’indagine, e troppe prove ancora da analizzare».
Sicuramente, il punto di partenza è ciò che lo stesso England ha messo su Facebook giovedì scorso, il giorno prima della follia assassina. «Oggi sono due anni che mio padre se n’è andato», ha scritto esprimendo dolore e rabbia in riferimento alla morte del papà, Carl, ucciso il 5 aprile 2010. Un afro-americano, Pernell Jefferson, 39 anni, indicato come persona di interesse nel caso, è ora in una galera di Stato. Per descriverlo, nel suo messaggio England ha usato un epiteto razzista. Suo padre era stato colpito da uno sparo a poca distanza da dove è stata ritrovata una vittima del venerdì di fuoco. Jefferson non è mai stato accusato di averlo ucciso, anche se ha ammesso di aver avuto con lui un diverbio quella stessa sera. «E’ dura non uscire di testa pensando a questo e a Sheran», ha continuato a scrivere il killer, alludendo al recente suicidio della sua fidanzata Sheran Hart Wilde, 24 anni.
Le tre vittime Dannaer Fields, 49 anni, Bobby Clark, 54, e William Allen, 31, non si conoscevano tra di loro e non avevano mai avuto nulla a che spartire con i loro giustizieri; il loro unico punto in comune era il colore della pelle. Quando venerdì, a Tulsa, si sono propagate in pochi attimi le drammatiche notizie, nella comunità di colore, 62 mila persone su 392mila abitanti, è scoppiato il panico. Un consigliere comunale afroamericano, Jack Henderson, ha raccontato di aver ricevuto molte telefonate dalla gente che aveva paura a uscire di casa. «Ora, con questi due in custodia, tutta la città si sente più al sicuro».
Parmenide, l’assessore e le rovine di Velia
di Antonello Caporale (La Repubblica, ed. Napoli, 20 marzo 2012
Se Parmenide e Zenone avessero avuto la fortuna di conoscere l’onorevole Marcello Taglialatela sicuramente l’avrebbero condotto tra le rovine di Elea, la nobile città della Magna Grecia ora strangolata dall’alluminio anodizzato, dalle targhe fosforescenti, dalle case di mattoni bucati. Se solo avessero avuto questa fortuna avrebbero guidato l’assessore regionale all’Urbanistica a osservare come si sia riusciti a ingoiare persino il loro mare, affrontando le onde col cemento, chiudendo agli occhi e al cuore ogni rispetto per la memoria comune.
Ma Taglialatela di Velia, patrimonio dell’umanità rovinato dagli umani, simbolo della mediocrità di un ceto politico che danza al ritmo del calcestruzzo, ha purtroppo scarsa stima. L’assessore, cugino alla lontana di Attila, ha pensato di segnare la sua presenza alla Regione con un grandioso piano paesistico, opera formidabile di scrittura compulsiva, legge fondamentale nella quale trovano posto tutti i più bei gnè-gnè del mondo. E infatti (e come volete che mancasse all’appello!), è previsto il solito e purtroppo inutile Osservatorio, che dovrà monitorare l’integrità del paesaggio. Dovrà. Futuro del verbo dovere.
Nell’attesa, la legge annuncia la fine dell’unica legge che ha un poco salvaguardato Velia da altro cemento, un provvedimento speciale, approvato all’unanimità dal consiglio regionale nel 2005, che riduceva - seppure in limine mortis - l’appetito agli speculatori. Sei articoli che imponevano lo stop al consumo del suolo e la misericordia collettiva per i resti che ancora restano in vita.
Era una legge di salvaguardia, che ammetteva nella sua drastica misura il default della politica, l’incapacità delle amministrazioni locali di governare lo sviluppo del territorio per colpa delle collusioni e delle corruzioni, dell’ignoranza assoluta e dell’assoluta inconsapevolezza di cosa siano la bellezza e la cultura. E che valore abbia la nostra memoria, quale saldo anche economico produca.
Cosa è cambiato dal 2005 ad oggi? Cosa? Ce lo dica Taglialatela. Ci dica per esempio cosa ne è oggi della magnifica marina di Ascea, dove le concessioni edilizie sono sempre in eruzione malgrado lo zero spaccato imposto sette anni fa. Figurarsi senza quella normativa! Magari, ecco il bel futuro, avremo il suo ottimo Osservatorio che segnalerà nuovi seminterrati di carta, nuovi piani rialzati, nuove serrande di nuove finestre affacciate sulla Porta rosa.
Se solo Taglialatela facesse amicizia con Parmenide e Zenone...
iconografia e religione
Quando la Madonna divenne l’icona del potere di Bisanzio
Un saggio della storica Pentcheva studia l’uso «politico» che delle immagini sacre venne fatto lungo i secoli dagli imperatori e dalla Chiesa d’Oriente
DI MICHELE DOLZ (Avvenire, 30.06.2010)
« L a Vergine è più amata e venerata qui che in ogni altro luogo del mondo. Si dice infatti e si crede che Costantinopoli sia la città personale della Madre di Dio». Così scriveva un pellegrino latino dopo la sua visita a Costantinopoli verso la fine dell’XI secolo. E tale doveva apparire il potentissimo culto che la città imperiale e gli imperatori per primi tributavano alla Madonna. Anzi, il nome stesso di Madonna, mia Signora, proveniente dall’amor cortese, ha poco a che fare con gli appellativi bizantini che cercavano di mettere in risalto il potere di protezione: Theotokos (Colei che ha partorito Dio), Meter Theou (Madre di Dio), Panagia ( Tutta Santa). Tradizionalmente gli studi attribuiscono la nascita di un culto mariano patrocinato dall’impero a la augusta Pulcheria (414-453). Ora uno studio ben documentato di Bissera V. Pentcheva - Icone e potere. La Madre di Dio a Bisanzio , ( Jaca Book, 338 pagine illustrate, 46 euro) -, suggerisce che i veri promotori siano stati gli imperatori Leone I (414-453) e Verina, forse guidati dal desiderio di emulare Roma. Edificarono il monastero delle Blancherne, fuori porta, allo scopo di ospitare la reliquia della tunica di Maria. E ad essa affidarono le sorti dell’impero.
Gli imperatori vi andavano a pregare prima d’intraprendere le campagne militari. Ogni venerdì si celebrava un ufficio mariano seguito da una processione, ed era convinzione popolare che tali cerimonie suscitassero la protezione di Maria. A corroborare il pensiero si istituì una festa annuale per ringraziare la Theotokos delle vittorie sui nemici. Era il rituale chiamato Akathistos, dal nome del famoso inno che vi si cantava. Le icone vennero introdotte gradualmente in tale contesto, sostituendo di fatto la reliquia.
Nel corso dell’XI secolo, una nuova icona si rese più popolare: la Hodegitria ovvero Colei che guida. Essa era venerata in un altro monastero chiamato Hodegon e veniva pure portata in processioni settimanali. Non è difficile capire come simili immagini divennero miracolose esse stesse.
Giovanni II Comneno (1118-1143) edificò un nuovo mausoleo imperiale presso il monastero del Cristo Pantokrator (= che governa ogni cosa) e ne integrò il culto in quello precedente: ogni venerdì la processione si fermava al Pantokrator. A Maria si affidava allora la protezione della dinastia.
I generali Foca e Zimisce, usurpatori del trono, avevano in precedenza organizzato un vocabolario visivo che esprimesse il concetto romano di Vittoria e ne trovarono una sostituzione nella ’potente’ Vergine. Fu Zimisce a ordinare la prima processione trionfale con l’icona di Maria come punto focale.
Il libro della Pentcheva costituisce un contributo molto importante sull’argomento del potere delle immagini nella Bisanzio pre e post iconoclasta. Fino ad ora ci si affidava agli accenni di Freedberg e Belting, pubblicati vent’anni fa e necessariamente limitati in opere di carattere generale. La presente focalizzazione permette l’ingrandimento sufficiente per poter discerne che il culto delle icone come sostituzione delle reliquie si è sviluppato nel periodo posteriore all’iconoclasmo. Si capisce anche come Grabar, oltre a sostenere la teoria di Kondakov sul rapporto tra nome dell’icona e schema visivo, individuò l’esistenza di nomi qualitativi e poetici derivati dall’innologia e riferiti ai poteri della Madre di Dio.
L’autrice analizza in che modo questi nomi definiscono la funzione dell’icona. Sull’uso politico delle icone, non ci sono dubbi, benché ciò nulla tolga all’autenticità religiosa del loro utilizzo. Si conservano monete sul cui recto la Theotokos e il sovrano (Foca) stringono insieme lo stesso scettro, oppure la Theotokos pone la sua mano sulla corona del sovrano (Zimisce). Costantino il grande era considerato modello dell’imperatore e si diceva che, nel fare proprio il segno di Dio, avesse dedicato Costantinopoli alla Madre di Dio.
“L’idea mediterranea include l’islam”
intervista a Henry Laurens*, a cura di Jean-Christophe Ploquin
in “La Croix” del 7 maggio 2010
(traduzione: www.finesettimana.org)
Un vertice dell’Unione per il Mediterraneo si terrà il 7 e l’8 giugno a Barcellona. Da quanto il mar Mediterraneo è percepito come un elemento che unisce?
È una delle idee tardive, apparsa nella seconda metà del XIX secolo. A lungo, il nome Mediterraneo è stato applicato solo allo spazio occidentale. Nelle lingue arabe si parlava di Mare Bianco, in opposizione al Mar Nero. Lo si chiamava anche il mare dei Roums, dei Romani, termine che indicava i Bizantini. In Europa, per indicare l’est del Mediterraneo si parlava del Levante, che cominciava dall’Adriatico, e della Barbarie per designare il Maghreb. Con le indipendenze balcaniche e la conquista francese nell’Africa del Nord, queste nozioni hanno perso importanza e si sono imposte delle rappresentazioni nuove, in particolare quella della latinità.
Di che cosa si trattava?
Questo discorso è apparso, da un lato, come reazione all’affermazione abbastanza trionfante della germanità, in una concorrenza intraeuropea per attribuirsi l’eredità greco-romana; dall’altro, come giustificazione della colonizzazione nell’Africa del Nord. È l’epoca in cui si riscoprono dei siti archeologici dell’antichità sul perimetro mediterraneo. La latinità permette di affermare, in qualche modo, che gli europei non sono stranieri e che semplicemente riconquistano una terra. Napoleone III dirà agli arabi dell’Algeria: “Voi siete i nostri Galli, noi siamo i vostri Romani.”
Quando s’impone l’idea di Mediterraneo?
Segue l’emancipazione delle popolazioni del Mediterraneo orientale e la perdita del monopolio della modernità da parte dell’Europa. Quando gli arabi cessano di essere orientali, diventano mediterranei. Ci sarà anche una corrente che difende l’idea mediterranea come protesta contro l’America, la cui società tecnologica spaventa.
Qual è il futuro dell’Unione per il Mediterraneo, che sembra già prigioniera del conflitto israelo-palestinese?
Ci sono due problemi. Quello di Israele e quello della penisola arabica. I paesi del Golfo Persico sono come l’Europa del Nord: non giungono alle sue rive, ma appartengono al secondo cerchio del Mediterraneo. Sono presenti finanziariamente ovunque su entrambe le sponde e sono una potente pompa aspirante di manodopera mediterranea. La mia visione personale è che l’Unione per il Mediterraneo dovrebbe includere i paesi del Golfo ed escludere Israele, che invece potrebbe beneficiare di un partenariato privilegiato con un livello di partecipazione più alto negli organismi europei. Bisogna accettare il fatto che questo paese è ancora incapace di integrarsi regionalmente nel Medio Oriente e che rischia di restarlo a lungo.
Come articolare l’Unione per il Mediterraneo e l’Unione Europea?
L’ambizione mediterranea dell’Unione Europea parte da una realtà semplice: per la prima volta dalla fine dell’Impero romano, tutta la riva nord si sta unificando. L’Unione Europea è un impero per consenso, che crea un immenso scarto di potenza e di ricchezza tra le due rive del Mediterraneo. Questo squilibrio deve essere affrontato, ma il modo di farlo dipenderà dalla sorte riservata alla Turchia. Sarà nell’Unione Europea o fuori? Questo dipenderà da come si definisce l’UE. Geograficamente, l’Europa non ha senso: c’è l’Eurasia, punto e basta! Culturalmente, gli ideologi fanno ancora finta di credere che l’Europa si definirebbe con una sequenza che parte dall’eredità greco-romana, i barbari, poi gli strati del Medio Evo, del Rinascimento, del barocco, del classicismo, dell’illuminismo, del romanticismo... Ma questa sequenza è stata interrotta con l’entrata della Grecia, quella della Bulgaria e, domani, quella della Serbia... Questi popoli, infatti, si sono uniti al concerto europeo solo con il romanticismo. Prima, facevano parte dell’Impero Ottomano. Ciò depone a favore di una definizione di Europa come una patria di cittadini. Allora, si potrebbe accettare la Turchia. E, sul lungo periodo, ciò vorrebbe dire che nel 2070 tutto il Mediterraneo potrebbe essere nell’Unione!
Come sarebbe?
Attenendosi, per l’adesione, a dei criteri democratici e di cittadinanza, si aprirà la possibilità di una Unione euro-mediterranea. Invece, se bloccheremo l’entrata della Turchia, fisseremo l’Unione Europea a Nord. Questa è la vera posta in gioco. Il futuro è aperto: l’Unione Europea può essere o una tappa, o un punto d’arresto.
Oggi è assolutamente impensabile. Gli europei temono i flussi migratori che arrivano dal Sud.
Sì, ma il serbatoio si sta per prosciugare. Nel 2050 0 nel 2070, la struttura demografica dell’Algeria, del Marocco o della Tunisia sarà dello stesso tipo di quella europea. Già oggi, la natalità francese è superiore alla natalità tunisina. Nei fatti, il Maghreb diventa la linea di confine, il “limes” europeo.
La religione non è un fattore bloccante?
Non appare come un elemento che unisce. Una delle ragioni è il concetto identitario di giudeocristianesimo. È un concetto che è comparso come una reazione estremamente positiva alla Shoah, quando le Chiese cristiane hanno detto che l’antisemitismo era un abominio e hanno affermato la loro fraternità con gli ebrei. Purtroppo, affermare oggi una civiltà giudeo-cristiana viene inteso come una logica di esclusione da parte dei musulmani. Al contrario, l’idea mediterranea include l’islam, che è uno degli eredi della cultura greca. Quanto alla bagarre sul velo, sul burqa, sull’apparenza, sul corpo vi è in tutto questo un problema estremamente complesso, che riguarda tutti e tre i grandi monoteismi, che è il rapporto tra il religioso e il femminile. La modernità pare loro incontrollata nella questione del corpo femminile e in quella della procreazione. Oggi, la laicità rinvia alla questione femminile e non, come prima, al rapporto con la politica.
* Henry Laurens è storico, professore al Collège de France
Un simbolo sfruttato dalla Chiesa dopo il Concilio di Efeso e nell’offensiva anti Lutero
La Vergine col bambino un’icona contro le eresie
Ma l’immagine fu ereditata dalla dea egizia Iside
di Francesca Bonazzoli (Corriere della Sera, 20.11.2008)
Ancor prima dell’epoca cristiana, l’immagine della «Madre col Bambino» veniva già usata da molte culture con un significato religioso: nell’area mediterranea, per esempio, rappresentava la dea Iside con in grembo il figlio Horus e fu proprio questa iconografia egizia a passare in quella cristiana occidentale attraverso la mediazione dell’Oriente bizantino.
In particolare, dopo il 431, le gerarchie ecclesiastiche cristiane promossero l’immagine della Madonna col Bambino per dare forza alla condanna, votata dal Concilio di Efeso, dell’eresia nestoriana secondo la quale la Vergine non poteva essere chiamata «madre di Dio», ma solo madre di Gesù poiché non aveva generato un Dio, bensì solo il corpo in cui Dio aveva poi preso dimora.
Da quel momento fino al Medioevo nelle chiese cristiane si assiste a una proliferazione delle immagini della Madonna col Bambino (spesso accompagnate dall’iscrizione «Maria Mater Dei» e «Sancta Dei Genitrix») raggruppabili in diverse varianti: la Madonna del latte (dove la Vergine allatta il figlio) è una delle prime iconografie conosciute, fin dalla catacomba di Priscilla del III secolo; la Madonna orante col Bambino (genuflessa e con le mani giunte mentre adora il figlio poggiato su un lembo del proprio manto); la Madonna leggente col Bambino (con in mano il libro della Sapienza); la Madonna del roseto (seduta in un giardino di rose simbolo della verginità della madre di Dio) particolarmente amata nel Nord Europa; la Madonna col bambino in trono (dove Maria personifica la Chiesa), di derivazione bizantina e i cui più antichi esempi in Occidente si trovano nei mosaici di Ravenna.
L’immagine registra poi un secondo grande momento di successo che coincide ancora una volta con un’eresia: quella protestante. A cavallo fra XV e XVI secolo, l’impiego della Madonna col Bambino viene nuovamente incentivato da parte della Chiesa cattolica per fini propagandistici e, dopo la condanna di Lutero, per confutare la dottrina protestante che ridimensionava il culto della Vergine assieme a quello dei santi. In quest’epoca furono soprattutto due i pittori che portarono il soggetto alla gloria: Raffaello e Giovanni Bellini. Il primo perché, noto ammiratore e amante di donne, seppe dare alle sue Madonne grazia e bellezza idealizzate, di una perfezione che incantava e trascendeva qualsiasi modello umano; il secondo perché, sincero credente, nei volti delle sue Vergini dall’aria dolce e domestica ritraeva quello della moglie amata di un amore casto e cristiano.
Nel Rinascimento il culto mariano si era ormai molto diffuso e via via che la devozione popolare si era fatta più appassionata, anche l’iconografia della Madonna col Bambino aveva perso la primitiva ieratica monumentalità per acquisire un tono più tenero. La rigidezza, eredità orientale nella rappresentazione della Madre in posizione frontale con il bambino eretto, vestito e benedicente, aveva lasciato già nel XIV secolo il posto a due nuove varianti dove madre e figlio venivano messi in un rapporto di affettuosità attraverso un gioco di sguardi o di mani: la Madonna dell’Umiltà (in particolare nel-l’Italia settentrionale) e la Mater amabilis, il tipo di rappresentazione più amata fra tutta l’iconografia mariana. È soprattutto per quest’ultima immagine intima e domestica che si sviluppano leggere varianti attraverso l’inserimento di oggetti simbolici. Fra i più frequentati figurano la mela, frutto dell’albero del Bene e del Male: tenuta in mano dal Bambino allude alla redenzione dal peccato originale.
L’uva è simbolo del vino eucaristico e quindi del sangue del Cristo redentore (anche nella variante della brocca che contiene il vino). Analogamente, le spighe sono il pane eucaristico e dunque il corpo di Cristo. La ciliegia, frutto del Paradiso, è simbolo del Cielo; la melagrana, che già nel mondo pagano era attributo di Proserpina, dea che presiedeva alla germinazione, allude alla Resurrezione. La noce, invece, era un complesso simbolismo sviluppato da sant’Agostino, dove il mallo stava per la carne di Cristo, il guscio di legno alludeva alla croce e il gheriglio alla natura divina del Cristo.
E infine l’uccello che, nella pittura cristiana, mantiene il simbolismo che già aveva in quella pagana, ovvero rappresenta l’anima umana che vola via alla morte del corpo. Spesso è un cardellino perché il suo piumaggio colorato lo rendeva particolarmente attraente agli occhi dei bambini e anche perché, secondo una leggenda, la macchia rossa sul capo sarebbe stata un residuo del sangue di Cristo con cui il cardellino si macchiò volando sopra la testa incoronata di spine di Gesù mentre questi saliva al Calvario.
CON MARITAIN, OLTRE MARITAIN:
Il pensatore francese valorizzò il Mediterraneo come crogiolo di culture e religioni diverse.
Qui nacque l’idea feconda che il confronto con l’altro arricchisce la propria identità
Influenzò il giovane Bobbio e Adriano Olivetti, a Chicago lavorò con Strauss e Voegelin
per tracciare un fondamento più sicuro alla democrazia dopo il dramma dei due conflitti mondiali
DI ROBERTO PAPINI (Avvenire, 18.03.2010)
Jacques Maritain (1882- 1973) è generalmente riconosciuto come uno dei maggiori pensatori del XX secolo, anche se l’articolazione scolastica della sua opera ha allontanato molti tra i suoi potenziali estimatori. Ricorrendo ad un tomismo duttile ed aperto ha affrontato i maggiori problemi teorici del suo tempo nei campi più diversi: nella metafisica, nell’epistemologia, nella filosofia della natura e in quella della cultura, dell’estetica e dell’educazione ed anche nella politica, conducendo una battaglia per la liberazione dell’intelligenza e un ritorno al realismo, nella prospettiva di dare un fondamento alla nozione di persona.
Specialmente in Umanesimo integrale, Maritain analizza i rapporti tra persona e società e afferma che l’uomo non si esaurisce nel sociale, anche se è portato ad una « comunione sociale » : la società è per le persone e non le persone per la società. Il bene comune non consiste allora solo in una redistribuzione del benessere materiale, ma soprattutto nell’edificazione di una società che favorisca la promozione di tutto l’uomo e di tutti gli uomini.
Per dirla sinteticamente, la filosofia di Maritain è un umanesimo personalista. D La sua filosofia politica si sviluppa già nelle sue opere degli anni Venti, partendo dall’idea di persona presente in San Tommaso, ma da lui approfondita nella sua dimensione storica e relazionale. Maritain, in particolare, teorizzerà quella corrente filosofica, il personalismo, cui appartengono, per molti versi, autori come Mounier, Lévinas, Ricoeur, Buber, Scheler, Guardini, il giovane Bobbio, Olivetti, Pareyson ... e tanti altri che, da un lato, rifiutano l’atomizzazione della società liberale e, dall’altro, il collettivismo delle società comuniste ( oltre ai fascismi emergenti).
Da qui il disegno di una società pluralista, personalista e comunitaria il cui fondamento non è né l’individuo né lo Stato, ma la persona. Con questa prospettiva si può dire che Maritain ha veramente attraversato i grandi problemi del Novecento e non in modo disincantato ( basti ricordare le sue numerose battaglie per la fondazione dei diritti umani, il suo impegno per la fine della guerra civile in Spagna, i Manifesti firmati con altri intellettuali francesi ed europei...), ma come pensatore di movimento, « filosofo nella città » , intellettuale impegnato a servizio della verità e della giustizia.
Durante la guerra Maritain, rifugiatosi negli Stati Uniti a causa del suo antinazismo, approfondirà il suo pensiero politico nel contesto americano. Nel 1949 Maritain, allora filosofo cattolico molto conosciuto, veniva invitato all’Università di Chicago con Leo Strauss, Eric Voe- gelin e Yves Simon ad offrire un contributo per una nuova filosofia della democrazia e dei diritti umani ritenuta necessaria per una ricostruzione solida dello spirito e delle istituzioni democratiche, a livello nazionale e internazionale, dopo la catastrofe delle due guerre mondiali.
Erano gli anni movimentati del dopoguerra e da molti era avvertita la necessità di approfondire la ragioni del « vivere assieme » , anche se la guerra fredda e la minaccia nucleare aveva spento molte speranze di trovare un camino pacifico per i paesi del pianeta dopo la firma della carta dell’Onu a San Francisco nel 1945 e la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo nel 1948. L’idea era quella di un ordine ( nazionale ed internazionale) fondato sulla persona umana ed i suoi diritti e doveri, un’idea cui Maritain aveva già dato un contributo importante alla cultura del tempo e, in particolare, durante la stesura della Dichiarazione Universale del 1948. Uomo e lo Stato, che raccoglie le conferenze di Chicago, si rivelò non solo il capolavoro della sua filosofia politica, ma fu considerato uno dei libri che coglievano con più profondità lo spirito dei tempi e disegnavano prospettive concrete, anche se difficili, per l’edificazione di un mondo pacifico.
La triade persona umana e suoi diritti - società civile ( Maritain usava il termine « corpo politico » ancor più carico di significato in quanto assorbiva l’idea di Stato) - democrazia, costituisce per il pensatore tomista la base su cui costruire un mondo nuovo che avrebbe dovuto sostituire il ’ désordre radical’ che aveva dilaniato il Novecento, con la triade individuo (individualismo) - nazione - Stato. La centralità della democrazia è, insomma, il tema dominante di L’uomo e lo Stato.
Una vera democrazia - politica, economica, sociale e culturale - espressione reale di un «corpo politico » maturo, è il sistema migliore con cui gli uomini possono autoregolarsi e limitare l’idea che sia lo Stato a permettere i diritti umani, mentre a lui non spetta che riconoscerli come inerenti alla natura umana; e solo un mondo formato da democrazie sul piano nazionale può dar vita ad un’autentica democrazia internazionale e ad una globalizzazione guidata non solo da imprese transnazionali, ma da un’ « autorità politica mondiale » espressione autentica di un « corpo politico » mondiale (oggi diremmo «società transnazionale » ). L’idea di persona e di democrazia si sono sviluppate nell’ambito del Mediterraneo in un intreccio tra religioni ( là Dio è entrato in contatto con l’umanità), culture ( è sempre stato un crocevia tra Oriente e Occidente) e politica in situazioni di conflitto, ma anche di reciproca collaborazione.
In un momento difficile come quello attuale, le analisi sottili di Maritain ( già presenti in Religione e cultura) su ebraismo, cristianesimo e islam, ci aiutano a comprendere tutte le valenze del « mare nostrum » che ha offerto al mondo il pensiero per autocomprendersi attraverso l’incontro con l’altro e tessere trame di collaborazione messe spesso alla prova, ma che hanno resistito e si sono rinnovate nei secoli. Anche se accade che la violenza reciproca ci faccia velo, non possiamo dimenticare che esiste un umanesimo mediterraneo ( personalista). Maritain, filosofo della persona, come molti autori ebrei, cristiani e musulmani, ne era cosciente.
CONVEGNO
IL «PADRE» DELLA DICHIARAZIONE DEI DIRITTI UMANI
Trentacinque anni di vita, un percorso di ricerca accademica che ora può andare sotto la lente d’ingrandimento degli studiosi. Per tale motivo si svolge in questi giorni a Roma il convegno «L’Istituto Maritain tra memoria e progetto dopo trentacinque anni», promosso in collaborazione con il Centro culturale San Luigi dei francesi e la Fondazione Roma. L’evento si è aperto ieri con la presentazione del volume di Jean-Dominique Durand, «Un laboratorio per la democrazia» (Il Mulino), dedicato all’attività dell’ente maritainiano.
Sono intervenuti William Sweet, vice presidente del «Maritain», Mauruzio Fallace, del Ministero per i Beni culturali, e Sergio Fernàndez Aguayo, presidente dell’Istituto Maritain del Cile. Oggi, in via del Corso 320 a Roma, doppia sessione di lavori con gli interventi, tra gli altri, di Roberto Papini, segretario generale dell’Istituto (di cui anticipiamo qui l’intervento), Federico Mayor, già direttore generale dell’Unesco, Marcelo Sànchez Sorondo, Cancelliere della Pontificia accademia delle scienze, Pedrag Matvejeviç, docente della Sapienza di Roma, Robert Royal, esponente del Faith & Reason Institute di Washington, e Mohammed Arkoun (professore alla Sorbona di Parigi). Il convegno si conclude sabato con una riflessione sull’enciclica «Caritas in veritate», dove interverranno Giancarlo Zizola, monsignor Agostino Superbo, Piero Votto, Gennaro Curcio.
La madonna pentita della ’ndrangheta
di Mimmo Gangemi * (La Stampa, 3 settembre 2010)
La donna è un’attempata popolana, con baffetti che non osa rasare per la maggiore vergogna a mostrarsi senza, capelli intrecciati a corona sulla nuca, faccia segnata dalle rughe. La grazia - già spuntata o su cui forzare la Vergine - dev’essere di quelle complicate, se la poveretta s’è calata in ginocchio all’ingresso della chiesa e messa a strusciare la lingua sul pavimento, direzione la statua sull’altare. Si batte il petto e prega nel leccare, mentre una comare caritatevole le spazzola davanti. Traccia una scia simile a quella di un limbaccio. Mi sussurrano un nome - lo taccio per motivi di salute - e che sta esaudendo un voto: ringrazia la Vergine dell’innocenza ottenuta dal figlio in un processo per omicidio di cui anche le galline lo sanno colpevole.
Una penitente percorre sulle ginocchia le pietre del selciato, snodando la corona del Rosario, entra in chiesa, arriva davanti alla statua, piange lacrime silenti. Chiede vita per il bimbo malato. Le ginocchia sono un grumo sanguinolente. Altre hanno i piedi piagati, per aver fatto scalze l’intero percorso fin dal paese. Un giovane arriva sotto una campana di spine; il torso e la schiena, nudi, sono puntellati di sangue.
Scene antiche, già scolpite nei miei ricordi di mezzo secolo fa e che non avrei creduto di poter rivedere il primo di settembre del terzo millennio, vigilia del clou dei festeggiamenti iniziati il 24 agosto con la novena.
Nel piazzale davanti, uomini si passano un otre di terracotta, di quelli a ugello. Contiene vino. Prima di bere, schizzano via le poche gocce che creanza pretende, lo rivoltano dal manico sul dorso della mano e si fanno calare uno spruzzo a ombrello, come gli zappatori per levarsi di bocca l’acre sapore della terra.
Poco più in là, la tarantella è di quelle serie, dove non si può sgarrare. Il mastro da ballo è il più alto in grado, tra i presenti, nell’onorata società. Invita il compagno di danza dal folto cerchio di soli uomini che delimitano lo spazio. Passi e mosse al ritmo di tamburelli, organetto e cerameje (una specie di cornamusa): simulano il duello al coltello. È ‘ndrangheta, di quella antica. Giocano alla ‘ndrangheta - ma non è detto non ci scappi il sangue. Quanti contano davvero se le sono scrollate certe esibizioni, coniano moneta, loro, in qualsiasi modo, sempre illecito. Un giovane fende il cerchio. Gagliardo, occhi per nessuno, induriti, labbra a broncio. Si solleva un brusio. Il mastro da ballo gli cede il posto con un inchino. L’altro ne assume il ruolo. Non più di dieci minuti e s’allontana in direzione dei monti. Un sussurro giunge anche alle mie orecchie: «di razza nobile». E il nome, ben noto. Che taccio, di nuovo per non dovermi ammalare.
Altre tarantelle, sparse qua e là, sono invece senza rigidità: anche donne vi saltellano i passi, si ride e si scherza, non c’è gerarchia, né regola sociale. Così fino a tarda sera. E nella notte. Si dorme poche ore nelle casette, sulla paglia. Il riposo serve, al risveglio sarà il gran giorno.
Siamo a Polsi, nel cuore dell’Aspromonte, territorio di San Luca, patria di Corrado Alvaro. La Vergine è la Madonna della Montagna, ingiustamente nota come la Madonna della ’ndrangheta.
Convergono a migliaia qui, da tutti i paesi della provincia, devoti, curiosi, e ’ndranghetisti. Polsi è, per un calabrese, come La Mecca per un musulmano. È quella valle in fondo, incassata ai piedi di una corona di monti, sul versante ionico del reggino. Una volta ci si arrivava a piedi o a dorso di mulo, d’asino. Mi assale malinconico un altro tempo, immagini ingiallite. Un sentiero, allora.
Una striscia serpeggiante di nuda terra tra il disordine delle erbe. Puntava, contorto e ripido, i faggi della dorsale. Sulla destra, un dirupo da cui scansare lo sguardo, una caduta interminabile fino all’alveo della fiumara. Sulla sinistra, alberi, ombre più scure dentro il buio della notte. All’inizio gli ulivi, alti e ingombranti, poi i panciuti castagni ingioiellati dai ricci ancora chiusi, quindi bassi pini marittimi, la faggeta infine, con tronchi di una pallida luminescenza. Appena alla cresta, un taglio netto: non più il verde lussureggiante, ma una terra brulla, arsa e rinsecchita, con radi arbusti, frane, pietre in precario equilibrio sui costoni. La pista scendeva zigzagando, tornante dopo tornante, fino a una fiumara, poco più d’uno spruzzo d’acqua. Oltre, Polsi.
Altri tempi. Quel sentiero è ora una strada carrabile, tagliata a mezza costa. Lo strapiombo è sempre lì, come è lì la fiumara. Anche gli alberi sono gli stessi, ingrigiti da cinquanta cerchi in più, gli stessi cerchi che ho aggiunto io ai miei anni.
Trascinano un bue dentro la chiesa. A forza, perché resiste, sembra avere remore a entrarci sacrilego. Scopro che i buoi ne hanno diritto. Perché tutto cominciò da un bue: a metà dell’XI secolo, un pastorello di nome Italiano, di Santa Cristina d’Aspromonte, trovò il bue smarrito intento a scavare in terra con gli zoccoli, finché emerse una Croce greca, e lo vide inginocchiarsi. Al pastorello apparve la Madonna e gli chiese un santuario in quel luogo, dove già esistevano un rifugio costruito nel III secolo da cristiani che scappavano dalle persecuzioni degli imperatori romani e un insediamento, databile IX-X secolo, dei monaci basiliani provenienti dai paesi conquistati dagli arabi.
La leggenda racconta che i monaci usassero mettere un confratello in posti dove poter soccorrere i viandanti, per non perdersi; uno di questi, di nome Toppa, morì assiderato in una notte di gelo, mentre cercava legna con cui ravvivare il fuoco. Apposta tradizione vuole che il pellegrino, nel suo primo viaggio, depositi un ramo davanti alla Croce di Toppa. Nessuno oggi sa dove essa sia. Fino a qualche tempo fa, per ogni strada che conduceva a Polsi, c’era un posto chiamato «Croce di Toppa».
Il santuario splendette fino al 1481, anno in cui i monaci basiliani lo abbandonarono, per ritirarsi a Grottaferrata. I secoli successivi furono di decadenza. Risorse - e ricominciò la frequentazione in massa dei fedeli - solo dopo la prima metà del XVII secolo, quando il santuario passò sotto la giurisdizione del Vescovo di Gerace.
Con il tempo, Polsi, pur restando luogo di devozione e di culto, è diventato punto di raccolta della ’ndrangheta, un porto franco dove, fino agli anni ’60, era tollerato che si portassero armi e che si celebrasse l’uscita della statua della Madonna a colpi di fucile esplosi per aria - talvolta addosso a qualcuno che, allo snodarsi della processione, restava macchia a intristire lo spiazzo - e dove le acque della fiumara si tingevano del sangue delle capre scannate per santificare la festa con una scialata di carne. La ’ndrangheta lì assumeva decisioni, dirimeva controversie, sentenziava morte, creava alleanze. E «battezzava» i nuovi adepti, sotto l’albero della scienza, il grosso castagno nel cui incavo comare Rosina depositava le armi dei ’ndranghetisti - che avevano l’obbligo di presentarsi disarmati alla riunione - annotando l’appartenenza come si fa oggi per i cappotti in un locale pubblico. La Madonna non pare contenta di questo - e neppure dei tanti gesti di paganesimo e d’idolatria. Non vorrebbe ’ndranghetisti su cui stendere il manto di misericordia. Lo rivelano i suoi occhi incerti e spauriti: ne ha viste troppe. Avesse saputo che finiva così, se la sarebbe risparmiata l’apparizione. Se rimane, è per la marea di fedeli che accorrono sinceri di fede.
A Polsi si vive una sensazione d’immutabilità, con il tempo che scorre più lento che altrove. Qui, ’ndrangheta vecchia e nuova camminano a braccetto, ed è la vecchia a sorreggere la nuova. Solo quando alla nuova mancherà quel sostegno, apparirà qual è: cruda e assassina. E sarà la sua fine.
* Scrittore calabrese, autore del romanzo «Il giudice meschino» (Einaudi)
’NDRANGHETA. SIGNIFICATO DELLA PAROLA
Polsi: nessuno vuole mancare
alla processione della ’ndrangheta
Nonostante i 300 arresti di luglio. Il vescovo di Locri: «Qui ci divide il cammino con chi ha scelto l’illegalità» *
POLSI (Reggio Calabria) - Lui sa che lo stanno ascoltando, che le «famiglie» di San Luca, Africo, Platì, sono venute anche quest’anno, malgrado la decimazione (300 arresti) dell’operazione Crimine di luglio. Addirittura i giovani del San Luca calcio, quelli che l’anno scorso scesero in campo col lutto al braccio dopo la morte del boss ‘Ntoni Gambazza, hanno preteso di portare loro la Croce in processione. Per farsi vedere da tutti. Perché questa da sempre è anche una storia di simboli.
VESCOVO - Il vescovo di Locri, Giuseppe Fiorini Morosini, sa che i figli della faida sono di nuovo lì davanti a lui come ogni anno, come ogni 2 settembre mischiati alla folla di Polsi, che batte le mani e canta «Evviva Maria» dietro alla statua della Madonna della Montagna. Perciò è a loro che ora parla direttamente: «Cari fratelli che avete scelto la strada dell’illegalità per costruirvi la vita, le vostre ricchezze, il vostro potere, il vostro onore, non c’è nulla che possiamo condividere. I nostri cammini non si congiungono a Polsi, se mai si dividono ancora di più». Così li mette davanti a un bivio: «Convertitevi o andatevene». Il vescovo è duro: «Non possiamo chiudere gli occhi sulla realtà calabrese», ammonisce. «Usura, droga, intimidazioni, sopraffazioni, violenza e non sarà Roma a risolvere i nostri problemi se non saremo noi a rialzare la testa...».
PAROLA MANCANTE - Ma l’omelia è incompleta, c’è una parola che manca sempre: ‘ndrangheta. Il monsignore non la pronuncerà mai. Il 2 settembre dell’anno scorso, proprio qui a Polsi, nel cuore dell’Aspromonte, mentre si svolgeva la festa solenne al suono dei tamburelli, degli organetti e delle zampogne, in mezzo alle salsicce arrostite e ai banchi di souvenir coi cd della ‘ndrangheta e le canzoni delle «tarantelle malandrine», i boss delle famiglie nominarono il loro «capo crimine», Domenico Oppedisano, lo elessero a presidente del cda delle cosche calabresi. Ma c’erano pure i carabinieri del Ros, quel giorno, con le loro telecamere e i microfoni nascosti sul piazzale. Gli uomini del colonnello Valerio Giardina ascoltarono tutto, filmarono tutto e il 13 luglio scorso è scattato il blitz. Operazione Crimine, l’hanno chiamata. Tra qualche settimana, dopo aver visionato i nuovi filmati girati giovedì, gli investigatori potranno dire se anche questa volta in fondo alla conca brulla s’è svolto un summit di mafia.
RIPARTIRE - «Polsi luogo di pietà semplice e devota», chiosa il vescovo Morosini nell’omelia. «Polsi diventato luogo violato e profanato da conterranei e fratelli di fede che hanno tradito la fede vera, pretendendo assurdamente di ricevere dalla Vergine Maria la benedizione sui loro patti illegali, sulla spartizione di un potere ingiusto. Ma ora tutti insieme dobbiamo ripartire». Ripartire da Polsi. «Il prossimo 29 settembre, giorno di San Michele Arcangelo, il nostro patrono, faremo qui la festa della Polizia», annuncia il questore di Reggio, Carmelo Casabona. Poiché questa da sempre è anche una storia di simboli.
Fabrizio Caccia
* Corriere della Sera, 02 settembre 2010(ultima modifica: 03 settembre 2010)