E’ MORTO CHAHINE, ’FELLINI D’EGITTO’ *
IL CAIRO - E’ morto al Cairo, a 82 anni, dopo lunga malattia, il regista egiziano Yussef Chahine, considerato dalla critica del suo paese ’il Fellini egiziano’. Di gran lunga il più conosciuto all’estero dei cineasti egiziani, era stato ricoverato a Parigi nel giugno scorso in gravi condizioni per un’emorragia cerebrale ed era stato operato. Era poi caduto in un coma dal quale si era risvegliato per poche ore.
Riaccompagnato al Cairo successivamente Chahine non si è mai più ripreso. Nato nel 1926 ad Alessandria d’Egitto, figlio di un avvocato siriano, di famiglia cristiana, Chahine aveva diretto più di 40 film, uno dei quali, "Il destino", aveva sollevato grandi polemiche per il suo modo di affrontare il tema del terrorismo.
FU VOCE DELLA LIBERTA’ IN EGITTO
di Giorgio Gosetti
Il nome di Youssef Chahine è di quelli che il cinema mondiale conosce da tempo ma che il pubblico italiano ha scoperto solo nella piena maturità di un regista che oggi l’Egitto e il Medio Oriente piangono come la loro "voce della liberta", di certo il più grande cineasta cresciuto negli ultimi 80 anni sull’altra sponda del Mediterraneo. Era nato ad Alessandria d’Egitto il 25 gennaio del 1926, si considerava cittadino del mondo e francese d’adozione ma alla sua terra è sempre rimasto legato in modo assoluto sentendosi interprete e bandiera di una cultura araba aperta al mondo occidentale. Cresciuto in una famiglia agiata ed educato all’occidentale lasciò il suo paese a poco più di 20 anni per andare a studiare il cinema in America, alla Pasadena Play House, mirando alla vicina Los Angeles. Ma dopo meno di due anni fu richiamato in patria da un amico del cinema egiziano, un pioniere della settima arte come il grande direttore della fotografia di origine italiana Alvise Orfanelli.
Fu proprio quest’ultimo ad offrigli, nel 1950, la possibilità di debuttare dietro la macchina da presa con l’autobiografico e giovanilistico Baba Amin. L’anno seguente, di nuovo al lavoro con Ibn El Nil riceveva il suo invito per il Festival di Cannes, primo cineasta egiziano ad avere questo onore. Il suo debutto a Cannes, nell’indifferenza dei giornali e degli addetti ai lavori, in una sala semivuota e nel gelo delle autorità ufficiali fu ricostruito con spirito umoristico e un pizzico di legittimo orgoglio (il film ebbe infatti poi una importante carriera internazionale) dallo stesso Chahine, un anno fa, facendone l’oggetto dell’episodio inserito nel film collettivo Chacun Son Cinema prodotto da Gilles Jacob. E in effetti a Cannes Joussef Chahine deve buona parte della sua risonanza internazionale poiché vi tornò a più riprese, ricevuto da maestro consacrato, fino a quando nel 1997 vi presentò Il Destino ricevendo il premio del cinquantesimo anniversario del Festival.
Nel frattempo aveva realizzato, scritto e sovente prodotto un imponente massa di lungometraggi (in tutto una cinquantina) fino alla recente Il Caos, presentato lo scorso settembre alla Mostra di Venezia. Il primo riconoscimento internazionale della sua carriera gli venne però dal Festival di Berlino, dove nel 1978 vinse l’Orso d’Argento con Alessandria...Perche?, primo capitolo di una trilogia di nuovo fortemente autobiografica che avrebbe sviluppato nel 1982 e poi nel 1990 concludendola idealmente con un quarto episodio datato 2004 e intitolato Alessandria, New York.
Nessun genere cinematografico gli è rimasto estraneo, dalla commedia al racconto sociale, dal musical folcloristico all’affresco storico di cui resta esempio importante il suo Adieu Bonaparte diretto nel 1985 e dedicato alla spedizione in Egitto di Napoleone. Ma é senz’altro nell’esercizio del racconto intimista con forti valenze socio-politiche che ottenne i migliori risultati come ad esempio ne Il Passero del 1973, una data storica per il cinema egiziano poiché coincide con la prima grande co-produzione di quel paese, realizzata insieme all’Algeria.
Quale è la lezione che ci lascia Joussef Chahine nella storia del cinema? Senz’altro quella di un’apertura mentale, intellettuale e ideologica in cui il racconto degli umili si fa emblema di un desiderio di riscatto in cui la tradizione araba fa germinare la capacità di aprirsi al mondo e di dialogare con le altre culture. Senz’altro un’idea di cinema in cui i modelli del racconto tradizionale si fondono con la lezione della nouvelle vague e del neorealismo italiano in un tentativo di sincretismo culturale che, ai suoi occhi, doveva portare l’Egitto a farsi nazione e cultura-guida per l’intero Medio Oriente.
Non ebbe rapporti facili, da questo punto di vista con il suo paese nei periodi della presidenza di Nasser e dei suoi successori. Gli capitò perfino di finire in prigione alla metà degli anni 80, per aver distribuito a proprie spese un film vietato dalla censura ufficiale. Seppe però usare al meglio il suo credito internazionale per difendersi dagli attacchi del regime e per pungolarlo ad una maggiore libertà a favore degli intellettuali. In Francia era di casa ma non è un caso che le sue opere più celebri si rifacciano sempre alla città natale, Alessandria, ad un mondo in cui, per un’utopia realizzata, ogni voce aveva diritto di cittadinanza e da ogni cultura si poteva imparare qualcosa
Sulle ali del pensiero
Il Destino, bellissimo musical contro l’integralismo di Chahine
di Curzio Maltese *
Quando il califfo Al Mansour ordina di bruciare tutte le sue opere, Averroè, immenso scienziato e pensatore arabo vissuto nella Spagna medievale, assiste al rogo nelle strade di Cordova. Una copia soltanto si salva, ma Averroè la lancia sulle fiamme: "Il pensiero ha le ali e niente può impedirgli di volare". È la scena di apertura di Il Destino di Youssef Chahine, un "musical contro l’integralismo", così è stato etichettato a Cannes dove ha vinto il premio istituito per festeggiare il cinquantenario del Festival.
Ma forse Il Destino è qualcosa di più. Uno dei rari esempi di coraggio del talento, un’opera profonda e lieve, divertente e intimamente seria, di grande attualità politca. Mentre fra Occidente e Islam crescono la distanza e l’incomprensione, alimentate dagli integralismi di questa e quella sponda, il film di Chahine ricorda la magnifica eredità che la cultura araba ha lasciato all’Europa. E lo racconta attraverso la figura di Averroè, genio, matematico, teorico, e uomo generoso, allegro, maestro di tolleranza. Un filosofo che ama il ballo, la buona tavola e le belle donne, legato ai piaceri della vita, com’è nella autentica e dolce, sensuale tradizione araba. Ma che non ha paura di rischiare la morte per difendere la sua libera visione del mondo dalle catene del potere. Un’eterno giovane, come il regista Chahine, settantadue anni e trentacinque film ale spalle, da sempre in pessimi rapporti con la censura egiziana.
Capace di far passare un discorso sulla libertà e la dignità umana attraverso una felice mescolanza dei generi cinematografici più popolari, dalla commedia al western fino al musical. Non ci si annoia davvero a inseguire le storie, le sorprese, le idee e la musica di un bel film che è come un viaggio su un tappeto volante, alto sulle misterie del potere e sul servilismo che lo circonda in ogni epoca. Forse anche utile a ricordare a un pubblico distratto e manipolato quanto la nostra cultura deve all’occupazione araba, dalla matematica alla medicina, all’astronomia. In tempi di razzismo e analfabetismo di ritorno, non è davvero poco
*
Fonte: la Repubblica, 21.04.1998.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
ITALIA E PAKISTAN: LA DIVINA COMMEDIA (Dante Alighieri) E IL POEMA CELESTE (Muhammad Iqbal). Ri-leggiamo insieme... le due opere e i due Autori! Un’ipotesi di rilettura di DANTE .... e un appello per un convegno e per il Pakistan!!!
I TRE ANELLI E L’UNicO "PADRE NOSTRO". NATHAN IL SAGGIO: CHE ILLUSIONE AFFIDARSI ALLA CHIESA ’CATTOLICA’!!!
FLS
Pianeta Terra. Mediterranea-mente .... *
Reportage.
Cadice, la città sulla soglia fra due mondi lontani
Nella città spagnola, dove l’Africa si presenta con le sue speranze e contraddizioni, l’Europa mostra antiche chiusure e segni di un dialogo necessario, specie in un tempo che di nuovi nazionalismi
di Maurizio Fantoni Minnella (Avvenire, venerdì 1 febbraio 2019)
Dalla sommità delle fortificazioni di Tarifa, città bianca andalusa, si vede l’orizzonte chiuso della terra africana: da una parte c’è Tangeri dove ancora oggi resiste il mito di Paul Bowles, ossia del Marocco visto da uno scrittore americano inquieto e vagabondo, dall’altra Ceuta dove dietro sbarre alte come palazzi ci si difende a colpi di manganello, dalle folle di migranti che premono sui confini per entrare in Europa, tanto sognata quanto in realtà "lontana" nel suo essere costantemente sospesa tra ostilità e accoglienza.
Tarifa, che suona come un nome arabo di donna, è il punto d’incontro tra due mari, il Mediterraneo e l’Atlantico, ma al tempo stesso il confine tra due mondi, due civiltà, l’araba e la cristiana. Parlare di confini, di frontiere oggi può perfino apparire di moda, sia che se ne esalti l’assoluta necessità, sia che se ne lamenti l’oggettivo pericolo.
Tuttavia, da queste parti la memoria collettiva della Reconquista, della definitiva cristianizzazione delle terre andaluse e quindi dell’intera Spagna (1492) è ancora non solo assai viva, ma col nuovo vento nazional-populista che si agita in una terra sino a ora a guida socialista, portando con sé non solo i fantasmi più tetri del franchismo, ma anche quelli della croce e della spada, ora sembra rivolta alle migrazioni del ventunesimo secolo.
Questo spiega, anche se solo in parte, la scarsa presenza d’immigrazione africana come di edifici di culto religioso islamico nelle antiche terre arabo andaluse di Cadice, Jerez de La Frontera, Arcos de La Frontera ma anche in grandi centri come, ad esempio, Siviglia.
Si pensi, dunque, al paradosso secondo il quale, mentre si andava scoprendo il Mondo Nuovo (con tutto ciò che tale evento ha comportato in fatto di sterminio di intere popolazioni), si cacciava in fondo al Mediterraneo una cultura testimone di una civiltà raffinata basata sul principio di tolleranza tra i culti religiosi.
La tendenza dilagante ormai in tutta Europa a rinserrarsi entro i propri confini territoriali, rimette prepotentemente in gioco il concetto di nazione, resuscitando quel sentimento di intolleranza verso la diversità che si pensava superato, ma che in realtà covava sotto le ceneri dell’illuminismo, del pensiero marxista e anche di un’ideologia liberale che oggi cede piuttosto il passo a un neoliberismo sfrenato che sempre di più marcia verso un vicolo cieco che da solo potrebbe portare in un tempo non troppo lontano a una razionalizzazione dell’intolleranza e quindi, a una forma di regime totalitario o di democrazia illiberale come oggi vengono chiamati quei regimi parlamentari (un esempio su tutti, quello ungherese di Viktor Orban) in cui tutto il potere è concentrato nel partito del presidente.
Ci immergiamo nella luce cristallina di Cadice, circondata interamente dal mare. Dalle sue rive partì Cristoforo Colombo col figlio Fernando per il suo quarto e ultimo viaggio nel Nuovo Mondo. Una brezza atlantica, soave e leggera penetra fin dentro il monotono tessuto urbano composto da un’implacabile griglia ortogonale di stampo militaresco che nel XVIII° secolo, quando Cadice prese il posto di Siviglia nel ruolo di controllo dei commerci con l’America Latina, sostituì grandiosamente la vecchia e minuscola città medievale, diventando un modello urbanistico per le città del Nuovo Mondo, prima fra tutte Santo Domingo, poi Antigua e molte altre.
Eppure nell’osservarla dall’alto di un terrazza d’albergo, come per un inganno ottico, sembra di sorvolare i tetti di Tunisi o di Algeri senza che sotto di essi vi sia alcun labirinto. Solo strade diritte e traverse, pianificate a tavolino da una mente militare. Nel vagabondare lungo le interminabili vie rinserrate da file di palazzi riconoscibili dalla graziosa, costante presenza di verande aggettanti dipinte di bianco, ogni tanto ci si ritrova in una piazza la cui bellezza e serenità invitano alla sosta. Sarà la presenza di una natura lussureggiante fatta da ficus giganti e da arbusti sempreverdi e dalla compostezza dell’architettura che su di essa si affaccia, a indurre a sedersi e a riflettere come un secolo fa capitava al grande compositore Manuel De Falla che era nato nel 1876 in una di queste piazze.
Se lui udiva i suoni della propria anima, noi al contrario, ripensiamo alle ragioni che oggi allontanano i popoli da quei principi di conoscenza dell’altro e di tolleranza che in passato hanno permesso alla civiltà mediterranea di crescere, di intrecciare storie, pensieri, suoni e architetture (i soli elementi del paesaggio Tarifa, che suona come un nome arabo di donna, è il punto d’incontro tra due mari, l’Atlantico e il Mediterraneo, ma al tempo stesso il confine tra due civiltà, quella araba e quella cristiana urbano che consentono una lettura complessa degli intrecci e delle contaminazioni culturali avvenute attraverso i secoli), da costa a costa, da nazione a nazione.
Se assistiamo oggi al tentativo di separare tra loro le diverse culture, nel nome dei particolarismi e dell’egoismo individualista, lo dobbiamo a una duplice paura, quella dell’atomizzazione della società, per usare una definizione cara al sociologo di origine polacca Zygmunt Bauman, teorico della cosiddetta "società liquida", senza più classi né difese sociali, sempre più in balia del mercato, e quella di una possibile intrusione-invasione dell’altro, di colui che per definizione ci è estraneo (dietro il quale si vuole pensare si nascondano strategie occulte come ad esempio, l’islamizzazione dell’Occidente) e che assume sempre di più connotati di razza (i neri) e di religione (l’islam) e a cui, infine si vuole rispondere con un armamentario tanto più logoro quanto imbarazzante che può solamente riflettere un deficit di civiltà laddove l’uomo, il cittadino, ancora una volta, nel credersi protagonista, sicuro delle proprie scelte, in realtà si scopre pedina, strumento di un gioco politico ben più grande di lui cui difficilmente vorrà e potrà sottrarsi.
Oggi il diritto di appartenenza a una comunità nazionale si è trasformato in diritto di esclusione dell’altro, la cui esistenza e destino appartengono di fatto a un altrove sconosciuto, oggetto di una sistematica rimozione. Nel perimetrare, infine, l’area urbana in tutta la sua estensione con un occhio rivolto all’Oceano e con l’altro alla città raccolta nel proprio guscio reticolare, finalmente si giunge in prossimità dell’enorme cattedrale, col suo susseguirsi di absidi e di cupole, abbacinante per la povertà delle superfici interne. Ma la sua facciata borrominiana tutta curve e spigoli, non è rivolta verso il mare, verso l’orizzonte ma verso la città.
Non lontano da quel luogo di fede, guardando più a fondo, su di uno slargo insignificante si scopre una lapide accompagnata da una piccola barca ormeggiata in un’aiuola coperta da ciottoli bianchi dove è scritto: «En memoria de quienes buscando la vida, encontraron la muerte». E poi: «No ha sido el mar, hermanos. Hermanas, non ha sido el mar». (In memoria di coloro che, inseguendo la vita, trovarono la morte. Non è stato il mare, fratelli. Sorelle, non è stato il mare).
*
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
Cinema e Filosofia. "Il pensiero ha le ali e niente può impedirgli di volare" (Averroè).
Yussef Chahine (Yūsuf Shāhīn). Il grande regista di "Il Destino" ("Al Massir") è morto. Per l’Egitto e non solo una "voce della libertà".
RIPENSARE L’EUROPA!!! CHE COSA SIGNIFICA ESSERE "EU-ROPEUO". Per la rinascita dell’EUROPA, e dell’ITALIA. La buona-esortazione del BRASILE.
LA LEZIONE DI NELSON MANDELA: GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
Federico La Sala
Cultura, logos e traduzione
L’occidente è una parola scritta
di Carlo Sini (Corriere della Sera, 04.10.2018)
La memoria corta genera ignoranza, presunzione e ingiustizia. Se fossi un docente di scuola dedicherei un tempo adeguato a ricordare la grande scuola dei traduttori nella Toledo medievale e poi a Siviglia e a Murcia (non so quanto oggi lo si faccia): senza di loro tutto il nostro sapere e la nostra cultura «occidentale», di cui giustamente siamo fieri e che sta diventando sempre più planetaria, non ci sarebbero.
La premessa storica è il periodo d’oro della conquista araba della Spagna, accompagnata da una grande quantità di manoscritti. Quando i re cristiani si impadronirono di quelle terre, cacciando gli arabi (in realtà la situazione si ribaltò più di una volta), quei preziosi manoscritti ispirarono la grande impresa della loro traduzione in latino, consegnando un po’ alla volta a tutte le scuole d’Europa trattati preziosissimi di filosofia, di teologia, di astronomia, di scienza, di matematica e con essi una parte cospicua della cultura greca sino ad allora perduta o dimenticata in Occidente. Senza questi lavori la grande rivoluzione della Scolastica in Europa, patrocinata anzitutto da Tommaso d’Aquino, non sarebbe stata possibile.
La cosa ancora oggi straordinaria e degna di molta riflessione fu il progetto di far convivere in armonia studiosi arabi, cristiani ed ebrei: progetto che consentì quella fiorente scuola di traduttori che Alfonso X re di Castiglia e di Leon particolarmente protesse e potenziò, ispirando anche traduzioni dal latino al castigliano.
L’Occidente, in conclusione, è l’invenzione e l’uso della parola scritta, invenzione resa nel tempo universale dalla cultura greca. Come ogni pratica, anche la scrittura si accompagna a forme di vita e a istituti diversi, ma essa è e rimane il cuore della nostra cultura, greca, araba, romana, cristiana ed ebraica: ignorarlo o trascurarlo è un delitto contro la civiltà e un suicidio intellettuale.
Quando la sponda ricca del Mediterraneo era quella meridionale
Intorno all’anno Mille i viaggiatori musulmani descrivevano l’Europa occidentale come una terra di genti povere sporche incivili a situazione cominciò a cambiare nei tre secoli successivi
di Amedeo Feniello (Corriere della Sera, La Lettura, 05.08.2018)
Il Mediterraneo è, oggi, un mare di grandi divergenze. Da un lato, c’è un Nord sviluppato, capace di generare prosperità e sicurezza; dall’altro, un Sud arretrato, ribollente di tensioni e ostilità. Ma non è stato sempre così. Per molti secoli, la condizione è stata opposta. E, per colmare le differenze, il cammino dell’Occidente europeo è stato lungo e intricato, con andirivieni tipici del tracciato storico.
A cavallo dell’anno Mille, le differenze tra Nord e Sud erano abissali. Basta leggere un curioso episodio, avvenuto nella prima metà del X secolo. Un gruppo di viaggiatori musulmani compie una lunga spedizione in terra cristiana. Vogliono andare a Roma, spinti dai racconti sulle ricchezze della città. Fanno un giro tortuoso, via terra. Da Tessalonica, nell’allora Impero bizantino, passano nei Balcani. Da qui a Venezia e poi a Pavia, la capitale del Regno d’Italia. Attraversano la Pianura padana e si trovano in un incubo: lo spettacolo indecente di tende e capanne, abitate da una massa derelitta e macilenta. Uno shock, per gente di città, come erano i nostri viaggiatori. Ai quali resta un’idea: che, in questa zona d’Italia, si viva ancora come i barbari. «Alla maniera dei Curdi», scrivono.
Perché era così, l’Europa del tempo. Era il mondo in cui, come è stato detto, la preistoria irrompe di nuovo nella storia. Per miglia e miglia nient’altro che foreste e paludi. Qua e là, come oasi in un deserto, piccoli centri abitati, autosufficienti nel loro isolamento. Di città e di mercati, quasi solo ombre. Dappertutto castelli, per difendersi da nemici, lontani e vicini. Poche le persone. Tanti contadini, in una condizione di sfruttamento totale, legati a vita al proprio campo. Poi c’era chi pregava. E chi combatteva. Ed era tutta qui la società del tempo. Un ambiente depresso, in cui i livelli di vita, l’istruzione, la divisione del lavoro, l’uso di moneta erano ridotti al minimo. E l’unica speranza di qualche gioia era altrove, nell’aldilà della Chiesa romana, in un tempo ultraterreno di redenzione e di attesa.
Strano, questo continente. Chiuso, come scrive Chris Wickham nel libro L’Europa nel Medioevo (Carocci), tra le civiltà della Spagna araba ad ovest e dell’Impero di Bisanzio a est, con pochi sbocchi verso il mare. Ai musulmani questo Occidente non interessava, a differenza dell’altra area più avanzata del mondo di allora, la Cina, che ispirava in loro un’ammirazione aperta, per il suo sistema amministrativo e giudiziario, l’ordine sociale, l’organizzazione economica, la trama delle città. L’Europa no. Esiste come concetto, che in arabo diventa Arufa, che si ritrova nel X secolo in geografi come Hamdani per indicare il quadrante nord-ovest del mondo abitabile. Ma l’attenzione verso questo Occidente barbaro, incolto, privo di ogni bellezza, dai confini incerti, era irrilevante, se non come terra da saccheggiare. Abitato da gente, come i Franchi o i popoli nordici, dalle lunghe barbe e dagli stranissimi occhi azzurri, che vivevano in condizioni ambientali al limite del sopportabile, in terre gelide e irraggiungibili, osservati dai pochi viaggiatori musulmani con stupefazione, descritti come riprovevoli, sporchi - «i più sporchi del mondo» -, che «si accoppiavano brutalmente», idolatri, crudeli, feroci.
Dietro questi ritratti c’è, naturalmente, molto di ideologico. In particolare, l’idea di superiorità religiosa e culturale. Che derivava però da un dato di fatto: i musulmani che visitavano l’Occidente venivano davvero da un diverso pianeta, più avanzato per condizioni e abitudini sociali. Uomini che appartenevano a una civiltà dell’acqua, dell’Hammam (le terme), delle fontane, della pulizia, dei profumi. Con livelli di cultura e di istruzione progrediti, che, proprio in questi secoli, esprimono quello che Frederick Starr ha di recente definito un «illuminismo perduto», quando tra il Mediterraneo e l’Asia centrale musulmana fioriscono commerci, arti, centri religiosi e di istruzione. E tutti i campi della conoscenza - dall’astronomia alla matematica, dalla filosofia alla medicina - conobbero sviluppi con pochi eguali nella storia dell’umanità. Tutto questo avvenne in città. Perché se c’è un dato sensibile che caratterizza la civiltà musulmana è proprio quello dell’edificazione di città. Che formano una rete e riuniscono ciò che era stato separato dal lungo conflitto tra Parti e Bizantini e condizionano lo sviluppo economico globale, dal Sudan all’India, dalla Cina al Sud Italia. Da ovest a est nascono - o rinascono - città come Cordova, Damasco, Il Cairo, Tunisi, Kufa, Shiraz, Samarcanda, Bukhara, Palermo. E poi la più grande metropoli del tempo, con più di un milione di abitanti: la dimora del califfo, la città circolare, Bagdad.
Dal Mille in poi, però, nel malandato Occidente successe qualcosa. Innanzitutto, durante il periodo 950-1300 la popolazione europea si moltiplicò, più o meno, per tre. Rinacquero tantissime città e il loro numero, in alcune zone, come l’Italia centro-settentrionale e le Fiandre, crebbe considerevolmente. I commerci e i mercati tornarono a vivere e la nuova figura del mercante si impose per la sua ideologia improntata all’intraprendenza. Si cominciarono a produrre merci, soprattutto nel settore tessile e metallurgico. Aumentò la specializzazione artigianale, a dismisura, con una complessità inimmaginabile nella diversificazione della forza lavoro. Avvenne una rivoluzione tecnica che interessò le campagne, la nascente industria, il mondo della navigazione. Però, tanti aspetti di questo processo restano quasi incomprensibili. Come, ad esempio, in quale momento sia cominciata l’espansione demografica; oppure quando gli scambi di merci a lunga distanza siano diventati così importanti da condizionare il complessivo mondo economico europeo.
In ogni caso, le variabili in campo furono davvero tante, che toccarono ogni aspetto della società del tempo; e che potremmo condensare in un’unica parola, vitalità. Come scriveva infatti Carlo Maria Cipolla «quando una società dimostra di essere vitale lo dimostra a tutti i livelli, e non solo in quello economico, facendo di più e meglio di quanto fanno o hanno fatto altre società disponendo di eguali risorse». Insomma, per intenderci, non si possono capire i mercanti italiani senza quell’ambiente eccezionale composto da personalità come San Francesco, Dante, Giotto o Mondino di Luzzi, che rivoluzionò gli studi di anatomia.
Ma se c’è un fattore che fece davvero la differenza in questa rinascita occidentale fu, per me, la curiosità. Sembra sorprendente che in un’epoca di rinnovata aggressività, fatta di Reconquista e di crociate, emerga pure qualcosa di nuovo. Si comincia a intuire appunto come anche il dialogo con l’altro - il diverso, il concorrente, il nemico religioso - possa risultare per molti aspetti fruttuoso. Per prime, mettono in campo questa strategia le nostre città marinare, da Amalfi a Genova, da Pisa a Venezia. Lo fanno alternando l’uso della forza. Ma tante volte, specialmente all’inizio, esse si adattano al mercato musulmano, vendendo ad esempio merci di contrabbando, armi, schiavi.
Poi gli occidentali riescono a fare di meglio: apprendono da chi ne sa di più, imitano gli altri e trasformano le conoscenze acquisite in proprio bagaglio culturale. Lo fa Leonardo Fibonacci, che impara i numeri «alla maniera degli Hindi», ma esporta queste conoscenze in Occidente, con un sovrappiù di nozioni che elabora nel suo Liber abaci. Lo fa Gherardo da Cremona, monaco che emigra in Spagna e mette su, a partire circa dal 1150, nella multietnica Toledo, sotto l’egida di re Alfonso VI di Castiglia, un atelier di traduzione nel quale impegna intellettuali arabi, ebrei e cristiani per restituire all’Europa le parole di Aristotele e di Tolomeo.
Ci riescono con successo i fiorentini, che per primi riportano monete d’oro in Occidente, dopo lunghi secoli di buio monetario, seguendo ciò che avevano fatto per secoli bizantini e musulmani. Oppure, per gareggiare nella produzione di tessuti, si ingegnano (come fanno oggi i cinesi) a imitare i modelli fiamminghi di Bruges, Anversa o Gand, creando nuovi prodotti che conquisteranno il Mediterraneo e faranno grande l’economia cittadina.
Tre secoli di crescita, dal Mille al Milletrecento circa, che diminuirono la distanza col resto del mondo e tra Nord e Sud. Fu questo il Medioevo della rinascenza europea. Impossibile però da realizzarsi senza declinare i valori di scambio e curiosità, alla base di un’epoca che si mostrò tanto più aperta e innovativa di quanto oggi erroneamente si pensi.
La storia
Bisanzio brucia nella crociata dimenticata
Nel 1204, due secoli prima di cadere in mano turca, Costantinopoli fu presa dai “fratelli” latini. Parte del suo patrimonio di arte e cultura passò a Venezia. Ora nuovi studi ricostruiscono quell’episodio drammatico
di Silvia Ronchey (la Repubblica, 17.03.2018)
Il 13 aprile 1204, in una fredda giornata di primavera, una colonna di profughi dall’aspetto di fantasmi si incamminò fuori dalla grande città di Costantinopoli. Era “gente vestita di stracci, emaciata dal digiuno, trascolorata, cadaverica, con gli occhi così rossi che parevano colare sangue anziché lacrime”.
Erano stati torturati, depredati delle loro case e dei loro beni, avevano visto rapite le loro mogli, violentate le loro figlie. Non erano stati i turchi a compiere quello scempio, come sarebbe accaduto due secoli e mezzo dopo, nel 1453.
Erano stati i crociati occidentali. E non era contro gli infedeli che lo avevano portato, ma contro i loro correligionari, i bizantini.
La ferocia di quella singolare guerra santa ebbe tra i suoi testimoni oculari il più acuto, spregiudicato e disincantato degli osservatori politici dello Stato più prospero del medioevo: lo storico Niceta Coniata, massimo intellettuale della sua generazione, segretario del basileus fino a poco prima in trono ma anche suo indomabile critico, pensatore indipendente e non certo corifeo del potere, della cui opera è ora stata completata dalla Fondazione Lorenzo Valla l’edizione italiana (Grandezza e catastrofe di Bisanzio - Narrazione cronologica, traduzione di A. e F. Pontani, testo greco a cura di J.-L. van Dieten, introduzione di G. Cavallo, Fondazione Valla Mondadori, tre volumi).
Come ha scritto Steven Runciman, le crociate furono “le ultime invasioni barbariche”. I “barbari”, nelle frasi di Niceta, non sono gli islamici, che anzi i bizantini difesero strenuamente quando fu attaccata la locale moschea, ma quell’“accozzaglia di stirpi oscure e disperse” che erano gli eserciti latini, quei “precursori dell’Anticristo” che “portavano la croce cucita sulle spalle” e che in quei giorni di aprile del 1204 avevano devastato la culla stessa dell’impero romano cristiano, la città che ne custodiva da nove secoli l’identità religiosa oltre che l’eredità artistica, culturale, bibliografica così come la vocazione politica: un modello di Stato multietnico, meritocratico e sostanzialmente egualitario, dotato di una struttura diplomatica rivolta, come l’aquila bicipite, tanto a oriente quanto a occidente.
I profughi che si incamminavano “come una colonia di formiche” stanata dal fuoco avevano assistito al “più grande saccheggio della storia del mondo”, come lo definì lo stesso cronista francese Goffredo di Villehardouin che vi aveva partecipato al seguito di Bonifacio di Monferrato. Le atrocità perpetrate dai cavalieri della quarta crociata sono testimoniate non solo dagli storici bizantini ma anche dai cronisti occidentali, nonché dal papa che l’aveva indetta, Innocenzo III, inorridito nel suo epistolario.
La Città traboccava di capolavori d’arte e di inestimabili libri. Ma ad attrarre gli incolti latini era il fatto che, secondo i loro calcoli, contenesse i due terzi delle ricchezze del mondo conosciuto. Portarono “abominio e desolazione” nel Sacro Palazzo del Boukoleon, coprirono di sterco i marmi policromi della Grande Chiesa di Santa Sofia. Si precipitavano furiosi e urlanti per le strade distruggendo ogni cosa non apparisse trasportabile, fermandosi solo per trucidare gli abitanti e per spalancare le cantine e dissetarsi con il loro vino. Non risparmiarono monasteri, né chiese, né antichi monumenti, lasciarono bruciare gli archivi e le biblioteche. Una parte dei classici greci oggi perduti sarebbe arrivata fino a noi, non fosse stato per quella vandalica insipienza. Nel viaggio degli antichi testi la presa di Costantinopoli del 1204 segnò un naufragio paragonabile all’incendio della biblioteca di Alessandria.
Ciò che i veneziani non portarono a casa i francesi distrussero. I cavalli di bronzo dorato dell’Ippodromo sono oggi noti come Cavalli di San Marco, altre inestimabili opere d’arte formano il ricco bottino oggi conosciuto come Tesoro di San Marco. Ma le altre antiche statue bronzee dell’Ippodromo e quelle del Foro di Costantino furono fatte a pezzi e fuse. Nella stessa Santa Sofia si potevano vedere soldati ubriachi saccheggiare le reliquie, strappare i paramenti, svellere le suppellettili, calpestare i libri sacri e le icone, dilaniare gli arazzi.
L’orrore continuò per giorni, finché la capitale dell’ortodossia fu ridotta, scrivono i testimoni, a un macello. Perfino i saraceni, annotò Niceta, sarebbero stati più misericordiosi: “Dalla gente latina, ora come allora, Cristo è stato di nuovo spogliato e deriso, e le sue vesti sono state spartite, e il fiume del Sangue Divino ha di nuovo inondato la terra”, lamenta alla fine della sua opera.
La presa latina di Costantinopoli del 1204 è l’esempio più notevole di quella cruda verità economica delle crociate di cui, al di là dell’ideologia o della retorica confessionale, un libro dello storico oxfordiano Christopher Tyerman, in uscita in traduzione italiana, spiega in dettaglio mentalità, pragmatismo, finalità materiale e obiettivi strategici (C. Tyerman, Come organizzare una crociata, Utet). Si parla di “deviazione” della Quarta Crociata, quasi fosse stata un’idea repentina e non un preciso piano di conquista, già prospettato da Federico Barbarossa e da Enrico VI. Ben prima di entrare a Costantinopoli gli alleati avevano minuziosamente discusso e patteggiato tra loro, e soprattutto con Venezia, la spartizione dell’impero che avrebbero sostituito a quello bizantino, istituendo anche una gerarchia ecclesiastica cattolica al posto di quella ortodossa e insediando sul soglio patriarcale un veneziano.
L’alleanza della Realpolitik dei papi di Roma con l’Europa dei traffici, del protocapitalismo delle repubbliche mercantili, portò, con il successivo aiuto dei turchi, alla distruzione di una realtà politica che aveva garantito per secoli benessere e pace governando i conflitti fra le diverse etnie in un immenso territorio unificato dalla lingua greca, dalla religione cristiana, dal diritto romano, dominato da un formidabile sistema di pubblica istruzione e di cooptazione nelle burocrazie che assicurava il dinamismo delle élite e il loro costante ricambio sociale.
Per cinque giorni Niceta, la moglie incinta e il loro gruppo di amici dell’intelligencija costantinopolitana rimasero nascosti. Poi anche loro dovettero sfollare strisciando per i vicoli, i bambini piccoli in spalla, il viso delle ragazze mimetizzato col fango, in direzione della Porta d’Oro. Appena superate le sue torri, Niceta si gettò a terra e inveì contro le grandi mura di Teodosio: perché si reggevano ancora dritte in piedi? non vedevano che la civiltà che custodivano era finita? Poi, “gettando lacrime come semi” lungo la loro strada, si incamminarono per ricongiungersi al resto degli esuli e al governo in esilio insediato a Nicea, in Asia Minore.
Ma quella che Niceta, partito da Costantinopoli con in mano solo il suo manoscritto, pianse come un’irrimediabile fine si rivelò un inizio. Per più di cinquant’anni l’impero di Nicea coltivò non solo la resistenza politica ma anche quella culturale, ricreando un sistema scolastico e universitario, proseguendo la produzione libraria. Quegli intellettuali avevano imparato una lezione: i barbari esistevano. Non erano i popoli che si diceva avessero fatto cadere l’impero romano d’occidente, diversamente da quello d’oriente, che era stato invece capace di assimilarli e accoglierli nella sua classe dirigente.
Erano i figli del feudalesimo, che il sistema statale di Bisanzio aveva sempre combattuto, e di quel “satanico spirito del commercio”, per citare Baudelaire, da sempre incompatibile con la mentalità bizantina, dove la diffidenza dei cittadini verso il mercato e il rifiuto delle premesse etiche della mercatura espresso dagli intellettuali si univa alla condanna teologica del profitto e del lucro.
Anche dopo la riconquista del 1261 e l’insediamento della nuova dinastia dei Paleologhi, la guerra tra banchieri - genovesi e veneziani - continuerà a devastare economicamente e militarmente Bisanzio, a scarnificare quell’istmo culturale e strategico tra oriente e occidente. Ma per quanto cieche possano essere le strategie finanziarie e belliche, gli intellettuali possono sempre, discretamente, mobilitarsi.
Sempre di più si affermerà, tra i protagonisti della cosiddetta rinascenza paleologa, la coscienza dell’insopprimibilità di un’arma incruenta: la cultura. Il duello dei governanti, il risentimento delle masse, lo scontro delle chiese saranno trascesi da una simmetrica e inversa, silenziosa e superiore solidarietà tra umanisti orientali e occidentali. Sarà l’inizio di quella sempre più fitta circolazione di maestri e libri, liberamente scambiati dall’internazionale dei dotti, che darà vita a ciò che chiamiamo “il” rinascimento.
L’antica cultura oltraggiata dai crociati conquisterà la loro stessa patria, la loro stessa curia, la stessa repubblica di Venezia, dove sorgerà, per volere di un umanista bizantino, Bessarione, la prima biblioteca pubblica della storia occidentale moderna. Da Bisanzio verranno e si metteranno all’opera, alacri, i copisti. Nascerà la stampa e non uno ma dieci, cento, mille libri sorgeranno sulle ceneri di quelli distrutti, insieme alle vite dei loro possessori, nella primavera del 1204.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
MICHELANGELO E LA SISTINA (1512-2012). I PROFETI INSIEME ALLE SIBILLE PER LA CHIESA UN GROSSO PROBLEMA ....
DOPO 500 ANNI, PER IL CARDINALE RAVASI LA PRESENZA DELLE SIBILLE NELLA SISTINA E’ ANCORA L’ELEMENTO PIU’ CURIOSO. Materiali sul tema, per approfondimenti
PER "LA PACE DELLA FEDE" (Niccolò Cusano, 1453), UN NUOVO CONCILIO DI NICEA (2025)
ERMETISMO ED ECUMENISMO RINASCIMENTALE, OGGI: INCONTRO DI PAPA FRANCESCO E BARTOLOMEO I A ISTANBUL. Un’intervista a John Chryssavgis di Chiara Santomiero
Federico La Sala
Salman Rushdie
Una “mille e una notte” per sconfiggere l’odio
Esce oggi in Italia il romanzo Due anni, due mesi e ventotto notti
Elogio della ragione contro gli oscurantismi antichi e moderni
di Gianni Riotta (La Stampa, 08.09.2015)
Avere superato almeno un esame di Filosofia Medievale rende scettici per sempre sulla corrente polemica tra «Occidente liberale e Islam oscurantista», che filtra dai romanzi alla Houellebecq, dai saggi di Huntington popolarizzati da Oriana Fallaci, fino ai siti dei feroci reclutatori Isis, con i loro paladini astuti, ben camuffati nel nostro mainstream. Per comprendere che la linea di frattura non è mai Noi-Loro, ma sempre Tolleranza-Intolleranza, basta studiare l’antico Averroè, nato Abu l-Walid Muhammad ibn Ahmad ibn Rushd,, (1126-1198) che a Cordova rifonda gli studi su Aristotele, conciliando Islam e ragione, fino a rompere con il rivale Al Ghazali e finire in esilio a Marrakesh.
Profeta vivente di questo credo è lo scrittore Salman Rushdie, da una generazione ormai condannato a morte da una maledizione, fatwa, dell’ayatollah Khomeini, cui ha opposto - pur nelle impossibili condizioni di vita cui è stato costretto - ironia e raziocinio. Rushdie deve il cognome proprio a Ibn Rushd, suo padre era così devoto al razionalismo del filosofo islamico da adottarne il nome, «Quando lanciarono la fatwa contro di me - racconta lo scrittore - mi feci coraggio, Almeno mi chiamo nel modo giusto!».
Lo strepitoso, nuovo, romanzo dell’autore de I versetti satanici, si intitola Two Years Eight Months and Twenty-Eight Nights, due anni otto mesi e 28 notti, che un semplice calcolo equipara a Mille e una notte, il ciclo delle fiabe orientali caro al nostro canone.
L’amore di Averroè
Averroè-Ibn Rushd, il filosofo saggio del XII secolo, appare qui in una posa che i Manuali di Filosofia non riportano, perché si sposa e fa l’amore - per la prima volta nell’opera di Rushdie, il sesso è scottante - con un Genio Donna, una Jinn, la principessa Dunia. I Geni non sprizzano da una Lampada come in Aladino, ostaggi di un Padrone e dei suoi Desideri, sono malevoli, capricciosi, pieni di pregiudizi, violenza, ostilità per gli umani, con l’eccezione di Dunia che ama possederli. Dalle sue nozze con Averroè nasce una specie ibrida, Umani e Geni, finché in una notte di tregenda a New York, i Geni Jinn, furiosi, non ritornano sulla Terra dopo 800 anni e gli umani devono affrontarne il poderoso jihad, pronto a divorare perfino il traghetto dei pendolari verso Staten Island.
Salman Rushdie ha scritto un libro bellissimo (è stagione felice per le lettere in lingua inglese dopo l’altrettanto efficace Purity di Jonathan Franzen), con saggia consapevolezza di come nel nostro tempo la guerra santa di Isis e del terrorismo fondamentalista islamico abbia il suo doppio nell’intolleranza che dilaga sul web (deriva di cui si è parlato pochi giorni or sono al Meeting di Cl a Rimini). Ragione e Odio si affrontano e confondono in una dimensione magica, che irresistibilmente ricorda (e torna qui il parallelo con Franzen) Internet.
Rushdie comprende, col tono favolistico da Mille e una Notte del XXI secolo, che la nostra generazione vive in una dimensione magica, dove Reale e Virtuale si incrociano e annullano a vicenda, come Uomini e Geni. E ci invita dunque a un momento di meditazione, a prendere le distanze, a ricordarci che i valori fondanti della nostra civiltà, compresi gli ideali di un aristotelico islamico di Spagna come Ibn Rushd Averroè, non devono smarrirsi, né davanti al populismo nichilista degli odiatori di professione online, né davanti ai loro cugini sanguinari, i fondamentalisti di Isis, Boko Haram, Al Qaeda.
La Rabbia di Tutti Sempre
«Scrivere significa non piacere a tutti - ammonisce Rushdie contro la melassa dei politicamente corretto - http://goo.gl/QJrf5E -. Ma la nostra è l’era della Rabbia di Tutti Sempre. Internet, basta dare un’occhiata, gronda di ossessi che urlano contro chiunque non la pensi come loro. Dobbiamo spegnere quel rumore di fondo, allontanarci da quel chiasso e fare il nostro dovere. Ho scritto un libro divertente, non dimenticate che il senso dell’umorismo serve a capire la mia narrativa». Un esempio? «La pratica della violenza estremistica, nota con il nome comune, spesso impreciso, di terrorismo, ha sempre attratto i maschi costretti a rimanere vergini, o che, insomma, non hanno saputo trovare qualcuno con cui fare l’amore». Isis è una legione di frustrati senza Eros, secondo la satira di Rushdie.
Come in una favola orientale antica un giardiniere eremita cammina nel vuoto, uno scrittore di graphic novel alla moda si ritrova nel tinello - vivo - un suo micidiale personaggio (Rusdhie sfotticchia il genere graphic novel oggi incensato), un bambino contagia con la rogna gli adulti disonesti e la dolce signora di un finanziere avido e allupato scaglia fulmini dalle dita affusolate. Non ci sono Buoni e Cattivi in questa saga, solo valori e loro nemici. Contro chi vuole cancellare nel sangue la civiltà, Rushdie è aspro «Banda di assassini e asini... esperti nell’arte di proibire tutto... pittura, scultura, musica, il teatro, i film, il giornalismo, l’hashish, le elezioni, l’individualismo, il disaccordo, il piacere, la felicità, un tavolo da biliardo, un volto ben rasato, il volto delle donne, il corpo delle donne, l’istruzione per le donne, lo sport femminile, i diritti delle donne».
Asini Assassini
Ma chi si strugge ancora a capire perché ragazzi e ragazze educati, e ben integrati, nelle città dell’Occidente si arruolino tra i terroristi «asini assassini», legga il monito di Salman Rushdie che da anni fronteggia l’odio islamico: «Sono sempre meno coloro che, tra di noi, generazione dopo generazione, riescono ancora a sognare... Noi leggiamo di voi, O Sogni, nei libri antichi, ma le fabbriche di sogni son chiuse. È il prezzo che paghiamo per pace, prosperità, tolleranza, comprensione, saggezza, bontà e verità: il nostro essere selvaggi, che una volta si liberava nei sogni, è domato, per sempre». I libri di Rushdie e Franzen, letti e amati, si chiudono con un solo rammarico: ma perché da noi, in Italia, nessuno ha il fegato di provare a raccontare il mondo grande terribile che ci circonda, affrontandolo a viso aperto, fuori dalle beghe piccine di casa?
Una carovana di libri
La cultura araba alla fine dell’Alto Medio Evo.
di DUILIO CONTIN (Wall Street International, Cultura, 30 OTT 2012)
La straordinaria cultura araba ha avuto nel decimo secolo, nel momento della fine dell’Alto Medio Evo, uno strenuo conservatore in Abdul Kassem Ismael, illuminato visir di Persia (938-995): si narra che per preservare la sua immensa biblioteca di 117.000 libri, la portasse sempre con sé nei suoi viaggi, trasportata da 400 cammelli che si muovevano in fila, in ordine alfabetico, contrassegnati dalle 32 lettere dell’alfabeto persiano. Questo immenso tesoro era composto di testi scientifici, in particolare di geometria, matematica, astronomia, fisica, scienze naturali, medicina e testi letterari.
Siamo nel secolo di illuminati scienziati come Al-Asma’i di Bassora, botanico e zoologo, di Ahmad ibn Fadlan di Baghdad, storico e viaggiatore, di Ibn Durayd di Bassora, geografo e poeta, di Ibrahin Ibn Sinnan di Baghdad, matematico e astronomo, e di Al Kindi di Kufa, filosofo, matematico e crittografo: questi sono soltanto un piccolo esempio a fronte del gran numero di studiosi che partecipavano allo sviluppo culturale del mondo arabo e che, pur attingendo dalla cultura greca e occidentale, si perfezionava grazie al patrimonio della tradizione e alla fertile attività delle scuole di pensiero. Forse il medico persiano Ibn Sinā Avicenna è l’esempio più noto ed eloquente dell’importanza di questi studiosi.
Nell’undicesimo e dodicesimo secolo si moltiplicarono gli scritti scientifici e letterari, talvolta riccamente e splendidamente illustrati. Le pagine testuali dei libri importanti erano arricchite dalle grandi lettere in carattere kufico, veri capolavori di grafica. Le miniature a vivaci colori rendevano la lettura più interessante e il manoscritto diventava un oggetto prezioso, molto spesso dedicato ai potenti.
Un esempio importante è il Kitâb al-Diryâq, chiamato il libro della Teriaca di Parigi in quanto conservato alla Biblioteca Nazionale di Francia: il testo arabo di medicina più bello del XII secolo. Trentasei carte miniate con caratteri e decorazioni in lamine d’oro in foglia, con colorazioni tanto splendide da suscitar meraviglia a ogni pagina. Vi sono rappresentati nove eruditi medici della tradizione greca che esercitano la loro arte curando con la teriaca, l’elettuario composto da cento elementi di origine vegetale, animale e minerale.
L’autore, il dotto scriba Muhammad ibn Abi al Fath, dichiara di averlo preparato nell’anno 1199 (anno 595 dell’Egira) per la tesoreria di un ricco erudito, forse per una biblioteca molto prestigiosa. Un testo importante dal punto di vista storico-scientifico perché nomina le spezie coltivate nel mondo arabo e perché, seppur presentandole con una fitografia minima, è di aiuto all’identificazione delle piante stesse.
In collaborazione con www.abocamuseum.it
Duilio Contin, friulano, nato nel 1949, è direttore della Bibliotheca Antiqua di Aboca Museum di Sansepolcro. Laureato in Conservazione dei Beni Culturali, si occupa di Beni artistici e librari, frequentando assiduamente le più importanti collezioni europee nell’ambito dell’attività di ricerca per conto di Enti pubblici e privati. Profilo completo